I Romani nutrivano una forte passione per gli spettacoli in generale (ludi publici): sebbene grande popolarità riscuotevano le rappresentazioni teatrali (ludi scaenici), le manifestazioni più amate erano senz’altro quelle marcatamente sportive, come i combattimenti gladiatori (munera), le cacce con animali esotici (venationes) e le corse dei carri (ludi circenses). Fin dall’età repubblicana questi eventi erano celebrati con regolarità in corrispondenza delle festività religiose previste dal calendario romano (ludi stati), come i ludi Apollinares in onore di Apollo, che, istituiti nel 212 a.C., si tenevano ogni anno in un periodo di otto giorni, dal 5 al 13 luglio (Liv. XXVI 23, 3; XXVII 6, 18; Per. 25, 3), e come i ludi Romani (o Magni) in onore di Giove, Giunone e Minerva, che, fondati da re Tarquinio Prisco (Liv. I 35; Eutrop. I 6), in origine si tenevano dal 12 al 14 settembre (Dion. Hal. 6, 95) e poi, dopo la morte di Cesare, si celebravano dal 4 al 19 settembre (Cic. Phil. II 4, 3; cfr. in Verr. II 52, 130). Nel corso del tempo, poi, molteplici divennero le occasioni per organizzare nuovi spettacoli, quali le esequie di un personaggio particolarmente importante, la candidatura o l’assunzione di una magistratura, l’inaugurazione di un nuovo edificio sacro, la celebrazione della vittoria o di un trionfo.
Bisogna tenere presente che nella mentalità romana, questi spettacoli non erano un semplice strumento d’intrattenimento e svago, ma costituivano un momento irrinunciabile della vita sociale e politica di ciascun cittadino, che, prendendovi parte, percepiva la propria appartenenza al corpo civico. In età repubblicana, in particolare, la partecipazione in prima persona dei magistrati nell’allestimento dei ludi publici si affermò in relazione all’importanza assunta dall’evergetismo della nobilitas: l’organizzazione delle manifestazioni non era affidata a una singola personalità, ma all’intero collegio magistratuale, il quale riceveva una determinata quota dall’aerarium stanziata appositamente per il finanziamento dei ludi. In genere, la cura degli spettacoli era a carico degli aediles, a eccezione dei ludi Apollinares, che erano di competenza del praetor urbanus (Liv. XXVI 23, 3). Ciononostante, soprattutto in occasione delle elezioni politiche, un magistrato era libero di intervenire personalmente nell’organizzazione degli eventi, investendo cospicue somme impensa sua per accrescere la propria popolarità e attirarsi il favore dell’elettorato. In questo modo, la rappresentazione più costosa e gli apparati più complessi garantivano all’editor ludorum l’opportunità di mostrare ai concittadini la propria generosità e l’idoneità ad ambire a cariche pubbliche superiori. A tal proposito, in età tardo repubblicana, questo valore attribuito agli spettacoli trovò largo favore presso i populares, tra i quali spiccava Gaio Giulio Cesare (Suet. Iul. 10).
Tra le manifestazioni che esercitavano una notevole attrattiva sulle masse molto apprezzati erano i ludi circenses, le gare dei carri trainati da una o due coppie di cavalli (bigae o quadrigae). Il luogo più grande e famoso di Roma in cui si tenevano le corse era il Circo Massimo, posto un in avvallamento tra il Palatino e l’Aventino (Liv. I 35, 8; Eutrop. I 6). In origine, come per spettacoli di altro tipo, non era un edificio in muratura: le competizioni avevano luogo in un circuito (circus) ellissoidale appositamente allestito in una zona pianeggiante della città e gli spettatori prendevano posto su tribune lignee (furcae). La monumentalizzazione della struttura fu inaugurata da Cesare (Plin. NH XXXVI 102; Suet. Iul. 39, 2) e terminata sotto Augusto (Dion. Hal. III 68, 1-4; Aug. RGDA 19; DCass. XLIX 43, 2; L 10, 3; Vitruv. Arch. I 3, 2; Cassiod. Var. III 51). L’edificio era costruito attorno a una pista (arena) lunga e relativamente stretta (c. 450 × 80 m), divisa al centro nel senso della lunghezza da una barriera (spina). Alle estremità del basamento c’erano due colonnette semicilindriche (metae), sulle quali poggiavano tre coni: ciascuno di essi presentava sulla sommità un uovo di marmo, che richiamava i Dioscuri (Castore e Polluce), protettori dei giochi, e l’uovo orfico, metafora del cosmo diviso tra luce e oscurità; la piattaforma, sulla quale erano solitamente eretti piccoli monumenti (sacelli, altari, obelischi), ospitava, infatti, sette figure a forma di uovo (ova) e altrettante figure a forma di delfino (delphini) – chiara allusione a Nettuno Equestre: queste figure venivano tolte da un apposito addetto per indicare il numero di giri compiuti dai concorrenti (cfr. Liv. XLI 27, 6): sette erano le figure, sette erano i giri che i carri dovevano compiere attorno alla spina, come sette erano i pianeti allora conosciuti (cfr. Anth. Pal. I 197; Cassiod. Var. III 51; Isid. Etym. 18, 27-41; Coripp. Iust. I 314-344; Lyd. Mens. 1, 12; 4, 30 Wuench). Sui due lati lunghi paralleli e sul lato stretto semicircolare, l’arena era circondata da file di sedili (loca) per il pubblico (cavea) – con una capienza stimata di 150.000 posti – , sorrette da sostruzioni, gallerie e arcate; l’altro lato stretto era occupato dai cancelli di partenza (carceres), dai quali uscivano i cocchi, che, a destra della spina, dovevano compiere i sette giri in senso antiorario (cfr. Liv. VIII 20, 2). Al di sopra dei carceres c’erano i palchi riservati ai magistrati organizzatori degli eventi.
I ludi circenses erano e sono ancora oggi sinonimo di intrattenimento di massa: stando al poeta Giovenale (Sat. X 77-81), nella Roma del II secolo d.C., iam pridem, ex quo suffragia nulli / vendimus, effudit curas; nam qui dabat olim / imperium, fasces, legiones, omnia, nunc se / continet atque duas tantum res anxius optat, / panem et circenses («Ormai, da quando non si vendono più voti, [il popolino] ha perso ogni interesse; un tempo esso dava tutto, il potere, le insegne, le legioni; adesso lascia fare e due sole cose spasmodicamente desidera, la distribuzione di pane e i giochi del circo»). Quasi le stesse parole in Frontone (Princ. 5, 11): populum Romanum duabus praecipue rebus, annona et spectaculis, teneri («Il popolo romano è dominato da due passioni fondamentali, ovvero le distribuzioni di grano e gli spettacoli»). Il fanatismo per le corse dei carri raggiunse in età imperiale caratteri del tutto simili a quelli dell’attuale tifo calcistico, compresi gli scontri violenti tra supporter delle opposte squadre, l’enorme popolarità dei campioni, i loro guadagni astronomici, ecc. Sul mondo poteva governare un Nerone o un Marco Aurelio, l’Impero poteva essere tranquillamente sconvolto da rivolte e guerre civili, essere minacciato dalle externae gentes, che a Roma, per umili e potenti, liberi o servi, uomini e donne, l’interrogativo più importante era se avrebbe vinto la propria squadra del cuore!
Questi spettacoli, insomma, erano in epoca imperiale la principale attrazione per la plebe: disprezzati dagli intellettuali (Plin. Ep. IX 6), oltraggiati dai Padri della Chiesa (Tert. Spect. 7-8), furono comunque lo strumento principale attraverso il quale i principes si facevano amare da milioni di persone: per esempio, è noto che Claudio allestì corse dei carri sul colle Vaticano, adornò il Circo Massimo con parapetti di marmo e mete dorate e vi assegnò dei posti riservati ai membri del Senato (Suet. Claud. 21, 2); anche Nerone, tra gli spectaculorum plurima et varia genera che offriva al popolo, non poté esimersi dall’organizzare ludi circenses (Suet. Nero 11, 1). Vitellio, durante il suo brevissimo principato, intensificò la centralità dello spettacolo come sua prassi politica, al punto tale da governare l’Impero secondo il consiglio e il capriccio dei più spregevoli istrioni e aurighi (Suet. Vit. 12, 1).
La documentazione epigrafica sull’effettivo allestimento degli spettacoli è piuttosto scarsa e distribuita in modo disomogeneo e dal punto di vista geografico e dal punto di vista giuridico. Da quanto emerge dalle iscrizioni, sembra che i ludi organizzati dai magistrati municipali non fossero tanto espressione di liberalità e munificenza, quanto piuttosto veri e propri investimenti dovuti per il mantenimento della carica. D’altra parte, il titolo di curator ludorum è attestato in maniera incerta al di fuori di Roma: la preparazione delle manifestazioni era un’impresa tanto grande che persino gli stessi imperatori, talvolta, ne affidavano il disbrigo a funzionari deputati (cfr. Tac. Ann. XIII 22). Nella maggior parte delle città, soprattutto nelle comunità più piccole, pochissimi erano gli uomini abbastanza facoltosi da potersi permettere l’allestimento di ludi circenses o munera gladiatoria. In altri casi, invece, l’importanza dell’organizzazione degli spettacoli, che costituivano senz’altro uno dei momenti più importanti della vita degli editores, è splendidamente illustrata dalle testimonianze archeologiche, ovvero dai mosaici pavimentali delle villae e delle domus dei cittadini più abbienti dell’Impero. Del resto, questo tipo di raffigurazione erano solitamente collocate nelle sale di ricevimento (atrium e triclinium), in modo tale che il dominus potesse mostrare ai propri ospiti gli spettacoli che aveva allestito; e spesso incaricavano i mosaicisti di corredare le immagini di uomini e animali con i loro nomi propri. A ogni modo, dunque, il sistema adottato per l’approntamento degli spettacoli differiva da contesto a contesto ed era condizionato dalle usanze locali e dalle capacità economiche dell‘élite.
Per esempio, nelle province galliche le architetture deputate alle corse dei carri sono sicuramente attestate a Narbo, Arelate, Vienna, Lugdunum e Mediolanum Santonum, tutte metropoli epigraficamente ricche. Il fatto che solo tre iscrizioni – da Narbo (EAOR 5, 1), Arelate (CIL XII 670) e Lugdunum (CIL XIII 1921) – menzionino eventi circensi, tutti privatamente sovvenzionati, testimonia forse che l’allestimento dei giochi fosse una pratica istituzionalizzata, una regolare mansione dei magistrati superiori. Le province iberiche, invece, forniscono testimonianze più numerose: le competizioni dei cocchi sono documentate in circa venti centri urbani, molti dei quali erano cittadine, dove però non sono state rivenute vestigia di stadi e ippodromi: per esempio, a Tucci in Baetica, dove nel corso del II secolo il flamen coloniarum immunium Lucio Lucrezio Fulviano (CIL II 1663) e il duovir Marco Valerio Marcello (CIL II 1685) impensa sua diedero giochi del circo. Queste testimonianze rivelano che in località simili, sebbene non vi fossero edifici monumentali appositi, gli sponsores facevano allestire gli eventi in spazi aperti; inoltre, la portata ridotta e i costi contenuti degli spettacoli, tenuti di solito per l’inaugurazione di un monumento o per altre speciali occasioni, possono spiegare la poca frequenza con cui venivano organizzati. Quasi paradossalmente, invece, le grandi capitali provinciali, come Tarraco, pur disponendo di imponenti edifici circensi, non hanno restituito alcun documento ufficiale che registri un solo evento sportivo.
In origine, a disputare le gare erano i giovani patrizi; con il tempo, però, la dignitas della nobiltà impedì ai rampolli delle gentes di esibirsi in pubblico, partecipando attivamente ai ludi. Così, per questo genere di manifestazioni, venivano assunti aurighi professionisti di bassa estrazione sociale, addestrati e specializzati, in grado di soddisfare le esigenze dei ludi circenses. L’aumento delle gare dei carri innalzò gli standard, favorì la competizione e incrementò la qualità nell’allenamento di cavalli e conducenti.
Agli inizi del Principato, degli uomini d’affari di classe equestre, detti domini factionum, noleggiavano le bestie e il personale di servizio a coloro che organizzavano gli spettacoli (editores ludorum): con il tempo, i domini delle squadre si resero conto del proprio potere e che senza il loro lavoro, gli sponsores non potevano offrire i giochi (cfr. Plin. NH X 34; DCass. LV 10; Suet. Nero 22; HA Comm. 16, 9).
Durante le competizioni gli aurighi guidavano i cavalli stando ritti sui cocchi, vestiti dei colori delle squadre (factiones) in lizza, la cui comparsa è stimata entro la fine del II secolo a.C.; le fazioni, organizzate in vere e proprie società sportive, erano quattro: la bianca (albata), la rossa (russata), la verde (prasina) e l’azzurra (veneta). I colori rispondevano a un preciso significato: il bianco richiamava all’inverno ed era consacrato agli Zeffiri; il rosso era il simbolo dell’estate ed era posto sotto la protezione di Marte; il verde era dedicato alla primavera e alla Madre Tellus; l’azzurro, rappresentante l’autunno, era consacrato a Nettuno (Cassiod. Var. III 51, 5). Era ben nota la preferenza di alcuni imperatori verso un particolare club: Vitellio e Caracalla furono tifosi degli Azzurri (cfr. Suet. Vit. 7, 1; DCass. LXXVIII 1, 2; 9, 7; 10, 1; 17, 4), Caligola , Nerone e Elagabalo dei Verdi (Suet. Cal. 55, 2; Nero 22, 1; SHA Elag. 19, 2) – i preferiti anche del poeta Marziale. Come accade in certe città italiane di oggi, che dispongono di due squadre calcistiche, dove il tifo per l’una o per l’altra ha anche una connotazione di “distinzione” o di “volgarità”, nella Roma imperiale la preferenza verso la prasina factio era per i “popolari”, mentre quella per la veneta era da aristocratici: per esempio, Trimalcione, dopo essersi arricchito, parteggia per gli Azzurri e sfotte gli amici più umili che tengono per i Verdi (Petr. Sat. LXX 10, 13). Vitellio fece condannare a morte dei plebei che avevano gridato: «Abbasso gli Azzurri!» (Suet. Vit. 14). Giovenale (XI 197 ss.) scrive che, se i Verdi perdevano, l’Urbe intera piombava in una disperazione tale da superare quella anticamente provata per la disfatta di Canne!
Come accade nelle moderne società atletiche, non era insolito che gli aurighi cambiassero squadra, come testimonia l’iscrizione di Sesto Vistilio Eleno (AE 2001, 268), vissuto nel I secolo: il documento offre l’istantanea di un aspirante campione, un florens puer, la cui carriera fu tragicamente spezzata da una morte prematura: il ragazzo si era appena trasferito dalla factio prasina, dov’era allenato da Orfeo, a quella veneta, dove sarebbe stato preparato da Datileo, quando morì improvvisamente all’età di 13 anni.
Come sembra suggerire l’epigrafe, le factiones dovevano disporre di “manager” o “talent-scout” (doctores), che garantivano questi trasferimenti; inoltre, lascia pensare che molti cocchieri iniziassero la loro carriera sportiva in età precocissima – come testimonia anche il titulus funerario di Crescente, un agitator factionis venetae di origine mauritana (CIL VI 10050).
Indubbiamente le factiones investivano ingenti capitali per assumere gli atleti più capaci, tanto quanto ne spendevano per acquistare i cavalli migliori alla corsa – solitamente comprati in Sicilia, in Italia meridionale, in Nord Africa e nella Penisola iberica. Per la cura delle bestie e la preparazione delle corse ogni “scuderia” poteva contare su una squadra di specialisti (cfr. CIL VI 10074-10076: aurigae, conditoresi, succonditores, sellarii, sutores, sarcinatores, medici, magistri, doctores, viatores, vilici, tentores, sparsores, hortatores). Prima delle gare, gli agitatores e i loro assistenti annusavano lo sterco dei cavalli per controllare se avessero digerito bene e se le biade fossero state opportunamente bilanciate.
La scomparsa prematura degli aurighi Eleno e Crescente testimonia la natura rischiosa di questo sport, nonché la considerazione in cui erano tenuti dal popolino come dispensatori di buona sorte o, addirittura, fattucchieri. Gli agitatores, come mostrano le fasces nelle rappresentazioni scultoree e musive, erano soliti legarsi le redini in vita: ciò aumentava non solo la manovrabilità del cocchio ma anche il rischio di essere trascinati a terra, con gravi lesioni, persino mortali, in caso d’incidente. Sebbene le cause del decesso degli aurighi non siano solitamente riportate sui tituli (a eccezione, p. es., di CIL VI 10049), i pericoli della pista sono chiaramente evidenziati dalle fonti letterarie (p. es., Cic. resp. II 68) e dalla descrizione dei rimedi medici per le ferite riportate (Plin. NH XXVIII 237). La fortuna (e non solo l’abilità) che avevano nel guidare i loro cocchi a tutta velocità, soprattutto nei punti più difficili dell’arena, suscitava un certo fascino nelle tifoserie.
I conducenti dei carri, e più ancora i loro cavalli, erano oggetto di chiacchiera ed erano gli idoli della folla, che, durante le corse, viveva momenti di puro delirio. Alcuni celebri aurighi, oltre a essere elogiati per le loro imprese, erano spesso invidiati: Scorpo, il più famoso cocchiere di età flavia (clamorosi gloria circi), morì all’età di 27 anni, dopo aver totalizzato ben 2.048 vittorie ed essersi classificato nella categoria dei miliarii (Mart. X 53); inoltre, Scorpo guadagnava 15 sacci d’oro all’ora (Mart. X 74). Quand’era ancora in vita, l’auriga Publio Elio Gutta Calpurniano aveva fatto innalzare per sé, verso la metà del II secolo, un monumento sormontato dalle statue dei suoi cavalli preferiti, corredate con i loro nomi. In una dettagliata iscrizione (CIL VI 10047) egli fece elencate le vittorie 1.127 conseguite per le quattro factiones. Per esempio, con Victor («il Vincitore»), un sauro, Calpurniano vinse 429 volte per la squadra verde (prasina): il nome benaugurale del cavallo indica probabilmente che si trattava quello di testa (equus funalis), cioè posto alla sinistra del carro; dalla sua abilità nella curva circum metas dipendeva il successo di ogni virata. Il clou della gara, infatti, era proprio il giro attorno alle metae: l’auriga, per fare la curva più stretta possibile e guadagnare tempo sui rivali, nel girare doveva cercare di rasentare le colonnie, evitando però di far ribaltare il cocchio (cfr. Varr. l. L. V 153, 3). Nell’elencare i suoi trionfi Calpurniano ha voluto distinguerli in base alla tipologia: per esempio, a pompa, cioè direttamente dopo il corteo inaugurale; o equorum anagonum, ossia con cavalli che non avevano mai corso prima. Alcuni anni dopo Calpurniano, Gaio Appuleio Diocle, agitator factionis russatae di origini lusitane, divenne la star del circo e uno tra gli atleti più pagati dell’antichità (ottenne una fortuna di circa 36.000.000 di sesterzi!): i suoi amici gli dedicarono una statua per commemorarne le vittorie. Stando all’iscrizione (CIL VI 10048; cfr. XIV 2884), l’auriga iniziò la sua carriera a 18 anni e si ritirò dalle corse a 42: in questo lasso di tempo, egli prese parte a 4.257 competizioni e ne vinse ben 1.462. L’elevato numero di gare disputate a Roma, in particolare, dimostra che i conduttori dei carri più abili partecipavano a più di una corsa al giorno.
Un’iscrizione del 275 (CIL VI 10060) rivela che a quel tempo un auriga poteva arricchirsi a tal punto da diventare egli stesso dominus factionis: è il caso di Claudio Aurelio Polifemo, dominus et agitator factionis russatae di Roma. Simile posizione fu raggiunta da un contemporaneo, un certo Marco Aurelio Libero, originario dell’Africa sahariana, divenuto dominus et agitator factionis prasinae (CIL VI 10058). L’agiatezza materiale e lo status sociale di alcuni atleti potevano aumentare anche grazie alle simpatie che alcuni principes nutrivano nei loro riguardi o ai donativa con cui i sovrani li gratificavano (Suet. Cal. 55, 2-3); si ha notizia di agitatores elevati a importanti uffici pubblici (SHA Elag. 6, 12).
Il maggior numero di tabellae defixionum relative alle attività sportive concerne le corse dei carri: circa un’ottantina di laminette plumbee proviene dai grandi ippodromi di Roma, Cartagine, Hadrumetum, Leptis Magna, Antiochia, Damasco, Apamea, Tiro, a cui va aggiunta un’ampia silloge da Caesarea. Siccome si trattava di manifestazioni che attiravano migliaia di persone, il cui malcontento poteva minacciare la stabilità di un princeps, non sorprende che i ludi circenses fossero un argomento privilegiato di maledizione. I conducenti dei carri, difatti, erano tra gli artisti e gli atleti più pagati e adorati (o odiati!) del mondo antico: ciò, unitamente all’aleatorietà e ai pericoli che insidiavano le competizioni, insieme all’ansia di vittoria degli editores e dei tifosi, fece sì che non fosse infrequente ricorrere alla magia nera per danneggiare gli avversari, scoraggiare incidenti e contrastare le imprecazioni dei rivali. Un autore cristiano del IV secolo, Anfilochio di Iconio, nei suoi Iambi ad Seleucum descrive i ludi circenses come γοητείας ἅμιλλαν, οὐχ ἵππων τάχος (v. 179, «una gara di maghi, non una corsa di cavalli»). I testi magici di maledizione relativi alle competizioni dei carri differiscono dalle defixiones per altri sport, in quanto coinvolgevano non solo le abilità e le capacità degli atleti, ma anche quelle dei loro animali. Una tavoletta (Tremel, no. 53) di II-III secolo, rinvenuta nella tomba di un funzionario imperiale in una necropoli di Cartagine, evoca lo spettro del morto affinché paralizzi i cavalli delle squadre avversarie:
Ἐξορκίζω σε ὅστις ποτ’ οὖν εἶ, νεκυδαίμων ἄωρε, κατὰ τ . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . καὶ τὰ . . . . . τα [ὀνό]ματα α . . πων
βρουραβρουρα μαρμαρει μαρμαρει αμαρταμερει απε-
ωρνομ φεκομφθω βαιεψων σαθσαθιεαω . . . . ββαιφρι
ἵνα καταδήσης τοὺς ἵππους τοῦ οὐενέτου καὶ τοῦ συνζύγου
αὐτοῦ πρασίνου . . . . . . . . ]εους σοι [ σεσημειοωμ]ένα ἐν τοῖς θα[λ]α[σσίοις]
ὀστράκοις παρακατατέθηκα ἐν τούτω τῶ σκεύει, Οὐιττᾶτον
Δηρεισῶρε Οὐικτῶρε Ἀρμένιον Νίμβον Τύριον Ἀμορε Πραικλ-
ᾶρον τὸν καὶ Τετραπλὰ Οὐρεῖλε Παρᾶτον Οὐικτῶρε
Ἰμβου]τρί[ουμ] Φονεῖκε Λίκον καὶ τοῦ συνζύγου αὐτοῦ πρα-
σίνου Δάρειον Ἄγιλε Κουπείδινε Πουγιῶνε Πρ-
ετιῶσον Προυνικὸν Δάρδανον Εἴναχον Φλόριδον Πάρδον
Σερουᾶτον Φούλγιδον Οὐικτῶρε Προφίκιον˙ κατά-
<δησον αὐτοῖς δρόμον πόδας νείκην ὁρμὴν ψυχὴν ταχύτη-
τα, ἐκκόψον ἐκνεύρωσον ἐξάρθρωσον αὐτοὺς ἵνα>
δησον αὐτοῖς τὸν δρόμον τὴν δύναμιν τὴν ψυχὴν τὴν ὁρμὴν τ-
ὴν ταχύτητα, ἄφελε αὐτῶν τὴν νείκην, ἐμπόδισον αὐ-
τοῖς τοὺς πόδας, ἐκκόψον ἐκνεύρωσον ἐξάρθρωσον αὐτοὺς ἵνα
μὴ δυνασθῶσιν τῆ αὔριον ἡμέρα ἐλθόντες ἐν
τῶ ἱπποδρόμω μήτε τρέχειν μήτε περιπατεῖν μήτε ν-
εικησαι μηδὲ ἐξελθεῖν τοὺς πυλῶνας τῶν ἱππαφ-
ίων μήτε προβαίνειν τὴν ἀρίαν μήτε τὸν σπάτιον μηδὲ
κυκλεῦσαι τοὺς καμπτῆρας, ἀλλὰ πεσέτωσαν
σὺν τοῖς ἰδίος ἡνιόχοις, Διονυσίω τοῦ οὐενέτου καὶ Λα-
μυρῶ καὶ Ῥεστουτιάνω καὶ τοῦ συνζύγου αὐτοῦ
πρασίνου Πρώτω καὶ Φηλεῖκε καὶ Ναρκίσσω […]
«Io ti supplico, chiunque tu ora sia, spirito di un morto deceduto anzitempo, per (il potere?) […] e […] i nomi […]». [Le ll. 4-5 contengono voces magicae]. «Affinché tu blocchi i cavalli degli Azzurri e quelli dei loro alleati Verdi […], ti affido i loro nomi su cocci marini in questo vaso: Vittatus, Derisor, Victor, Armenios, Nimbus, Tyrios, Amor, Praeclarus Tetraplas, Virilis, Paratus, Victor, Imboutrious, Phoenix, Likos e i cavalli dei loro alleati conducenti dei Verdi: Darius, Agilis, Cupido, Pugio, Pretiosus, Prounicus, Dardanos, Inachos, Floridus, Pardos, Servatus, Fulgidus, Victor, Prophikios; blocca loro la corsa, le zampe, la vittoria, la forza, l’audacia, la velocità, distruggili, falli impazzire, slogali, affinché blocchi loro la corsa, la forza, l’animo, l’audacia, la velocità, togligli la vittoria, ostacola loro le zampe, distruggili, falli impazzire, slogali affinché domani una volta giunti nell’ippodromo non possano correre né muoversi né vincere né lasciare le linee di partenza, non percorrano né l’area né lo spazio né facciano il giro delle mete, ma cadano coi propri cocchieri, Dioniso, Lamuro e Restuziano degli Azzurri e i loro alleati conducenti dei Verdi, Proto, Felice e Narcisso […]».
Talvolta capita che gli atleti non fossero nemmeno menzionati, mentre i nomi dei cavalli venivano elencati in modo meticoloso: in una lunga tabella rinvenuta ad Antiochia (Tremel, no. 11) sono colpiti da imprecazione ben trentasei cavalli della factio veneta – probabilmente l’intera scuderia! In altri casi i nomi degli animali e dei loro conduttori sono intenzionalmente sovrapposti, così da augurare il peggio sia agli uni sia agli altri (cfr. Tremel, no. 18; 26). Ora, tutte le testimonianze suggeriscono che, almeno fino al VII secolo, la magia fosse uno strumento caratteristico delle competizioni equestri, nonostante le disposizioni di legge che minacciavano coloro che praticassero la defixio, e che vi si facesse ricorso non tanto come un disperato, ultimo tentativo di sbarazzarsi degli avversari più tosti, quando piuttosto era de facto (se non de iure) riconosciuto come un sistema efficace per ottimizzare le prestazioni dei concorrenti.
Già alla fine del III secolo, le riforme politiche e amministrative promosse da Diocleziano, cioè la trasformazione della carica imperiale da unica a collegiale (tetrarchia), la conseguente suddivisione dell’Impero in partes e la moltiplicazione dei palatia con i loro apparati di corte, comportarono un’apparizione (adventus) sempre più rara e sporadica dei sovrani all’interno di Roma, che ormai aveva perso il suo ruolo di capitale e di sede imperiale. In questo contesto, il praefectus Urbi assunse a Roma il ruolo di principale responsabile di ogni aspetto relativo all’organizzazione dei ludi publici, fossero promossi dall’imperatore stesso o allestiti e finanziati direttamente dai magistrati cittadini. Rispetto al passato, comunque, l’ormai consolidata pratica di indire grandiosi eventi pubblici in occasione dell’entrata in carica non si configurava più come un atto spontaneo di evergetismo, ma come un vero e proprio obbligo sancito dalla legge a partire dall’epoca di Costantino (CTh. VI 4, 1-2). Quei magistrati che, essendo dotati di una limitata disponibilità economica, non erano in grado di competere con gli sponsores più facoltosi né di sobbarcarsi investimenti maggiori per la cura dei ludi, erano colpiti da pesanti sanzioni: essi dovevano corrispondere il pagamento alla città di un’ammenda pari a 50.000 modii di grano (CTh. IV 7; 11; VI 4) e rimborsare ai funzionari (censuales) le spese di cui si erano fatti carico per garantire comunque lo svolgimento degli eventi in programma (CTh. VI 4, 6). Nonostante l’onere finanziario, grandiosi spettacoli continuarono a essere celebrati dagli esponenti più abbienti dell’aristocrazia senatoria, che facevano letteralmente a gara nel proporre allestimenti sempre più costosi: nell’ottica delle famiglie più in vista di Roma, l’investimento di ingenti quantità di denaro per i ludi era uno strumento privilegiato non solo per ostentare la propria capacità patrimoniale, ma anche per ottenere visibilità e prestigio, ribadendo la propria posizione politica e sociale (Symm. Ep. IV 58, 2).
Contemporaneamente, la fondazione di più sedi imperiali ebbe l’effetto di moltiplicare le factiones circensi, che cominciarono ad assumere via via un peso socialmente e politicamente maggiore fino a divenire veri e propri gruppi di pressione: nel corso del IV secolo, in particolare, il circus si configurò come luogo privilegiato di interazione tra gli stessi sovrani e i loro sudditi. L’importanza assunta dai giochi equestri e dall’edificio nel quale essi avevano luogo è chiaramente testimoniata da Ammiano Marcellino (XXVIII 4, 29): hi omne, quod vivunt, vino et tesseris inpendunt et lustris et voluptatibus et spectaculis: eisque templum et habitaculum et contio et cupitorum spes omnis Circus est maximus: et videre licet per fora et compita et plateas et conventicula circulos multos collectos in se controversis iurgiis ferri, aliis aliud, ut fit, defendentibus («Costoro [= gli abitanti dell’Urbe] consacrano tutta la vita al vino, ai dadi, ai bordelli, ai piaceri e agli spettacoli; per loro il Circo Massimo è il tempio, la casa, l’assemblea e la meta dei loro desideri. È possibile vedere nei fori, nei trivi, nelle piazze e nei luoghi di riunione molti gruppi in preda a contrasti, poiché, chi sostiene, com’è naturale, una tesi, chi un’altra»). Non di rado, tale trasformazione fu spesso causa di drammatici eventi.
Nel 390 a Tessalonica il magister militum per Illyricum Buterico, in ottemperanza alle severe disposizioni in materia di fornicazione contro natura (CTh. IX 7, 6), ordinò l’arresto di un celebre cocchiere, colpevole di aver violentato un giovane coppiere. Il rifiuto opposto dal comandante alla richiesta di scarcerazione dell’atleta, particolarmente amato dal popolo, fece scoppiare una violenta sommossa che costò la vita allo stesso Buterico e ad altri ufficiali; probabilmente la rivolta fu promossa dal partito anti-gotico, che si opponeva alla politica imperiale dell’hospitalitas (Soz. HE VII 25, 3; Ruf. HE II 18; Theod. HE V 17; Zon. XIII 8). Com’è noto, l’incidente suscitò la collera di Teodosio, che, intenzionato a punire duramente l’affronto, non avviò alcuna inchiesta contro i colpevoli, ma pianificò accuratamente la propria vendetta: con la scusa di dare giochi nel circo, l’imperatore fece affluire la cittadinanza all’ippodromo per poi far intervenire l’esercito e massacrare la folla (Theod. HE V 18, 10). Forse per l’intercessione di Ambrogio, vescovo di Mediolanum, Teodosio sarebbe tornato sui suoi passi e avrebbe accarezzato l’idea di una revoca dell’ordine brutale (Ambros. Ep. 51, 3); tuttavia, quando la revoca fu inviata, l’eccidio era già stato compiuto, lasciando nell’arena 7.000 corpi esanimi e suscitando uno scandalo in tutto l’Impero (Ambros. Ep. 51, 6; ob Theod. 34; Paul. v. Ambros. 24; August. civ. Dei V 26; Theod. HE V 17, 3). Un altro episodio notevole dell’età tardoantica è quello che ebbe per protagonista Porfirio Calliopa, celebre auriga della squadra verde di Antiochia: nel 507, al tempo dell’imperatore Anastasio, durante la celebrazione dell’ennesima vittoria nella località di Dafne, l’atleta incitò i tifosi del circo alla violenza contro la comunità ebraica; la folla assaltò la sinagoga, ne massacrò i fedeli raccolti in preghiera, ne depredò i paramenti sacri e la diede alle fiamme; l’edificio fu poi convertito in una chiesetta per commemorare il martirio di San Leonzio (JoMal. Chron. XVI 5, 396).
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