Genserico, i Vandali e il nuovo sacco di Roma

Nella lingua italiana il termine “vandalo” è da sempre sinonimo di distruttore selvaggio, che, senza alcuna motivazione ma solo come manifestazione di violenza, per gusto perverso o per ignoranza, devasta e rovina beni e oggetti di valore, e soprattutto monumenti, opere d’arte. Con questa accezione, nel suo Rapport sur les destructions opérées par le vandalisme, et sur les moyens de le réprimer del 1794, l’abate Henri Grégoire, vescovo costituzionale di Blois, coniò il concetto di “vandalismo”. La pessima nomea, che dall’antichità al Rinascimento, fino all’età moderna, accompagnò il popolo dei Vandali deriva dalle sanguinarie imprese compiute durante la conquista della dioecesis Africae nel V secolo (Possid. Vita August. 31, 1, Romaniae eversores). I Vandali erano una stirpe germanica del gruppo etnico orientale, suddivisi nei due rami degli Asdingi e dei Silingi. A causa della pressioni unniche e della carestia, intorno al 400, sotto re Godigiselo (PLRE 2, 515-516), gli Asdingi lasciarono le proprie sedi in Pannonia e si portarono in Raetia. Nel 401/2 furono sconfitti in battaglia dal “generalissimo” Flavio Stilicone, che, indottoli a concludere un foedus, consentì loro di insediarsi tra il Noricum e la Vindelicia. Nel 405 Godigiselo ruppe l’accordo con l’Impero romano e, unitosi all’orda barbarica di Radagaiso, invase l’Italia, dove, nei pressi di Florentia, fu battuto ancora una volta dalle forze di Stilicone. Nel 406, alleato con Alani e Suebi, Godigiselo portò i suoi nella valle del Meno, riunì sotto di sé tutte le tribù vandaliche e mosse in armi contro i Franchi, foederati dei Romani, che difendevano la frontiera renana nei pressi di Augusta Treverorum: mentre infuriava la zuffa, però, il re dei Vandali cadde ucciso (Greg. Tur. Hist. Franc. II 9; Theoph. HE 5931; 6026; cfr. Procop. Bell. III 3, 1-2). Gli successe il figlio Gunderico (PLRE 2, 522), che, unite le sue forze a quelle degli Alani di re Respendiale, sconfisse i Franchi e alla fine del 406 attraversò il Reno. Senza incontrare alcuna resistenza, i barbari invasero e saccheggiarono le Galliae con grande ferocia (Oros. VII 3, 4; Chron. min. I 299; 465 Mommsen; Zos. VI 3), poi, nel 409, varcarono i Pirenei (Chron. min. II 17 Mommsen; Soz. IX 12; Greg. Tur. Hist. Franc. II 2). Le distruzioni causate da questi razziatori sia in Gallia sia in Hispania dovettero essere state notevoli. Pur dando per scontata una certa esagerazione delle fonti letterarie, come la nota immagine, prospettata dal vescovo Orienzio nel suo Commonitorium, dell’intera Gallia invasa dal fumo di un’unica pira funeraria (Orien. Comm. II 184, uno fumavit Gallia tota rogo), occorre considerare che per due anni l’intero settore subì l’assalto degli invasori e la stessa sorte toccò alla Penisola iberica nei due anni successivi.

Cavaliere vandalico. Illustrazione di J. Shumate.

Tra l’altro, siccome la dioecesis Hispaniarum non era una regione di frontiera, le truppe imperiali di stanza sul posto erano poco numerose e, quindi, incapaci di proteggere la popolazione da una simile minaccia: nel suo De gubernatione Dei il moralista Salviano di Marsiglia ricorda quanto facilmente i Vandali poterono spazzare via le forze romane in battaglia (Salv. Gub. VII 12, 52, Quid in Hispania, ubi etiam exercitus nostros bellando contriverant?). Inoltre, non erano soltanto i barbari a causare distruzioni, debacchantibus per Hispanias: il vescovo Idazio, un cronista del tempo (Chron. min. II 17 Mommsen), parla anche di gravi pestilentiae, della perdita di ricchezza da parte dei centri urbani a causa del tyrannicus exactor e di terribili carestie tali da indurre perfino le madri a cuocere e cibarsi dei loro stessi pargoli (matres quoque necatis vel coctis per se natorum sint pastae corporibus); simili notizie si ritrovano anche nell’Historia Wandalorum compilata da Isidoro, vescovo di Hispalis (Chron. min. II 295 Mommsen). Sembra che la situazione cominciò a migliorare nel 411 allorché i barbari delle Hispaniae decisero di concludere la pace con le autorità romane e di trovare un accomodamento, secondo i dettami della foederatio e dell’hospitalitas (cfr. C.Th. VII 8, 5): i Vandali Asdingi di Gunderico presero una parte della Gallaecia, mentre i Suebi occuparono la parte restante, che si affacciava sull’Oceano; gli Alani ebbero la Lusitania e la Carthaginensis, mentre i Vandali Silingi la Baetica (Oros. VII 40, 10). Secondo Idazio, gli Hispani delle città e dei castelli sopravvissuti alle catastrofi (residui a plagis) si arresero a diventare servi dei nuovi arrivati, che detenevano il potere in tutte le province. Sembra che la migrazione e l’insediamento dei Vandali nella Penisola iberica siano stati provocati dalle pressione dei Visigoti.

Nel 416 il re goto Wallia dei Balti (PLRE 2, 1147), infatti, concluse un foedus con l’Impero d’Occidente. Poco tempo dopo, onorando l’accordo, Romani nominis causa Wallia mosse guerra ai barbari delle Hispaniae e ne fece strage: stando a Idazio (Chron. min. II 19 Mommsen), tutti i Silingi della Baetica furono spazzati via, il loro re Fredebaldo fu catturato e tenuto come ostaggio a Ravenna, mentre gli Alani subirono perdite tali che i pochi sopravvissuti, ormai privi della loro guida, re Attace, si posero sotto il comando di Gunderico, che da allora si fregiò del titolo di rex Vandalorum et Alanorum (Oros. VII 43, 10-15; Olympiod. F Blockley).

Mappa della Penisola iberica nel V secolo relativa all’insediamento delle popolazioni barbariche.

Comunque, l’avvenimento più importante della storia dei Vandali fu la loro partenza dalle Hispaniae a seguito dell’intrepida decisione di Genserico. Le fonti antiche offrono di questo sovrano un ritratto a dir poco negativo: variamente noto come Gaisericus, Geisiricus, Ginziricus o Γιζέριχος, il re dei Vandali appare come il vero prototipo del barbaro efferato, crudele e astuto, abituato a vivere con poco, ma, al contempo, avido di ricchezze altrui, facile all’ira e incline all’intrigo, completamente privo di quell’umanità e di quel rispetto delle leggi che altri condottieri germanici avevano appreso e assorbito al contatto con i Romani (Iord. Get. 33, 168). Il suo fanatismo religioso lo spinse a instillare nei suoi la convinzione che la conquista della dioecesis Africae fosse una vera e propria “guerra santa” contro le gerarchie ecclesiastiche niceno-calcedoniane, colpevoli della persecuzione degli ariani. La descrizione di Genserico e dei suoi è talmente convenzionale da aver fatto sorgere il dubbio, fra gli interpreti moderni, che si tratti, se non di una mistificazione, almeno di un’esagerazione della propaganda cattolica: più terribili erano le efferatezze attribuite a Genserico, più luminosa ed eroica sarebbe apparsa l’opposizione del clero e dei fedeli ortodossi (Possid. Vita August. 28, 4; Socr. HE VII 9-10; Soz. HE IX 6; Procop. Bell. III 5, 25; Salv. Gub. VII 12, 54).

Chi era, allora, questo rex superbissimus, impius fautore dell’Arriana perfidia? Un uomo crudele e selvaggio, così come viene dipinto dagli scrittori contemporanei, oppure un sovrano capace e lungimirante, un capo carismatico e un guerriero eccellente, abile creatore e amministratore di regni? È noto che Genserico era figlio illegittimo di Godigiselo e, sebbene fosse nato da una concubina, ancora giovane, nel 428 successe come re al fratellastro Gunderico – questi, secondo Idazio, sarebbe morto dopo essere stato reso pazzo da un demone a seguito della conquista di Hispalis (Sidon. Carm. III 358-380; V 97; Procop. Vand. I 3, 23; Chron. min. II 22 Mommsen). Dal momento che l’accessione al trono di Genserico avvenne senza opposizioni, è probabile che, a quel tempo, presso i Vandali la semplice appartenenza di uno dei due genitori alla famiglia reale asdinga garantisse ai figli il diritto di essere considerati membri della dinastia e consentisse loro di aspirare al regno. Onde evitare il rischio che tali diritti fossero messi in discussione, Genserico tolse di mezzo la cognata e il nipote. Sin da subito egli si mostrò un uomo forte e autoritario, dotato di un’ottima esperienza in guerra e di un’intelligenza non comune, capace di trascinare il suo popolo in un’impresa piena di incognite (cfr. Procop. Bell. III 3, 24).

Un guerriero vandalo e la sua famiglia. Illustrazione di P. Glodek.

Nel maggio del 429 Genserico raccolse tutta la sua gente – i Vandali e gli Alani, con mogli, figli e tutte le persone a loro carico – nel porto di Iulia Traducta in Baetica, presso le Colonne d’Ercole, e ne organizzò l’emigrazione. Appena prima di compiere la traversata, Genserico respinse un’offensiva scatenata dagli Svevi alla provincia romana, ne inseguì le truppe in fuga fino in Lusitania e inflisse una dura disfatta al loro re, Eremigario, nei pressi di Augusta Emerita (Chron. min. II 21 Mommsen). Si disse che in Tingitana fossero sbarcati 80.000 Vandali. Come spesso accade, quello delle cifre è un problema cruciale ed è stato molto dibattuto in relazione ad altre migrazioni barbariche. Il vescovo Vittore di Vita, autore dell’Historia persecutionis Africanae provinciae, scrisse, come lui stesso riferisce, a circa sessant’anni dall’evento. Afferma che in tanti oltrepassarono il mare e Genserico, nella sua astuzia (calliditate), volendo fare della fama del suo popolo (crudelis ac saevus) una fonte di terrore, ordinò che l’intero assembramento venisse contato, compresi i neonati venuti alla luce quello stesso giorno. Insomma, inclusi vecchi, ragazzi e bambini, servi e padroni, si scoprì che formavano un totale di 80.000 persone. La notizia venne diffusa ad arte ovunque e ancora ai suoi tempi, continua Vittore, gli ignoranti in materia credevano che questo fosse il numero degli armati (Vict. Vit. HP I 1, 1-2). Inoltre, secondo Possidio (Vita August. 28), l’orda di Genserico era composta non solo da Vandali e Alani, ma anche un consistente gruppo di Goti (… immanium hostium Vandalorum et Alanorum commixtam secum habens Gothorum gentem…).

È bene notare che il sovrano vandalico, con tutta probabilità, volle diffondere cifre che avrebbero fatto colpo e creato preoccupazione dovunque. La notizia trova conferma nel racconto di Procopio di Cesarea, per il quale si tratto di uno stratagemma cui Genserico ricorse per far credere ai Romani di disporre di un numero maggiore di soldati di quanto non fossero in realtà – ovvero, verosimilmente, meno di 10.000 (Procop. Bell. III 5, 18).

Lo sbarco di Genserico in Nordafrica. Illustrazione di A. McBride.

A ogni modo, attrattovi dalla situazione di caos venutasi a creare per la rivolta dei Mauri, che le autorità imperiali non riuscivano a controllare, e forse chiamato dal comes Africae Bonifacio, in rotta di collisione con l’imperatore, Genserico portò a termine la traversata e raggiunse la Mauritania (Chron. min. I 472; II 21 Mommsen; Procop. Bell. III 3, 23-26; Iord. Get. 23, 167-169). Da lì, distrutta Altava, i Vandali investirono le città di Tassacora, Portus Magnus, Cartenna, Caesarea, Icosium, Autia e Sitifis, e, muovendo per 2.000 km verso est, lungo gli assi viari della costa, raggiunsero le tre popolose province di Numidia, Proconsularis e Byzacena. Anche lì i barbari saccheggiarono diversi centri abitati, quali Cirta, Calama, Thagaste, Sicca e Thuburbo Maior: migliaia di persone vennero trucidate e un numero ancor maggiore fu ridotto in schiavitù. Dopo aver sbaragliato a più riprese le forze romane, nell’estate del 430 i Vandali raggiunsero la città di Hippo Regius: durante l’assedio, il 28 agosto, si spense l’uomo che ne era stato vescovo per trentacinque anni, Aurelio Agostino forse il più grande teologo nella storia della Chiesa (Possid. Vita August. 28-30; Chron. min. I 473; II 22 Mommsen). Dopo quattordici mesi di blocco, nel 431 la città cadde in mano agli assalitori (Procop. Bell. III 3, 31-34).

Genserico sapeva bene che ogni conquista andava consolidata e, siccome la guerra cominciava a pesare anche per la sua gente, avendo preso il controllo di una sola città, ebbe l’accortezza di intavolare trattative con l’imperatore Valentiniano III (PLRE 2, 1138-1139): così l’11 febbraio 435 si addivenne a un trattato di pace, in forza del quale i Vandali furono individuati come foederati al servizio dell’Impero per la Numidia Cirtana (Chron. min. I 474 Mommsen). Ciononostante, ben presto, Genserico iniziò a comportarsi come un sovrano autonomo, esercitando sulla regione un potere assoluto: tutte le terre, sia pubbliche sia di proprietà privata, furono confiscate e annesse al demanio regio, quindi suddivise in lotti e distribuite ai più fedeli soldati del re (sortes Vandalorum). Quanto alle popolazioni locali, scampate alla morte o alla servitù, le comunità africane furono costrette al pagamento di tributi assai onerosi, nonostante la formale conservazione della legislazione imperiale (cfr. Procop. Bell. III 5, 16). Le fonti documentali, confluite nel corpus di Vittore di Vita, come la già nominata Historia persecutionis Africanae provinciae, la Notitia provinciarum et civitatum Africae e la Passio beatissimorum martyrum, tramandano una delle pagine più terribili della storia della repressione ariana contro l’ortodossia nicena: sono innumerevoli gli episodi di torture inflitte agli ecclesiastici e ai fedeli, che, durantes in catholica fide, preferirono subire il martirio piuttosto che abiurare. Si narra come gli sfortunati fossero costretti a bere aceto o liquidi corporali, o a trascinare enormi pesi; coloro che rifiutavano di abbracciare l’Arriana impietas erano messi all’ergastolo, condannati all’esilio o, preferibilmente, uccisi. Si racconta di prelati arsi sul rogo, dilaniati dalle belve nel circo o legati a cavalli e trascinati su terreni accidentati. Tutti gli eventi narrati, comunque, vengono tendenzialmente ridotti a uno scontro fra omousiani e ariani, nel quale i primi vengono rappresentati come pii sottoposti alle più atroci torture, descritte finanche con eccessiva dovizia di particolari, mentre i secondi risultano sempre essere spietati carnefici, protagonisti negativi di una concatenazione di piccole rappresentazioni agiografiche (cfr. Vict. Vit. HP I 3-4; I 6; I 8; I 10; I 12; Nov. Val. II 12, 13, 6; Ferrand. Vita Fulg. I 4). Chiaramente negli episodi dello scontro vengono meno le considerazioni politiche, economiche e militari dei soggetti agenti.

Città del Vaticano. Ms. Vat. gr. 1613 (c. 1000). Menologio di Basilio II, f. 172r. Il martirio di Oreste di Cappadocia.

Instaurato il proprio regno nel Nordafrica, Genserico divenne ben presto una figura importantissima negli equilibri mediterranei e influì di molto sulle vicissitudini dell’Impero d’Occidente: difatti, fra i sovrani barbarici insediati entro i confini di Roma, Genserico fu sotto molti riguardi quello che ottenne i maggiori successi. Quanto alla gestione del regno, a quanto pare, egli operò una serie di riforme: il sovrano doveva essere coadiuvato da ministri e burocrati, in massima parte di stirpe vandalica, ma anche di origini romane. Nella persona del re erano concentrati tutti i poteri, come il comando degli eserciti e l’esercizio della giustizia. Inoltre, solo a lui era consentito elargire donativa, in moneta sonante o in beni immobili, ai propri sudditi.

Regno dei Vandali. Genserico. Siliqua, Cartagine c. 455-476. AV 4,25 g. Recto: busto diademato, imperlato, drappeggiato e corazzato dell’imperatore (Onorio), voltato a destra.

L’ambizione di Genserico non sembrava conoscere limiti. Stando alle cronache, nel 439 l’Asdingo mosse fuori dai suoi confini e, rotti i patti con Roma, attaccò Cartagine, per importanza la seconda città della pars Occidentis e porto di fondamentale rilevanza per gli approvvigionamenti annonari necessari al mantenimento dell’Urbe: il 19 ottobre Cartagine fu espugnata magna fraude (Vict. Vit. HP I 12-14; Chron. min. I 477; II 23; 80; 296 Mommsen). Nel suo sermone De tempore barbarico (2, 5), il vescovo Quodvultdeus, scampato al pericolo delle persecuzioni trascorrendo l’esilio a Napoli, compianse gli orrori che i Cartaginesi dovettero patire e lamentava come l’empio dominio dei Vandali avesse provocato un sovvertimento sociale, rendendo persino i padroni di molti servi asserviti ai nuovi arrivati. La presa della metropoli, che di lì a poco divenne la capitale del regno, completò la conquista vandalica della dioecesis Africae, costituendo una robusta base di potere nel Mediterraneo occidentale. Il successo e la longevità del dominato degli Asdingi in Nordafrica dipesero in gran parte dal nuovo foedus siglato nel 442 tra Genserico e Valentiniano III: con questo accordo l’imperatore riconobbe formalmente il regno vandalico e il sovrano barbaro «alleato e amico» dell’Impero, ma i Vandali avrebbero dovuto corrispondere al governo di Roma un tributo in moneta e in natura (Vict. Vit. HP II 39; III 4; Procop. Bell. III 5, 12-13); per garantire la tenuta del patto, il principe Unnerico (PLRE 2, 572-573) fu inviato a Roma come ostaggio e promesso alla figlia dell’imperatore, Eudocia, che all’epoca aveva solo sette anni (PLRE 2, 407-408; Procop. III 4, 13-14; Merob. Pan. I 7-8; 17-18; II 29; Chron. min. I 479 Mommsen). Mai, prima di allora, la linea politica ufficiale aveva contemplato una simile alleanza tra i barbari e la famiglia imperiale; senza contare che avrebbe avuto ripercussioni di lunghissima durata. Genserico, infatti, diede prova di essere un sovrano energico e lungimirante, stratega eccellente e capace di condurre i suoi di vittoria in vittoria e fu uno dei grandi sopravvissuti del V secolo: sfuggì a una grave congiura, probabilmente finanziata o voluta dal governo imperiale (Iord. Get. 34, 169), scampò al massiccio attacco navale condotto contro di lui nel 460 dall’imperatore d’Occidente riuscendo a catturare gran parte della flotta romana; sopravvisse alla disastrosa spedizione inviata da Costantinopoli nel 468; e fu persino in grado di sopravvivere all’istituzione imperiale in Occidente, morendo nel 477.

L’estensione del regno vandalico tra il 435 e il 442 [Modéran 1998].

Indubbiamente, la figura di Genserico è legata al secondo grande saccheggio di Roma. Il 17 marzo 455, subito dopo l’assassinio di Valentiniano III, il senatore Petronio Massimo (PLRE 2, 749-751), ispiratore della congiura, venne proclamato imperatore, ma il suo regno ebbe vita assai breve, durato soltanto undici settimane. La morte di Valentiniano III, infatti, ebbe come immediata conseguenza la rottura del delicato complesso di equilibri sul quale si fondavano i rapporti tra l’Impero e i Vandali, cosicché il conflitto divenne inevitabile (Chron. min. I 483-484; II 86 Mommsen; Iord. Rom. 334).

Re Genserico si mosse con una straordinaria rapidità e un eccezionale tempismo: alla fine di maggio, la flotta vandalica, con un minaccioso carico di armati, aveva già raggiunto la foce del Tevere. Le cause delle ostilità aperte da Genserico, nel giugno 455, con l’assedio di Roma sono esposte nei dettagli dallo storico Giovanni di Antiochia (FHG IV 201, 6 Müller). Lo scrittore riferisce che il re dei Vandali, quando Massimo fu eletto imperatore, ritenne che fosse venuto finalmente il momento giusto per assalire l’Italia, in quanto la morte degli animatori e dei firmatari del trattato di pace del 442 rendeva legittimo il suo atto. Altre fonti (οἱ δέ φασι), invece, riferiscono che il motivo per cui Genserico decise di violare la pace per dare l’avvio alla «quarta guerra punica» (come la definì Sidonio Apollinare, Carm. VII 550-556; 588), fu la richiesta d’intervento espressagli esplicitamente dall’imperatrice, l’Augusta Licinia Eudossia (PLRE 2, 410-412), decisa a vendicare l’uccisione del marito e l’onta delle odiate nozze a cui Massimo l’aveva costretta (cfr. Procop. Bell. III 4, 37-39; Malal. Chronogr. 14, 26, 365; CP 592, 2-7). Anche nel Panegyricus dictus Avito Augusto di Sidonio Apollinare (Carm. VII 441), recitato il 1° gennaio 456, si allude alle «armi furtive del Vandalo» (furtivis Vandalus armis), che ebbe ragione di Roma nn con una guerra giusta e leale, ma per il tradimento dell’imperatrice. In realtà, la strategia usata da Genserico rende probabile l’ipotesi che già da tempo il re avesse deciso di violare i trattati di pace del 442 e di prepararsi a entrare in guerra. La rapida e fortunata incursione sulle coste laziali fu resa possibile da una grande spedizione marittima, a cui presero parte anche soldati libici reclutati sulle coste africane. Quindi, difficilmente si sarebbe potuta improvvisare una simile spedizione in tempi brevi. Genserico si ritenne svincolato dai patti che lo legavano all’Impero romano oltre che dalla morte di coloro che li avevano stipulati, in particolare Valentiniano (la cui scomparsa fornì il pretesto per iniziare la guerra), anche dall’ascesa sul trono d’Occidente di un sovrano che non era investito di un’autorità legittima. Massimo era un usurpatore, e pertanto bisognava rispondere all’invito di Eudossia.

La flotta di Genserico in viaggio verso Roma. Illustrazione di S. Ó’Brógáin.

Quali che furono le cause, Genserico si lanciò all’attacco di Roma. La sua efficiente marina poteva contare su un valido corpo di soldati, anche se il re non aveva certamente con sé tutti gli uomini (Vandali e Alani) abili alle armi, la cui presenza era troppo necessaria in Africa per gestire l’immenso territorio controllato. Si valse però del contributo e della preparazione militare di guerrieri mauri e libici (Paul. Diac. Rom. XIV 16). Per trasportare il corpo di spedizione (si calcola che il suo esercito dovesse essere composto da almeno 14.000 uomini), sembra che Genserico non disponesse di grandi navi, bensì, in prevalenza, di piccoli e veloci legni. Roma non era affatto preparata a fronteggiare un attacco di tale entità: i generali dell’Impero, tra i quali all’epoca si distinguevano Maggiorano e Ricimero, erano ancora impegnati, con le poche forze disponibili, nell’Italia settentrionale. Tutto sommato, la città era considerata sicura per la famiglia imperiale, trasferitavisi al tempo delle incursioni di Attila, e il suo perimetro era quasi indifeso. L’imperatore Massimo, dal canto suo, avvertiva uno spiacevole presentimento, se, come riferisce Sidonio Apollinare (Ep. II 13, 5), considerava felice Damocle per il fatto che, almeno solo per la durata di un banchetto, aveva dimenticato la minaccia della spada che stava sospesa sulla sua testa (felicem te, Damocles, qui non uno longius prandio regni necessitatem toleravisti). L’imperatore sapeva probabilmente che Genserico lo considerava un usurpatore, e non rimase poi molto stupito quando il suo presagio divenne realtà.

Dopo una felice e tranquilla navigazione, la flotta vandalica giunse alle foci del Tevere. Gli storici non precisano dove avvenne lo sbarco dei Vandali, né l’itinerario seguito da Genserico per arrivare in Italia. Procopio (Bell. III 5, 1) dice semplicemente che «salpò per l’Italia con una potente flotta» (στόλῳ πολλῷ ἐς Ἰταλίαν κατέπλευσεν): probabilmente i Vandali sbarcarono a Ostia e, subito dopo, s’impadronirono di Porto, che certamente divenne la base per le operazioni successive e da cui, seguendo la via Portuense, si incamminarono verso Roma. Genserico, condottiero troppo prudente ed esperto per spingersi subito sotto le mura della città, al sesto miglio della vecchia porta claudiana fermò le sue truppe. Questo particolare si deduce dal frammento già citato dell’Antiocheno (FHG IV 201, 6 Müller), secondo il quale i Vandali si sarebbero accampati «in Azesto» (ἐν τῷ Ἀζέστῳ). Dal momento che non esiste nella campagna romana una località con questo nome, sembra evidente che si tratti di una corruzione dell’espressione a sexto (miliario): dunque, l’accampamento dei Vandali doveva trovarsi sulle colline, nei pressi dell’attuale Magliana. Se a Roma qualcuno avesse organizzato una valida difesa, probabilmente sarebbe stato difficile per gli invasori superare la cinta muraria che l’imperatore Aureliano aveva fatto costruire a protezione della città. Invece gli avvenimenti precipitarono. Giovanni di Antiochia (ad l.c.) riferisce che Massimo, venuto a conoscenza dell’imminente arrivo di Genserico, pensò soltanto ad abbandonare la città. Dato il segnale del “si salvi chi può”, si avviò a cavallo verso una porta, «ma i suoi più fidi servi e gli uomini della guardia imperiale, nel vederlo fuggire, lo insultarono e lo vituperarono per la viltà. Quando già era quasi in salvo, un tale lo colpì con una pietra alla tempia, uccidendolo. La folla, poi, gli fu addosso, lo fece a pezzi e ne portò in giro le membra sulle picche» (αὐτῶν τῶν βασιλικῶν δορυφόρων καὶ τῶν ἀμφ’ αὐτὸν ἐλευθέρων οἷς μάλιστα ἐκεῖνος ἐπίστευεν, ἀπολιπόντων, οἳ ὁρῶντες ἐξελαύνοντα ἐλοιδόρουν τε καὶ δειλίαν ὠνείδιζον· τῆς δὲ πόλεως ἐξιέναι μέλλοντα βαλών τις λίθῳ κατὰ τοῦ κροτάφου ἀνεῖλε· καὶ τὸ πλῆθος ἐπελ θὸν τόν τε νεκρὸν διέσπασε, καὶ τὰ μέλη ἐπὶ κόντῳ φέρων ἐπαιωνίζετο; cfr. Procop. Bell. III 5, 2). Alcune fonti riportano il nome dell’uccisore: Giordane (Get. 45, 235) dice che fu un soldato romano di nome Urso, mentre, secondo Sidonio (Carm. VII 442), fu un milite burgundo della guardia del corpo, che era quasi tutta composta da barbari. Due giorni dopo, Genserico, avendo saputo che Roma era senza governo e senza difesa, l’assediò per quattordici giorni: vinta facilmente la resistenza degli abitanti, il Vandalo decise di espugnarla, ma accadde allora qualcosa che non aveva calcolato. Ad attenderlo, trovò papa Leone I: si ripeteva quanto era già accaduto tre anni prima con Attila. Ancora una volta, all’avvicinarsi di un nemico tanto temibile e preceduto da una fama terribile, il papa ritenne opportuno intervenire in prima persona, sperando di limitare i danni (Chron. min. I 484 Mommsen; Paul. Diac. Rom. XIV 16).

The Hague, Koninklijke Bibliotheek. MMW 10 A 11 (XV secolo), Saint Augustin, La Cité de Dieu, traduite en français par R. de Presles, f. 15r. Papa Leone il Grande convince Genserico ad astenersi dal saccheggio di Roma.

L’impresa riuscì anche questa volta, anche perché i Vandali non erano più l’orda scalmanata che aveva attraversato il Noricum e la Gallia. Genserico li teneva in pugno e, con un solo cenno, poteva incitarli alla distruzione, ma anche obbligarli a rispettare determinati vincoli. Quando Leone I e il sovrano barbaro si trovarono di fronte, quest’ultimo provò rispetto per il pontefice e forse subì, come già Alarico e poi Attila, il fascino della città Eterna. Qualcosa scosse l’animo di Genserico, che diede l’ordine di non appiccare incendi e di non abbandonarsi a inutili spargimenti di sangue. In quell’occasione, a quanto sembra, la foga distruttiva e priva di senso che ancora oggi è chiamata “vandalismo” non si manifestò. Un condottiero non poteva privare comunque i suoi soldati dalla preda bellica – oro, argento, oggetti preziosi –, come imponevano le dure leggi della guerra, e il papa non poté quindi impedire il sistematico saccheggio di Roma. I Vandali portarono via con loro anche uno stuolo di prigionieri: in particolare prelevarono quelli che, per età o per prestanza fisica, potevano essere impiegati utilmente in Africa e coloro che, per condizione sociale, potevano essere oggetto di un buon riscatto. Del gruppo facevano parte anche l’imperatrice Eudossia con le due figlie, Placidia ed Eudocia, e Gaudenzio, figlio del generale Ezio, più diversi senatori, che non erano fuggiti (Iord. Rom. 334; Procop. Bell. III 5, 3-5; Malal. Chronogr. 14, 26, 366; Chron. min. II 86 Mommsen). Così, finita la ragione della sua “permanenza” a Roma, Genserico prese la via del ritorno e, senza altri atti di guerra, tornò in Africa per celebrare al più presto il matrimonio tra suo figlio Unnerico e la principessa Eudocia (Procop. Bell. III 5, 6).

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Riferimenti bibliografici:

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Quinto Aurelio Simmaco, il pagano

Fra le personalità del paganesimo agonizzante, personaggio dalla carriera politica non eclatante (cfr. CIL VI 1699 = ILS 2946 []), Quinto Aurelio Simmaco (PLRE I 865-870) fu, tutto sommato, uno degli uomini più influenti del suo tempo, occupando a ragione una posizione di primo piano: non solo per via del suo impegno in difesa degli antichi riti, ma anche e soprattutto in quanto figura di intellettuale esemplare. Buon letterato, erudito, tra le sue opere si annoverano in particolare le lettere, composte in una raffinata – anche se ridondante – prosa letteraria, attraverso le quali Simmaco si adoperò per restituire di sé un’immagine ideale: quella di difensore non soltanto della tradizione, ma, con essa, di tutta la cultura classica. Per questo egli amava presentarsi come senatore e vir litteratus: non solo volle dirsi iustus heres veterorum litterarum, ma osò fregiarsi dell’agnomen ex virtute di Tullianus, per fugare ogni dubbio sul proprio modello principale. Ciononostante, Simmaco considerava gli studi come qualcosa di statico, fermamente ancorato a una concezione immutabile (Symm. Rel. III 4, consuetudinis amor magnus est); il sapere, a suo avviso, era uno strumento al servizio della carriera politica (Symm. Ep. I 20, 1, quia iter ad capessendos magistratus saepe litteris promovetur).

Giovane magistrato romano. Statua, marmo, fine IV secolo, dal ninfeo degli Horti Liciniani. Roma, Centrale Montemartini.

Nei nove libri di lettere compilati verso la fine della sua vita, si contano più di 900 epistole ad amici, principalmente di raccomandazione, consolatorie, di ringraziamento e di augurio. Sul modello pliniano, un decimo libro comprendeva la corrispondenza ufficiale, due lettere all’imperatore e quarantanove Relationes («suppliche») presentate ai sovrani. Un palinsesto di Bobbio (Vat. Lat. 5750), risalente al VI secolo, conserva otto Orationes di Simmaco, tra le quali tre panegirici imperiali. Tra l’altro, pare che il senatore abbia progettato anche l’edizione dell’opera omnia liviana (Symm. Ep. IX 13: munus totius Liviani operis quod spopondi).

L’altisonante sequenza onomastica che lo contraddistingueva potrebbe trarre in inganno: come quella di molte famiglie in vista nella seconda metà del IV secolo, la fortuna del casato di Simmaco era piuttosto recente. Nel 330 suo nonno aveva rivestito il consolato ordinario, ma fino a due anni prima un altro membro della stirpe era stato ancora un esponente dell’ordine equestre, seppure del massimo rango, come attesta il titolo di vir perfectissimus. Non a torto, l’accento solenne di Simmaco nel parlare della propria ascendenza è stato tacciato di snobismo, nel vero senso della parola. Fu suo padre, in effetti, Lucio Aurelio Avianio Simmaco, a portare il nome della schiatta ai massimi livelli: grande esempio di dottrina (Amm. Marc. XXVII 3, 3) e di cultura letteraria (Symm. Ep. I 2; 32), intellettuale assai versatile, dapprima praefectus annonae, poi praefectus Urbi (364), Avianio Simmaco fu spesso portavoce del Senato presso gli imperatori (CIL VI 1698 = ILS 1257 [], multis legationibus pro amplissimi ordinis desideriis apud divos principes functo). Difatti, nel 361 egli aveva avuto l’onore di condurre un’ambasceria alla corte di Costanzo II, che allora si trovava ad Antiochia (Amm. Marc. XXI 12, 24). In quell’occasione Avianio Simmaco aveva conosciuto personalmente il retore Libanio, con il quale condivideva la passione per i λόγοι e per gli autori antichi (περὶ τῶν παλαιῶν), che costituivano evidentemente l’argomento principe delle loro quotidiane conversazioni. A raccontarlo è lo stesso Libanio, trent’anni dopo, in una lettera a Quinto Aurelio Simmaco (Lib. Ep. 1004), nella quale il vecchio retore esprime tutta la propria soddisfazione per essere stato onorato da una missiva (non pervenuta) da parte di un senatore del rango di Simmaco. Questo documento, d’altra parte, attesta l’esistenza di una fitta rete di amicizie tra le élites colte delle due partes imperii.

Bamberg, Staatsbibliothek. Ms. Class. 5 (c. 845), Anicio Manlio Severino Boezio, De institutione arithmetica, f. 2v. Simmaco e Boezio.

Quinto Aurelio Simmaco era nato, dunque, in seno di una famiglia ormai senatoria, intorno al 340. Nel 364/5 egli ricevette la correctura, cioè il governatorato, Lucaniae et Brittiorum: cominciò allora la sua attività letteraria, con le prime lettere raccolte nel ricco epistolario. Simmaco si sarebbe servito di questo canale di comunicazione per garantirsi una relazione privilegiata con un personale politico e amministrativo socialmente variegato, ma detentore di un potere e di un’autorità con i quali inevitabilmente avrebbe dovuto fare i conti e tenersi buoni attraverso scambi di cortesie, favori, raccomandazioni.

Il 25 febbraio 369 fu una data importante nella sua carriera e nella sua esperienza umana (cfr. Amm. Marc. XXVI 1, 7): recatosi ad Augusta Treverorum come portavoce del Senato in occasione dei quinquennalia dell’imperatore, Simmaco pronunciò di fronte al sovrano due panegirici, rispettivamente in onore di Valentiniano I (Symm. Or. 1) e di suo figlio Graziano (Symm. Or. 3). Ciò gli valse la considerazione del comitatus imperiale, presso il quale si stabilì per circa un anno, partecipando, tra l’altro, anche alla spedizione contro gli Alamanni e ricevendo l’incarico di celebrare la vittoria con un altro discorso tenuto di fronte al princeps il 1° gennaio 370 (Symm. Or. 2). Proprio lì, nella corte installata sulla Mosella, ebbe luogo una delle esperienze più importanti della vita di Simmaco: incontrò e frequentò Decimo Magno Ausonio, letterato e poeta di Burdigala, cantore delle bellezze della Gallia, ma anche cristiano e precettore del giovane Graziano (Symm. Or. 3, 7; Auson. 19 [Epigr.] 26, 5, 320 Peiper; 20 [Grat. Act.] 15, 68, 370 Peiper; Amm. Marc. XXXI 10, 18; [Aur. Vict.] Epit. Caes. 47, 4). Nonostante le differenze di fede, i due si legarono di profonda amicizia, forse la più sincera che Simmaco abbia mai stretto, testimoniata da una trentina di lettere raccolte nel libro I dell’epistolario (Symm. Ep. I 13-43).

Dal 370 al 373 Simmaco fu a Roma. Nel 370 sposava Rusticiana, figlia del praefectus Urbi Memmio Vitrasio Orfito (Amm. Marc. XIV 6, 1), che l’anno successivo gli diede una figlia, Galla, e, ben tredici anni più tardi, un figlio, Quinto Fabio Memmio Simmaco. Nel 373/4 Simmaco ricevette il proconsolato d’Africa (C.Th. XII 1, 73; Symm. Ep. VIII 5; 20; IX 115; CIL VIII 24584 []; AE 1966, 518 []): sotto il suo mandato, la praefectura minacciata dai torbidi provocati dai Donatisti (C.Th. XVI 6, 1), dalla rivolta di Firmo in Mauretania (Amm. Marc. XXIX 5, 5-50) e dall’invasione degli Asturi in Tripolitania (Amm. Marc. XXVIII 6), vide le imprese di Teodosio il Vecchio, inviato da Valentiniano per ripristinare la pace nella regione. Dopo quell’incarico, per almeno dieci anni Simmaco si astenne dal rivestire ulteriori incombenze; fu scelto solo per missioni onorifiche, ma, nel frattempo, il suo prestigio in Senato cresceva, anche se il titolo di princeps Senatus gli venne conferito soltanto in seguito. Nel 375 succedeva al padre al soglio imperiale Graziano, guidato dai consigli del maestro Ausonio: nelle lettere al retore bordolese, Simmaco salutava l’avvento del sovrano come l’inizio di un novum saeculum (Symm. Ep. I 13; cfr. Or. 3).

Intorno al 377 Simmaco perse il padre Lucio, allora console (Symm. Or. 4), che lo lasciò erede di una cospicua fortuna, basata prevalentemente sulla proprietà fondiaria, com’era costume dell’aristocrazia imperiale: tre case nell’Urbe (una sul Celio), una dimora a Capua e ben quindici villae, tre nel suburbio di Roma e dodici nell’Italia Suburbicaria, oltre a proprietà in Sicilia e Mauretania. Le tenute, comunque, dovevano essere mal gestite e le rendite risultavano basse, tanto che negli ultimi anni Simmaco fu costretto a venderne alcune per pareggiare il bilancio (cfr. Symm. Ep. II 52; 57; 59; III 12; 55; 82; 88; VI 60; 66; 70; 72; 80; VII 18; IX 50; CIL VI 1699 []).

Magistrato romano. Statua (dettaglio del busto), marmo, fine IV secolo, dal ninfeo degli Horti Liciniani. Roma, Centrale Montemartini.

Nonostante, dal 381, gli imperatori in carica, influenzati da carismatici prelati cristiani, intensificassero le misure in campo religioso, rendendole sempre più repressive, sia contro i cristiani eretici sia contro i cultori delle antiche tradizioni, gli stessi sovrani perseguirono una sistematica politica di collaborazione con le élite: difatti, nel 383, Virio Nicomaco Flaviano il Vecchio, uno dei membri più cospicui dell’aristocrazia romana, sarebbe stato chiamato a ricoprire l’incarico di praefectus praetorio Italiae et Illyrici (cfr. CIL VI 1782 = ILS 2947 []; Symm. Ep. II 8, 22-23; 31), mentre suo figlio avrebbe ricevuto il proconsolato Asiae; l’anno successivo sarebbero divenuti consules i pagani Ricomero e Clearco (C.Th. I 6, 9), mentre Simmaco sarebbe stato designato praefectus Urbi (cfr. C.Th. IV 17, 4; XI 30, 44).

Ora, un esame spassionato delle fonti rende comprensibile la vivacità con cui, per oltre vent’anni, i senatori romani avrebbero sostenuto le loro posizioni, conducendo, in nome del conservatorismo religioso e del tradizionalismo, un’ostinata battaglia in difesa di quei privilegi e di quelle sfere d’interesse, che le riforme costantiniane avevano riservato all’ordo amplissimus. D’altronde, nel corso del IV secolo l’aristocrazia romana era diventata ciò che non era mai stata in precedenza: una classe politica rigidamente esclusiva ed ereditaria, che lo stesso Simmaco definì pars melior generis humani (Symm. Ep. I 52;IV 4; 9; cfr. Or. VI 1, nobilissimi humani generis; Or. VIII 3, impulsu fortasse boni sanguinis, qui se semper agnoscit). A ogni modo, non si trattò di una battaglia improntata a un astratto e retorico passatismo né di una lotta in difesa di puri e semplici privilegi economici, ma di uno scontro fondamentalmente politico. Simmaco e gli altri senatori romani difendevano la propria identità di ceto e di gruppo dirigente che la pesante legislazione grazianea del 382 sembrava mettere in discussione: l’abolizione dei contributi statali al culto delle Vestali, la confisca del terreno sacro dei templi e dei collegia sacerdotali, oltre alla rimozione della Curia dell’ara Victoriae, furono percepiti tutti come atti discriminatori e persecutori (cfr. C.Th. XVI 10, 15). Pertanto, i senatori romani inviarono presso Graziano una delegazione, guidata da Simmaco, per sollecitare il sovrano a tornare sui propri passi; ma persuaso da Ambrogio, vescovo di Mediolanum, l’imperatore si rifiutò di ricevere l’ambasceria (Symm. Rel. III 1; 20; Ambr. Ep. XVII 5, 10; 16; Paul. VA 26, 1; cfr. Amm. Marc. XXX 9, 5). Quando tra il 383 e il 384 le province occidentali furono funestate da una grave carestia, Simmaco in una lettera Flaviano fratri connesse immediatamente la calamità con l’empietà del sovrano e la interpretò come una punizione divina (Symm. Ep. II 7).

Flavio Valentiniano II. Busto, marmo, c. 387-390 da Aphrodisias. Istanbul, Museo Archeologico.

Nell’estate del 384, salito intanto alla porpora il fratellastro di Graziano, Valentiniano II, una nuova legazione del Senato, sempre diretta da Simmaco, fu inviata a Mediolanum per chiedere ancora una volta la restaurazione dell’altare della Vittoria e la riattribuzione dei sostegni economici ai collegi sacerdotali romani. Ricevuto, questa volta a corte, Simmaco tenne un’ampia e appassionata relatio, sostenendo la causa della religione tradizionale in una prospettiva di tolleranza per tutti i culti, rivolto al giovanissimo imperatore, che ancora dodicenne era stato posto sotto la tutela della madre Giustina (Symm. Rel. III). Ma alle argomentazioni del senatore si oppose con energia e con autorità dell’episcopus della città, che in due dense epistole rivolte al principe, sul quale peraltro esercitava un forte ascendente, confutò punto per punto le tesi pagane. Fu così respinta la richiesta di Simmaco e risultò conseguentemente vano il tentativo di riottenere un importante segno dell’antica religione (Ambr. Ep. XVII-XVIII). Contrariamente a quello che talvolta si vuole credere, l’oratore e il vescovo furono di volta in volta alleati o rivali in quella pratica di patronato verso le comunità non meno che nei confronti dei singoli (cfr. Symm. Ep. I 63); la questione dell’altare della Vittoria più che di un conflitto religioso si trattò di una controversia tra due eminenti personalità politiche, decise a darsi battaglia senza esclusioni di colpi.

Nel frattempo era venuto a mancare anche Vettio Agorio Pretestato, un altro grande personaggio della Roma pagana, suo alleato (Amm. Marc. XXVII 9, 8; XXVIII 1, 24; CIL VI 1779 = ILS 1259 []; CIL VI 102 = ILS 4003 []): Simmaco, sentendosi privo di appoggi, nel 385 diede le dimissioni dalla prestigiosa carica di praefectus della Città.

Verso il 387 a Roma si celebrarono le nozze fra la figlia di Simmaco e Flaviano il Giovane, evento che sancì l’alleanza politica tra le due famiglie. A ricordo dello sposalizio si conservano le valve di un raffinato dittico d’avorio, che rappresentano entrambe due figure femminili intente a compiere atti di culto presso un altare, sopra le cui teste campeggiano le incisioni: Symmachorum – Nicomachorum.

Dittico Symmachorum – Nicomachorum. Incisione su valve, avorio, fine IV secolo. London, Victoria and Albert Museum – Paris, Musée national du Moyen Âge.

Sempre nel 387 l’usurpatore Magno Massimo si guadagnò il sostegno dell’aristocrazia tradizionalista e Simmaco si fece trascinare nell’impresa, pronunciando, tra l’altro, un panegirico dell’anti-imperatore. Teodosio, l’Augustus ufficiale, era però l’uomo forte e, nel 388, il rivale fu sconfitto a Poetovio e a Siscia (cfr. Pan. Lat. II 34-35): Simmaco, preso dal panico e caduto in disgrazia, dovette cercare rifugio e asilo nientemeno che in una chiesa (Socr. HE V 14, 3-9; Symm. Ep. II 13; 30-31). Il vincitore gli accordò la grazia. Dopo una fuga in Campania, un rovescio finanziario e altre peripezie, alla fine, Simmaco riuscì a tornare a Roma, dove incontrò Teodosio e riguadagnò i favori della corte. Nell’autunno del 390 riuscì addirittura a farsi eleggere consul posterior per l’anno successivo, insieme a Flavio Eutolmio Taziano, consul prior (cfr. Lib. Ep. 990). Da qualche tempo era divenuta prassi che un console fosse designato in Occidente e l’altro in Oriente e che entrambi ottenessero la sanzione imperiale attraverso decreti pubblici (C.Th. VIII 11, 1; 12; CLRE 16; 26). Comunque, nel discorso d’insediamento, tenuto a Mediolanum, il 1° gennaio 391 di fronte al comitatus imperiale riunito, Simmaco non trovò di meglio che ritirare fuori la vecchia questione dell’altare della Vittoria: Teodosio lo fece immediatamente espellere (Ambr. Ep. LVII 4; Paul. VA 26; [Prosp.] De promiss. III 38, 41; Paul. VA 26, 2).

Il 22 agosto 392, dopo aver assassinato Valentiniano II, il magister militum Flavio Arbogaste scelse come candidato alla porpora il magister scrinii Flavio Eugenio, un anziano retore di origini galliche, che, seppur cristiano, nutriva interesse verso i culti aviti (Ambr. de ob. Valent.; Zos. IV 54, 1; Socr. HE V 25; Soz. HE VII 22, 4). Malgrado avesse tentato di ottenere la propria cooptazione nella pars Occidentis, con l’intercessione di Ambrogio, Teodosio sconfessò Eugenio, trattandolo come un usurpatore (Ambr. Ep. LVII; Zos. IV 54-55; CIL XIII 8262 = ILS 790 []). Il pretendente riuscì a ottenere il plauso di una parte del Senato romano: Flaviano il Vecchio fu riottenne la carica di praefectus praetorio Italiae et Illyrici, cui si aggiunsero pure la responsabilità prefettizia sull’Africa e un consolato sine collega per l’anno 394, mentre suo figlio fu creato praefectus Urbi. Intanto, nella primavera del 393 l’ara Victoriae veniva ricollocata al suo posto nella Curia, i templi riaperti e la libertà di culto ripristinata (Ambr. Ep. LVII 6-12; in Psalm. 35, 25; Ep. LXI 1; de ob. Theod. 39, 5; Paul. VA 26-27).

Fl. Eugenio. Siliqua, Augusta Treverorum c. 392-394. AR 1,75 g. Recto: D(ominus) n(oster) Eugeni-us p(ius) f(elix) Aug(ustus). Busto diademato, drappeggiato e corazzato dell’usurpatore, voltato a destra.

Teodosio si preparò a muover guerra: riunite le sue truppe, l’imperatore marciò verso l’Italia con al seguito un contingente gotico, guidato dal rex Alarico. Lo scontro campale si svolse sulle rive del fiume Frigidus (od. Vipacco), affluente dell’Isonzo, e infuriò per due giorni tra il 5 e il 6 settembre 394. Al termine di un sanguinoso combattimento, risultò chiara la definitiva disfatta della compagine occidentale: sembrava quasi che gli antichi dèi avessero abbandonato i loro seguaci. Eugenio e Arbogaste andarono incontro al loro destino, il primo tradito e assassinato, il secondo togliendosi la vita (Philostorg. 11, 2; Socr. HE V 25; Oros. VII 35).

Come è stato osservato, l’idea che l’aristocrazia romana avesse aderito con entusiasmo all’usurpazione, facendosi parte attiva del movimento e fornendo supporto logistico e ideologico, e che la “reazione pagana” fosse stata il collante decisivo per il consenso a Eugenio è smentita dalla continuità dei ruoli-chiave al governo dell’Impero. Nonostante le opposte propagande avessero tinto di sacro l’intera vicenda – da parte cristiana, come lotta tra le forze del bene e quelle del male, da parte tradizionalista, come difesa del mos maiorum –, essa andrebbe ridimensionata a livello di uno sgradevole incidente di percorso: mentre le fonti pagane sottolineano l’atteggiamento del trionfatore nei riguardi del Senato romano, costretto a una conversione coatta alla nuova fede in cambio del perdono politico, da parte cristiana il suicidio di Flaviano il Vecchio fu interpretato come un atto di coerenza e celebrato nell’ottica provvidenzialistica della mors persecutorum. In realtà, lo stesso Teodosio, che nutriva profonda stima nell’uomo di cultura, già suo prestigioso ministro, se solo ne avesse avuto l’opportunità, avrebbe certamente preferito risparmiargli la vita. D’altra parte, il VI libro dell’epistolario simmachiano conserva alcune lettere indirizzate Nicomachis filiis (Symm. Ep. VI 2, 6, 8, 22), dalle quali emergono le difficoltà affrontate dal genero e dalla figlia Galla nei due anni successivi: in particolare, gli sposi erano angustiati dalla prospettiva di dover rimborsare il salario percepito da Flaviano padre in qualità di praefectus praetorio sotto l’usurpatore e molte altre controversie private. In una situazione del genere, la rete di conoscenze di Simmaco si rivelò provvidenziale (cfr. Symm. Ep. V 47).

L’apoteosi di Q. Aurelio Simmaco. Bassorilievo, avorio, 402 d.C. da un dittico. London, British Museum.

Quanto a Teodosio, egli non ebbe il tempo di gustare i frutti della sua vittoria: a causa dei postumi di una ferita in battaglia, si spense a Mediolanum il 17 gennaio 395. Ora, toccava al magister militum utriusque, il semi-vandalo Flavio Stilicone, ricompattare la fazione teodosiana, rinnovando la solidarietà tra corte imperiale e aristocrazia: le crisi, le controversie e i pericoli che avrebbe dovuto affrontare rendevano necessario il consolidamento dei buoni rapporti con l’ordo senatorius. Dopo l’amnistia decretata per legge il 18 maggio 395 (C.Th. XV 14, 11-12), quantomai propizia in tal senso si rivelò la morte di Ambrogio, occorsa il 4 marzo 397: l’intensificarsi delle relazioni con gli esponenti dell’élite costituiva una ripresa delle alleanze teodosiana e un’oggettiva necessità politica. Per questo disegno nessuna personalità poteva risultare più opportuna di quella di Simmaco, il quale da parte sua non si lasciò sfuggire l’occasione: è significativo che le prime quattordici lettere del IV libro dell’epistolario siano quelle indirizzate al generalissimo vandalo (Symm. Ep. IV 1-14). I testi mostrano la deferenza con la quale l’estensore trattò il destinatario, la stima nutrita nei suoi riguardi, l’impiego di un linguaggio e di formalità tipici dell’amicitia politica romana, il superamento degli stereotipi negativi propri dell’élite senatoria nei riguardi degli individui di origine barbarica.

Con il suo impegno, blandendo di volta in volta il suo destinatario, Simmaco riuscì a ottenere la completa riabilitazione del genero Flaviano, al punto da fargli nuovamente avere la praefectura Urbi per l’anno 400. Grazie ai buoni uffici di Stilicone e alla concessione dell’uso gratuito del servizio pubblico per i suoi agenti, nel 401 l’oratore poté far venire da ogni parte dell’Impero le bestie più stravaganti in occasione dei ludi allestiti dal figlio Memmio Simmaco per la sua elezione a praetor (cfr. Symm. Ep. V 56). D’altra parte, il contributo di Simmaco garantì al generalissimo vandalo il sostegno del Senato nelle crisi che attanagliavano il suo regime. I loro rapporti, dunque, furono volti a un cordiale e reciproco scambio di favori.

Vittoria Alata. Statua, bronzo, I secolo, da un’intercapedine del Capitolium. Brescia, Museo di S. Giulia.

Ma il suo chiodo fisso era ancora l’altare della Vittoria: nell’inverno 401/2 Simmaco si recò a Mediolanum in rappresentanza del Senato romano, tornando alla carica ma inutilmente (Symm. Ep. V 95; VII 2; 13-14). All’inizio del 402, dopo un avventuroso viaggio di ritorno, reso pericoloso dalle bande dei Goti che erravano nei dintorni della sede imperiale, egli risulta di nuovo a Roma, in precarie condizioni di salute (Symm. Ep. IV 13; 56; V 94-96). Dopo questa data non si hanno più notizie di lui e tutto lascia pensare che egli morisse nel corso di quello stesso anno. La risposta polemica De ara Victoriae del poeta cristiano Prudenzio nella Contra Symmachum costituisce, per certi versi, una sorta di necrologio del senatore (Prud. c. Symm. II 7-16).

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Filippo l’Arabo: un effimero ritorno alla tradizione

Il principato di Filippo l’Arabo (244-249) desta particolare interesse, nel cinquantennio dell’«anarchia militare», sotto almeno due aspetti: innanzitutto, toccò a lui celebrare il millenario di Roma; in secondo luogo, durante il suo governo, lungo il basso Danubio iniziarono le prime grandi incursioni di genti esterne (PIR² I 461).

Marco Giulio Filippo, noto già agli antichi come Filippo l’Arabo per la sua origine, nacque presumibilmente intorno al 204 in un piccolo villaggio chiamato Trachontis dell’Auranitis (od. oasi di Chahba in Ḥawrān, Siria meridionale). Entrato nell’esercito imperiale, Filippo seguì una brillante carriera militare finché, nel 243, non ottenne la carica di praefectus praetorio, il cui prestigio era stato rinvigorito in quegli anni dall’azione di Timesiteo, suocero di Gordiano III. Secondo le fonti storiografiche – decisamente poco favorevoli –, Filippo era un uomo di umili origini e di modesta cultura, superbo e desideroso di raggiungere il potere (cfr. [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 4, is Philippus humillimo ortus loco fuit). I mezzi di cui si servì nella sua irresistibile ascesa sarebbero stati di ogni tipo: dalla trama alla corruzione, all’assassinio. Assurto a capo del Pretorio, succeduto al defunto Timesiteo, Filippo partecipò alla campagna persiana di Gordiano III. La documentazione storiografica tramanda diverse versioni sulle convulse vicende che portarono alla fine di Gordiano: le fonti ufficiali riportano che il giovane imperatore sarebbe caduto in battaglia contro i Sasanidi nei pressi di Mesiché, in Mesopotamia, e sul luogo sarebbe stato eretto un memoriale (cfr. RSDS ll. 7-8; Zon. XII 17 D); gli autori ostili a Filippo, invece, riferiscono che l’ambizioso praefectus avrebbe iniziato a sobillare i soldati, impegnati sul fronte orientale, contro il loro stesso sovrano e a compiere vere e proprie azioni di sabotaggio: per creare una situazione di grande difficoltà e avere quindi il massimo spazio di manovra, cavalcando lo scontento, Filippo avrebbe insinuato la preferenza accordata da Gordiano verso i foederati gotici dell’esercito e avrebbe ostacolato l’arrivo delle navi cariche di rifornimenti, creando difficoltà di approvvigionamento. A questo punto, Filippo avrebbe ordinato l’assassinio di Gordiano III e si sarebbe fatto proclamare imperatore dai soldati, che a quel punto l’avrebbero visto come loro salvatore (Aur. Vict. Caes. 27, 7-8; Amm. Marc. XXIII 5, 7; 17; SHA Gord. 30, 8-9; Zos. I 18, 3; 19, 1; Zon. XII 18 D).

Šāpur I trionfa su Filippo Arabo e Valeriano. Rilievo, roccia calcarea, c. 241-272. Naqš-e Rajab (Pārs), Necropoli monumentale.

Gli storici contemporanei valutano i resoconti antichi con grande cautela e tendono a ritenere che molte delle informazioni tràdite siano viziate da forti pregiudizi nei confronti di Filippo l’Arabo, che non apparteneva all’establishment romano e veniva, perciò, considerato un outsider. Indubbiamente egli agì con una buona dose di spregiudicatezza, ma è probabile che Filippo non sia stato il mandante dell’assassinio del giovane predecessore.

D’altronde, il suo avvento all’Impero, tra la fine di febbraio e gli inizi di marzo 244, consolidò il potere della componente militare di rango equestre sull’ordine senatorio: era la terza volta in meno di trent’anni che saliva al governo un membro esterno all’aristocrazia (cfr. Cod. Iust. III 42, 6).

Il primo atto ufficiale del nuovo Augustus fu concludere al più presto possibile l’ormai annosa guerra contro i Persiani, stipulando con re Shāpūr un trattato di pace, che alcuni detrattori definirono poco onorevole: secondo i termini dell’accordo, i Romani, pur rinunciando al protettorato sull’Armenia, conservavano le province di Mesopotamia e Syria al prezzo di un gravoso indennizzo di 500.000 aurei (RSDS ll. 8-9; IGR III 1202; Zos. I 19, 1; Zon. XII 19 D.; Syncell. I 683 B.). Nondimeno, questa pacificazione fu celebrata come un successo dalla propaganda imperiale, anche se con prudenza: una serie monetale battuta per l’occasione reca la legenda Pax fundata cum Persis (cfr. RIC IV 3, 69 []).

M. Giulio Filippo Augusto Arabo. Antoninianus, Antiochia c. 244-249. AR 4,55 g. Obverso: Pax fundata cum Persis. Pax stante voltata a sinistra con ramo d’ulivo nella destra e lungo scettro nella sinistra.

In secondo luogo, Filippo rinverdì la vecchia usanza, già adottata dai predecessori fin dai tempi di Antonino Pio, di cooptare al trono un proprio familiare, in modo tale da assicurare la successione e instaurare una dinastia. Così il princeps si associò nell’Impero il figlioletto di appena sette anni, Marco Giulio Severo Filippo, attribuendogli il rango di Caesar (RIC IV 3, 216a []). Poi, per conferire maggiore legittimità al proprio regime, l’imperatore celebrò l’apoteosi di suo padre, Giulio Marino, malgrado questi non fosse mai asceso alla porpora: a conferma di ciò concorrono alcuni monetali bronzei con la legenda θεῷ Μαρίνῳ («al divo Marino») e il busto del genitore sorretto in volo da un’aquila (RPC VIII 2243; IGR III 1199-1200; cfr. [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 4, … patre nobilissimo latronum ductore).

Conclusa l’onerosa pace con i Persiani, Filippo rimase in Oriente fino all’inizio dell’estate. Avviando una tendenza, che in seguito sarebbe diventata una prassi, di decentrare il potere e delegare responsabilità ad altri, si apprende da Zosimo (I 19, 2) che l’imperatore investì il fratello maggiore, Gaio Giulio Prisco, del comando delle legioni siriane: la decisione non era casuale, ma rientrava perfettamente nel solco del progetto dinastico di Filippo. Prisco, che tuttavia non venne associato al trono, era stato praefectus praetorio sotto Gordiano III, prima come collega di Timesiteo e poi dell’Augusto fratello. Nel 244 egli conservò l’incarico di comandante del Pretorio e il titolo di vir eminentissimus (ἐξοχώτατος), ma fu insignito anche della praefectura Mesopotamiae, retta cum imperio pro consule (ἔπαρχος Μεσοποταμίας), e del ruolo di rector totius Orientis (cfr. IGR III 1201-1202; P. Euphr. 1; CIL III 14149 = ILS 9005). Tra le incombenze ricevute, a quanto sembra, Prisco si vide assegnare l’improbo compito di riscuotere le somme necessarie per pagare l’indennizzo persiano, impresa resa ancor più ardua dal fatto che la corresponsione dovesse essere in oro.

Quanto a Filippo, egli si adoperò per una riorganizzazione amministrativa delle province orientali, conferendo a diverse comunità lo statuto giuridico di colonia (richiamandosi alla politica dei Severi), e compì una serie di restauri nelle città più colpite dalla recente guerra in Syria e in Palaestina: si hanno tracce del suo passaggio a Nisibis e Singara, entrambe elevate al rango di coloniae; la chiusura della zecca di re Abgar X a Edessa, in Mesopotamia; gli interventi a Flavia Neapolis (od. Nāblus) e a Bostra (od. Buṣrā), dichiarata città metropolitana, quartier generale della Legio III Cyrenaica.

Un esattore delle imposte. Rilievo, calcare, c. II-III secolo, da Saintes.

Proprio a soli dodici miglia di distanza da Bostra, nell’Auranitis, sorgeva il villaggio che aveva visto i natali dell’imperatore. Egli lo rifondò con il nome di colonia Philippopolis (Aur. Vict. Caes. 28). I resti dell’abitato, con il suo impianto quadrangolare cinto da mura e con le porte collocate ai limiti di cardo e decumanus, conservano ancora oggi gran parte degli edifici realizzati sotto Filippo. Intorno all’incrocio tra i due principali assi viari furono disposti gli edifici più rappresentativi: il teatro, la basilica, il tetrapylon, il palazzo imperiale, il tempio esastilo dedicato alla domus divina (il Philippeion) e il sacello del Divo Marino (IGR III, 1200). Tutt’intorno furono costruiti le insulae, l’acquedotto, gli impianti termali, la necropoli e alcune residenze dalle quali provengono composizioni musive di notevole bellezza e valore artistico. La città, dopo la morte dell’imperatore, non sarebbe stata completata, rimanendo così, per certi versi, chiusa storicamente nella sua breve parentesi architettonica (si è ipotizzato che fosse stata edificata dal sovrano e per il sovrano!); Philippopolis può essere a ragione considerata l’ultima delle città romane fondate nel Levante (cfr. IGR III, 1195-1202).

Vale la pena di soffermarsi su uno dei numerosi mosaici che Philippopolis ha restituito nel 1952, opera nella quale è possibile ravvisare alcuni spunti circa la mutata concezione religiosa sotto Filippo l’Arabo. Conservato al Museo di Damasco, il reperto (337 cm x 276 cm), che ha subito qualche rimaneggiamento nelle epoche successive, è bordato da quadrati intorno ai quali si snoda il motivo della greca. Al centro si trova la figura di Gea, circondata da quattro puttini identificabili con le personificazioni romane delle Stagioni (Horae). Alle spalle della dea, sempre in posizione centrale, sono rappresentati Trittolemo, il genio benefico delle terre coltivate, a cui Demetra insegnò l’uso degli strumenti per lavorare la terra, e la personificazione dell’Agricoltura, nota col nome di Gheorghia. Sulla destra compare Prometeo, intento a modellare la prima figura umana con accanto Afrodite e, sul registro superiore, Hermes fiancheggiato da due figure femminili, fra le quali è stata individuata l’immagine di Psiche. Sulla sinistra, invece, sta seduta la figura di Aion, nel cui volto si è tentato di riconoscere l’effige dell’imperatore. Aion, il tempo assoluto, la divinità solare suprema e primordiale, opposta a Cronos proprio perché quest’ultimo rappresenta il tempo nella sua quantità e relatività, ha alle spalle le quattro Stagioni. Completa la composizione, in alto, la raffigurazione dei quattro venti principali, due per parte, con al centro due Geni che fanno sgorgare acqua sulla terra da due contenitori. Il carattere fortemente simbolico di tutta la rappresentazione si discosta dalle tradizionali scene mitologiche in cui compaiono cicli epici o divinità a sé stanti, come era d’uso nel panorama iconografico ellenistico-romano.

Allegoria del Saeculum Aureum. Mosaico, III secolo, da Philippopolis (od. Chahba, Siria). Damasco, National Museum (foto da Charboennaux 1960).

Qui, al contrario, il principale soggetto a cui alludono tutte le figure, divinità comprese, è il ciclo naturale della vita, nelle sue continue e periodiche mutazioni e rinnovamenti. Si è quindi di fronte alla celebrazione del “Buon Governo” e del Saeculum Aureum, in cui Aion (con il volto di Filippo) permette e favorisce tutte le attività. Tale visione si inserisce bene in quell’atmosfera di unificazione e pacificazione tra tutte le genti e le religioni che si stabilì in questi anni di principato. Anzi, proprio la politica religiosa di Filippo può considerarsi il coronamento delle tendenze sincretistiche degli ultimi Severi. E questo, in special modo, per quanto riguardava il rapporto con il Cristianesimo.

È infatti curioso che la tradizione patristica – Eusebio di Cesarea (HE VI 34), Giovanni Crisostomo (De sanct. Babyl. in Iulian. 6) – e più tarda – Zonara (XII 19 D) –, abbia considerato Filippo l’Arabo addirittura un seguace della nuova religione: tra i vari episodi, forse il più eclatante è quello che avrebbe visto l’imperatore presentarsi a una funzione religiosa ad Antiochia, in occasione della Pasqua, e che il vescovo Babila gli avrebbe impedito l’accesso se prima non si fosse confessato e pubblicamente pentito. D’altra parte, Eusebio riferisce che, già agli inizi del III secolo, l’Auranitis, sotto l’episcopato di Berillo di Bostra, era sede di una fiorente comunità cristiana con tanto di scuola teologica, le cui deviazioni dottrinali, sia in materia cristologica sia sull’immortalità dell’anima, avevano indotto i vescovi orientali a riunire un sinodo e ad appellarsi al prestigio di Origene di Alessandria (Euseb. HE VI 20; 33; 37); tra l’altro, lo stesso Origene fu in contatto epistolare con Filippo e l’imperatrice Marcia Otacilia Severa (Euseb. HE VI 36, 3).

Non è dato di sapere con certezza se il princeps sia stato realmente un cristiano (cfr. Oros. VII 20, 2) o se, come più prudentemente ritengono alcuni studiosi, egli abbia solo manifestato particolare simpatia verso il Cristianesimo, come aveva già fatto a suo tempo Severo Alessandro. Comunque, è curioso osservare come una simile tradizione sia stata sviluppata proprio da quei Padri della Chiesa che fino a qualche decennio prima avevano ritenuto assurdo che un imperatore romano potesse farsi cristiano! Altre fonti, successivamente, ricordano le proteste dei gentiles contro il governo di Filippo, che non perseguitava più i Cristiani (Orig. contra Cels. 3, 15), e le preoccupazioni della comunità alessandrina dopo la scomparsa dell’imperatore (Dionig. Alex. ap. Euseb. HE VI 41, 9).

Il presunto Cristianesimo di Filippo, tuttavia, non è confermato dagli autori non cristiani. Dai dati esteriori emerge, invece, che il princeps arabo fu uno strenuo propagatore dei valori tradizionali della romanità e dell’Impero, come si evince dall’apoteosi del padre e dalla forte aspirazioni a celebrare il millenario dell’Urbe. Sarebbe più prudente, perciò, considerare Filippo non solo tollerante verso ogni credo religioso, ma soprattutto desideroso di portare unità e pace nell’Impero, sotto la sovranità di una nuova dinastia, accogliendo benevolmente tutte le forze e le energie disponibili, secondo quel ciclo naturale della vita così ben espresso nel mosaico di Philippopolis.

Marcia Otacilia Severa. Busto, marmo, c. 244-249. New York, Metropolitan Museum of Art.

Completata la risistemazione dell’Oriente e lasciate istruzioni al fratello, Filippo si affrettò a raggiungere Roma come Persicus Maximus (cfr. CIL VI 1097). L’atteggiamento assunto dal nuovo uomo forte fu di continuità con il predecessore Gordiano III, nel segno di un recupero della centralità dell’Urbe: i Romani ricordavano fin troppo bene l’assenza di Massimino il Trace dalla città per tutta la durata del suo principato, mentre, da parte sua, Filippo doveva aver fatto tesoro della tragica fine del «barbaro», colpevole di aver trascurato Roma e le sue istituzioni. Oppure, più semplicemente, il nuovo sovrano sapeva perfettamente che ottenere la sanzione del Senato, del Pretorio e del Popolo romano gli avrebbe garantito la massima legittimazione al potere – una conferma che l’appellatio imperatoria delle truppe non bastava. La dedica di un altare votivo alla Victoria Redux di Filippo e Otacilia, curata da un certo Pomponio Giuliano per conto della Legio II Parthica di stanza sui Colli Albani, testimonia che l’imperatore e il suo seguito erano nell’Urbe non oltre il 23 luglio 244 (ILS 505). La permanenza in città dell’imperatore è ulteriormente confermata dall’assunzione, l’anno successivo, del consolato ordinario. Il princeps concesse ai pretoriani gli attesi donativa e al popolino i consueti congiaria del valore di 350 denarii (Chron. a. CCCLIIII 147 M); quindi, cercò di intrattenere buoni rapporti con il Senato, nonostante egli appartenesse alla classe equestre e provenisse da una lontana provincia. Si dedicò all’urbanistica della città, realizzando anche nuove costruzioni, tra le quali una fontana monumentale trans Tiberim e una residenza sul Celio (Aur. Vict. Caes. 28, 1).

Nel resto dell’Impero, comunque, l’opera di Filippo, inserendosi nella linea dei predecessori, fu quella di provvedere alla sistemazione e al rinnovamento del complesso sistema viario, lavori che solitamente erano di competenza delle amministrazioni locali: il gran numero di cippi miliari, recanti il nome di Filippo, attesta una febbrile attività nell’ambito delle infrastrutture (cfr. A. Stein, s.v. Iulius 386, RE 10, 1918, 766 []).

M. Giulio Filippo Arabo. Busto, marmo, c. 244-249. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Da ogni parte, l’ascesa al potere di Filippo fu salutata come un periodo di ritrovata pace – tema piuttosto ricorrente nella monetazione coeva (cfr., p. es., RIC IV 3, 69; 72; 99-100). Ma le difficoltà c’erano ancora e soprattutto sui fronti esterni: dalle province danubiane della Moesia e dalla Dacia giungevano notizie poco rassicuranti. Si apprende, infatti, da Zosimo (I 20, 1-2), unica fonte al riguardo, che i Carpi, una popolazione vagamente associata alla stirpe germanica, a partire forse dallo stesso 244, compirono razzie al di qua del Danubio e che invano furono contrastati, agli inizi del 245, da Messalino e da Severiano: il primo era governatore della Moesia Inferior, il secondo era cognato dell’imperatore ed era stato posto al comando delle legioni illiriche (cfr. Cod. Iust. II 26, 3). Le incursioni e i saccheggi compiuti dai barbari costrinsero Filippo ad assumere personalmente il comando delle operazioni di guerra già nello stesso 245. La presenza dell’imperatore al fronte sarebbe confermata da due documenti: una constitutio (FIRA 2, 657) promulgata il 12 novembre ad Aquae in Dacia (od. Cioroiul Nou, Romania) e trasmessa dall’Epitome Codicum Gregoriani et Hermogeniani Wisigothica; e un’iscrizione (CIL III 14191 = OGIS 519 = IGR IV 598 = FIRA 1, 107 = MAMA X 114 = AE 1898, 102+128 []) riportante il rescritto in favore degli abitanti di Aragua in Phrygia (od. Yapılcan, Turchia). Vale la pena di soffermarsi su questa epigrafe, che testimonia la disponibilità di Filippo l’Arabo nei confronti dei più deboli. L’imperatore fu interpellato da un miles centenarius frumentarius di nome Didimo, che gli sottopose la richiesta di soccorso per conto del κοινόν τῶν Ἀραγουηνῶν, vittima di abusi ed estorsioni dei funzionari imperiali. Il fatto che sia stato proprio un soldato, anziché un magistrato o un retore di professione, a recare la petizione rivela decisive trasformazioni sia nel ruolo di intermediari, assunto dai soldati, sia nelle modalità di comunicazione fra sudditi e principe. Dal momento che l’imperatore si trovava impegnato nella guerra carpica, perché non ricorrere all’intercessione di un uomo d’armi, anziché un declamatore? Come si legge nel rescritto, Filippo e suo figlio delegarono al governatore d’Asia, il proconsole Marco Aurelio Egletto, l’incarico di dirimere la questione.

Quanto alla guerra carpica, Zosimo informa che per tutto il 246 Filippo l’Arabo fu impegnato sul limes, dapprima in Moesia e poi in Dacia, dove era già nell’estate di quell’anno: egli concesse alla provincia il diritto di battere moneta. Nel quadro di un’estesa offensiva volta ad arginare le infiltrazioni di  externae gentes, Filippo riportò importanti successi anche sui Germani (presumibilmente Quadi), ricevendo il titolo onorifico di Germanicus Maximus (IGR IV 635 []; P. London 3, 951). Comunque, solo nel 247 riuscì dopo ripetuti scontri a riportare una vittoria decisiva sui Carpi, costringendoli a chiedere la pace. Il successo ottenuto fu dal principe celebrato in Roma con grande pompa e con l’attribuzione a sé stesso del cognome onorifico di Carpicus Maximus (RIC IV 3, 66, Victoria Carpica). Proprio in questa occasione il figlio di Filippo fu innalzato al rango di Augustus (CIL XI 6325; Zos. I 22, 2; Zon. XII 19 D; Oros. VII 20, 1) e alla consorte dell’imperatore, Otacilia Severa, venne conferito il pomposo appellativo di mater Augusti et castrorum et Senatus et patriae (PIR² I 462).

M. Giulio Filippo Augusto Arabo. Antoninianus, Roma c. 248. AR 4,77 g. Obverso: Co(n)sul III – Saeculares Aug(ustorum). Cippo commemorativo iscritto.

Difficilmente, nei precedenti decenni, si era giunti, come con Filippo, a un così grande consenso verso l’imperatore da parte non solo di Roma, ma anche di molte delle provincie romane. Numerose iscrizioni, provenienti da ogni parte dell’Impero, testimoniano il favore riscosso da Filippo: dediche onorifiche, altari votivi e basi di statua recano formule in honorem o d’invocazione agli dèi pro salute del principe, del Genius / Numen Augusti e della domus divina; i militari celebrano le vittorie, vere e presunte, del loro imperatore. Quale migliore premessa, quindi, a quel primo Millennio di Roma che stava per celebrarsi e per il quale fervevano imponenti preparativi. Le fonti si soffermano molto su questi festeggiamenti, avvenuti tra il 21 e il 23 aprile del 248: tre giorni e tre notti di feste ininterrotte, svolte in tutte le città dell’Impero e, naturalmente, nell’Urbe, dove si susseguirono spettacoli nei teatri, nel Colosseo e nel Circo Massimo, a cui il princeps, al suo terzo consolato, assistette dalla residenza sul Palatino (CIL VI 488; S.H.A. Gord. 33, 1; Zos. II 1-7; Aur. Vict. Caes. 28, 1; [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 3; Eutrop. IX 3; Oros. VII 20, 2; Hieron. Chron. s. a. CCXLVICCXLVII; Chron. a. CCCLIIII 147, 33 M). Le monete di questo periodo ricordano ampiamente i festeggiamenti: sui coni, corredati dalla legenda Saeculares Augustorum, sono raffigurati gli animali esotici dei ludi o sono riproposti il cippo o la colonna commemorativa dell’evento (cfr., p. es., RIC IV 3, 24c; 161; 200; 265c). La suggestione dei festeggiamenti pare abbia avuto anche riflessi letterari: forse in quell’occasione un senatore, Gaio Asinio Quadrato, pubblicò una storia di Roma in quindici libri (Χιλιετηρίς), che abbracciava appunto circa un millennio dalla fondazione dell’Urbe al principato di Severo Alessandro (Suda κ 1905, s.v. Κοδράτος = Asin. FGrHist. 97).

Per un brevissimo momento, con la celebrazione del millenario, Roma parve tornare ai fasti del passato, recuperando una tradizione viva ormai solo nella memoria. Nonostante il clima di giubileo suscitato dai ricchi apparati e dagli splendidi giochi nell’Urbe, la situazione generale nella compagine imperiale non era assolutamente delle più rosee. L’analisi documenti papiracei provenienti dall’Egitto (P. Oxy. 1, 78; 6, 970; 33, 2854; 42, 3046-3050; 3178; P. Leit. 16 = SB 8, 10208; P. Mil. Vogl. 2, 97) ha permesso di ricostruire, almeno in parte, le linee della politica economico-fiscale di Filippo l’Arabo, soprattutto per quanto concerne l’apparato amministrativo provinciale, e i tentativi di riforma del sistema tributario: questioni altrimenti oscure, a causa della grave lacuna della storiografia contemporanea. I testi pervenuti restituiscono una vera e propria crisi agraria che colpì l’Aegyptus nei primi anni di governo di Filippo (cfr. anche Or. Sibyll. XIII, 42-49; 50-51): la situazione era aggravata dalle mancate piene del Nilo, che avevano come effetti quelli di rendere meno produttivi i campi, rallentando e impoverendo le attività rurali; di conseguenza, all’abbandono dei terreni inutilizzabili (e, quindi, non tassabili) le autorità provinciali cercarono di rispondere con una revisione delle proprietà fondiarie, ridefinendone i confini. I periodi di magra e le malannate provocavano forti ripercussioni sul sistema d’imposizione fiscale, costringendo i proprietari a richiedere possibili sgravi e a cedere forzatamente i terreni. Effetti altrettanto disastrosi si ebbero sulla politica annonaria, dovuti alla difficoltà di reperimento e trasporto delle derrate alimentari provenienti dall’Egitto. Perciò, sia i funzionari pubblici sia lo stesso imperatore tentarono di introdurre innovazioni nel sistema delle prestazioni liturgiche in modo da evitare la paralisi dei rifornimenti granari. Il settore annonario era, dunque, quello più colpito proprio a causa della particolare onerosità che, in una situazione simile, comportava il servizio di rifornimento: la responsabilità era normalmente detenuta dai membri delle βουλαί cittadine, magistrati con compiti amministrativi, che, in onore al proprio ruolo, si assumevano l’incombenza di investire a fondo perduto le proprie rendite fondiarie per le liturgie (λειτουργίαι). La crisi agraria, però, costrinse molti membri della classe buleutica a rinunciare a ogni incarico pubblico: sono testimoniati casi di cessio bonorum per funzionari sfiniti dall’aggravio liturgico. Se la tassazione diretta gravava pesantemente sull’attività agricola, le liturgie allontanavano dal lavoro, a volte per anni, persone che per garantire servizi non potevano badare ai propri interessi, abbandonando la propria attività e la terra. Verificandosi simili congiunture, coloro che erano incaricati di queste prestazioni, specie quelle della riscossione dei tributi, si vedevano costretti a indebitarsi per far fronte alla responsabilità di una sfortunata esazione. Probabilmente verso la fine del suo principato (c. 248/9 ?), Filippo tentò di affrontare la crisi egiziana allargando l’onere liturgico anche ai privati cittadini (ἰδιῶται), cercando nuovi soggetti che potessero farsi carico delle prestazioni (P. Oxy. 33, 2664): molto probabilmente le persone individuate per tali incombenze furono i coloni (κωμῆται; cfr. SB 5, 7696). Inoltre, complice la spirale inflazionistica che da tempo vessava l’Impero, proprio sotto Filippo l’Arabo, il rapporto di valore tra la moneta d’oro e quella d’argento mutò considerevolmente, a scapito della seconda, al punto che per avere un aureus occorreva scambiare tra i 60 e i 65 denarii d’argento. L’aumento del prezzo dell’oro fu provocato dalla scarsità in circolazione del numerario prezioso (cfr. IGR I, 5 1330, 5008 []; 5010 []). Insomma, la “macchina” dell’Impero, già vacillante e instabile sul piano economico, sembrava precipitare verso più profonde crisi e fratture.

Oxford, Bodleian Library MS. Gr. class. g. 58 (P). P. Oxy. 6, 970, c. 244-245. Denuncia di terreni non inondati dalla piena del Nilo [].

Nuove e pressanti difficoltà militari incombevano di nuovo dal settore danubiano: pur con alcune imprecisioni, un passo di Giordane (Get. 89) tramanda che i Goti, che fino ad allora erano rimasti tranquilli, avevano ricevuto un regolare tributo e, durante l’ultima campagna persiana (242-244), avevano militato al soldo di Gordiano III, si videro togliere lo stipendium da Filippo, trasformandosi da amici a nemici di Roma (Gothi… subtracta sibi stipendia sua aegre ferentes, de amicis effecti sunt inimici). Perciò, nel corso del 248, dalle loro sedi settentrionali, sotto la guida di re Ostrogota e dei condottieri Argaito e Gunterico, cominciarono a premere e a varcare i confini della Moesia, mostrando chiaramente che la questione danubiana era tutt’altro che risolta: all’invasione si unirono anche Bastarni, Carpi, Vandali Asdingi e Taifali e l’orda, raggiunta Marcianopolis (od. Devnya, Bulgaria), la capitale della provincia, la posero sotto assedio. L’irruzione dei barbari nelle province balcaniche rivelò la debolezza della frontiera danubiana: forse per la negligenza dell’imperatore nel rispondere all’offensiva, forse per le sue politiche fiscali, il disagio e il malcontento nei confronti della dinastia orientale dilagarono tra le legioni stanziate sul limes; non sono chiari i motivi che portarono alla loro rivolta, ma, presa probabilmente coscienza di essere l’ago della bilancia in un settore così delicato e sentendosi forse poco rappresentati, i soldati della Pannonia e della Moesia acclamarono imperatore il loro comandante (ταξιάρχης), Tiberio Claudio Marino Pacaziano, di famiglia senatoria, che era subentrato a Severiano (Zos. I 21, 2; Zon. XII 19 D.; CIL III 94; AE 1965, 21; PIR² II 929-930). La ribellione di Pacaziano può essere datata grazie alle sue emissioni monetali, che offrono gli stessi identici temi di propaganda dell’imperatore in carica: un antoninianus (RIC IV 3, 6) porta sul dritto il busto radiato, drappeggiato e corazzato dell’usurpatore e la sua sequenza onomastica (Imp. Ti. Cl. Mar. Pacatianus Aug.), mentre sul rovescio reca la tradizionale personificazione di Roma assisa in trono con la legenda Romae Aetern(ae) an(no) mill(esimo) et primo. L’anti-imperatore, evidentemente, prese possesso della zecca di Viminacium, capitale della Moesia Superior, perché non sono state trovate monete di Filippo ivi coniate nell’anno X dell’era locale, cioè nel 248/9. Da lì Pacaziano emise coni che celebravano la concordia tra i soldati e la fedeltà delle truppe (Concordia militum, Fides militum), la prosperità e la pace eterna (Felicitas publica, Pax aeterna) e il ritorno dell’imperatore (Fortuna Redux).

Tib. Claudio Marino Pacaziano. Antoninianus, Viminacium c. 248-249. AR 4,33 g. Recto. Imp(erator) Ti(berius) Cl(audius) Mar(inus) Pacatianus Aug(ustus). Busto radiato, drappeggiato e corazzato dell’usurpatore, voltato a destra.

Simili agitazioni si ebbero, a quanto sembra, anche in Germania Superior, dove i militari acclamarono Augustus un certo Marco Silbannaco, personaggio noto solo da un antoninianus rinvenuto nell’odierna Lorena (RIC IV 3, 105, 1; cfr. Eutrop. IX 4), e in Dacia, dove prese il potere Sponsiano, figura non altrimenti nota se non grazie a una coppia di aurei (RIC IV 3, 106, 1), scoperti nel 1713 in Transilvania e riconosciuti autentici solo nel 2022 []. Ancora più pericolose furono le sollevazioni avvenute in Oriente: il regime fiscale instaurato da Prisco era diventato in poco tempo tanto insostenibile quanto oppressivo, al punto tale da far scoppiare dei disordini. Probabilmente l’abrasione del nome di Prisco da un’iscrizione palmirena, databile ad alcuni anni prima, è indice dell’impopolarità raggiunta dal fratello dell’imperatore (cfr. IGR III 1033). A ogni modo, nella confusione più totale, si fece proclamare Augustus un certo Marco Furio Rufo Iotapiano, esponente dell’élite di Emesa, che vantava legami di parentela con Severo Alessandro o addirittura di discendere da Alessandro Magno (PIR² IV 49). Con ogni probabilità, il rector Orientis cercò di reagire ed eliminare il pretendente, ma le fonti non chiariscono la conclusione della vicenda (cfr. Aur. Vict. Caes. 29, 2; Pol. Silv. Later. 38, in Chron. min. I, MGH AA. IX, 521; Zos. I 20, 2; I 21, 2; Or. Sibyll. XIII 89-102).

Con la presenza di ben quattro usurpatori, portati alla porpora dalle legioni sempre più affamate di bottino e di gloria, pronte a schierarsi con il primo disposto ad accontentarle, Filippo si vide sfumare il sogno di aver avviato una nuova epoca in cui l’Impero fosse felicemente unito sotto la sua guida. Una tradizione confluita in Zosimo (I 21, 1) e in Zonara (XII 19 D.), apparentemente in contraddizione con l’immagine dell’uomo duro e spietato, riporta un evento mai accaduto prima di allora nella storia di Roma: il princeps, turbato dalle circostanze, si presentò in Senato per rassegnare le sue dimissioni. La procedura, assai singolare per i costumi romani, suscitò l’immediata reazione dei patres che respinsero la proposta. Nel consesso si distinse il praefectus Urbi, Gaio Messio Quinto Decio, «uomo in vista per famiglia e dignità, stimato e dotato inoltre di ogni virtù» (γένει προέχων καὶ ἀξιώματι, προσέτι δὲ καὶ πάσαις διαπρέπων ταῖς ἀρεταῖς): egli, dimostrando la propria lealtà, affermava che le preoccupazioni del principe erano infondate e che i rivali di Filippo, indegni del titolo usurpato, sarebbero stati presto eliminati dai loro stessi fautori. Seppur sfiduciato, l’imperatore tornò sui suoi passi, riprendendo il controllo della situazione: decise di inviare proprio Decio a fronteggiare le invasioni lungo le sponde del Danubio e a ristabilire la disciplina tra i soldati Illyriciani. Il nuovo plenipotenziario, nativo di Budalia (od. Martinci, Serbia), una cittadina che sorgeva nei pressi di Sirmium, nella Pannonia Inferior, si distinse subito per abilità e rapidità d’intervento. Egli, assunto il comando delle legioni, respinse i Goti e i loro alleati, quindi, punì severamente i fautori di Pacaziano: vedendo che il generale perseguiva i colpevoli con particolare diligenza e scorgendo in lui una figura che eccelleva per capacità politica ed esperienza militare, nel giugno 249, i soldati Illyriciani decisero di fargli indossare la porpora. Stando alle fonti (Zos. I 22, 1; Zon. XII 20 D.), inizialmente riluttante a mettersi contro Filippo, considerati i rapporti con lui, successivamente Decio si decise ad affrontare in armi il suo avversario. Filippo, informato dell’appellatio imperatoria di Decio, riunite le legioni a lui fedeli, si era messo in marcia verso le province danubiane.

M. Giulio Severo Filippo II. Busto, marmo, c. ante 249. Venezia, Museo Archeologico Nazionale.

Nel settembre del 249 d.C. i due imperatori-soldati si scontrarono a Verona (Aur. Vict. Caes. 28, 10; [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 2; Eutrop. IX 3) e Filippo trovò la morte, come era d’uso, per mano amica, nella sua tenda (Or. Sibyll. XIII 79-80). Secondo un’altra tradizione, invece, risalente a Giovanni Antiocheno (FGrHist 4 F 148 = FHG IV 597 M), non ci sarebbe stata alcuna battaglia a Verona: l’imperatore sarebbe stato ucciso a tradimento negli accampamenti di Beroea (od. Veroia, Grecia settentrionale), di ritorno da una campagna vittoriosa sui barbari. Comunque sia, giunta a Roma la notizia della caduta di Filippo, suo figlio dodicenne fu barbaramente trucidato dai pretoriani (Aur. Vict. Caes. 28, 11; Eutrop. l.c.; Oros. VII 20, 4).

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L’𝐸𝑑𝑖𝑐𝑡𝑢𝑚 𝑑𝑒 𝑝𝑟𝑒𝑡𝑖𝑖𝑠 𝑟𝑒𝑟𝑢𝑚 𝑣𝑒𝑛𝑎𝑙𝑖𝑢𝑚

Salito al potere nel 284, Diocleziano ereditò un impero economicamente al collasso: nel precedente mezzo secolo di anarchia militare, infatti, il valore nominale delle monete romane aveva subito una costante e progressiva svalutazione a causa della presenza di molteplici candidati alla porpora e altrettanti usurpatori, i quali non avevano esitato a battere nuova moneta per consolidare la propria posizione, corrompendo senatori, funzionari e militari e per farsi propaganda. Di conseguenza, l’eccessivo esubero di moneta in circolazione aveva provocato la riduzione del potere d’acquisto del denaro, a cui parallelamente, si sommavano altri fenomeni perniciosi, come l’aumento dei prezzi, a sua volta prodotto in parte da periodiche carestie e dai conflitti e in parte da una speculazione selvaggia; insomma, si trattava di segnali di quella che gli economisti oggi chiamano inflazione.

C. Aurelio Valerio Diocleziano. Testa, marmo, c. 284-305, da Nicomedia. Istanbul, Museo Archeologico.

Diocleziano, dunque, concepì un progetto di riforma su vasta scala con il quale intese risanare l’economia e le finanze imperiali, revitalizzare il sistema monetario e soprattutto garantire la regolare corresponsione degli stipendia ai quadri amministrativi e militari. L’imperatore, poste fuori corso le emissioni dei predecessori, dal 294 introdusse nuovi tipi monetali e dal 1 settembre 301 attuò una serie di misure volte a rifondare l’apparato monetario, cercando di renderlo nuovamente coerente e affidabile, quale era stato al tempo di Nerone; in altre parole, l’imperatore imperniò il sistema sul rapporto tra l’aureus (5,45 g = 1/60 di libbra) e i nuovi coni: l’argenteus, il cui peso e il valore nominale lo rendevano in tutto e per tutto comparabile al denarius del principato, deteneva un contenuto di metallo prezioso pari a più del 90% e un peso teorico che si aggirava attorno ai 3 g o poco più, equivalenti a 1/96 di libbra – come riportato sui rovesci delle monete (XCVI); il follis (o nummus) era una grossa moneta di bronzo (∅ c. 30 mm), rivestita di una sottile patina d’argento (al 4%), avente un peso compreso tra i 9 e i 13 g (= 1/32 di libbra). Il rapporto di cambio tra queste monete erano i seguenti: per un argenteus ci volevano 8 folles; per un aureus 25 argentei. A causa, però, di un’eccessiva tesaurizzazione da parte della popolazione, queste nuove emissioni ebbero una circolazione di breve durata: entro il 307 scomparvero gradualmente.

C. Aurelio Valerio Diocleziano. Argenteus, Sciscia c. 294. AR 2,879 g. Obversus: Virtus – militum. Porta turrita di un castrum con i tetrarchi intenti a prestare un solenne giuramento.

Oltre alla riforma monetaria, Diocleziano cercò di fissare un tetto massimo, imponendo un calmiere, sui salari, sui prezzi delle merci, sulle prestazioni d’opera e sui servizi in genere. Il provvedimento fu varato attraverso il cosiddetto Edictum de pretiis rerum venalium tra il novembre e il dicembre del 301, sotto il consolato di Tito Flavio Postumio Tiziano e Virio Nepoziano, a nome degli Augusti, Gaio Aurelio Valerio Diocleziano e Marco Aurelio Valerio Massimiano, e i loro Caesares, Flavio Valerio Costanzo Cloro e Galerio Valerio Massimiano. Mentre la politica monetaria, perseguita per abbattere l’inflazione imperante, si limitava a introdurre nuove emissioni in sostituzione di quelle svalutate, per difendere il potere d’acquisto della moneta “buona” i tetrarchi stabilirono una relazione unica tra le singole voci di spesa e il loro valore, fissando un massimale per ogni elemento. I prezzi imposti dal decreto, dunque, furono calcolati in base al valore dell’oro (di cui una libbra corrispondeva a 72.000 denarii) e a quello dell’argento (di cui una libbra valeva 6.000 denarii), metalli il cui rapporto era di 12:1. Onde evitare confusione, è bene specificare che, dopo il crollo della monetazione argentea nel III secolo, il denarius sopravvisse come unità di calcolo nella riforma dioclezianea.

Il testo dell’Editto sui prezzi è noto, seppur in forma incompleta, dalla documentazione epigrafica, che fra Ottocento e Novecento ha restituito all’incirca 150 frammenti delle copie del rescritto, sia in latino sia in greco, provenienti per lo più dalla pars Orientis. Tra i reperti più significativi si possono menzionare, per esempio, il frammento di una stele di marmo proveniente da Platea (Achaia), contenente la copia del preambolo dell’editto (CIL III, p. 1913 = AE 1980, 66) e conservato al Museo Archeologico Nazionale di Atene, e i lacerti di un pannello marmoreo scoperti tra i resti della facciata della basilica civile di Afrodisiade in Caria (CIL III, pp. 2208-2209 = CIL XII 69 = IAphr. 231 = ILS 642).

Calco cartaceo della copia del tariffario dell’Edictum de pretiis (CIL III, p. 1913 = AE 1890, 66 [], []) da Platea (Achaia) [].

La denominazione di edictum fu ricavata dal Mommsen (1850) dalla presenza del verbo tecnico dicunt nell’esordio (praef. 4); tuttavia, nello stesso testo si fa riferimento al dispositivo anche nei termini di lex (ibid. 15) e statutum (15; 18-20). A ogni modo, si tratta di un documento complesso e per meglio comprenderlo è opportuno leggerne un passo della lunga premessa (ibid. 15), nella quale si dichiarano le ragioni e gli scopi del provvedimento:

his omnibus, quae supra conprehensa sunt, iuste ac merito | permoti, cum iam ipsa humanitas deprecari videretur, non pretia venalia rerum – neque enim fieri id iustum putatur, cum | plurimae interdum provinciae felicitate optatae vilitatis et velut quodam afluentiae privilegio glorientur – sed modum statuen|dum esse censuimus, ut, cum vis aliqua caritatis emergeretquod dii omen averterint! – avaritia, quae velut campis quadam immensitate diffusis teneri non poter‹at›, statuti nostri finibus vel moderaturae legis terminis stringeretur.

“A buon diritto, spinti da queste motivazioni, che sopra sono state passate in rassegna, siccome l’umanità stessa sembrava chiederlo con insistenza, abbiamo deciso di fissare non i prezzi delle merci in vendita – infatti, ciò non può avvenire nel modo giusto, poiché parecchie province di solito si vantano della felicità dei desiderati prezzi bassi e, per così dire, di un certo privilegio di abbondanza – bensì un loro tetto massimo, in modo tale che, nel caso in cui dovesse capitare una qualche carestia – che gli dèi allontanino un simile presagio! – l’avidità, la cui diffusione non poteva essere frenata, sarà costretta entro i limiti della nostra normativa e nei termini consentiti dalla legge”.

Scena di pagamento delle imposte. Rilievo, calcare, fine II secolo, da Neumagen. Trier, Rheinisches Landesmuseum.

Il passo mostra chiaramente la distanza ideologica del pensiero economico antico dalla moderna dottrina: l’aumento incontrollato dei prezzi e l’inflazione galoppante erano attribuiti all’avaritia di mercatores e negotiatores, che non si erano fatti scrupolo a speculare sul costo delle merci, arrivando persino a ottuplicarne il valore di mercato; non si tenevano in conto altre concause, come guerre, carestie ed epidemie, ma si addossava interamente la responsabilità della situazione al comportamento sconsiderato di una particolare categoria economico-sociale, che nel mercato aveva parte attiva. Insomma, le ragioni dell’intervento pianificato degli imperatori sembra più morale che altro. Di contro, infatti, si presumeva che in condizioni ordinarie la sovrabbondanza e il benessere procurassero non solo la felicità della popolazione ma anche la riduzione dei costi.

Allo stato attuale, è difficile formulare una valutazione complessiva di questo provvedimento, ma è comunque interessante osservare gli indicatori numerici dei prezzi calmierati, raccolti in sessantanove categorie (più un’appendice) a comporre un vero e proprio tariffario – una testimonianza utile a ricostruire il quadro economico e sociale del tempo. Vale dunque la pena di fare qualche esempio, cominciando dalle professioni (VII de mercedibus operariorum): si stabilì che un bracciante agricolo potesse ricevere fino a 25 denarii al giorno, che i lavoratori impegnati nell’artigianato (lapidarii, fabri, calcis coctores, ecc.) potessero ottenere una paga massima di 50 denarii. Secondo le disposizioni imperiali, gli oratori sive sophistae potevano incassare fino a 250 denarii al mese per ogni studente al loro seguito, mentre più contenuto era l’onorario dei grammatici (200 denarii) e dei pedagogi (50 denarii). Un avvocato, a seconda del servizio fornito ai clienti, poteva godere di una parcella fino a 250 denarii per tenere un’accusa (in postulatione) oppure fino a 1000 denarii per sostenere una difesa (in cognitione).

Frammenti di lastra marmorea iscritta (IAphr. 231) con le tariffe sui trasporti dell’Edictum de pretiis (301) da Afrodisiade (Caria). Aphrodisias Museum.

Quanto ai beni, ecco il costo massimo di alcuni generi alimentari: una libbra italica (circa poco più di 300 g) di carne di maiale ammontava fino a 12 denarii, una libbra di carne bovina valeva al massimo 8 denarii e un paio di polli era venduto a 60 denarii complessivi. Vari, a seconda della qualità e della specie, i prezzi del pesce e della verdura, come pure quelli del vino: per esempio, un sestario (circa 0,5 l) di ottimo Falerno era ceduto a 30 denarii, più del triplo del valore del comune vino da tavola (vinum rusticum). Insomma, mezzo litro di vino di qualità valeva più della paga giornaliera di un operaio agricolo.

Che l’editto non abbia conseguito i risultati auspicati è noto, dato che le sue disposizioni furono spesso ampiamente aggirate, incrementando il mercato nero. A dimostrare comunque l’importanza della prescrizione era la pesantissima sanzione prevista per i trasgressori: in caso di sovrapprezzo, contrattazioni non autorizzate o altri comportamenti illeciti, i contravventori erano puniti con la pena capitale. Nonostante le numerose condanne comminate e l’eccessivo rigore dei giudici, le merci calmierate sparirono rapidamente dal mercato, l’inflazione riprese la sua corsa e molti prodotti si vendettero sotto banco a prezzi ancora più alti, dato che i commercianti più coraggiosi si facevano pagare una sorta di indennizzo per i rischi corsi.

Un macellaio (Tib. Giulio Vitale) e il suo servo (Marco). Rilievo sepolcrale con iscrizione (CIL VI 9501), marmo, c. metà del II secolo. Roma, Villa Albani.

A proposito degli effetti negativi delle misure dioclezianee parla Lattanzio nel suo De mortibus persecutorum, la fonte più polemica nei confronti della persona e dell’operato dell’imperatore. Nonostante la tradizione storiografica ricordi Diocleziano come un grande riformatore e restauratore, pur con tutti gli errori, i fallimenti e le contraddizioni, l’apologeta lo presenta non solo come un empio e sanguinario persecutore di cristiani ma anche come un uomo debole, pieno di vizi e pessimo governante; ne denuncia il malgoverno, a causa del quale trionfano illegalità, prepotenza e arbitrio, e lo accusa di essere responsabile perfino della crisi economica del cinquantennio precedente. Quanto all’Editto sui prezzi, il prosatore cristiano rinfaccia all’imperatore gli effetti e le modalità di attuazione (Lactant. De mort. pers. 7, 6-7):

idem cum variis iniquitatibus immensam faceret caritatem, legem pretiis rerum venalium statuere conatus est; tunc ob exigua et vilia multus sanguis effusus, nec venale quicquam metu apparebat, et caritas multo deterius, donec lex necessitate ipsa post multorum exitium solveretur.

“E siccome le sue malefatte avevano prodotto un’enorme inflazione, egli cercò di fissare per legge i prezzi delle merci; al che avvenne che per cose insignificanti e senza valore il sangue scorresse a fiumi, il timore faceva sparire tutte le merci e l’inflazione subì una forte impennata, finché la legge per forza di cose non decadde, non prima di aver provocato la morte di tante persone”.

Come gli interventi in ambito monetario, dunque, anche l’Edictum de pretiis alla lunga si rivelò un fallimento: la crescita del mercato nero assunse forme così vistose e il meccanismo sanzionatorio divenne tanto insostenibile da costringere le autorità imperiali ad abrogare il provvedimento e ritornare al mercato libero.

I quattro tetrarchi con le loro famiglie. Bassorilievo su fregio, marmo, inizi IV secolo. Salonicco, Arco di Trionfo di Galerio.

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Il Laterculus Veronensis (o Registro di Verona)

Il manoscritto II (2), della Biblioteca Capitolare di Verona, databile alla prima metà del VII secolo, conserva ai ff. 225r, l. 14-226r, l. 19 una lista delle province romane risalente all’epoca di Diocleziano e Costantino. L’elenco contiene centouno province organizzate secondo il sistema delle dioeceseis (διοίκησεις) introdotto da Diocleziano alla fine del III secolo: il documento riporta sei diocesi orientali (Oriens, Pontica, Asiana, Thracia, Moesiae, Pannoniae) e sei diocesi occidentali (Britanniae, Galliae, Viennensis, Italiciana, Hispaniae, Africa). Nella parte conclusiva di questa lista, sono riportati i nomi delle gentes barbarae sottomesse all’Impero e quelli delle città sorte oltre il Reno.

Mappa dell’Impero romano durante la prima Tetrarchia di Diocleziano (284-305 d.C.).

Pubblicato per la prima volta da Scipione Maffei nel 1742 e, dopo un lungo periodo di silenzio, riscoperto da Theodor Mommsen nel 1862 ed edito con il titolo di Verzeichniss der römischen Provinzen aufgesetzt um 297, da allora il documento, convenzionalmente noto come Laterculus Veronensis (o Registro di Verona), fu oggetto di aspri dibattiti. A proposito della cronologia della compilazione, il Mommsen sosteneva che la lista fosse databile attorno al 297, ma le scoperte epigrafiche e papirologiche del XX secolo smentirono ben presto questa ipotesi. La vexata quaestio si appuntò quasi fin da subito intorno a due poli: da una parte, coloro che, con il Mommsen, ribadivano la tesi dell’omogeneità integrale del documento l’hanno variamente datato chi intorno al 305 (Costa 1912, 1834; Nesselhauf 1938, n. 2, 8-9; Stein 1959, 437), chi tra il 304 e il 314 (Keyes 1916, 196 ss.), chi ancora tra il 308 e il 315 (Bury 1923, 127 ss.), oppure tra il 312 e il 320 (Jones 1954, 21-29) o tra il 312 e il 314 (Kolbe 1962, 65 ss.) o ancora più precisamente verso il 314 (Jones 1964, 381-391); altri interpreti, invece, hanno compulsato del tutto questa tesi, attribuendo la caratteristica dell’omogeneità agli elenchi delle due partes imperii: secondo tale ricostruzione, la configurazione amministrativa delle province occidentali andrebbe datata agli anni 303-306, mentre quella delle province orientali agli anni 312-324 (Mispoulet 1906, 254 ss.; Schwartz 1937, 79 ss.; Chastagnol 1960, 3-4).

Verona, Biblioteca Capitolare. MS II (2), prima metà VII secolo, f. 225r-226r. Laterculus Veronensis – Lista delle province raggruppate in diocesi [ed. dipl. di BARNES 1982, 201-208].

In realtà, la congettura della presunta omogeneità del Registro è sempre stata molto fragile, anche perché costringerebbe a collocare il testimone in un arco di tempo davvero circoscritto. Da un lato, mentre ancora esistevano due Numidiae distinte nella primavera del 314 (Cirtensis e Militiana), quando Costantino convocò il Concilio di Arelate (od. Arles) per il 1° agosto (Optat. App. 3, 205, 33/34 Ziwsa), e le due province sarebbero state riunificate entro la fine di quell’estate (CIL VIII 18905), dall’altro i papiri contemporanei non menziona alcun governatore per l’Aegyptus Herculia (P. Cairo Isid. 73-74; cfr. Boak, Youtie 1960, 285-286; de Salvo 1964, 34 ss.), mentre il Laterculus di Verona raggruppa sotto la diocesi d’Oriente le due suddivisioni egizie della Iovia (che comprendeva il Basso Egitto e i dintorni di Alessandria) e dell’Herculea (cioè la regione a est del Delta del Nilo, con capitale Pelusium), entrambe create sotto Diocleziano. Secondo Timothy D. Barnes (1982, 204-205), sebbene il registro veronese possa apparire un documento omogeneo circa gli ultimi mesi del 314, prove più precise sulla riunificazione delle Numidiae e sulla divisione dell’Aegyptus potrebbero facilmente smentire questo assunto.

C. Aurelio Valerio Diocleziano. Follis, Nicomedia c. 294-295. Æ 9,62 g. Recto: Imp(erator) C(aesar) C(aius) Val(erius) Diocletianus P(ius) F(elix) Aug(ustus). Testa barbata e laureata dell’imperatore, voltata a destra.

Anche l’opinione che le due partes registrate siano omogenee, pur con cronologie differenti, per la quale ogni elenco delle diocesi dovrebbe presentare una certa coerenza interna, risulta decisamente smentita proprio dal caso della dioecesis Orientis: Barnes ha osservato che l’elenco veronese menziona due province chiamate Arabia (Arabia, item Arabia), seguite appunto dall’Aegyptus Iovia e dall’Aegyptus Herculea (in seguito chiamata Augustamnica). In particolare, la regione meridionale della provincia arabica di fondazione traianea era stata accorpata da quella di Palaestina già prima del 314 (Brümnow, von Domaszewski 1909): Eusebio di Cesarea nel suo De martyribus Palaestinae, infatti, riferisce che nel 307 il governatore locale aveva condannato dei cristiani ai lavori forzati nelle miniere di rame di Fenò in Palestina (Euseb. De mart. Pal. VII 2). Ora, se Fenò (od. Khirbet-Fenan) faceva parte della Palaestina nel 307 (o ancora nel 311, quando l’autore compose il suo libello), allora – secondo Barnes (1975, 277-278) – una delle due province arabiche menzionate dal Laterculus doveva essere stata soppressa ancor prima dell’istituzione dell’Aegyptus Herculea; da ciò consegue che il Registro di Verona non è assolutamente omogeneo né nella sua interezza né nelle sue singole parti.

Funzionari romani in Egitto, III secolo. Illustr. di G. Sumner.

In altre parole, lo storico britannico identifica l’Arabia Nova con l’Aegyptus Herculea, ma l’equazione proposta non trova conferma nei papiri coevi: l’argomentazione di Barnes, secondo cui all’interno della presunte provincia sarebbe esistito un νόμος Ἀραβικός (corrispondente al Delta orientale), non è convincente a causa della moltitudine di toponimi di questo genere in tutto l’Egitto. Lo studioso menziona un papiro, all’epoca ancora inedito, attestante la presenza tra il 314 e il 318 di una circoscrizione detta Νέα Ἀραβεία (Arabia Nova), e suppone che una città, Ἐλευθεροπόλις, si trovasse nei pressi dell’Herculea (inv. P. Oxy. 29 4B.48/G [6-7]a). John R. Rea (1983, 183-186), invece, ha respinto l’interpretazione di Barnes, pubblicando il papiro come P. Oxy. 50, 3574: egli, a ragione, ha osservato che esiste un’unica città chiamata Eleuteropoli (in Palaestina) e che ciò sarebbe confermato dal nome semitico del firmatario, Αὐρ(ήλιος) Μάλχος (Aurelio Malco), figlio di Gionata, che presentò la sua petizione al praeses Herculiae; conferme sulle relazioni tra questa città e Ossirinco si trovano anche altrove (P. Oxy. 14, 1722). Insomma, Rea sostiene che all’epoca in cui fu redatto il Laterculus Veronensis esistevano effettivamente due Arabiae: l’una (comprendente Eleuteropoli) era l’Arabia Nova, con capitale Petra, mentre l’altra, forse denominata Arabia Vetus, aveva come centro amministrativo la città di Bostra. Questa ricostruzione è abbastanza convincente, soprattutto perché non implica la costruzione congetturale di altre entità territoriali, come una presunta Eleuteropoli da qualche parte sul Delta del Nilo. In seguito, Barnes (1996) ha ritrattato la sua posizione, collocando la redazione del documento nel 314.

Seguendo un ordine geografico approssimativo, il Registro di Verona prosegue con un elenco delle varie gentes barbarae che si trovavano lungo i confini dell’Impero partendo da ovest, con gli Scoti (gli Irlandesi), e terminando a est sulle coste occidentali del mar Nero con i Persae. Le etnie note ai funzionari e ai militari romani dell’epoca costantiniana erano le seguenti:

Scoti. Picti. Caledonii. Rugii. Herulii. Saxones. Camari. Crinsiani. Ampsivarii. Angrivarii. Flevi. Bructer. Chatti. Burgundiones. Alamanni. Suebi. Franci. Chattuarii. Iuthungi. Armilausini. Marcomanni. Quadi. Taifali. Hermonduri. Vandali. Sarmatae. Sciri. Carpi. Scythae. Gothi. Indii. Armeni. Palmyreni. Mosoritae. Theui. Isauri. Phryges. Persae.

L’elenco continua menzionando le genti quae in Mauretania sunt e si conclude con gli abitati sorti trans Rhenum fluvium. Il registro di per sé fa capire i problemi incontrati dalle autorità imperiali, le quali dovevano cercare di raccogliere informazioni di carattere militare e civile su tutte queste popolazioni (peraltro molto variegate linguisticamente e culturalmente) e seguire la complessa politica interna ed estera di ognuna di esse così da essere pronte a fronteggiare qualunque minaccia imminente. Senza contare che queste erano soltanto le stirpi più vicine alle frontiere.

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