Il Cronografo del 354

Negli ultimi mesi del 353 un facoltoso cittadino romano di nome Valentino ricevette un codice illustrato contenente un calendario per l’anno successivo; si trattava di un’opera di raffinata fattura, compilata e decorata nientemeno che dal famoso calligrafo Furio Dionigi Filocalo. L’identità dell’autore è facilmente deducibile grazie alla dedica posta all’inizio dell’opera: Valentine, floreas in Deo. Valentine, vivas, floreas. Valentine, vivas, gaudeas. Valentine, lege feliciter. Furius Dionysius Filocalus titolavit («Valentino, prospera in Dio! Valentino, lunga vita e buona fortuna [a te]! Valentino, lunga vita [a te] e sii felice! Valentino, buona lettura! Firmato da Furio Dionigi Filocalo»).

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Codex Vaticanus Barberini latinus 2154 (Romanus 1, R1, c. 1620), Cronografo del 354, f. 1r. Dedica a Valentino.

Quanto al dedicatario, gli studiosi sono divisi se identificarlo con Marco Aurelio Valerio Valentino, consolare in Numidia nel 330 e zio dell’oratore Simmaco (PLRE I, 936, n. 12), o con Aviano Valentino, consolare in Campania sotto Valentiniano I e fratello di Simmaco (PLRE I 936, n. 7).

Le belle illustrazioni inserite nel testo, anch’esse di mano del celebre calligrafo, sarebbero state le più antiche immagini a pagina intera della storia dell’arte occidentale. A parte l’eleganza esteriore, il codice era di grande utilità per un patrizio romano di epoca tardoantica. Il calendario illustrato scandiva gli eventi importanti che sarebbero stati celebrati nell’anno 354, tra cui feste tradizionali, anniversari imperiali, commemorazioni storiche e fenomeni astrologici: si trattava, insomma, del calendario pubblico dell’Urbe. Pertanto, le annotazioni e le raffigurazioni concepite per il Cronografo forniscono una preziosa fonte di informazioni storico-artistiche sulla religiosità e sulla vita pubblica nella Roma del IV secolo.

Eppure, il calendario era solo una parte di un codice manoscritto molto più ampio, compilato come un unico testo per Valentino. Evidentemente per garantire la massima praticità l’autore del dono aveva aggiunto diversi elenchi illustrati, contenenti un’ampia gamma di materiali cronologici e storici. Data la diversa natura dei contenuti, un titolo più accurato per questo codice miscellaneo sarebbe Almanacco illustrato del 354.

Berlin, Staatsbibliothek Preussischer Kulturbesitz. Codex Berlinensis Ms. lat. 61 (ante 1604), Cronografo del 354, f. 236r. Allegoria del mese di Novembre.

Dopo l’intestazione al dedicatario, l’opera forniva le quattro Τύχαι (Fortunae), ovvero le personificazioni, delle città di Roma, Costantinopoli, Treviri e Alessandria; seguiva una dedicazione imperiale (salvis Augustis) con un elenco dei natales Caesarum, per commemorare le nascite dei principes romani. Dopodiché si aprivano tre sezioni relative all’astrologia, con i sette pianeti e le loro leggende, l’effectus XII signorum (cioè i segni zodiacali e l’oroscopo dell’anno) e il calendario vero e proprio, con le allegorie dei mesi, l’elenco dei giorni e brevi componimenti in versi (distici e tetrastici). Seguivano i ritratti a piena pagina dell’Augustus Costanzo II e del Caesar Costanzo Gallo (o Giuliano?) e i fasti consulares dal 508 a.C. al 354 d.C.; una chiave per il calcolo dei cicli pasquali dal 312 al 358; la lista dei praefecti Urbi dal 254 a Vitrasio Orfito, entrato in carica l’8 dicembre 353; le deposizioni dei vescovi della città dal 255 al 352 (la lista termina con l’ultimo prelato defunto, Giulio); la memoria dei martiri cristiani e l’elenco dei vescovi romani (con l’ultimo in carica, Liberio). L’opera consta anche di una Notitia Urbis Romae, ovvero una descrizione dei quartieri (regiones) della città, una cronaca mondiale (Liber generationis) dal momento della creazione fino al 334 e una Chronica Urbis Romae dalla fondazione dell’Urbe alla morte di Licinio (324).

Il Cronografo del 354 godette di una certa fortuna nel tempo: quasi un secolo dopo, il funzionario Polemio Silvio lo consultò per predisporre un proprio calendario annotato per l’anno 449; nel 579 pare che un anonimo copista abbia utilizzato le illustrazioni di Filocalo per realizzare un planisfero; nel 602 il monaco bobbiese Colombano di Luxeuil si servì delle tavole contenute nel Cronografo per computare il ciclo pasquale. Anche una cronaca anglosassone del 689 fu esemplata dal modello romano.

È noto che la raccolta originale esisteva ancora fino al IX-X secolo, quando, per le sue associazioni con l’età costantiniana, ne fu realizzata una copia completa e fedele, l’ormai perduto manoscritto Luxemburgensis. Nello stesso periodo fu redatto un altro esemplare non illustrato, noto come Codex Sangallensis 878. Dopo l’epoca carolingia non si hanno più tracce dell’autografo tardoantico; di esso, però, sopravvivono complessivamente almeno venti copie di IV secolo.

Tübingen, Universitätsbibliothek. Manoscritto T, MS. Md2 (XV sec.), f. 320v. I pianeti Saturno, Giove e la Luna.

Nel Rinascimento, la scoperta del Luxemburgensis suscitò grande fermento, ispirando tra il Cinquecento e il Seicento una serie di nuove copie, la migliore delle quali, il Codex Romanus (oggi conservato dalla Biblioteca Apostolica Vaticana), venne eseguita sotto l’attenta supervisione dell’erudito Nicolas-Claude Fabri de Peiresc (1580-1637). La conoscenza del testo, dunque, proviene dalle copie rinascimentali superstiti.

Sebbene il Cronografo del 354 sia un documento unico del suo genere, è indubbio che in epoca tardoantica circolassero testi simili: come nessun altro reperto contemporaneo, lo studio dei contenuti e degli aspetti formali dell’opera offre preziose informazioni sulla vita quotidiana nella Roma del IV secolo, consentendo di addentrarsi nelle dinamiche sociali, politiche e religiose del mondo che l’ha prodotto.

L’opera mostra la transizione in atto dalla religiosità tradizionale romana alla progressiva cristianizzazione della classe senatoria e la tendenza all’adattamento e all’assimilazione tra la cultura classica e la nuova spiritualità.

***

Riferimenti bibliografici:

R.W. Burgess, The Chronograph of 354: Its Manuscripts, Contents, and History, JLA 5 (2012), 345-396 [].

R.W. Burgess, The New Edition of the Chronograph of 354: A Detailed Critique, ZACh 21 (2017), 383-415 [].

J. Divjak, W. Wischmeyer (eds.), Das Kalenderhandbuch von 354 – Der Chronograph des Filocalus, I [] – II [], Wien 2014.

A. Ferrua, Filocalo, l’amante della bella lettera, CivCat 90 (1939), I, 35-47.

E.A. Lowe, Codices Latini Antiquiores, Oxford 1934.

Th. Mommsen (ed.), Chronographus anni CCCLIIII, in MGH Auct. Antiq. IX: Chron. min. saec. IV. V. VI. VII. (I), Berlin 1892, 13-148 [].

C. Nordenfalk, Der Kalender vom Jahre 354 und die lateinische Buchmalerei des IV. Jahrhunderts, Göteborg 1936.

M.R. Salzman, On Roman Time: The Codex-Calendar of 354 and the Rhythms of Urban Life in Late Antiquity, Berkeley 1990.

M.R. Salzman, s.v. Chronograph von 354, DNP II (1997), 1172-1174.

O. Seeck, s.v. Chronograph vom J. 354, RE III 2 (1899), 2477-2481 [].

H. Stern, Le calendrier de 354. Étude sur son texte et sur ses illustrations, Paris 1953.

J. Strzygowski, Die Calenderbilder des Chronographen vom Jahre 354, Berlin 1888 [].

***

Sitografia:

A. Borgna, G. Cattaneo, N. Rosso (eds.), Chronica (Chronographus anni CCCLIV), digilibLT – Università degli Studi del Piemonte Orientale [].

Dionysius Filocalus, Kalendarium Anno CCCLIV Conscriptum, Documenta Catholica Omnia [].

R. Pearse (ed.), Early Church Fathers – Additional Texts, Tertullian.org [].

I primi documenti della lingua latina: i testi religiosi

Se la nascita della letteratura a Roma si deve inquadrare nel contesto più generale dell’influsso che la civiltà greca esercitò su quella latina, i suoi caratteri furono condizionati anche da alcune tradizioni culturali indigene, le cui tracce si possono riconoscere in generi pur sempre derivati dalla letteratura greca, come l’épos, l’oratoria, la storiografia ed il teatro.

Benché in Roma l’uso della scrittura fosse noto almeno dal VII secolo a.C., essa era in origine destinata esclusivamente a scopi non letterari, qual era, per esempio, la compilazione di inventari o archivi.

Le forme preletterarie erano dunque caratterizzate dall’oralità: erano infatti testi concepiti non per essere trascritti, ma per essere recitati e tramandati oralmente. Si trattava, inoltre, di composizioni anonime, poiché non sorgevano come prodotti e manifestazioni di singole individualità creative, ma come espressioni dell’intera comunità, al cui interno svolgevano una precisa funzione pratica, collegata con momenti importanti della vita sociale, politica, religiosa.

Sacerdote. Busto, marmo, c. 117-138. New York, Metropolitan Museum of Art.

In tal senso, particolarmente significativi erano i testi preletterari appartenenti alla sfera sacrale, dei riti e delle cerimonie religiose, che a Roma accompagnavano ogni situazione ed evento della vita pubblica.

Carmina è il nome dato fin dall’antichità a questi testi arcaici, formulati per pregare una divinità, per celebrare un sacrificio, per accompagnare le operazioni agricole o per sancire atti politici. Nel latino dell’età classica la parola carmen indica, in generale, una composizione in versi, ma riferito ai primi secoli della civiltà di Roma, il termine non implica necessariamente una struttura metrica.

Le particolarità del linguaggio rituale erano infatti tali da impedire una netta distinzione tra poesia e prosa; pertanto, le preghiere e le formule antichissime erano costruite secondo cadenze ritmiche chiaramente scandite, anche se non sempre riconducibili a schemi precisi e regolari: molte facevano ampio uso di procedimenti che le rendevano più suggestive all’ascolto e più facili all’apprendimento mnemonico (come parallelismi, ripetizioni, figure di suono).

In età arcaica non mancano però testi costruiti secondo specifiche strutture metriche. Il verso più antico e più importante, considerato il solo verso indigeno romano (rispetto agli altri, di derivazione greca), è il saturnio, formato dall’accostamento di due membri (detti cola), di varia lunghezza, separati da una pausa all’incirca centrale.

La struttura ritmica, variabilissima, del saturnio non è facilmente riconducibile alla metrica greca, anche se per comodità gli studiosi spesso usano la terminologia classica tradizionale per riferirsi ai singoli elementi di questo particolarissimo verso. Della vasta produzione di carmina religiosi si conoscono soltanto alcuni testi che sono stati messi per iscritto in età molto più tarda rispetto alla loro origine, dopo essere stati tramandati oralmente di generazione in generazione.

Sacerdote velato capite in atto di offrire una libagione. Statuetta , bronzo, c. II-III secolo, dalla Baviera.

Essi sono documenti preziosi delle cerimonie e dei riti più antichi e si inquadrano in una concezione pragmatica e utilitaristica della religione. Difatti, il culto romano primitivo concepiva le divinità come forze misteriose, incontrollabili, potenzialmente ostili e minacciose, che l’uomo doveva cercare di placare e di rendere propizie per mezzo della pietas, consistente nell’osservanza di precetti morali e soprattutto di norme rituali: preghiere, sacrifici, atti. I carmina dovevano dunque ottenere l’intervento di una divinità in vista di un bisogno pratico, invocandola nei modi prescritti e secondo il rituale prestabilito.

Alla vita agricola si collegava la precatio («preghiera propiziatoria») che il pater familias recitava durante la lustratio, cioè la processione espiatoria intorno a un terreno che mirava a ottenere dal dio Marte, protettore dei confini e dei poderi, la grazia di un raccolto abbondante. Essa viene riprodotta da Marco Porcio Catone il Censore nel De agri cultura (CL 141, 2-3); il testo trasmesso è sicuramente modernizzato per quanto riguarda la fonetica e la morfologia, ma conserva i caratteri originari nelle strutture sintattiche e ritmiche:

Mars pater, te precor           

quaesoque, uti sies uolens propitius mihi domo familiaeque   

nostrae: quoius rei ergo, agrum terram fundumque      

meum suouitaurilia circumagi iussi; uti tu morbos

uisos inuisosque, uiduertatem uastitudinemque, calami-         

tates intemperiasque prohibessis defendas auerrunces-            

que; utique tu fruges, frumenta, uineta uirgultaque gran-       

dire beneque euenire siris;

pastores pecuaque salua

seruassis duisque bonam salutem ualetudinemque mihi          

domo familiaeque nostrae. harunce rerum ergo, fundi

terrae agrique mei lustrandi lustrique faciendi ergo, sic-          

uti dixi, macte hisce suouitaurilibus lactentibus immo-

landis esto: Mars pater, eiusdem rei ergo, macte hisce 

suouitaurilibus lactentibus esto.

Scena sacrificale con suovetaurilia. Bassorilievo, marmo, c. I secolo. Paris, Musée du Louvre.

«O padre Marte, ti prego

e ti scongiuro, perché tu sia favorevole e propizio a me, alla casa

e alla mia famiglia; per questa grazia, dunque, intorno al mio campo,

alla mia terra, al mio fondo i suovetaurilia ho fatto condurre,

perché tu i mali visibili e invisibili, sciagura e desolazione, calamità e intemperie impedisca,

difenda e allontani, e perché messi, frumenti, viti, polloni

tu consenta di crescere e svilupparsi,

pastori e armenti conservi salvi,

dia buona salute e prosperità a me, alla casa e alla mia famiglia;

perché il mio fondo, la terra, il campo io possa purificare

e compiere il rito come ho detto: Padre Marte, sii onorato

con questi suovetaurilia di latte per te immolati».

La precatio rappresenta in modo esemplare la prosa ritmica, fortemente scandita, del carmen (e, infatti, il testo viene chiamato anche carmen lustrale). Il discorso è costruito su una successione di membri (cola) paralleli, con abbondanza di espressioni bimembri (precor quaesoque; visos invisosque) e trimembri (mihi domo familiaeque nostrae, agrum, terram fundumque meum) che creano parallelismi e ridondanze.

Scena di sacrificio. Bassorilievo, marmo, ante 79 d.C. Pompei, Vespasianeum.

Tali elementi conferiscono al discorso un ritmo scandito, cadenzato, con effetti di solennità che saranno poi ricercati con procedimenti analoghi nella poesia e nella prosa di epoca successiva.

Lo stile delle formule sacrali influenzò infatti in misura determinante la letteratura arcaica, soprattutto in contesti elevati e solenni (epica, tragedia), ma non soltanto: anche il linguaggio comico di Plauto che spesso vuole essere una parodia di quello alto e solenne, è ricchissimo di parallelismi sintattici e fonico-ritmici e di figure della ripetizione.

***

Riferimenti bibliografici:

A. Bendlin, s.v. Suovetaurilia, in R.S. Bagnall et alii (eds.), The Encyclopedia of Ancient History, Oxford 2012, 6456-6457.

E.E. Burriss, The Religious Life on a Roman Farm as Reflected in the De Agricultura of Marcius Porcius Cato, CW 21 (1927), 27-30.

M. Humm, C. Bur (éds.), Caton l’Ancien et l’hellenisme. Images, traditions et réception, Paris 2021.

C. King, The Organization of Roman Religious Beliefs, Cant 22 (2003), 275-312.

G.J. Laing, Roman Prayer and Its Relation to Ethics, CPh 6 (1911), 1801-196.

R. Lazzeroni, Contributo allo studio della preistoria del Carmen latino, ASNSP 28 (1959), 119-139.

B. Reay, Agriculture, Writing, and Cato’s Aristocratic Self-Fashioning, CAnt 24 (2005), 331-361.

H.I. Rose, De lupis, Lupercis, Lupercalibus, Mnemosyne 60 (1933), 385-402.

M.D. Usher (ed.), How to Be a Farmer: An Ancient Guide to Life on the Land, Princeton 2021.

Gli «imperii insignia»

Il concetto di potere, di imperium, è alla base della cultura politica romana fin dai suoi inizi. Già durante l’età monarchica, a quanto sembra, i reges si sforzarono di dare un volto all’autorità di cui erano investiti, articolandone i vari aspetti e spartendola fra diversi organi consultivi: ben diversa era, dunque, l’idea di regnum rispetto al modello delle grandi monarchie autocratiche orientali, in cui erano i funzionari della corte a esercitare i vari poteri come semplici emissari del re.

C. Giulio Cesare Ottaviano Augusto. Cammeo (‘Blacas Cameo’), sardonica, c. 20-50 d.C., dal Tesoro dell’Esquilino. London, British Museum.


Con il regifugium, avvenuto, secondo la tradizione, nell’anno 509/8 a.C., ci fu a Roma una vera e propria rivoluzione: nacquero le magistrature annuali, in particolare il doppio consolato, e si rese necessario un grande sforzo per riorganizzare il potere e bilanciarlo fra le varie magistrature e le assemblee popolari, in modo che sussistesse un controllo reciproco permanente.

Livio (II 1, 8-9) spiega che omnia iura, omnia insignia primi consules tenuere; id modo cautum est ne, si ambo fasces haberent, duplicatus terror uideretur. Brutus prior, concedente collega, fasces habuit; qui non acrior uindex libertatis fuerat quam deinde custos fuit («I primi consoli ne conservarono tutti i diritti, tutte le insegne; si evitò soltanto che entrambi avessero i fasci, perché non apparisse raddoppiato il terrore. Ebbe i fasci per primo, con il consenso del collega, Bruto, il quale non era stato più sollecito nel rivendicare la libertà di quanto lo fu poi nel custodirla»).

Le soluzioni adottate si radicarono in modo talmente profondo nelle coscienze dei Romani, che anche con l’avvento dell’Impero, quasi cinque secoli dopo, gli imperatori continuarono a esercitare il proprio potere rivestendo le magistrature più importanti o attribuendosi le prerogative di tali magistrature: così avvenne per il consolato, ricoperto direttamente, e per la tribunicia potestas, esercitata in modo continuativo, pur senza l’attribuzione formale della carica tribunizia.

Un console (consul) in tenuta da campagna, con il suo seguito di scribae e lictores. Illustrazione di A. McBride.


Per esprimere visivamente un’idea di potere tanto forte fu elaborata fin dalle origini una complessa simbologia, fatta di oggetti e capi d’abbigliamento che dovevano evocare immediatamente di fronte agli occhi della plebs urbana, e più tardi di fronte ai sudditi dell’Impero, tutta la dignitas e l’ineluttabilità dell’imperium. Ma non si trattò di una creazione ex novo: come in tanti altri ambiti, anche in questo i Romani non fecero che riprendere ed elaborare elementi desunti dalle culture vicine.

La civiltà più sviluppata con la quale i Romani erano entrati in contatto nei primi secoli della loro storia era senza dubbio quella etrusca. Sebbene anche le altre popolazioni italiche praticassero sistemi che prevedevano magistrature distinte con durata limitata nel tempo, erano proprio gli Etruschi ad aver sviluppato il sistema più complesso di distribuzione del potere ed erano probabilmente gli unici ad avere associato alle varie cariche veri e propri simboli.

Koson di Tracia. Statere, Skythia, Au 8, 37 g. Recto: KOΣΩN; un console romano accompagnato da due littori.

Ciò è tanto più notevole, in quanto la cultura più raffinata del bacino del Mediterraneo, quella greca, che tanto influì su quelle italiche, non elaborò mai niente di simile, se si eccettuano alcuni elementi di provenienza orientale, riservati alla rappresentazione del potere monarchico. Gli stessi scrittori antichi ammettevano senza timore che Roma, ai suoi primordi, aveva ripreso dall’Etruria le insegne del potere (imperii insignia), da Tarquinia, all’epoca dei Tarquini, secondo Strabone (V 2, 2), λέγεται δὲ καὶ ὁ θριαμβικὸς κόσμος καὶ ὑπατικὸς καὶ ἁπλῶς ὁ τῶν ἀρχόντων ἐκ Ταρκυνίων δεῦρο μετενεχθῆναι καὶ ῥάβδοι καὶ πελέκεις καὶ σάλπιγγες καὶ ἱεροποιίαι καὶ μαντικὴ καὶ μουσική, ὅσῃ δημοσίᾳ χρῶνται Ῥωμαῖοι («si dice che anche le insegne dei trionfi e quelle dei consoli e, in generale, dei magistrati furono portate a Roma da Tarquinia così pure i fasci, le asce, le trombe e i riti sacrificali e la divinazione e tutta la musica di cui fanno uso in Roma nelle pubbliche manifestazioni»); da Vetulonia, seguendo una tradizione riportata da Silio Italico (VIII 483-487), Vetulonia […] bissenos haec prima dedit praecedere fasces / et iunxit totidem tacito terrore securis; / haec altas eboris decorauit honore curulis / et princeps Tyrio uestem praetexuit ostro («Vetulonia […] fu la prima a far precedere dodici fasci e a congiungere a essi con silenzioso terrore altrettanti scuri; questa abbellì con eburneo decoro l’alte sedie curuli e per prima orlò la veste con porpora tiria»).


L’archeologia non ha fatto altro che confermare questa testimonianza: una scoperta eccezionale proviene appunto da Vetulonia, risalente al VII secolo, epoca in cui nell’Urbe si insediavano i re etruschi; un ammasso apparentemente informe di ferro arrugginito si è rivelato essere nient’altro che un fascio littorio, il celebre simbolo di potere tornato in auge come effige del totalitarismo novecentesco.

Scena di divinazione augurale (?). Lastra, pietra policroma, metà IV sec. a.C. dalla Necropoli della Banditaccia (Cerveteri). Paris, Musée du Louvre

Una sella curulis della fine del VI secolo proviene da una tomba di Bologna, l’etrusca Felsina: si trattava del tipico seggio pieghevole destinato a Roma ai magistrati di alto rango. Un modellino di lituus, il bastone ricurvo da pastore che a Roma caratterizzava l’alto sacerdozio augurale, proviene da una sepoltura ceretana di inizio V secolo. Ancora sellae curules e litui appaiono su lastre fittili e su pitture tombali del tardo periodo arcaico (fine VI-inizio V secolo a.C.). Il segno del potere per eccellenza era comunque il trono: per una serie di fortunate circostanze si è conservato quasi integro anche un seggio in legno finemente decorato, proveniente da una tomba principesca di Verrucchio (RN). Sepolcreti tirrenici più tardi, ormai di IV o di III secolo, mostrano personaggi in toghe caratterizzate dal bordo purpureo, identiche alla toga praetexta, indossata dai senatori, e addirittura una figura che indossa la toga picta, integralmente tinta di porpora, riservata a Roma agli imperatores (“comandanti vittoriosi”).

Ti. Claudio Nerone Augusto. Sesterzio, Roma 22-23. Æ 27,32 g. Recto: Civitatibus Asiae restitutis. Il principe assiso sulla sella curulis con scettro e patera, voltato a sinistra.


Nell’Urbe i magistrati superiori erano accompagnati dai lictores armati di fasci, costituiti da verghe annodate con al centro una scure: erano dodici per i consules e sei per i praetores. Altri accompagnatori (apparitores) dei magistrati, invece, portavano invece semplici verghe o fruste. Un altro membro del seguito recava la sella curulis, consentendo al magistrato (detto appunto curulis) di sedere ovunque ricadesse la propria iurisdictio per esercitare le proprie funzioni. Ugualmente, i sacerdoti maggiori, che esercitavano un potere non indifferente, amministrando rituali fondamentali per lo svolgimento della vita pubblica romana, detenevano simboli caratteristici: gli augures, appunto, avevano come attributo il lituus, con il quale officiavano le proprie cerimonie.

Due uomini, forse due augures. Affresco, c. 530-520 a.C. dalla Tomba degli Auguri (Tarquinia).


L’abbigliamento, come si è visto, aveva una forte valenza di status symbol e costituiva la rappresentazione materiale dell’imperium. I senatori portavano comunemente la toga praetexta, dotata di un largo bordo purpureo (latus clauus), che li differenziava dagli esponenti dell’ordo equestris, anch’essi aventi diritto alla praetexta, seppure con orlo più ristretto (angustus clauus). In epoca repubblicana, inoltre, soltanto il magistrato trionfatore poteva indossare la toga picta, unicamente nel giorno dei festeggiamenti.

Senatore romano in toga. Illustrazione di K. Kawashima.


I flamines, i sacerdoti preposti al culto delle divinità maggiori, indossavano un copricapo di cuoio sormontato da un elemento a punta, detto apex o galerus. Curioso era l’abbigliamento dell’haruspex, ministro di culto di origine etrusca che traeva presagi dall’esame delle viscere delle vittime: era dotato di un mantello di pelo con cappuccio.
L’adattamento operato dai Romani ai simboli tirrenici del potere conferì a queste e ad altre insegne significati precisi e distinti, in relazione alle singole cariche pubbliche e sacerdotali. Un altro fenomeno notevole fu quello della loro sacralizzazione: per esempio, gli attributi del trionfatore erano associati a Giove Ottimo Massimo e, perciò, insieme alle spolia opima erano solitamente consacrati al tempio capitolino.

L’importanza di questi simboli, in parte adottati anche in altre città italiche, non venne mai meno nel corso della storia romana: il loro valore rimase talmente forte, preciso e immediato, che ancora in età imperiale si ritrovano raffigurazioni degli stessi simboli isolati; in altre parole, soltanto il loro aspetto bastava a evocare il potere corrispondente. Inutile dire che vi furono anche numerosi abusi: le sellae curules e i fasces si trovano rappresentati anche su monumenti funerari di personaggi che non ricoprirono mai gli honores che avrebbero dato diritto a fregiarsi di quelle insegne.

Processione dei flamines (con apex e galerus) e altri sacerdoti. Rilievo, marmo bianco, 9 a.C., dal fregio A, lato ovest, dell’Ara Pacis. Roma, Museo dell’Ara Pacis.

È significativo, invece, che i simboli del regnum tardarono a tornare in auge durante il principato e il primo impero: solo verso l’età tardo-antica furono comunemente usati la corona radiata, lo scettro e il globo, simboli di un potere ecumenico sull’orbe terracqueo.

***

Riferimenti bibliografici:


A. Abaecherli Boyce, The Origin of “Ornamenta Triumphalia”, CPh 37 (1942), 130-141.
B. Bergmann, Der Kranz des Kaisers. Genese und Bedeutung einer römischen Insignie, Berlin-New York 2010.
J. Bleicken, s.v. Imperium, KlP 2 (1967), 1381-1383
L. Bonfante Warren, Roman Triumph and Etruscan Kings: The Changing Face of the Triumph, JRS 60 (1970), 49-66.
L. Bonfante Warren, The Language of Dress: Etruscan Influences, Archaeology 31 (1978), 14-26.
L. De Bois, P. Erdkamp, O. Hekster, G. De Kleijn, S. Mols (eds.), The Representation and Perception of Roman Imperial Power: Proceedings of the Third Workshop of the International Network Impact of Empire (Roman Empire, c. 200 B.C. – A.D. 476), Rome, March 20-23, 2002, Leiden-Boston 2003.
F.K. Drogula, Imperium, Potestas, and the Pomerium in the Roman Republic, Historia 56 (2007), 419-452.
F.K. Drogula, Commanders and Command in the Roman Republic and Early Empire, Chapell Hill 2015.
C. Elliott, Purple Past: Color Codification in the Ancient World, L&SI 33 (2008), 173-194.
A. Giovannini, Consulare imperium, Basel 1983.
S.J. Harrison, Augustus, the Poets, and the Spolia Opima, CQ 39 (1989), 408-414.
A. Lintott, What Was the “Imperium Romanum”?, G&R 28 (1981), 53-67.
A. Magdelain, Recherches sur l’«imperium». La loi curiate et les auspices d’investiture, Paris 1968.
J.S. Richardson, Imperium Romanum: Empire and the Language of Power, JRS 81 (1991), 1-9.
R.T. Ridley, The Extraordinary Commands of the Late Republic: A Matter of Definition, Historia 30 (1981), 280-297.
J.-M. Roddaz, Imperium : nature et compétences à la fin de la République et au début de l’Empire, CCGG 3 (1992), 189-211.
E.T. Salmon, The Evolution of Augustus’ Principate, Historia 5 (1956), 456-478.
T. Schäfer, Imperii insignia: Sella curulis und fasces. Zur Repräsentation römischer Magistrate, Mainz 1989.
J. Sheid, L’investiture impériale d’après les commentaires des arvales, CCGG 3 (1992), 221-237.
E.S. Staveley, The “Fasces” and “Imperium Maius”, Historia 12 (1963), 458-484.
E. Tassi Scandone, Verghe, scuri e fasci littori in Etruria. Contributi allo studio degli insignia imperii, Roma-Pisa 2001.
M. Torelli, «Insignia imperii». La genesi dei simboli del potere nel mondo etrusco e romano, Ostraka 16 (2006), 407-430.
M. Torelli, Funera Tusca: Reality and Representation in Archaic Tarquinian Painting, SHA 56 (1999), 146-161.
F.J. Vervaet, The High Command in the Roman Republic. The Principle of the “summum imperium auspiciumque” from 509 to 19 BCE, Stuttgart 2014.
O. Wanscher, Sella curulis. The Folding Stool, an Ancient Symbol of Dignity, Copenaghen 1980.
H. Wolfram, Splendor Imperii: Die Epiphanie von Tugend und Heil in Herrschaft und Reich, Graz-Köln, 1963.

Conservare la memoria

Nel VI libro delle sue Historiae, lo storico Polibio di Megalopoli, la cui prospettiva culturale lo induce a confrontarsi con l’ordinamento socio-politico romano, descrive integralmente il rituale funebre aristocratico (funus gentilicium), a cui ebbe più volte modo di assistere, con maggiore dovizia di dettagli rispetto a uno storico latino, indifferente ad alcuni particolari perché abituato a questo genere di cerimonie, ma anche con l’emozione e l’interesse di chi – straniero – si trovava a partecipare a un’usanza così caratteristica e così inusuale (VI 53-54, 2).

Ὅταν γὰρ μεταλλάξῃ τις παρ’ αὐτοῖς τῶν ἐπιφανῶν ἀνδρῶν, συντελουμένης τῆς ἐκφορᾶς κομίζεται μετὰ τοῦ λοιποῦ κόσμου πρὸς τοὺς καλουμένους ἐμβόλους εἰς τὴν ἀγορὰν ποτὲ μὲν ἑστὼς ἐναργής, σπανίως δὲ κατακεκλιμένος. πέριξ δὲ παντὸς τοῦ δήμου στάντος, ἀναβὰς ἐπὶ τοὺς ἐμβόλους, ἂν μὲν υἱὸς ἐν ἡλικίᾳ καταλείπηται καὶ τύχῃ παρών, οὗτος, εἰ δὲ μή, τῶν ἄλλων εἴ τις ἀπὸ γένους ὑπάρχει, λέγει περὶ τοῦ τετελευτηκότος τὰς ἀρετὰς καὶ τὰς ἐπιτετευγμένας ἐν τῷ ζῆν πράξεις.

δι’ ὧν συμβαίνει τοὺς πολλοὺς ἀναμιμνησκομένους καὶ λαμβάνοντας ὑπὸ τὴν ὄψιν τὰ γεγονότα, μὴ μόνον τοὺς κεκοινωνηκότας τῶν ἔργων, ἀλλὰ καὶ τοὺς ἐκτός, ἐπὶ τοσοῦτον γίνεσθαι συμπαθεῖς ὥστε μὴ τῶν κηδευόντων ἴδιον, ἀλλὰ κοινὸν τοῦ δήμου φαίνεσθαι τὸ σύμπτωμα.

μετὰ δὲ ταῦτα θάψαντες καὶ ποιήσαντες τὰ νομιζόμενα τιθέασι τὴν εἰκόνα τοῦ μεταλλάξαντος εἰς τὸν ἐπιφανέστατον τόπον τῆς οἰκίας, ξύλινα ναΐδια περιτιθέντες. ἡ δ’ εἰκών ἐστι πρόσωπον εἰς ὁμοιότητα διαφερόντως ἐξειργασμένον καὶ κατὰ τὴν πλάσιν καὶ κατὰ τὴν ὑπογραφήν. ταύτας δὴ τὰς εἰκόνας ἔν τε ταῖς δημοτελέσι θυσίαις ἀνοίγοντες κοσμοῦσι φιλοτίμως, ἐπάν τε τῶν οἰκείων μεταλλάξῃ τις ἐπιφανής, ἄγουσιν εἰς τὴν ἐκφοράν, περιτιθέντες ὡς ὁμοιοτάτοις εἶναι δοκοῦσι κατά τε τὸ μέγεθος καὶ τὴν ἄλλην περικοπήν.

οὗτοι δὲ προσαναλαμβάνουσιν ἐσθῆτας, ἐὰν μὲν ὕπατος ἢ στρατηγὸς ᾖ γεγονώς, περιπορφύρους, ἐὰν δὲ τιμητής, πορφυρᾶς, ἐὰν δὲ καὶ τεθριαμβευκὼς ἤ τι τοιοῦτον κατειργασμένος, διαχρύσους. αὐτοὶ μὲν οὖν ἐφ’ ἁρμάτων οὗτοι πορεύονται, ῥάβδοι δὲ καὶ πελέκεις καὶ τἄλλα τὰ ταῖς ἀρχαῖς εἰωθότα συμπαρακεῖσθαι προηγεῖται κατὰ τὴν ἀξίαν ἑκάστῳ τῆς γεγενημένης κατὰ τὸν βίον ἐν τῇ πολιτείᾳ προαγωγῆς ὅταν δ’ ἐπὶ τοὺς ἐμβόλους ἔλθωσι, καθέζονται πάντες ἑξῆς ἐπὶ δίφρων ἐλεφαντίνων.

οὗ κάλλιον οὐκ εὐμαρὲς ἰδεῖν θέαμα νέῳ φιλοδόξῳ καὶ φιλαγάθῳ· τὸ γὰρ τὰς τῶν ἐπ’ ἀρετῇ δεδοξασμένων ἀνδρῶν εἰκόνας ἰδεῖν ὁμοῦ πάσας οἷον εἰ ζώσας καὶ πεπνυμένας τίν’ οὐκ ἂν παραστήσαι; τί δ’ ἂν κάλλιον θέαμα τούτου φανείη;

πλὴν ὅ γε λέγων ὑπὲρ τοῦ θάπτεσθαι μέλλοντος, ἐπὰν διέλθῃ τὸν περὶ τούτου λόγον, ἄρχεται τῶν ἄλλων ἀπὸ τοῦ προγενεστάτου τῶν παρόντων, καὶ λέγει τὰς ἐπιτυχίας ἑκάστου καὶ τὰς πράξεις. ἐξ ὧν καινοποιουμένης ἀεὶ τῶν ἀγαθῶν ἀνδρῶν τῆς ἐπ’ ἀρετῇ φήμης ἀθανατίζεται μὲν ἡ τῶν καλόν τι διαπραξαμένων εὔκλεια, γνώριμος δὲ τοῖς πολλοῖς καὶ παραδόσιμος τοῖς ἐπιγινομένοις ἡ τῶν εὐεργετησάντων τὴν πατρίδα γίνεται δόξα.

Processione per le esequie di un patrizio romano. Illustrazione di M. Todaro.

Quando fra loro muore un personaggio in vista, durante la celebrazione delle esequie, egli viene trasportato, con tutti gli onori, presso i cosiddetti rostra, nel Foro, a volte in posizione eretta, in modo da essere ben visibile, raramente adagiato. Mentre tutto il popolo gli sta attorno, un figlio – se il defunto ne ha lasciato uno in età adulta e se questi si trova presente –, oppure se non c’è, un altro parente, sale sulla tribuna e parla delle virtù del defunto e dei successi da lui conseguiti in vita.

Ne consegue che la folla, ricordando e richiamando alla mente gli eventi – non solo coloro che hanno preso parte ai fatti, ma anche gli estranei –, è tanto commossa che non sembra trattarsi di una disgrazia privata, limitata alle persone in lutto, ma comune a tutto il popolo.

Poi, dopo aver seppellito il morto e aver compiuto i riti tradizionali, si pone l’immagine del defunto nel punto più in vista della casa, all’interno di un tempietto di legno. Si tratta di una maschera realizzata in modo da essere notevolmente somigliante, sia per com’è modellata la figura sia per i suoi lineamenti. Quando espongono queste immagini durante i sacrifici finanziati a spese pubbliche, le adornano con cura, e quando viene a mancare un altro congiunto illustre le portano al funerale, facendole indossare a quelli che sembrano somigliare maggiormente ai defunti per statura e aspetto generale.

Costoro indossano, inoltre, vesti orlate di porpora, se il morto è stato console o pretore, color porpora se è stato censore, ricamate d’oro se ha celebrato il trionfo o qualche onorificenza simile. Costoro, dunque, procedono su carri, preceduti da fasci, scuri e altre insegne che di solito accompagnano le magistrature, a seconda della dignità della carica ricoperta da ciascuno in vita e quando arrivano ai rostra si siedono tutti in fila su seggi d’avorio.

Non è facile per un giovane amante della gloria e della virtù vedere uno spettacolo più bello: chi non resterebbe colpito nel vedere le immagini di uomini celebrati per il loro valore, tutte insieme, quasi fossero dotate di vita e respiro? Quale spettacolo potrebbe apparire più bello?

Inoltre, colui che commemora la persona che sta per essere seppellita, dopo aver pronunciato un discorso su di lei, comincia dal più antico degli altri presenti e cita i successi e le imprese di ciascuno. Di conseguenza, venendo sempre rinnovata la fama di virtù degli uomini di valore, la gloria di coloro che hanno compiuto qualche bella azione si fa immortale e la celebrità di coloro che hanno reso benefici alla patria diviene nota ai più ed è trasmessa ai posteri».

Scena di compianto funebre. Dettaglio di un rilievo su sarcofago, marmo, I sec. Paris, Musée National du Moyen Age.

Nel giorno delle esequie, annunciato per mezzo di un banditore (praeco) e all’ora stabilita, partiva dalla casa del defunto un imponente corteo (pompa funebris), con tanto di musici, tedofori, praeficae in atteggiamento di disperazione, danzatori e mimi, nonché il carro sul quale prendevano posto alcune persone che indossavano le maschere di cera degli antenati, con in testa l’avo più antico, seguito dagli altri, in rigoroso ordine cronologico. Quindi, preceduto dai lictores, vestiti di nero e con le fasces rivolte verso il basso, avanzava portata a spalla la portantina con il feretro riccamente addobbato, seguito dalla moglie, dai figli, dagli altri parenti e dei portatori di tituli.

Polibio, da estraneo, nota acutamente come fra i Romani imperasse una sorta di “fame di potere”, da intendersi non come la frenesia di accaparrarsi un posto di comando sopra e a scapito degli altri, bensì come la volontà di rivestire a tutti i costi delle cariche pubbliche, pur di nobilitare sé stessi, illustrare la propria casata e giovare alla res publica.

È risaputo che nella società romana l’individuo era subordinato alla collettività. Esemplare, a questo proposito, fu Quinto Fabio Massimo “il Temporeggiatore”: costui, a seguito della disfatta cannense (216), impegnò il proprio patrimonio, vendette le proprie terre e con il denaro della liquidazione riscattò i concittadini che erano caduti prigionieri in mano ad Annibale. A conti fatti, Fabio Massimo non domandò nulla in risarcimento né al Senato né alle famiglie dei liberati, ma ne ottenne l’infinita gratitudine, aumentando a dismisura la propria fama (Lɪᴠ. XXII 23; Pʟᴜᴛ. Fab. 7). Quanto ai riti funebri, infine, dopo aver seppellito la salma e aver compiuto le cerimonie prescritte, l’imago del defunto, maschera di cera realizzata dal calco del suo volto, era riposta negli armaria di legno nell’atrio della dimora; l’esposizione di questo oggetto, insieme alle altre maschere degli antenati, ricorda in qualche modo l’ostentazione delle spoglie dei nemici uccisi nelle case dei soldati premiati per il loro valore: prova di virtus queste ultime, di nobilitas gentilizia le altre (cfr. Pʟɪɴ. N.H. XXXV 2, 6).

Corteo funebre. Bassorilievo, pietra calcarea, metà I sec. a.C. da S. Vittorino (Amiternum). L’Aquila, Museo Nazionale d’Abruzzo.

Secondo la sequenza rituale fornita da Polibio, il defunto, lasciata la sua dimora, attraversava tutta la città passando per i luoghi più rappresentativi della sua vita; la processione, prima di recarsi al luogo di sepoltura, giungeva nel Foro romano, nel quale il morto veniva sistemato in posizione eretta, davanti ai rostra, la tribuna sulla quale aveva luogo il momento più significativo di tutto il rituale: la laudatio funebris.

I rostra, abitualmente espressione del potere e delle istituzioni repubblicane, quel giorno diventavano il palcoscenico di un singolare spettacolo, in cui il glorioso passato di un’intera gens riviveva davanti agli occhi dei cittadini grazie all’esibizione delle imagines maiorum, che, sedute tutte in fila su sellae curules, assistevano in silenzio al discorso in onore del de cuius. Alla presenza del popolo tutto, solitamente il figlio maggiorenne o il parente più stretto, salito sulla tribuna, rievocava le ἀρεταί e le πράξειϛ, le virtù e le imprese del morto, emozionando gli astanti a tal punto da coinvolgerli nel lutto.

La familia si serviva di questo per attuare un’originale celebrazione della morte: in maniera molto schematica e secondo le movenze proprie della retorica celebrativa latina, dopo aver ricordato brevemente la vita del defunto, l’oratore metteva in relazione il suo comportamento con le virtutes tradizionali, quali l’essere stato un buon padre di famiglia, l’aver osservato rigorosamente il culto degli dèi, l’essere stato moderato e contenuto nei costumi; quindi, si passava all’enumerazione degli honores ricoperti in vita e i meriti conseguiti a vantaggio della cittadinanza, ricordando vittorie, trionfi e imprese (cfr. Tᴀᴄ. Ann. XIII 3); inoltre, venivano ricordati gli exempla maiorum, a cominciare dal capostipite (προγενέστατος). In altre parole, si esaltava la nobilitas del personaggio e dei suoi avi, cioè la loro capacità di farsi notare in pubblico, in relazione all’utilità che l’intero corpo civico ne aveva tratto.

Il cosiddetto Togato Barberini. Statua, marmo, fine I secolo a.C. con testa non pertinente. Roma, Musei Capitolini.

***

Bibliografia:

C. Dᴇ Fɪʟɪᴘᴘɪs Cᴀᴘᴘᴀɪ, Imago mortis: l’uomo romano e la morte, Napoli 1997.

H.I. Fʟᴏᴡᴇʀ, Ancestor Masks and Aristocratic Power in Roman Culture, Oxford 1996.

J. Mᴀᴜʀɪɴ, Funus et rites de séparation, Aion 6 (1984), 191-208.

G.S. Sᴜᴍɪ, Ceremony and Power. Performing Politics in Rome between Republic and Empire, Ann Arbor 2005.

J.M.C. Tᴏʏɴʙᴇᴇ, Morte e sepoltura nel mondo romano, Roma 1993.

Il calendario romano

Presso i Romani era usanza indicare gli anni con i nomi dei magistrati in carica, in ablativo. Per esempio, per esprimere l’anno 62 a.C., in latino l’indicazione sarebbe la seguente: M. Tullio C. Antonio («Sotto il consolato di Marco Tullio e Gaio Antonio»). Altrimenti, i Romani computavano gli anni con un numero in ablativo a partire dalla fondazione di Roma (che la tradizione fissava al 753 a.C.): ab Urbe condita (espressione abbreviata in a.U.c.).

L’antico calendario, attribuito a re Romolo, era lunare e prevedeva dieci mesi, i cui noi erano tutti aggettivi maschili, che sottintendevano il sostantivo mensis: Martius, Aprilis, Maius, Iunius, Quinctilis, Sextilis, September, October, November, December. Poi, dal 153 a.C., i mesi furono portati a dodici con l’aggiunta di Ianuarius e Februarius. Tuttavia, alcune fonti attribuiscono l’introduzione di questi due mesi già a re Numa (cfr. Plut. Num. 18-19; Liv. I 19).

Ricostruzione grafica dei Fasti Antiates Maiores (Inscr.It. XIII 2, 42), un calendario pre-giuliano. Frammenti da un affresco dalle rovine della villa di Nerone ad Anzio.

Coerentemente con l’originario calendario lunare, ogni mese aveva tre giorni fissi, corrispondenti ad altrettanti fasi lunari (Varr. l.L. 6, 4):

  • le Kalendae («Calende»), il 1° giorno nel mese, il cui nome è etimologicamente connesso con il verbo arcaico calare, «chiamare, convocare»; si trattava del giorno in cui il pontifex maximus convocava i cittadini per annunciare le feste religiose del mese;
  • le Nonae («None»), così chiamate perché cadevano il nono giorno prima delle Idi, e cioè il 5° o il 7° giorno del mese;
  • le Idus («Idi»), che cadevano normalmente il 13° giorno, oppure il 15° giorno (in questo caso nei mesi di marzo, maggio, luglio e ottobre).

Le date dei giorni fissi erano espresse in ablativo (complemento di tempo determinato), concordate con l’aggettivo indicante il mese: Kalendis Ianuariis («il 1° gennaio»).

Gli altri giorni erano segnati con riferimento a queste date fisse, che di solito coincidevano con effettive scadenze di transazioni finanziarie, rispetto alle quali i Romani facevano un conteggio alla rovescia.

Calendario rurale (Fasti Praenestini CIL I2 1 = I.It. XIII, 2, 17 = AE 1898, 14 = 1922, 96 = 1953, 236 = 1993, 144 = 2002, 181 = 2007, 312), ante 22 d.C. Roma, Museo Nazionale Romano.

Benché possa sembrare complicato, questo criterio era funzionale alla vita pratica, visto che la data ricordava i giorni mancanti al termine. In questi casi, la data era espressa in riferimento al giorno precedente a una delle tre date fisse: per esempio, pridie Kalendas Ianuarias («il 31 dicembre»); al giorno immediatamente successivo: postridie Nonas Septembres («il 6 settembre»). Per segnalare tutti gli altri giorni del mese si calcolavano i giorni mancanti a quello fisso seguente, incluso il giorno di partenza del conteggio: per esempio, ante diem XII Kalendas Novembres, oppure die duodecimo ante Kalendas Novembres («il 21 ottobre»).

Oltre che per calcolare il tempo, il calendario aveva la funzione di indicare, per ogni giorno di ciascun mese, le attività consentite e quelle vietate. Nel computo si distinguevano innanzitutto i dies fasti, «giorni favorevoli», dai dies nefasti, «giorni sfavorevoli» (Varr. l.L. 6, 4).

L’aggettivo fastus, -a, -um, è etimologicamente legato al verbo fari («dire»), e i dies fasti erano quelli in cui era consentito ai magistrati di amministrare la giustizia, emettendo verdetti; in quelli nefasti, invece, non era possibile svolgere tali mansioni.

Sulle tavole del calendario, inoltre, erano segnati i dies comitiales, quelli in cui i cittadini facevano attività politica e praticavano qualsiasi tipo di negotium. In particolare, tra queste date, si evidenziavano i dies nundinales, cosiddetti perché cadevano ogni nove giorni: il termine nundinum (da cui nundinum, «mercato», «giorno di mercato»), infatti significa letteralmente «periodo di nove giorni»; data la grande affluenza di persone in città in occasione dei dies nundinales, era solitamente in quei giorni che si tenevano le elezioni. Talvolta, si segnavano anche dei dies intercisi (o endotercisi), cioè giorni fasti nelle ore centrali, ma nefasti il mattino e la sera.

Codex Barberini Lat. 2154 (VII-VIII sec.). Pagina dedicata al mensis December dalla Chronographia di Furio Dionisio Filocalo.

Infine, si rendeva conto delle feriae (o dies fasti), ovvero i giorni in cui si celebravano le feste, e che per questo non risultavano lavorativi (cfr. Macrob. Sat. I 16, 4-13). Dai termini feria e festus, etimologicamente affini, in italiano sono continuate diverse parole: per esempio, da festus, «festa», e da feria, «fiera», termine sostanzialmente sinonimo di «mercato» (data l’abitudine, protrattasi nel Medioevo, di tenere il mercato nei giorni di festa).

Quanto all’apparente contraddizione tra il fatto che l’aggettivo «feriale» significa «relativo al giorno lavorativo», mentre il sostantivo «ferie» significa «periodo di riposo», essa è dovuta al fatto che quando si impose il calendario ecclesiastico, che suddivideva il mese in settimane, il settimo giorno, dedicato al culto, fu detto dies dominica («giorno del Signore»), mentre gli altri sei giorni, pur lavorativi, corrispondevano comunque ciascuno alla festa (feria) di un santo specifico e, come tali, venivano numerati: il lunedì era feria I, il martedì feria II, ecc.

***

Bibliografia:

F. Bennett Anderson, Cycles of Nine, CJ 50 (1954), 131-139.

C. Bennett, The Early Augustan Calendars in Rome and Egypt, ZPE 142 (2003), 221-240.

P.S. Derow, The Roman Calendar, 190-168 B.C., Phoenix 27 (1973), 345-356.

P.S. Derow, The Roman Calendar, 218-191 B.C., Phoenix 30 (1976), 265-281.

H. Hauben, Some Observations on the Early Roman Calendar, AncSoc 11-12 (1980-1981), 241-255.

V.L. Johnson, Early Roman Chronology and Calendar, CJ 64 (1969), 203-207.

J. Ker, “Nundinae: the Culture of the Roman Week, Phoenix 64 (2010), 360-385

A. Kirsopp Michels, The “Calendar of Numa” and the Pre-Julian Calendar, TAPhA 80 (1949), 320-346.

B. Melzar Allen, The Early Roman Calendar, CJ 43 (1947), 163-168.

H.J. Rose, The Pre-Caesarian Calendar: Facts and Reasonable Guesses, CJ 40 (1944), 65-76.

J. Rüpke, The Roman Calendar from Numa to Constantine. Time, History and the Fasti, Chichester 2011.