Gli aspetti scenografici del teatro greco

di F. Ferrari, R. Rossi, L. Lanzi, Bibliothéke. Storia della letteratura, antologia e autori della lingua greca. 2. Atene e l’età classica, Bologna 2012, 10-15.

L’edificio teatrale greco è costituito da cavea, orchestra e scena. Una tarda tradizione riconnette i più antichi spettacoli teatrali in Atene all’agorà, con panche di legno e tavolati provvisori, ma in età classica le rappresentazioni si svolgevano nel teatro di Dioniso, situato ai piedi della scarpata meridionale dell’Acropoli e dominante l’area cultuale dedicata a Dioniso.

La cavea (il θέατρον vero e proprio come «luogo donde si guarda») era costituita dalle gradinate appoggiate a un pendio a conca e tagliate in senso verticale da scalinate (κλίμακες) che la dividevano in settori e in senso orizzontale da corridoi (διαζώματα) che consentivano un rapido affollamento e svuotamento del teatro.

Gli spettatori si distribuivano secondo gerarchie giuridiche e sociali: i seggi più vicini all’orchestra erano riservati agli alti funzionari della πόλις e agli orfani dei caduti in guerra, mentre il settore inferiore ai cittadini di pieno diritto.

Ricostruzione planimetrica del Teatro di Dioniso, Atene [Campanini, Scaglietti 2004, 70].

Al centro della prima fila, su una poltrona di pietra, sedeva il sacerdote di Dioniso, al quale il dio stesso si rivolge burlescamente in Aristofane, Rane 297: ἱερεῦ, διαφύλαξόν μ΄, ἵν’ ὦ σοι ξυμπότης («Ehi, sacerdote, salvami se vuoi che io continui a bere con te!»).

L’orchestra (ὀρχήστρα, cioè lo «spazio della danza»), al centro della quale sorgeva la θυμέλη («l’altare di Dioniso»), aveva un diametro di circa 20 metri o poco più e forma dapprima circolare, poi semicircolare, ma il coro (χορός) della tragedia si muoveva in formazione rettangolare (su cinque file quando il coro, con Sofocle, passo da 12 a 15 elementi) dopo aver fatto il suo ingresso preceduto da un suonatore di flauto doppio (αὐλητής).

Più liberi e variati erano i movimenti del coro comico, costituito da 24 elementi, che potevano raffigurare, oltre che uomini, esseri della più varia natura, molto spesso animali, ma anche nuvole o città (rispettivamente nelle Nuvole di Aristofane e nelle Città di Eupoli). Mentre i cori del ditirambo (διθύραμβος) eseguivano la τυρβασία circolare, la danza composta e stilizzata caratteristica della tragedia era chiamata ἐμμέλεια; le danze proprie del dramma satiresco e della commedia erano invece rispettivamente la vivace «sicinnide» (σίκιννις) e il lascivo «cordace» (κόρδας).

Pittore dell’Altalena (attribuito), Gruppo di coreuti che incede su sostegni di legno e trampoli (forse Titani). Pittura vascolare da un’anfora attica a figure nere, c. 550-525 a.C. Christchurch, University of Canterbury.

Fra la scena (ἐμμέλεια) e le due proiezioni dell’emiciclo della cavea si aprivano due corridoi laterali (εἴσοδοι o πάροδοι) che consentivano l’accesso degli spettatori alla cavea e l’ingresso, oltre che del coro, degli attori che non uscissero dall’edificio scenico. È dubbia la regola secondo cui da destra sarebbero entrati i personaggi provenienti dalla città, da sinistra quelli provenienti dalla campagna.

I drammi più antichi di Eschilo non sembrano presupporre un edificio scenico (σκηνή) quale invece compare sicuramente nell’Orestea del 458: si trattò inizialmente su una linea tangente all’orchestra di una costruzione in legno con tendaggi, con la trasformazione in requisito dell’area teatrale di un locale originariamente adibito a deposito per maschere, costumi e attrezzatura scenica e a camerino per i cambiamenti di costume degli attori. La scena fungeva da sfondo all’azione identificandosi volta a volta con un palazzo, un tempio, una tenda militare, una grotta.

Fra il 338 e il 330 a.C. il teatro di Dioniso, su iniziativa dell’oratore Licurgo, fu ricostruito in pietra (σκηνή compresa). Poi la scena fu proiettata in avanti per mezzo di un alto proscenio sostenuto da un colonnato.

Furono altresì create quinte girevoli su pali (περίακτοι), con decorazioni di paesaggi, che permettevano rapidi mutamenti di luogo. In relazione alla nuova struttura dovette essere introdotto anche un tipo a suola fortemente rialzata di quegli stivaletti in pelle con incurvatura delle punte che rappresentavano la consueta calzatura degli attori (i κόθορνοι, «coturni»).

Secondo una dubbia testimonianza dell’enciclopedia bizantina (X sec.) denominata Suda (φ 609) la decorazione della scena sarebbe stata introdotta per la prima volta, fra VI e V secolo a.C., da Formo di Siracusa, che avrebbe usato una tenda fatta di pelli conciate e dipinte di rosso (ἐχρήσατο […] σκηνῇ δερμάτων φοινικῶν), ma Aristotele fa della scenografia un invenzione di Sofocle (Poetica 1449a 18- 19), mentre Vitruvio (VII 1, 11) informa che Eschilo adottò la σκηνογραφία giovandosi dell’aiuto del pittore Agatarco di Samo. I pannelli decorati dovevano mostrare uno o più edifici o sfondi paesistici.

Scena tragica davanti a un palazzo. Pittura vascolare a figure rosse da un cratere tarentino, c. 350 a.C. Würzburg, Martin von Wagner Museum.

Un problema che è stato largamente discusso è quello dell’area antistante l’edificio scenico e retrostante l’orchestra, ovvero del cosiddetto proscenio (προσκήνιον): si dibatte se nel teatro del V secolo a.C. lo spazio in questione fosse costituito da una pedana soprelevata rispetto al livello dell’orchestra. Certo è che, se pure questa pedana esisteva, essa era tale da non impedire la comunicazione verbale e il transito dei personaggi e dei coreuti fra proscenio e orchestra (perciò, non avrebbe comunque potuto superare il dislivello corrispondente a due o tre scalini).

Dibattuta è anche la questione del numero di porte che si aprivano sulla facciata dell’edificio scenico: due sembrano richieste nelle Coefore di Eschilo (oltre a quella centrale, la porta degli alloggi delle donne, verso cui si precipita un servo) e tre nella Pace di Aristofane (abitazione di Trigeo, dimora di Zeus, caverna dello scarabeo). Anche il tetto della σκηνή poteva essere eventualmente utilizzato come spazio occupato dagli attori: da esso, per esempio, balza al suolo il servo frigio nell’Oreste di Euripide. Inoltre, ugualmente a un livello soprelevato, poteva essere utilizzata una piattaforma (θεολογεῖον) invisibile agli spettatori su cui gli attori salivano dal retro della scena.

Un altro problema che ha diviso gli studiosi riguarda l’esistenza e, in caso positivo, la frequenza di utilizzo, già nel corso del V secolo, di una sorta di basso carrello su ruote (ἐκκύκλημα), una piattaforma che, sospinta in avanti ed eseguendo un movimento circolare, serviva a rendere visibile al pubblico quanto avveniva nella parte più interna della scena: di esso trattano, con descrizioni sensibilmente divergenti, fonti tarde, fra cui gli scoli, cioè i commenti ai testi drammatici.

Un probabile uso di questa macchina si trova nell’Antigone di Sofocle (vv. 1294 ss., rappresentata nel 442 a.C.): Creonte, ormai conscio della catena di morti atroci che hanno decimato la famiglia a causa della sua ostinazione, vede da ultimo anche il corpo della moglie Euridice avvinto all’altare di Zeus Ercheo (Ἕρκειος, «Protettore del focolare domestico»), posto nel cortile interno del palazzo. Uscita di scena, la donna aveva annunciato che sarebbe andata a pregare per il figlio Emone e per la casata tutta. Grazie all’ἐκκύκλημα, gli spettatori potevano vedere l’altare domestico sul quale Euridice, dopo essere andata a piangere il figlio Megareo e ora anche Emone, si è tolta la vita.

Va rammentato, di passaggio, che le scene violente non potevano essere proposte sulla scena ed era, quindi, sempre un narratore – spesso un servo o un messaggero – a riferire al coro e al pubblico l’accaduto. Solo grida si potevano udire “dietro le quinte” e immaginare quanto si stava perpetrando o, come in questo caso, scorgere il cadavere. Oltre a questo, un altro celebre finale in cui si sarebbe fatto ricorso alla macchina è quello dell’Ippolito (430) di Euripide, mentre, per restare alla produzione sofoclea, si pensi all’Elena (v. 1458) e, probabilmente, all’Aiace (v. 344).

Ricostruzione schematica delle principali macchine teatrali in uso sulla σκηνή (link).

In ogni caso, a un tale congegno alludono due passi parodici di Aristofane. Negli Acarnesi (vv. 406-409) Diceopoli supplica Euripide di uscire di casa per prestargli qualche straccio dei suoi eroi cenciosi:

D                        Ti chiama Diceopoli di Collide: io!

E                         Ma non ho tempo!

D                      E dai: fatti trasportare fuori sul carrello!

E                         Ma non è possibile!

                       Su, avanti!

E                         Ecco, mi farò metter fuori sul carrello: non ho tempo di scendere!

Nelle Tesmoforiazuse è lo stesso Euripide a cercare l’aiuto di Agatone, il quale sta uscendo dalla σκηνή (νν. 95-96):

E                        Silenzio!

P                        Che c’è?

E                        Agatone sta uscendo!

P                        E quale sarebbe?

E                        Lui, quello che si fa metter sul carrello!

Pacificamente accertato è invece, per alcuni drammi, il ricorso a una macchina del volo, detta γέρανος («gru»), che – grazie a un sistema di cavi, carrucole e ganci – serviva per tenere sollevato in aria un personaggio o fargli percorrere un certo tragitto aereo.

Nella Pace di Aristofane, con parodia del perduto Bellerofonte di Euripide (dove il protagonista volava in groppa a Pegaso), Trigeo impartisce istruzioni dapprima allo scarabeo che intende cavalcare per recarsi a colloquio con Zeus (vv. 82-87):

T Oh, buono, buono: rallenta, asinello mio!
Non slanciarti con troppo impeto,
fin da principio fidando nella tua forza,
prima di aver ammorbidito
i muscoli col battito veloce delle ali!
E non soffiarmi addosso questo puzzo, per pietà!

Poi si rivolge al macchinista addetto alla manovra, il μηχανοποιός (vv. 174-176):

T Macchinista, pensa a me!
Già mi sento turbinare un vento sotto l’ombelico:
se non stai attento, ingrasserò lo scarabeo!

Con la macchina del volo arriva Oceano nel Prometeo di Eschilo (vv. 284 ss.), fugge per l’etere Medea alla fine dell’omonimo dramma euripideo, appaiono talora gli dèi di cui si dice che giungono per l’aria, come, nelle chiuse di alcuni drammi euripidei, Tetide (Andromaca), Atena (Ione), i Dioscuri (Elettra).

Pittore anonimo. Il volo di Medea. Pittura vascolare da un κρατήρ-κάλυξ lucano a figure rosse, c. 400 a.C. Cleveland, Museum of Art.

Talvolta i personaggi potevano comparire in scena anche su un carro da parata, come nell’Agamennone eschileo il sovrano argivo e la sua prigioniera Cassandra o, nell’Elettra di Euripide, Clitennestra, che si reca in campagna a far visita alla figlia.

Nell’area scenica potevano comparire anche tombe e altari, come, in Eschilo, nelle Supplici, dove uno rialzo sacro adorno di statue e altari degli dèi (una κοινοβωμία) diventa l’asilo delle Danaidi, o nelle Coefore, dove il tumulo di Agamennone è il luogo presso il quale Elettra scorge le orme del fratello e poi intona insieme con lui e con le coreute il commo di invocazione (κομμός) al padre defunto. E in Euripide si rifugiano ai piedi di un altare, fra gli altri, Andromaca perseguitata da Ermione e la sposa e i figli di Eracle perseguitati dal tiranno Lico (Eracle).

Occasionalmente anche un letto poteva essere portato alla vista degli spettatori. come, in Euripide, nel caso di Fedra delirante nell’Ippolito e di Oreste malato nell’Oreste o in Aristofane, per Strepsiade che, tormentato dal pensiero dei debiti, si agita su un pagliericcio al principio delle Nuvole.

Claudio Rutilio Namaziano

Claudio Rutilio Namaziano fu poeta e politico latino del V secolo. Di origini galliche (forse nacque di Tolosa), era figlio di Lacanio, funzionario imperiale celebre per la sua integrità. Trasferitosi a Roma in età relativamente giovane, come suo padre, anche Namaziano ricoprì incarichi di grande rilievo nell’amministrazione pubblica e la sua carriera fu anzi più brillante di quella paterna: sotto il dominato di Onorio egli fu magister officiorum nel 412 e praefectus Urbi nel 414.

Fornito di un’ottima formazione culturale, Namaziano apparteneva all’ambiente dell’aristocrazia senatoria più tradizionalista, legata al culto degli antichi dèi di Roma: la sua mentalità, i suoi ideali, le sue posizioni politiche, che traspaiono dall’operetta che di lui si è conservata, sono i medesimi della società rispecchiata dall’epistolario di Simmaco e del circolo culturale descritto da Macrobio nei suoi Saturnalia.

Nell’autunno del 416, o più tardi nel 417, a causa delle gravi notizie provenienti dalle Galliae, Namaziano fu costretto a ritornare in patria per sorvegliare personalmente le sue proprietà fondiarie e contribuire a riorganizzare la provincia, devastate dalle scorrerie di Vandali e Visigoti.

Un letterato nel suo studio. Rilievo, marmo, III-IV sec. d.C. Roma, Museo della Civiltà romana.

Il De reditu suo [Sul proprio ritorno], un poemetto in distici elegiaci, pervenuto lacunoso (ne sopravvivono 664 versi del libro I e 68 del II, ai quali si aggiungono altri 39 molto frammentari, ritrovati nel 1973) narra, appunto, il viaggio verso la Gallia dal porto di Ostia (Portus Augusti), lungo le coste della Tuscia e della Liguria, attraversando le località di Centumcellae, Portus Herculis, Populonia, Falesia, Villa Triturrita, Pisae, Portus Lunae.

Se da una parte l’Itinerario descrive le bellezze naturali delle coste frastagliate della Penisola, l’isola d’Elba, le montagne della Corsica, che si profilano all’orizzonte, la maestà degli Appennini, che destano la meraviglia del poeta, dall’altra l’attenzione dell’autore si appunta su una serie quasi ininterrotta di rovine e distruzioni: città devastate, campagne abbandonate, desolazione e povertà, che regnano in ogni luogo.

L’Itinerario di Rutilio Namaziano. Ricostruzione di I. Lana [Fo 1997, xxvi]

Legato agli ambienti neoplatonici e ai culti aviti, Namaziano riempie il proprio «giornale di viaggio» con malinconici rimpianti per un mondo che sta ormai finendo.

Narrazioni di odeporiche in forma autobiografica erano presenti nella poesia classica all’interno del genere satirico: si pensi all’Iter Siculum di Lucilio o all’Iter Brundisinum di Orazio (Sat. I 5). Tuttavia, mentre i poeti satirici si erano soffermati su aneddoti divertenti e spiritosi e su particolari anche umili della vita quotidiana, allo scopo di intrattenere piacevolmente il lettore, Namaziano si mantiene invece costantemente su un livello stilistico elevato, escludendo ogni elemento troppo realistico e “basso”; anzi, egli sfrutta il motivo del viaggio per dare sfoggio alla propria cultura letteraria.

Scena da Portus Augusti (Ostia). Bassorilievo, marmo bianco, c. fine II sec. d.C., dal cosiddetto “Rilievo Torlonia”. Roma, Collezione della Fondazione Torlonia.

Inoltre, l’autore inserisce non solo brevi racconti di svariati episodi (come la battuta di caccia o le cerimonie in onore di Osiride, cui assiste a Faleria), ma anche e soprattutto descrizioni ed encomi di città e persone – perlopiù di amici, che incontra nelle località visitate –, nonché invettive contro avversari e sviluppi di luoghi comuni moralistici.

Grande rilievo ha, quasi in apertura dell’operetta, l’esaltazione di Roma, cui il poeta si rivolge come a una divinità, dedicandole un vero e proprio inno (vv. 47-164); in esso egli dichiara solennemente – a pochi anni di distanza dal sacco di Alarico – la propria fede nell’eternità dell’Urbe ed elogia la funzione provvidenziale svolta dall’Impero nei confronti dei popoli conquistati:

Exaudi, regina tui pulcherrima mundi,

inter sidereos, Roma, recepta polos;

exaudi, genetrix hominum genetrixque deorum:

non procul a caelo per tua templa sumus.

te canimus semperque, sinent dum fata, canemus:

sospes nemo potest immemor esse tui.

obruerint citius scelerata oblivia solem

quam tuus e nostro corde recedat honos.

nam solis radiis aequalia munera tendis,

qua circumfusus fluctuat Oceanus;

volitur ipse tibi, qui continet omnia, Phoebus

eque tuis ortos in tua condit equos.

te non flammigeris Libye tardavit arenis;

non armata suo reppulit ursa gelu:

quantum vitalis natura tetendit in axes,

tantum virtuti pervia terrae tuae.

fecisti patriam diversis gentibus unam;

profuit iniustis te dominante capi;

dumque offers victis proprii consortia iuris,

urbem fecisti, quod prius orbis erat.

Dea Roma. Affresco, I sec. d.C. Roma, P.zzo Massimo alle Terme.

Dammi ascolto, bellissima regina del mondo che t’appartiene,

Roma, accolta tra le stellate volte del cielo!

Dammi ascolto, madre d’uomini e madre di dèi:

grazie ai tuoi templi noi non siamo lontani dal cielo.

Ti cantiamo, e ti canteremo sempre, finché i fati lo concedano:

nessuno, finché è vivo, può dimenticarsi di te!

Un empio oblio potrà oscurare il sole,

prima che la tua gloria svanisca dal mio cuore:

perché i favori che tu spargi sono uguali ai raggi del sole,

fin dove scorre Oceano che ci circonda.

Per te si volge anche Febo stesso, che tutto controlla,

e in te nasconde i suoi cavalli, da te sorti:

non è stata un ostacolo per te la Libia con le sue sabbie infuocate,

né l’Orsa armata del suo gelo ti ha respinto;

quanto la vita della natura si è estesa tra i due poli,

tanto la terra si apre al tuo valore.

A popoli diversi hai dato un’unica patria;

è stato un bene per chi era senza legge cadere sotto il tuo dominio!

e concedendo ai vinti di condividere il tuo diritto peculiare,

hai trasformato in città quel che prima era mondo!

(Namat. De red. suo I 47-66, trad. it. A. Rodighiero, 2011, con modifiche)

Ancora più dell’elogio nell’opera di Namaziano risulta significativo il biasimo, che si esprime in invettive rivolte contro i nemici di Roma, individuati dall’autore, oltre che nelle popolazioni barbare, anche nei cristiani. Dal momento che l’Impero è ormai da tempo ufficialmente cristiano, non potendo attaccare direttamente la religione che anche a corte ha soppiantato gli antichi culti, il poeta si scaglia da un lato contro i Giudei, avari e disonesti, dalla cui terra conquistata esala il contagio che ormai corrompe gli stessi funzionari imperiali, e dall’altro contro una particolare categoria di cristiani, quella dei monaci.

Le invettive sono piene di sdegno e di disprezzo: in particolare, Namaziano interpreta la scelta della vita ascetica dei monaci come una fuga dalle responsabilità e dai doveri del buon cittadino, come una vergognosa diserzione dettata dalla paura e da una forma di isteria furiosa, che spinge i giovani appartenenti a famiglie altolocate a seppellirsi vivi, sottraendo energie preziose alla società e alla politica.

Giovane magistrato romano. Statua, marmo, fine IV secolo, dal ninfeo degli Horti Liciniani. Roma, Centrale Montemartini.

Un’altra invettiva rivelatrice dell’atteggiamento dell’autore nei confronti dei problemi dell’attualità contemporanea è quella scagliata, nel libro II, contro Flavio Stilicone. Il generalissimo di origine romano-vandalica, che, tutor principum, aveva perseguito la politica teodosiana di conciliazione con l’elemento barbarico, viene definito da Namaziano «traditore» (proditor) della romanità e gli viene attribuita la responsabilità del sacco di Roma, avvenuto, in realtà, due anni dopo il suo violento assassinio.

Il De reditu suo costituisce, dunque, il documento dell’amore appassionato e del rimpianto del suo autore per la grandezza della patria romana, di cui egli teme la prossima fine. Il culto del passato si manifesta anche sul piano formale, nella lingua e nello stile (assai ornato e ricercato), scrupolosamente modellati sui classici, come pure nella metrica ineccepibile, nei continui richiami intertestuali ai grandi poeti del passato: del solo Virgilio si contano, nell’operetta, più di 200 reminiscenze.

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Riferimenti bibliografici:

M.G. Celuzza, Il De reditu suo di Rutilio Namaziano e l’archeologia tardoantica delle coste tirreniche, in C. Casi (ed.), Il mare degli antichi, Pitigliano 2010, 193-232.

M.G. Celuzza, Sulle tracce di Rutilio Namaziano. Il «De Reditu» fra storia, archeologia e attualità, Grosseto 2020.

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G. Mazzoli, Tre sintagmi proemiali nel De reditu suo di Rutilio Namaziano, CdM 9 (2021), 159-172.

A.P. Mosca, Aspetti topografici del viaggio di ritorno in Gallia di Rutilio Namaziano, in F. Rosa, F. Zambon (eds.), Pothos, il viaggio, la nostalgia, Trento 1995, 133-151.

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G. Stampacchia, Problemi sociali nel De reditu suo di Rutilio Namaziano, Index 17 (1989), 243-254.

La conquista romana della Britannia

Un tempo l’isola di Britannia era conosciuta come Albion (Plin. Nat. hist. IV 102; Avien. Or. Mar. 108-109 = FGrHist. 2009 F 1; la notizia risale probabilmente a Pitea di Marsiglia, c. 325 a.C.). Nelle fonti greche più antiche, la Britannia appare sotto il nome di Βρεταννικαὶ νῆσοι e gli abitanti sono detti Βρεττανοί (Strabo II 1, 18; 5, 12), mentre negli autori latini la forma Britannia è attestata dal I secolo a.C. (Caes. BG. II 4, 7 ss.; 4, 20 ss.; 5, 2 ss.; Cic. Ad fam. VII 6 ss.; cfr. Rivet-Smith 1979, 282).

I primi contatti tra la Britannia e il mondo mediterraneo furono di natura commerciale: lo scopo del viaggio di Pitea intorno all’isola (fine IV sec. a.C.) era la ricerca di minerali e altre materie prime. Fino a prima dell’invasione di Cesare, l’entroterra era perlopiù ancora sconosciuto. L’impresa del generale romano nel 55 a.C. gli fornì una serie di informazioni sul territorio per progettarne la conquista l’anno successivo. La spedizione, tuttavia, non conseguì un risultato soddisfacente e la Britannia rimase fuori dal controllo romano per ancora un secolo.

Sbarco delle legioni di Cesare in Britannia. Illustrazione di P. Connolly.

A ogni modo, fra l’isola e il continente – soprattutto Gallia e Italia (Strabo II 5, 8; IV 5, 1-3) – vi furono costanti scambi commerciali e alcuni principi locali intrattennero importanti rapporti diplomatici con Roma, al punto che persino due capi-tribù britannici in esilio trovarono asilo presso l’Impero (August. R.g. 6, 32).

I regni più importanti dell’isola furono quelli dei Trinovantes, dei Catuvellauni e degli Atrebates (Frere 1987, 48-69; già Caes. BG. V 20) e le lotte per la supremazia territoriale delle prime due tribù condussero all’ascesa a Britannorum rex di Cunobellino, capo dei Catuvellauni e figlio di Tasciovano (Suet. Calig. 44), che regnò all’incirca dal 10 al 40.

Gli studi condotti sulle monete battute a suo nome rivelano che costui, muovendo da Verulamium (nell’od. Hertfordshire), riuscì a ottenere il controllo della maggior parte della Britannia sud-orientale e a estendere il suo dominio su Camulodunum, capitale dei Trinovantes (od. Colchester, Essex).

Cunobellino dei Catuvellauni e Trinovantes. Statere, Camulodunum, c. 10-43. AV 5,58 g. Recto: coppia di cavalli al galoppo, verso sinistra; foglia nel campo superiore, ruota in quello inferiore; CVNOBELIN in exergo.

La sua morte, nel 43, avrebbe causato la rottura dello status quo tra le tribù rivali, offrendo il destro all’invasione claudiana, il cui obiettivo, stando a Cassio Dione (LX 20), era proprio quello di conquistare il regno di Cunobellino: il pretesto dichiarato sarebbe stata la restaurazione al trono degli Atrebates di Verica, cliente dei Romani (DCass. LX 19).

Claudio affidò il comando delle operazioni ad Aulo Plauzio, alla testa di un nutrito corpo di auxiliae e ben quattro legioni: la II Augusta, agli ordini di Tito Flavio Vespasiano (Tac. Agr. 13, 5; Suet. Vesp. 4), la VIIII Hispana, guidata da Gneo Osidio Geta, la XIV Gemina, al comando di Tito Flavio Sabino, e la XX Valeria Victrix, condotta da Gneo Senzio Saturnino. Salpati forse da Gesoriacum (od. Boulogne-sur-Mer), i Romani sbarcarono a Rutupiae (od. Richborough, Kent) e consolidarono le loro posizioni sul territorio circostante, corrispondente all’ex regno di Verica.

La resistenza indigena fu guidata dai figli di Cunobellino, Togodumno e Carataco, i quali, radunata una poderosa armata, diedero battaglia agli invasori presso l’odierna Rochester, sul corso del Medway. I combattimenti si protrassero per due giorni e vi si distinse Osidio Geta, per cui fu insignito degli ornamenta triumphalia. I Romani incalzarono i nemici oltre il Tamesis (Tamigi), inflissero loro gravi perdite e dilagarono nel sud-est dell’isola. L’oppidum di Camulodunum fu espugnato e trasformato in una fortezza legionaria (Dunnett 1975, 31-35).

Nel 46 Claudio rientrò a Roma per celebrare la vittoria e ricevere l’appellativo di Britannicus. Mentre Carataco, perso il fratello, fuggiva verso occidente, Vespasiano proseguì le operazioni in quella direzione, sottomettendo le tribù indigene fino all’attuale Exeter e conquistando l’isola di Vette (Suet. Vesp. 4).

Vespasiano alla guida della legio II Augusta. Illustrazione di G. Sumner.

Sotto il nuovo governatore, Ostorio Scapula, nel 47 i Romani dilagarono anche nel Nord, raggiungendo i corsi dell’Humber e del Severn; il proconsole lanciò un’offensiva contro le tribù dell’odierno Galles, scontrandosi contro la fiera resistenza dei Silures.

Nel frattempo, a oriente gli Iceni, precedentemente alleati di Roma, si erano ribellati, dopo che il governatore ne aveva ordinato il disarmo. Benché si fossero coalizzati con altre tribù vicine, i Romani ne ebbero la meglio e il loro re, Antedio, fu deposto e sostituito da Prasutago, filo-romano. Intanto, Carataco, sconfitto, proseguiva la sua fuga nel territorio dei Brigantes, clienti di Roma, la cui regina Cartimandua lo fece catturare e consegnare a Scapula.

Nel 49 Camulodunum, divenuta capitale della provincia britannica, fu ribattezzata Colonia Victricensis: da quel momento l’abitato conobbe un’intensa trasformazione in città romana, con l’erezione di una serie di importanti edifici pubblici (fra i quali, nel 55, si ricorda il tempio del Divo Claudio: Tac. Ann. 31). Dopo la morte di Scapula, nel 53 l’amministrazione dell’isola passò ad Aulo Didio Gallo.

Sotto il principato di Nerone, si succedettero Quinto Veranio Nipote e Gaio Svetonio Paolino. Quest’ultimo, in particolare, era un senatore di rango pretorio (DCass. LX 9), che nel 42, sotto Claudio, si era distinto in qualità di legatus Augusti aver condotto un’importante spedizione oltre la catena dell’Atlante in Mauretania. Per le sue abilità di uomo politico, Paolino fu soprannominato vetustissimus consularium (Tac. Hist. II 37, 1).

Forse nel 58 subentrò a Veranio Nipote nel comando britannico e nei due anni successivi condusse una dura offensiva. Sottomise tutta la regione occidentale della Britannia e assaltò l’isola di Mona (od. Anglesey), sede di un importante culto druidico. Mentre Paolino era così impegnato, nel 60/1, gli Iceni si ribellarono nuovamente, trovando alleati presso i Trinovantes: la sanguinosa rivolta fu guidata da Boudicca, vedova di Prasutago, assetata di vendetta contro i Romani (DCass. LXII 1-2). I ribelli, adunate forze consistenti, marciarono su Camulodunum, dove incontrarono scarsa resistenza e misero a ferro e fuoco l’abitato.

La regina Boudicca esorta gli Iceni alla sommossa. Illustrazione di R. Oltean.

Quinto Petilio Ceriale, comandante della VIIII Hispana tentò di riconquistare la città, ma fu respinto. L’esercito ribelle incendiò e rase al suolo anche Londinium (od. Londra) e Verulamium (od. St Albans). Nel frattempo, Paolino riunì le unità superstiti, marciò verso meridione e raggiunse l’armata ribelle lungo la cosiddetta Watling Street, dove scoppiò una furiosa battaglia. Benché i Romani fossero in inferiorità numerica, inflissero una dura sconfitta ai nemici. Mentre Tacito (Ann. XIV 39; Agr. 15) racconta che Boudicca, per non cadere prigioniera dei Romani, si avvelenò, Cassio Dione (LXII 12) narra che cadde malata e morì di stenti.

La conquista romana della Britannia proseguì con una serie di nuove campagne militari e rapporti diplomatici, fino all’età flavia. Le regioni settentrionali dell’isola si rivelarono ancora più dure da sottomettere a causa delle montagne e dell’ostilità delle popolazioni indigene.

Sotto il principato di Domiziano, il nuovo governatore della Britannia, Gneo Giulio Agricola pianificò una serie di spedizioni, tra gli attuali Galles e Scozia, volte a consolidare il dominio romano nell’isola e a difenderne i confini. Il generale poté contare su quattro legioni (II Adiutrix, II Augusta, VIIII Hispana, XX Valeria Victrix) e numerose unità ausiliarie (cfr. Rodríguez González 2003, 725; Le Bohec 1992, 34; 45).

Dopo aver fatto i preparativi necessari, nel 77 Agricola mosse guerra alla tribù degli Ordovices, li sconfisse e li sterminò, perché, stando al resoconto di Tacito (Agr. 18, 2), avevano teso un’imboscata a uno squadrone di cavalleria romano. Quindi, allestita una flotta, invase e sottomise nuovamente l’isola di Mona. Nonostante avesse perpetrato dure repressioni nei confronti delle genti ribelli, Agricola si guadagnò una buona fama come amministratore oltre che come generale: promosse la romanizzazione dei Brigantes nel Settentrione, incoraggiò la costruzione di nuovi centri abitati e l’educazione dei ragazzi secondo l’uso romano (Tac. Agr. 20, 3).

Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico (o Nerone?). Testa, bronzo, c. 50 dal letto del River Alde, presso Rendham. London, British Museum.

Nel 79 Agricola riprese le operazioni militari nel Nord, avanzando fino all’estuario del fiume Tanus (Tay); sconfitti i Venicones, per consolidare le posizioni raggiunte, fece costruire una serie di castra, nota al giorno d’oggi come “Gask Ridge”, e installò altri praesidia nell’odierna Scozia centrale, tra i corsi del Clota (Clyde) e del Bodotria (Forth). Nell’81 le armate di Agricola si volsero verso sud-ovest, sconfiggendo più volte le orde dei Novantae e dei Damnonii (Tac. Agr. 24, 1).

L’anno seguente i Romani mossero contro le tribù sul corso del Bodotria, mentre i Caledonii attaccarono in forze gli accampamenti della legione  VIIII Hispana, ma Agricola riuscì a respingerli con i reparti di cavalleria.

Le fonti antiche riportano il nome dei Caledonii in vario modo: Tacito (Agr. 25) identificava così le popolazioni dell’odierna Scozia oltre l’istmo tra il Forth e il Clyde; Tolemeo (II 3, 8), chiamava in questo modo una delle tribù del Great Glen, mentre Cassio Dione (LXXVI 12) designava con questo nome una confederazione tribale delle Highlands settentrionali. L’uso del toponimo Caledonia (Tac. Agr. 27) e di silvae Caledoniae (Plin. Nat. hist. IV 102) lascia pensare che i Caledonii si fossero stabiliti su una vasta area della Scozia orientale.

Nell’83/4 si giunse al momento decisivo della campagna di Agricola: l’esercito romano si scontrò sul Mons Graupius (un’altura non meglio identificata nelle Highlands) con l’armata della Confederazione caledone, guidata da Calgaco, di cui Tacito tramanda un accorato ma poco credibile discorso contro l’imperialismo di Roma. Dopo uno scambio di dardi e pietre, il comandante romano lanciò all’attacco le coorti di ausiliari batavi e tungri, con l’ordine di impegnare il nemico in un estenuante corpo a corpo.

L’armata di Gneo Giulio Agricola al Monte Graupio (84). Illustrazione di S. Ó’​ Brógáin.

Il dominio romano sulle regioni settentrionali, tuttavia, non durarono a lungo. Gli sforzi per mantenere una certa stabilità su quell’area continuarono fino a quando, nel 122, Adriano non ordinò la costruzione di un vallo lungo lo stretto corridoio di Tyne-Solway (Breeze 1982, 73-92).

Il suo successore, Antonino Pio, fece erigere un muro di confine tra il Firth of Forth e il Firth of Clyde nella Scozia centrale, posizione che resistette per circa vent’anni e verso il 165 fu abbandonata. Da allora il Vallo di Adriano costituì il confine romano fino all’abbandono totale dell’isola nel IV secolo (Frere 1987, 332-348).

Le città romane in Britannia si svilupparono attraverso una combinazione di deductio coloniaria e crescita demografica delle comunità locali. Oltre la capitale, Camulodunum , i Romani fondarono entro la fine del I secolo le colonie di Lindum e Glevum. A Eboracum fu accordato lo status di colonia, dopo che nel III secolo divenne la nuova sede provinciale. In altri luoghi dell’isola, le civitates e gli oppida indigeni contribuirono allo sviluppo urbanistico del territorio.

Nel Meridione, la presenza di città, come Verulamium, Calleva Atrebatum, Noviomagus, Venta Belgarum, Durovernum Cantiacorum e Corinium Dobunnorum, facilitò il processo di romanizzazione della popolazione locale (Wacher 1975). Ciononostante, nella maggior parte dell’isola la lingua, le strutture sociali e i culti di epoca pre-romana rimasero dominanti (Henig 1984).Gli squadroni di cavalleria, invece, respinti i carri da guerra caledoni, si unirono alla mischia stringendo gli armati britannici alle spalle: fu una vera carneficina! (Tac. Agr. 29; sulle perdite 37, 9).

La Britannia romana [Encyclopædia Britannica 1929].

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Sparta arcaica

Per meglio comprendere le ragioni e i riferimenti dell’elegia guerresca arcaica occorre soffermarsi sulla realtà storica cui afferiscono i vivaci affreschi di Tirteo, abbastanza ignota all’ἔπος omerico.

Le radici di Sparta, infatti, benché la città sia citata nell’Iliade come possesso di Menelao e mitica sede del ratto di Elena, non risalgono storicamente oltre al X secolo a.C. Furono i Dori provenienti da nord che, sottomettendo i Laconi, si stanziarono sulle rive dell’Eurota, a ridosso del Taigeto, nell’estremità sud-occidentale del Peloponneso.

Dioscuri. Rilievo su stele votiva, pietra locale, c. 575-550 a.C. Sparta, Museo Archeologico.

Dalla progressiva unificazione (sinecismo) di almeno quattro borghi, Cinosura, Limne, Mesoa e Pitane, ebbe origine Sparta. A questo processo unitario può essere ricondotta la diarchia che governò per secoli la città, una forma monarchica che assegnava per via ereditaria il potere ai discendenti delle famiglie degli Agiadi e degli Euripontidi, probabilmente sovrane di uno o due villaggi originari. Questa composizione è riflessa oltre che nel nome (Σπάρτη, «la dispersa») anche nella ripartizione in tre tribù originali, a loro volte suddivise in fratrie (φρατρίαι), composte dai diversi clan familiari degli Spartiati (Σπαρτιᾶται).

Alla ricerca di pascoli e terre «buone da arare e buone da piantare», mentre le altre πόλεις greche sopperivano alla mancanza di terre fertili spedendo colonie verso l’occidente, la città cominciò la sua espansione nel Peloponneso. Limitata a nord-est dalla potenza di Argo, dopo essersi assicurata l’intero corso dell’Eurota e uno sbocco al mare (prima metà dell’VIII secolo a.C.), si rivolse a ovest, alla pianura messenica. Prendendo a pretesto l’uccisione del re Amicle (c. 740 a.C.), gli Spartani attaccarono la Messenia finché nel 715, con la presa della rocca di Itome, non si furono impadroniti della sua fertile pianura.

La conclusione di quella che fu chiamata “Prima guerra messenica” portò all’asservimento dell’intera popolazione locale, utilizzata come forza-lavoro e inserita nella classe sociale infima degli Iloti (Εἱλῶται).

I Messeni tendono un’imboscata agli Spartani. Illustrazione di C. Draghici.

Nella progressiva espansione territoriale, infatti, agli Spartiati – Dori appartenenti alle famiglie dei borghi originari, dediti esclusivamente alle armi e partecipi alla vita pubblica della πόλις (sedevano nell’assemblea, ἀπέλλα, e potevano essere eletti nel consiglio degli anziani, γερουσία) –, si erano aggiunti i Perieci. Questa seconda classe era probabilmente formata dai primi assoggettati dei villaggi circonvicini (περι-οίκοι), equiparabili agli Spartiati sul piano sociale (possedevano anch’essi un κλᾶρος, un fondo agricolo, servi per lavorarla e servivano come opliti nell’esercito), ma privi dei diritti politici. Gli Iloti, infine, costituivano una vera e propria massa di servi, formata dalle popolazioni indigene (i Laconi e Messeni) che via via erano state sottomesse.

Questa condizione di sfruttamento costituì da subito, e ancor più nei secoli a venire, uno dei motivi di debolezza della città: se da una parte gli Spartiati provenivano da un nucleo limitato di famiglie, destinato nei secoli ad assottigliarsi a causa delle continue guerre, gli Iloti, appartenenti alla stessa città ma trattati in maniera disumana, erano in numero maggiore e soprattutto pronti in ogni momento a ribellarsi.

Pittore di Naucrati. Scena simposiale. Pittore vascolare su una coppa laconica a figure nere. 565 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.

E una ribellione alle inique imposizioni spartane («Come asini sotto una pesante soma, erano costretti a trasportare per i loro padroni la metà di tutte le messi che un campo poteva produrre», Tyrt. F 6 West) fu l’origine della “Seconda guerra messenica”, quella di cui Tirteo fu testimone diretto.

La rivolta esplose nel 685 a.C. Argo, la rivale di sempre, approfittando della situazione, attaccò Sparta sconfiggendola a Ilie nel 669 a.C., chiudendo di fatto per almeno un secolo le ambizioni di espansione verso nord dei Lacedemoni. Questo li spronò a portare a termine la guerra contro i Messeni per annetterne integralmente il territorio ed estendere all’intero sud del Peloponneso la propria supremazia (668 circa a.C.).

A metà del VII secolo, dunque, Sparta era una πόλις in piena espansione. Era dotata di un esercito capace di affermare la propria superiorità grazie alla coesione dei suoi opliti, stretti nella formazione a falange.

Era regolata da una forma politica oligarchica fissata dalla costituzione tradizionalmente attribuita a Licurgo (Μεγάλη ῥήτρα). Il potere monarchico era controbilanciato dalla presenza dell’assemblea degli Spartiati, che eleggeva i ventotto membri del consiglio degli anziani e i cinque efori (ἔφοροι). Questi ultimi erano chiamati a controllare l’operato dei due re e del consiglio, per garantire che non si scivolasse in una monarchia arbitraria e assoluta e, contemporaneamente, in una oligarchia che privasse gli ὁμοῖοι (cioè gli Spartiati) di partecipare direttamente al governo della città.

La γερουσία spartana. Illustrazione di P. Connolly.

Per un certo periodo, questo sistema, lodato come il più democratico della Grecia da Aristotele, permise a Sparta stabilità e sviluppo non solo espansionistico ma anche nelle arti (oltre a Tirteo, altri poeti come Alcmane, fecero della πόλις una delle città greche più illuminate). Un inarrestabile regresso demografico, dovuto al numero chiuso degli Spartiati e alle continue guerre, e una progressiva rottura dell’equilibrio politico, dovuta al contrasto fra potere diarchico e controllo degli efori, costituirono per la città i due fattori che accelereranno la decadenza, già evidente alla fine del V secolo, nonostante la temporanea egemonia raggiunta con la vittoria su Atene nella Guerra del Peloponneso.

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“Io non lodo gli Ateniesi”: una critica al sistema democratico ([Xen.], Ath. pol. 1, 1-5)

Nel corso della guerra del Peloponneso, di fronte alle difficoltà provocate dal conflitto, ad Atene fra coloro che si erano illusi in una sua rapida soluzione, non mancarono voci, anche autorevoli, che attribuirono la responsabilità di quanto stava accadendo agli esponenti più radicali della democrazia.

Probabilmente, questa nostalgia per un governo democratico moderato o addirittura oligarchico, che escludesse dalla gestione del potere le classi sociali più umili, favorite invece dalle riforme di Efialte e di Pericle, scaturì dalla volontà di trovare un capro espiatorio sul quale sfogare il malcontento della situazione, piuttosto che da ben ragionate motivazioni storiche e politiche; tuttavia, fu anch’essa un eloquente segno dei tempi.

Tale è lo spirito che anima un trattatello di tre capitoli, per un totale di cinquantatré paragrafi, intitolato Costituzione degli Ateniesi (Ἀθηναίων πολιτεία) e inserito nel corpus delle opere di Senofonte.

Per questo motivo il suo autore, a noi sconosciuto, è indicato con l’appellativo di “Pseudo-Senofonte” o anche con quello di “Vecchio oligarca”, escogitato dagli studiosi della scuola inglese con felice fantasia, perché si adegua bene alle sue simpatie politiche, forse più giustificabili in una persona attempata che in un giovane.

L’opera, di carattere retorico-dimostrativo, esprime un punto di vista ostile alla democrazia e delinea, con amara ma realistica rassegnazione, i tratti essenziali della politica interna ateniese e del comportamento della città nei confronti degli alleati. Il fatto che l’autore si esprima in termini molto generali, considerando gli aspetti della politica ateniese senza agganciarli con precisi riferimenti alla realtà storica, rende molto difficile, se non addirittura impossibile, la datazione esatta dell’opuscolo, probabilmente composto prima del 411 a.C., quando avvenne ad Atene il “colpo di Stato” oligarchico dei Quattrocento.

Tale ipotesi è avvalorata dall’affermazione, contenuta nell’opuscolo, che la democrazia ateniese appare invincibile – parole che sarebbero fuori luogo, se fossero state pronunciate dopo che il governo democratico era stato appena abrogato.

Gli esiti negativi della seconda fase della guerra, che intaccarono significativamente il prestigio di Atene sul piano politico, economico e militare, spinsero molti intellettuali del tempo a ricercarne le cause nell’organizzazione democratica della città, profondamente mutata dalle riforme dell’età di Pericle.

Come spesso accade in simili occasioni, nelle quali il desiderio di suggerire la soluzione di uno stato di crisi si manifesta in forme di conservatorismo fine a sé stesso, e perciò antistorico, la difficile situazione della città fu attribuita ai cambiamenti istituzionali, ai quali l’autore dell’opuscolo contrappone il mito di un “buon governo” di stampo nostalgicamente oligarchico.

Pittore Brygos. Scena di votazione con ψῆφοι (gettoni). Pittura vascolare su una κύλιξ attica a figure rosse, c. 490 a.C. Malibu, J. Paul Getty Museum.

[1. 1] Περὶ δὲ τῆς Ἀθηναίων πολιτείας, ὅτι μὲν εἵλοντο τοῦτον τὸν τρόπον τῆς πολιτείας οὐκ ἐπαινῶ διὰ τόδε, ὅτι ταῦθ’ ἑλόμενοι εἵλοντο τοὺς πονηροὺς ἄμεινον πράττειν ἢ τοὺς χρηστούς· διὰ μὲν οὖν τοῦτο οὐκ ἐπαινῶ. ἐπεὶ δὲ ταῦτα ἔδοξεν οὕτως αὐτοῖς, ὡς εὖ διασῴζονται τὴν πολιτείαν καὶ τἆλλα διαπράττονται ἃ δοκοῦσιν ἁμαρτάνειν τοῖς ἄλλοις Ἕλλησι, τοῦτ’ ἀποδείξω.

[2] Πρῶτον μὲν οὖν τοῦτο ἐρῶ, ὅτι δικαίως ‹δοκοῦσιν› αὐτόθι [καὶ] οἱ πένητες καὶ ὁ δῆμος πλέον ἔχειν τῶν γενναίων καὶ τῶν πλουσίων διὰ τόδε, ὅτι ὁ δῆμός ἐστιν ὁ ἐλαύνων τὰς ναῦς καὶ ὁ τὴν δύναμιν περιτιθεὶς τῇ πόλει, καὶ οἱ κυβερνῆται καὶ οἱ κελευσταὶ καὶ οἱ πεντηκόνταρχοι καὶ οἱ πρῳρᾶται καὶ οἱ ναυπηγοί, ‑ οὗτοί εἰσιν οἱ τὴν δύναμιν περιτιθέντες τῇ πόλει πολὺ μᾶλλον ἢ οἱ ὁπλῖται καὶ οἱ γενναῖοι καὶ οἱ χρηστοί. ἐπειδὴ οὖν ταῦτα οὕτως ἔχει, δοκεῖ δίκαιον εἶναι πᾶσι τῶν ἀρχῶν μετεῖναι ἔν τε τῷ κλήρῳ καὶ ἐν τῇ χειροτονίᾳ, καὶ λέγειν ἐξεῖναι τῷ βουλομένῳ τῶν πολιτῶν. [3] ἔπειτα ὁπόσαι μὲν σωτηρίαν φέρουσι τῶν ἀρχῶν χρησταὶ οὖσαι καὶ μὴ χρησταὶ κίνδυνον τῷ δήμῳ ἅπαντι, τούτων μὲν τῶν ἀρχῶν οὐδὲν δεῖται ὁ δῆμος μετεῖναι· ‑ οὔτε τῶν στρατηγιῶν κλήρῳ οἴονταί σφισι χρῆναι μετεῖναι οὔτε τῶν ἱππαρχιῶν· ‑ γιγνώσκει γὰρ ὁ δῆμος ὅτι πλείω ὠφελεῖται ἐν τῷ μὴ αὐτὸς ἄρχειν ταύτας τὰς ἀρχάς, ἀλλ’ ἐᾶν τοὺς δυνατωτάτους ἄρχειν· ὁπόσαι δ’ εἰσὶν ἀρχαὶ μισθοφορίας ἕνεκα καὶ ὠφελείας εἰς τὸν οἶκον, ταύτας ζητεῖ ὁ δῆμος ἄρχειν. [4] ἔπειτα δὲ ὃ ἔνιοι θαυμάζουσιν ὅτι πανταχοῦ πλέον νέμουσι τοῖς πονηροῖς καὶ πένησι καὶ δημοτικοῖς ἢ τοῖς χρηστοῖς, ἐν αὐτῷ τούτῳ φανοῦνται τὴν δημοκρατίαν διασῴζοντες. οἱ μὲν γὰρ πένητες καὶ οἱ δημόται καὶ οἱ χείρους εὖ πράττοντες καὶ πολλοὶ οἱ τοιοῦτοι γιγνόμενοι τὴν δημοκρατίαν αὔξουσιν· ἐὰν δὲ εὖ πράττωσιν οἱ πλούσιοι καὶ οἱ χρηστοί, ἰσχυρὸν τὸ ἐναντίον σφίσιν αὐτοῖς καθιστᾶσιν οἱ δημοτικοί. [5] ἔστι δὲ πάσῃ γῇ τὸ βέλτιστον ἐναντίον τῇ δημοκρατίᾳ· ἐν γὰρ τοῖς βελτίστοις ἔνι ἀκολασία τε ὀλιγίστη καὶ ἀδικία, ἀκρίβεια δὲ πλείστη εἰς τὰ χρηστά, ἐν δὲ τῷ δήμῳ ἀμαθία τε πλείστη καὶ ἀταξία καὶ πονηρία· ἥ τε γὰρ πενία αὐτοὺς μᾶλλον ἄγει ἐπὶ τὰ αἰσχρὰ καὶ ἡ ἀπαιδευσία καὶ ἡ ἀμαθία ‹ἡ› δι’ ἔνδειαν χρημάτων ἐνίοις τῶν ἀνθρώπων.

[1. 1] La costituzione degli Ateniesi, che scelsero questo modo di governarsi, io non l’approvo per questa ragione, e cioè che, avendo scelto siffatta forma, permisero alla canaglia di star meglio dei cittadini onesti; per questo motivo, dunque, io non l’approvo. Ma siccome ciò a loro sembrò giusto, io dimostrerò come bene conservino la loro linea politica, anche perseguendo con coerenza atti che gli altri Greci considerano disdicevoli.

[2] Per prima cosa, dunque, dirò questo, che a buon diritto qui i nullatenenti e il popolino sembrano godere vantaggi sugli aristocratici e sui ricchi, perché è il popolo che conduce le navi e assicura potenza alla città, e così pure i timonieri, i capiciurma, i pentecontarchi, i proreti e gli armatori: sono costoro che forniscono forza alla città, molto più che gli opliti, gli aristocratici e i cittadini onesti. Poiché, insomma, le cose stanno così, appare giusto che a tutti sia dato di partecipare alle cariche pubbliche, sia a quelle per sorteggio sia a quelle elettive e che qualsivoglia cittadino abbia libertà di parola. [3] D’altronde, quelle magistrature, che, se ben esercitate, recano al popolo sicurezza e rischi, se mal gestite, il popolo non vuole rivestirle – infatti, la gente pensa che non sia conveniente aspirare al sorteggio delle strategie o delle ipparchie –; il popolo, infatti, sa che trarrò maggiore giovamento non assumendo tali magistrature, ma lasciando che le rivestano i più capaci. Al contrario, il popolo cerca di esercitare quei ruoli che offrono una ricompensa e che possono essere redditizie per il proprio patrimonio. [4] Inoltre, alcuni stupiscono che gli Ateniesi in ogni ambito attribuiscano maggior importanza al volgo, agli indigenti e ai popolani piuttosto che ai migliori; ma proprio in questo è evidente che essi tutelano la democrazia. Difatti, dato che i poveri, i popolani e i peggiori stanno bene, se gente simile aumenta di numero, essi rafforzano la democrazia; se invece fossero avvantaggiati i ricchi e la gente onesta, allora i popolani renderebbero più forti i loro avversari. [5] In ogni parte della Terra l’aristocrazia è nemica della democrazia: infatti, tra i migliori sono minime la smodatezza e l’ingiustizia, mentre massima è l’inclinazione al bene; invece, nel popolo sono assai diffuse l’ignoranza, l’indisciplina e la malvagità; la povertà spinge la gente ad azioni vergognose e così anche la mancanza di educazione e l’ignoranza, che in certi individui sorgono dalla mancanza di mezzi.

Iscrizione della «Legge contro la tirannide». Personificazione di Democrazia che incorona Demos (bassorilievo). Marmo, 337-376 a.C. ca. da Atene. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Il brano considerato si apre con l’iniziale enunciazione del credo politico dell’autore, che oppone in modo inconciliabile l’ottica dei χρηστοί, la «gente per bene», cioè gli aristocratici, a quella dei πονηρoi, la «canaglia», ovvero i membri del popolo.

Secondo il suo punto di vista, il governo ateniese si fonda su presupposti sbagliati, perché concede potere a chi dovrebbe esserne escluso; tuttavia, il sistema è forte perché si regge su una sua logica perversa e su meccanismi ben funzionanti. Infatti, se è vero che l’egemonia ateniese si regge sulla talassocrazia, allora le classi sociali che hanno permesso alla città di giungere a tale potenza non sono i maggiorenti, che militano fra le schiere dei cavalieri o in quelle degli opliti, ma i popolani, con il loro lavoro di carpentieri, timonieri, rematori.

L’amara constatazione fa un chiaro riferimento alla situazione che si verificò ai tempi di Temistocle, quando lo statista si appoggiò alle classi sociali più umili (θῆτες) per la costituzione e l’equipaggiamento della flotta da guerra che avrebbe dovuto fronteggiare l’armata di Serse a Salamina (480 a.C.). Da quel periodo, infatti, cominciò il declino dell’esercito formato da cavalieri e da opliti, provenienti dalle classi più ricche e altolocate. Tutte le altre riforme, tese a favorire sempre più il popolo a dispetto degli aristocratici, hanno avuto origine da tali presupposti; ed è logico che sia così, perché queste due classi sono opposte per natura in qualunque luogo.

Il passo si conclude con osservazioni che richiamano il rigido conservatorismo di alcuni scrittori del VI secolo a.C., come, per esempio, Teognide di Megara, il quale, come il “Vecchio oligarca”, sottolineava le differenze fra χρηστοί e πονηροί considerandole addirittura frutto di diversità genetica.

In questo senso, l’autore dell’opuscolo appare appena un po’ più tollerante del suo durissimo predecessore, perché concede alla «canaglia» almeno qualche circostanza attenuante: se gli indigenti sono quello che sono, lo devono alla natura, ma in parte anche alla miseria, che li spinge al male e che li ha privati di un’adeguata educazione, grazie alla quale avrebbero potuto migliorare almeno qualche aspetto del loro spregevole carattere.

Poseidone e Apollo. Frammento di rilievo (particolare), marmo, V secolo a.C. dal fregio degli dèi del Partenone. Atene, Museo dell’Acropoli.

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