L’Alcesti di Euripide

L’Alcesti (Ἄλκηστις) è il più antico dramma che di Euripide ci sia pervenuto, pur appartenendo già alla maturità del poeta (438 a.C.). Nella tetralogia di cui faceva parte – insieme con Cretesi, Alcmeone a Psofide e Telefo – e che ottenne il secondo premio, occupava il quarto posto: una anomalia, quella di porre in luogo del dramma satiresco una tragedia sia pure a lieto fine, che non dovette essere isolata nella produzione euripidea.

Pittore di Laodamia. Il commiato di Alcesti. Pittura vascolare da una λουτροφόρος apula a figure rosse, c. 350-325 a.C. Basel, Antikenmuseum.

La storia di Admeto e di Alcesti deriva con ogni probabilità da un’antica leggenda, comune presso molti popoli, secondo la quale il demone della Morte (Θάνατος), venuto a portar via il giovane uomo, si dichiara disposto a lasciarlo vivere, a patto che si trovasse chi lo avrebbe sostituito; il giovane allora supplicava il padre e la madre di morire al suo posto, ma ne otteneva un secco rifiuto. Soltanto la sua amata era disposta al sublime sacrificio, ma la sua abnegazione era compensata, perché ella veniva sottratta alla morte e restituita all’amato. Prima di Euripide la leggenda aveva già subito una rielaborazione mitico-religiosa, con personaggi e avvenimenti ben precisi nelle Eoie di Esiodo, in cui si narra che Apollo, punito dal padre Zeus per aver sterminato con le frecce i Ciclopi, fu condannato a servire per un anno, come mandriano, in casa di un mortale, Admeto, re di Fere in Tessaglia. Dopo qualche tempo Admeto sposò Alcesti, una delle figlie di Pelia, re di Iolco, ma nel giorno delle nozze dimenticò di sacrificare ad Artemide. La dea, infuriata, riempì di serpenti la camera da letto di Admeto; Apollo, che in casa del re era stato trattato con ogni riguardo, placò l’ira della sorella e ottenne, inoltre, per Admeto uno straordinario privilegio: una volta giunto per lui il giorno del trapasso, egli avrebbe potuto continuare a vivere, se avesse trovato un altro mortale disposto a morire al posto suo. Quando il momento arrivò, però, soltanto Alcesti fu disposta ad accettare il sacrificio e a scendere nell’Ade al posto del marito; Persefone, commossa da tanta fedeltà, le concesse il ritorno fra i vivi. Il racconto esiodeo era stato utilizzato da Frinico, con una sola variante: al personaggio di Persefone era stato sostituito quello di Eracle, antico compagno d’armi di Admeto nella spedizione argonautica, che, impietosito dall’eroismo di Alcesti e dallo straziante dolore dell’amico, era sceso nell’Ade e aveva rapito l’anima della donna al regno dei morti. Euripide, dunque, riprese questa versione del dramma, inserendovi un’ulteriore modifica: Eracle, invece di scendere nella casa di Ade, lottava contro il demone della Morte, Thánatos, e riusciva a strappargli la preda, riconducendola da Admeto.

Al principio del dramma, ambientato a Fere in Tessaglia, Alcesti si è ormai dichiarata pronta a morire al posto dell’amato sposo, mentre neppure gli anziani suoceri hanno voluto dare la propria vita in cambio di quella del figlio. Ora che è arrivato il momento supremo, interviene Thánatos a reclamare la sua vittima, e Apollo, che ha rievocato gli antefatti, si allontana. Il coro, formato da vecchi cittadini di Fere, entra nell’orchestra in preda all’ansia per la sorte di Alcesti e viene informato da un’ancella che all’interno della casa la donna si sta congedando dalla famiglia e dai servi. Entrano in scena i due coniugi: Alcesti, sostenuta dal marito è in preda a una visione in cui le sembra che lo stesso Caronte (il traghettatore dei morti) la chiami per l’ultimo viaggio (vv. 244-279). Adornata come a festa, ella prende commiato da tutti, soprattutto dai figli e dal letto nuziale; rimasta poi sola col marito, lo supplica, in nome del sacrificio che sta facendo per lui, di non risposarsi e non dare ai figli una matrigna, che potrebbe addirittura odiarli, se dalle seconde nozze ne nascessero altri. Il re, profondamente angosciato, dopo aver recitato il κομμός («lamento funebre»), promette solennemente alla moglie che non si risposerà, anzi, che si farà forgiare da un artista un’immagine di Alcesti che terrà sempre con sé, per avere l’illusione di avere ancora la sposa al proprio fianco; poi, lo sfinimento assale definitivamente la donna, che viene portata via esanime dal demone, lasciando la reggia e la città immerse nel lutto.

Alcesti e Admeto. Affresco pompeiano, ante 79, dalla Casa del Poeta Tragico. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Intanto Eracle, in viaggio verso la Tracia, dove su ordine di Euristeo dovrà sottrarre le cavalle di re Diomede, giunge a Fere e si reca a palazzo per chiedere ospitalità; Admeto, pur immerso nel dolore, non può venire meno ai doveri di ospite e di amico e accoglie l’eroe nella sua casa senza rivelargli che cosa sia accaduto alla sposa. Mentre Eracle si rifocilla, mangiando e bevendo gagliardamente, Admeto riceve la visita di suo padre Ferete, venuto a piangere la nuora. Il colloquio fra padre e figlio degenera ben presto in un violento alterco, nel quale Admeto rimprovera l’egoismo del vecchio, che non ha voluto sacrificarsi per il proprio figlio, costringendolo ad accettare la dipartita dell’amata sposa; Ferete, dal canto suo, ribatte a tutte le accuse ritorcendole sul figlio. Mentre i due si separano pieni di livore reciproco, tutti i personaggi e gli stessi coreuti si apprestano a condurre le esequie di Alcesti, ecco irrompere in scena Eracle, sazio di cibo e di vino: non appena rinsavisce e si rende conto del grave lutto che ha colpito l’amico, egli si vergogna del proprio comportamento e, deciso a ricambiarne l’ospitalità, parte alla volta dell’Ade per strappare l’ombra di Alcesti alle grinfie di Thánatos. Di ritorno dal funerale, Admeto si abbandona alla più cupa disperazione: solo ora elabora il significato della sciagura che gli è capitata con la perdita della sposa e lamenta la solitudine in cui è stato precipitato. Solo ora sembra rendersi conto che la vita per lui non ha più senso.

Nell’esodo del dramma ritorna Eracle, accompagnato da una donna velata, che dice di aver avuto come premio in una gara di lotta. Siccome si accinge a un viaggio lungo e difficile, prega Admeto di volerla ospitare nella reggia fino al suo ritorno. Admeto in un primo tempo rifiuta; poi, cedendo all’insistenza dell’eroe, solleva il velo: la donna si rivela essere Alcesti, restituita alla vita, sottratta a Thánatos. Così, mentre Eracle riparte per le sue avventure, i due sposi rientrano a palazzo, di nuovo uniti.

Ercole conduce Alcesti dall’Ade. Rilievo (particolare), marmo, II secolo, da un sarcofago raffigurante le fatiche dell’eroe. Velletri, Museo Civico.

Tragedia dai contorni quanto mai sfuggenti e passibile di interpretazioni contraddittorie, l’Alcesti è stata additata da Platone (Simposio, 179-180) come un fulgido esempio di dedizione e di φιλία da parte della protagonista, a dimostrazione di come solo chi ama è disposto a sacrificare la vita per la persona amata; con la precisazione che «non solo gli uomini, ma anche le donne». Proprio questa precisazione del filosofo può essere d’aiuto per un’interpretazione del personaggio di Alcesti in chiave meno “romantica”, ma più consona alla mentalità greca, secondo la quale il dramma fu scritto. Il sacrificio della propria vita per uno scopo alto e nobile, che lasci dietro di sé ammirazione, lode e ricordo, è considerato di solito una prerogativa maschile, un atto di ἁρετή eroica, purificato da qualunque sentimento soggettivo, e che non ha altro fine se non la fama che ne deriva. Al tempo di Euripide era convinzione comune che la vera ἁρετή fosse negata alle donne, ma l’insistenza con cui il poeta sottolinea il gesto di Alcesti avrebbe procurato fama eterna a lei e alle donne in genere, dimostrando che l’autore era di opinione diversa, e che vedeva nel suo personaggio più il limpido coraggio dell’eroina che la tenerezza dell’innamorata[1].

Complementare alla φιλία è la virtù dell’ospitalità, peculiare di Admeto e delle persone a lui più vicine: sotto il segno dell’ospitalità si apre il dramma, nel congedo di Apollo dalla dimora che lo ha accolto per un anno, e alla fine della vicenda l’ospitalità concessa a Eracle sarà elemento risolutivo.

Indissolubilmente legato a questi vi è il tema della gloria, che costituisce movente fondamentale dell’azione per i personaggi (ad esclusione di Ferete): nel κλέος, rivendicato in primo luogo dalla protagonista, si può individuare quel prestigio che deriva dal riconoscimento sociale della virtù, che costituisce un surrogato dell’immortalità e un compenso postumo, dopo la riduzione dell’individuo al nulla.

Ercole riconduce l’ombra di Alcesti dagli Inferi. Affresco, IV secolo, dalle Catacombe di Via Latina a Roma.

Un altro punto focale del dramma è la domanda che il poeta pone con chiarezza, anche se indirettamente: è giusto che Admeto accetti il sacrificio della sposa e che poi rinfacci a suo padre un eccessivo attaccamento alla vita? Euripide non risolve il quesito, ma lo evidenzia nell’accesa discussione fra padre e figlio, che si svolge secondo lo schema dei δισσοὶ λόγοι di stampo sofistico, e che ribalta completamente l’idea tradizionale del rapporto fra padre e figlio. Nel mondo greco esso era caratterizzato dall’assoluta dipendenza reale e psicologica del secondo rispetto al primo. Eppure, mentre per l’Admeto euripideo appare ovvio che un padre debba sacrificarsi per il figlio, per affetto e perché è vecchio, Ferete sposta l’obiettivo dal dovere al volere e soprattutto sull’attaccamento alla vita, che è più forte di qualunque altro sentimento, indipendentemente dall’età; ed è proprio in nome di questo istinto irrazionale e potentissimo che Admeto ha permesso che Alcesti morisse al posto suo. Perché ora dovrebbe scaricare su altri il proprio senso di colpa, accusandoli di ciò di cui egli stesso è responsabile?

Un ulteriore centro di interesse è rappresentato dal personaggio di Eracle, descritto da Euripide ora con caratteristiche comico-farsesche, ora con tratti di nobiltà eroica. Sulla figura di questo eroe, il più popolare fra quelli greci, esisteva una duplice tradizione, che da un lato lo presentava come un singolare modello di ἁρετή volta al bene degli uomini (in quest’ottica, per esempio, lo consideravano le scuole filosofiche dei Cinici e degli Stoici); dall’altro, lo deformava comicamente, fino a farne la caricatura di un omaccione tutto muscoli ma con poco cervello, con appetiti sfrenati e giganteschi come la sua persona. Questa interpretazione parodistica di Eracle, iniziata verso gli ultimi anni del VI secolo a.C. da Epicarmo, che secondo Aristotele (Poet. V 5), dev’essere considerato l’inventore della commedia, sfruttava elementi ancora più antichi e divenne poi abbastanza comune – come attesta chiaramente Aristofane negli Uccelli (414) e nelle Rane (405). La posizione di Euripide appare così cronologicamente intermedia fra Epicarmo e il poeta comico ateniese, visto che l’Alcesti è del 438.

In questa “strana” tragedia, ha centralità drammatica soprattutto il problema della morte, destino comune degli uomini, che viene evidenziato proprio da quell’unicum “miracoloso” costituito dalla resurrezione della protagonista. Il confronto con la morte ha effetto rivelatore del carattere delle persone, consentendo di verificare la consistenza dei legami famigliari e sociali: coloro che sembrano φίλοι, o che tali si rivelavano a parole, di fronte alla morte dimostrano la loro vera natura di esseri tenacemente attaccati alla propria ψυχή a scapito di quella altrui, anche a costo di perpetuare un’esistenza ingloriosa (un destino che accomuna Admeto e Ferete, nella grettezza del loro scontro verbale).

Joseph-Boniface Franque, Eracle recupera l’anima di Alcesti dall’oltretomba. Olio su tela, 1806.

Nel delirio di Alcesti davanti al terribile «demone alato», emerge l’aspetto ambivalente dell’aldilà, che da una parte sottrae le gioie della vita, oscurando la luce del sole, ma dall’altra prospetta una insensibilità liberatoria dal dolore (οὐδέν ἐσθ᾽ ὁ κατθανών «chi muore non è più nulla», osserva Alcesti al v. 380), che colloca il defunto in una condizione privilegiata rispetto ai suoi cari, costretti a perpetuare un πόθος («struggimento di desiderio») destinato a rimanere inappagato.

Per loro rimane l’insipida consolazione – che è anche un “dovere” – di perpetuare il ricordo degli estinti o, tutt’al più, la «fredda gioia» di abbracciare simulacri che restituiscono vane parvenze. «Il motivo centrale della tragedia – secondo le parole di C.M.J. Sicking – è il carattere limitato di ogni potere umano: l’uomo non vincerà mai la morte, sacrificarsi per un altro non ha dunque senso». Il dono divino offerto a un essere umano di «sfuggire al κύριον ἧμαρ sostituendo un altro al suo posto si rivela fallimentare: la vita di chi resta dopo aver accettato il sacrificio dei propri φίλοι è pura esistenza biologica, ἀβίωτον χρόνον (vv. 242-3)» (S. Barbantani).

Jean-François Pierre Peyron, La morte di Alcesti. Olio su tela, 1785. Paris, Musée du Louvre

***

Riferimenti bibliografici:

U. Albini, Alcesti di Euripide, Milano 1994.

J. Assaël, La résurrection d’Alceste, REG 117 (2004), 37-59.

E. Avezzù, O. Longo, Koinon aima. Antropologia e lessico della parentela greca, Bari 1991.

K. Bassi, The Actor as Actress in Euripides’ Alcestis, in J. Redmond (ed.), Women in Theatre, Cambridge 1989, 19-30.

F. Bevilacqua, Alcesti ed Euridice. Due figure del mito in parallelo, MdF 28 (2016), 161-190.

C. Brillante, L’Alcesti di Euripide: Il personaggio di Admeto e la struttura del dramma, M&D 54 (2005), 9-46.

R. Buxton, Le voile et le silence dans l’Alceste d’Euripide, CGITA 3 (1967), 167-177.

G. Castrucci, Il “romanzo di Alcesti”, AN 14 (2014), 69-102.

M. Del Fréo, L’Alcesti di Euripide e il problema della tetralogia, RCCM 38 (1996), 197-213.

J.J. Dellner, Alcestis’ Double Life, CJ 96 (2000), 1-25.

J.J. Dellner, Alcestis and the Problem of Prosatyric Drama, CJ 95 (2000), 229-238.

S. Des Bouvrie, Women in Greek Tragedy: An Anthropological Approach, Oslo 1990.

C.A. Diano, Introduzione all’Alcesti, RCCM 17 (1975), 7-49.

C.A. Diano, L’Alcesti di Euripide, in O. Longo (ed.), Euripide. Letture critiche, Milano 1976, 70-78.

C. Franco, Una statua per Admeto, M&D 13 (1984), 131-136.

A. Garzya, Il motivo della salvazione nell’Alcesti di Euripide, P&I 3 (1961), 6-14.

V. Gavrilenko, Toucher, ne pas toucher, telle est la question. Réflexions autour du corps d’Alceste chez Euripide, Mètis 9 (2011), 193-207.

G. Giolo, Il concetto di philia nell’Alcesti di Euripide, Atti e Memorie dell’Accademia Patavina di Scienze, Lettere e Arti 98 (1984-1985), 116-128.

C. Grottanelli, N. Parise, Sacrificio e società nel mondo antico, Roma-Bari 1988.

M.R. Halleran, Text and Ceremony in the Close of Euripides’ Alkestis, Eranos 86 (1928), 123-129.

M. Herrero de Járegui, The Meanings of σώιζειν in Alcestis’ Final Scene, TC 8 (2016), 205-225.

E. Lepore, L’Alcesti di Euripide e i rapporti tessalo-ateniesi, PdP 15 (1960), 428-432.

A. Lesky, Alkestis, der Mythus und das Drama, Wien-Leipzig 1925.

B. Lusch, Irony and the Rejection of Imagined Alternatives in Euripides’ Alcestis, CJ 107 (2012), 385-408.

C.A.E. Luschnig, Euripides’ Alcestis and the Athenian oikos, Dioniso 60 (1990), 9-39.

C.W. Marshall, Alcestis and the Problem of Prosatyric Drama, CJ 95 (2000), 229-238.

E. Masaracchia, Il velo di Alcesti, QUCC 42 (1992), 31-35.

E. Masaracchia, L’estraneità di Alcesti, QUCC 45 (1993), 57-82.

A. Markantonatos, Euripides’ Alcestis: Narrative, Myth, and Religion, New York-Berlin 2013.

G. Megas, Die Sage von Alkestis, AfR 30 (1933), 1-33.

A. Momigliano, Il mito di Alcesti ed Euripide, La Cultura 1931, 201-213.

F. Mosino, Il mito di Alcesti in un’iscrizione di Fere, MEP 4 (2001), 71-72.

A.A. Neri, Per una lettura antropologica dell’Alcesti, Lexis 9-10 (1992), 93-114.

G. Paduano (ed.), Euripide, Alcesti, Milano 1993.

P.E. Parker (ed.), Euripides’ Alcestis, Oxford 2007.

M.P. Pattoni, Osservazioni sul canto d’ingresso del coro nell’Aiace di Sofocle, nell’Alcesti e nell’Ippolito di Euripide, AevAnt 3 (1996), 99-124.

M.P. Pattoni, Le metamorfosi di Alcesti. Dall’archetipo alle sue rivisitazioni, in Id., R. Carpani (eds.), Sacrifici al femminile. Alcesti in scena da Euripide a Raboni, Crema 2004, 279-300.

M.P. Pattoni, Alcesti, variazioni sul mito, Venezia 2006.

M.P. Pattoni, Δακρυόεν γελάσαι. Sorridere tra le lacrime nell’Alcesti di Euripide, in P. Mureddu, G. Nieddu (eds.), Comicità e riso tra Aristofane e Menandro, Amsterdam 2006, 187-227.

M.P. Pattoni, Modelli omerici nell’Alcesti di Euripide. Testo e intertesto, in L. Castagna, C. Riboldi (eds.), Amicitiae templa serena. Studi in onore di Giuseppe Aricò, II, Milano 2008, 1225-1260.

R. Rhem, Marriage to Death, the Conflagration of Wedding and Funeral Ritual in Greek Tragedy, Princeton 1994.

R. Rivier, En marge d’Alceste et de quelques interprétations récentes, MH 29 (1972), 124-140.

H. Roisman, Perspectives on Death in Euripides’ Alcestis, in R. Buzón et alii (eds.), Los Estudios Clásicos ante de Cambio de Milennio, Buenos Aires 2002, 365-374.

H. Roisman, The Cyclops and the Alcestis: Tragic and the Absurd, in G. Harrison (ed.), Satyr Drama: Tragedy at Play, Swansea 2005, 67-82.

H. Roisman, Alcestis, in R. Lauriola, K.N. Demetriou (eds.), Brill’s Companion to the Reception of Euripides, Leiden-Boston 2015, 349-376.

S.L. Schein, Φιλία in Euripides’ Alcestis, Mètis 3 (1988), 179-206.

G.A. Seeck (ed.), Euripides, Alkestis, Berlin-New York 2008.

D. Susanetti, Alcesti di Euripide, Venezia 2001.

L. Torraca, Edizione commentata all’Alcesti di Euripide, Napoli 1963.


[1] Rappresentazioni del mito di Alcesti sono rare, nonostante l’interesse per la storia promosso dall’omonima tragedia di Euripide (andata in scena nel 438 a.C.). All’interno del palazzo reale di Fere in Tessaglia, suggerito dalle due colonne che sorreggono il frontone, Alcesti è seduta sul letto nuziale. È il momento traumatico del commiato. A sinistra è il marito Admeto, stante e drappeggiato nell’himátion, che porta una mano alla fronte in segno di tristezza. La sovrapposizione con il dramma euripideo si ferma qui; i personaggi vicini non sono i suoceri di Alcesti. A destra è la vecchia nutrice: il suo sguardo è abbassato, mentre con la mano si sorregge il mento in segno di dolore. Dietro di lei il pedagogo, vecchio e canuto, si appoggia a un bastone. Al centro, Alcesti – l’unica figura di cui sia indicato il nome (Ἄλκηστις) – sta salutando per l’ultima volta i figli. In disparte, ad arricchire il quadro, sono due serve: l’una porta sulla spalla un cesto di vimini, l’altra ha un nastro e un ventaglio.

Omero, il primo aedo

I due più celebri poemi epici del mondo antico, l’Iliade e l’Odissea, appaiono indissolubilmente legati al nome di Omero. Ma gli antichi, in realtà, non sapevano niente di questo personaggio. Infatti, la grande quantità di dati biografici e di aneddoti esistenti su di lui, sottoposta a un più attento esame, si è rivelata per lo più frutto di fantasia. Tali dati, volti ad appagare la curiosità del pubblico nei confronti di un poeta così famoso, si trasmisero nel tempo senza subire sostanziali alterazioni; ma la loro scarsa attendibilità è dimostrata dal fatto che biografie omeriche relativamente recenti, come la Vita falsamente attribuita a Erodoto, o il racconto di una gara poetica che sarebbe avvenuta fra Omero ed Esiodo, hanno utilizzato materiale più antico, risalente almeno al VI secolo a.C. senza apportarvi cambiamenti.

Perfino il nome del poeta era oggetto di interpretazioni diverse: appellandosi alla tradizione che faceva di lui un cantore cieco e girovago – infatti, in età arcaica, la condizione di cecità conferiva a un aedo un’aura sacrale, per il fatto che si attribuiva ai non vedenti capacità profetiche, una forma di conoscenza superiore – il suo nome fu fatto derivare dall’espressione ὁ μὴ ὁρῶν, «colui che non vede», mentre il reale significato di ὅμηρος è «ostaggio», parola che non contiene nessun riferimento né all’attività poetica né alla cecità, sebbene quest’ultima caratteristica fosse considerata tipica, appunto, dei cantori e dei veggenti; ne è un esempio, nell’Odissea, proprio Demòdoco, l’aedo che vive alla corte di Alcinoo, re dei Feaci.

William-Adolphe Bouguereau, Omero e la sua guida. Olio su tela, 1874. Milwaukee, Art Museum.

Studi più recenti hanno ricollegato il nome del poeta al verbo ὀμηρεῖν, «incontrarsi», «andare insieme», alludendo così al carattere agonale della poesia epica, che prevedeva, in particolari solennità, l’incontro di cantori provenienti da varie parti dell’Ellade, per gareggiar fra loro. Tale ipotesi troverebbe conferma in un appellativo di Zeus, Ἁμάριος, così chiamato in quanto protettore di Hamarion, una località dell’Acaia in cui avvenivano le riunioni federali di tutti gli Achei, in occasione di grandi festività religiose.

Pertanto, agli antichi fu ignoto il vero nome di Omero e ignota anche la patria; secondo un celebre epigramma dell’Anthologia Palatina (XVI 295-298), raccolta composta probabilmente nell’XI secolo d.C., ben sette città – Smirne, Chio, Colofone, Itaca, Pilo, Argo e Atene – si contendevano l’onore di aver dato i natali al famoso poeta; ma anche l’accostamento dei nomi risulta però del tutto arbitrario e solo quelli di Smirne e di Chio sembrerebbero offrire una qualche attendibilità: Smirne era infatti colonia degli Eoli, ai quali si sovrapposero poi popoli di stirpe ionica; e ciò spiegherebbe il linguaggio usato nei poemi epici, di base ionica, ma arricchito di molti eolismi; a Chio, invece, esisteva una corporazione di rapsodi a ordinamento gentilizio, gli Omeridi (Ὁμηρίδαι), che si vantavano di discendere direttamente dal poeta; ma la validità di questa affermazione si fonda sulla fragile base rappresentata dalle parole dell’Inno ad Apollo (v. 172), attribuito a Omero, il cui compositore (in realtà, sconosciuto) si definiva «il cieco che abita nella rocciosa Chio» (τυφλὸς ἀνήρ, οἰκεῖ δὲ Χίῳ ἔνι παιπαλοέσσῃ).

Anche le Vite di Omero (ben sette, tutte di età post-classica, fra quelle anonime e quelle attribuite a un preciso autore) non forniscono alcun dato attendibile; si tratta di racconti favolosi, che presentano situazioni assai lontane dai dati che si possono ricavare dai poemi stessi. Nell’Iliade e nell’Odissea, infatti, l’aedo frequenta ambienti aristocratici o addirittura vive nella reggia, mentre le Vite pongono di fronte alla ben diversa figura di un poeta di umili origini, che vive ed esercita la sua arte in mezzo al popolo, in un contesto sociale in cui gli antichi palazzi regali, di cui il cantore era ospite rispettato e gradito, non sono più che un remoto ricordo. Altrettanto incerta è la cronologia che riguarda Omero: le oscillazioni sono talora di centinaia d’anni, dal periodo della guerra di Troia, intorno al 1184 a.C., a molto prima, intorno al 1250, fino a quattro secoli dopo. L’unico dato attendibile potrebbe essere quello fornito da Erodoto (II 53), secondo cui Omero sarebbe vissuto circa quattrocento anni prima dello storico, cioè verso l’850 a.C. e sarebbe stato contemporaneo di Esiodo.

Omero. Statua, marmo, c. II secolo a.C. dalla Villa dei Papiri, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

La «questione omerica»

Nonostante l’incertezza della sua figura storica, per gli antichi Omero rimase pur sempre un personaggio reale, oggetto della più profonda venerazione o, molto più raramente, di polemica. Quest’ultimo atteggiamento fu proprio dell’età ellenistica, quando Callimaco di Cirene (315/10-244 a.C.) e i suoi seguaci contrapposero una poesia di breve estensione e di grande accuratezza formale alla vasta mole del «poema uno e continuo, di molte migliaia di versi».

I poemi omerici si collocano a cavallo tra oralità e scrittura: da un lato, essi sono il prodotto di una lunga e stratificata produzione orale, durante la quale intere generazioni di aedi elaborarono il materiale narrativo; dall’altro, mostrano i caratteri di un’elaborazione unitaria, che presuppone l’utilizzo di materiale scritto.

Secondo la tradizione classica, il passaggio probabilmente decisivo per la redazione dei poemi omerici fu costituito dall’edizione voluta da Ipparco, figlio di Pisistrato e tiranno di Atene, alla fine del VI secolo a.C.. In occasione dei festival poetici che si svolgevano all’interno delle Panatenee (luglio-agosto, in onore di Atena), i cantori che volevano esibirsi dovevano attenersi alla redazione ufficiale. Il controllo esercitato dal potere politico confermerebbe così la funzione educativa riconosciuta alla poesia epica e l’influenza che la performance dei cantori aveva sulla mentalità collettiva.

Ma le vere e proprie edizioni critiche dei due poemi si ebbero solo a partire dal III secolo a.C. per opera dei filologi alessandrini, che lavoravano nell’ambito di istituzioni culturali come la Biblioteca e il Museo, sorte ad Alessandria d’Egitto per volontà dei sovrani della dinastia Tolemaica. Fra questi studiosi si possono ricordare Zenodoto di Efeso (330-260 a.C.), Aristofane di Bisanzio (257-180 a.C.) e Aristarco di Samotracia (216-144 a.C.), che operarono in un arco di tempo compreso fra il 300 e il 150 a.C. Costoro suddivisero Iliade e Odissea in ventiquattro libri ciascuno, tanti quanti erano le lettere del nuovo alfabeto attico, usando le maiuscole per il primo e le minuscole per il secondo. Il lavoro di questi studiosi fu rigorosamente conservatore, tanto da mantenere nel testo anche parti di dubbia autenticità, che contrassegnarono tuttavia con un segno grafico speciale, l’ὀβελός, «spiedo» (÷).

Benemeriti per la conservazione del testo omerico, i filologi alessandrini contribuirono però a distruggerne definitivamente il carattere originario di poesia destinata alla recitazione. Questa contraddizione fu notata già in età antica, tanto che Cicerone (De oratore III 137) espresse un giudizio favorevole nei confronti della redazione pisistratea, mentre a Giuseppe Flavio (Adv. Apion. I 12) la stesura scritta apparve in contrasto con l’intenzione originaria del poeta, che aveva concepito la propria opera come una serie di canti destinati alla trasmissione orale. Dalla coesistenza di questi due elementi, redazione pisistratea e composizione orale, oltre che dall’incertezza dei dati sulla stesura e sull’autore dei due poemi, nacque e si sviluppò nel tempo la cosiddetta «questione omerica», che rimane, malgrado l’opera di molti studiosi, un problema tuttora insoluto.

Senza addentrarsi troppo nei meandri dell’omerologia, si riassumeranno le linee essenziali di sviluppo della vexata quaestio. In età antica il problema fu affrontato nel III secolo a.C. da due grammatici, Xenone ed Ellanico, detti poi χωρίζοντες («separatisti»), perché attribuirono l’Iliade a Omero e l’Odissea a un aedo più tardo, fondandosi solo sull’analisi interna dei poemi e sulle differenze di contenuto e di stile. Per gli stessi motivi, nel I secolo d.C. l’anonimo autore del trattato Sul sublime propose, con una certa ingenuità, di attribuire l’Iliade all’età giovanile del poeta e l’Odissea alla sua tarda maturità.

Più di mille anni dopo, e precisamente nella seconda metà de XVII secolo, François Hédelin (1604-1676), abate d’Aubignac, in un suo scritto, le Conjectures académiques ou Dissertation sur l’Iliade, pubblicato soltanto nel 1715, sostenne una tesi che fu fin da subito considerata clamorosamente innovativa e rivoluzionaria: Omero non era mai esistito e, poiché in quell’epoca (che egli però non determinò) non esisteva ancora la scrittura, l’Iliade non sarebbe stata altro che una raccolta di canti composti in momenti diversi, riuniti poi nella redazione scritta attribuita a Pisistrato.

Rembrandt van Rijn, Omero. Olio su tela, 1663. Den Haag, Mauritshuis.

A distanza di circa trent’anni, nel 1744, il filosofo italiano Giambattista Vico (1668-1744) dedicò alla questione omerica il III capitolo dei suoi Principii di una Scienza nuova. In esso, sotto il programmatico titolo di Discoverta del vero Omero, negava anch’egli consistenza storica alla figura del celebre poeta, sostenendo che le opere a lui attribuite dovevano essere considerate solo espressione del patrimonio collettivo dei ricordi del popolo greco «nel suo tempo favoloso». Questo aspetto gli appariva più evidente nell’Iliade, mentre l’Odissea era da considerarsi espressione di una civiltà meno antica.

In tempi più recenti, la «critica antiunitaria» trasse origine dagli studi del filologo tedesco Friedrich August Wolf (1759-1824), il quale approfondì gli spunti offerti dai suoi predecessori e, con un’accurata analisi testuale dei due poemi, giunse nei suoi Prolegomena ad Homerum, pubblicati nel 1795, a conclusioni simili a quelle del D’Aubignac. Wolf illustrò con chiarezza di argomentazioni l’impossibilità che i testi omerici fossero opera di un solo poeta e sostenne, al contrario, che canti separati, recitati da aedi, fossero stati definitivamente fissati e riuniti nel VI secolo a.C. Queste teorie ebbero diffusione e fortuna nel corso dell’Ottocento e altri studiosi condivisero l’idea dell’esistenza di un vasto e antico materiale trasmesso oralmente, al quale avrebbero attinto i compositori dell’Iliade e dell’Odissea. In base a tale convinzione, ebbe quindi origine la cosiddetta «teoria del nucleo ampliato», secondo cui la matrice dell’Iliade sarebbe stato un canto dedicato alla contesa fra Achille e Agamennone, mentre l’Odissea si sarebbe sviluppata dal racconto del lungo e travagliato ritorno di Odisseo: entrambi sarebbero stati ampliati nel corso dei secoli dall’opera di generazioni di rapsodi, fino a raggiungere l’ampiezza attuale.

Un altro studioso tedesco, Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff (1848-1931), avanzò l’ipotesi dell’esistenza di un poeta di lingua ionica, unico autore del nucleo fondamentale dell’Iliade; la sua opera, databile all’VIII secolo a.C., sarebbe stata poi ampliata da altri.

Il primo quarto del Novecento fu caratterizzato da una vivace ripresa delle teorie unitaristiche, secondo le quali non vi sarebbe stato che un solo autore per entrambi i poemi; tuttavia, tali conclusioni appaiono sostenute più da un’entusiastica ammirazione per Omero che da un’attenta analisi critica dei testi, condotta con metodi rigorosi e scientifici.

Una svolta decisiva negli studi omerici arrivò solo nei primi decenni del XX secolo, grazie alle ricerche dell’americano Milman Parry (1902-1935). Attraverso il contributo dato dagli studi di comparatistica e di antropologia culturale sulle modalità di comunicazione orale delle civiltà tribali, e analizzando il linguaggio dell’Iliade, riuscì a dimostrare che l’unità compositiva di base della poesia epica non fosse la singola parola (come sarebbe avvenuto per una civiltà fondata sulla scrittura), bensì gli elementi formulari: la ripetizione di parole o frasi che compaiono molte volte, come epiteti umani e divini, inizio e conclusione di discorsi, modi di interpellare e di rispondere, indicazioni temporali, formule di transizione del discorso.

La tesi di Parry, secondo il quale Omero era un cantore di oral poetry, ebbe il pregio di allargare l’indagine dalla filologia all’antropologia, in quanto egli cercò sostegno alle proprie teorie confrontando l’ἔπος greco con le composizioni di cantori popolari, numerosi e attivi fino alla prima metà del Novecento soprattutto nell’Europa orientale.

***

Riferimenti bibliografici:

G. Broccia, La questione omerica, Firenze 1979.

G. Cambiano, L. Canfora, D. Lanza (eds.), Lo spazio letterario della Grecia antica, I.1, La pólis, Roma 1992.

F. Codino, Introduzione a Omero, Torino 1965.

F. Codino, La questione omerica, Roma 1976.

A. Dihle, Homer-Probleme, Opladen 1970.

C. Emlyn-Jones, L. Hardwick, J. Purkis (eds.), Homer. Readings and Images, London 1992.

G.S. Kirk, The Songs of Homer, Cambridge 1962.

G.S. Kirk, Homer and the Oral Tradition, Cambridge 1976.

J. Latacs, Omero. Il primo poeta dell’Occidentei, Roma-Bari 1990.

A. Lesky, s.v. Homeros, RE Suppl. XI (1968), 687-846.

H.L. Lorimer, Homer and the Monuments, London 1950.

B. Marzullo, Il problema omerico, Milano-Napoli 1970².

C. Miralles, Come leggere Omero, Milano 1992.

F. Montanari, Introduzione a Omero, Firenze 1992².

S. Nannini, Omero e il suo pubblico nel pensiero dei commentatori antichi, Roma 1986.

A.J. B. Wace, F.H. Stubbings (eds.), A Companion to Homer, London-New York 1962.

Il programma architettonico dell’Acropoli

di E. Lippolis, G. Rocco (eds.), Archeologia greca. Cultura, società, politica e produzione, Milano-Torino 20202, 231-235.

Il quadro storico della seconda metà del V secolo risente di alcuni avvenimenti occorsi nel decennio precedente: ad Atene le incomprensioni con Sparta e l’ostracismo di Cimone determinarono il rafforzamento della fazione democratica più radicale, consentendo a Pericle (c. 495-429), morto Efialte, di occupare la scena politica in modo continuativo sino all’anno 432/1. La pace con la Persia (altrimenti detta «pace di Callia») stipulata dopo la scomparsa di Cimone (post 450) e la «pace dei trent’anni» con i Lacedemoni, siglata nel 446, segnarono l’apogeo del ruolo internazionale della πόλις attica e la sua egemonia politica e culturale, ponendo le basi per una trasformazione radicale dell’aspetto della città e delle forme della sua vita urbana.

Il polo principale del rinnovamento edilizio fu l’Acropoli, che recava ancora le tracce dell’invasione persiana (480-479): di ciò che c’era prima nulla è rimasto a causa delle distruzioni e degli incendi. Sono pervenuti soltanto quelle statue, quegli arredi e quei frammenti di frontoni che i cittadini ateniesi, dopo la battaglia di Salamina, seppellirono con devozione negli avvallamenti rocciosi del pianoro dell’Acropoli e che, per essere stati in tal modo riempiti, vengono collettivamente denominati «colmata persiana». Fu appunto sotto il governo di Pericle che si procedette alla ricostruzione degli edifici sacri della spianata, procurando il maggior diletto e ornamento per gli Ateniesi.

Nel 447, all’interno del grandioso programma di riattamento promosso dallo statista, l’edificio più importante fu il Partenone, costruito sotto la sovrintendenza (ἐπισκοπία) di Fidia, affiancato dagli architetti Callicrate e Ictino. Interamente realizzato in marmo pentelico, il tempio, un periptero dorico di 8 x 17 colonne, mostra una soluzione planimetrica senza precedente, essendo gli ottastili in genere dipteri o pseudodipteri. La scelta non era dovuta soltanto alla decisione di realizzare un edificio più grande – le dimensioni sono infatti prossime a quelle del tempio di Zeus a Olimpia –, ma derivava dall’eccezionalità dell’immagine di culto, la colossale statua crisoelefantina di Atena Parthenos, per la quale il tempio era stato progettato: la planimetria prescelta permetteva dunque di ottenere una cella di ampiezza significativamente maggiore di quella di un periptero esastilo di pari dimensioni e l’organizzazione del colonnato interno, disposto a Π, contribuiva a dare ulteriore risalto alla statua della dea. Della realizzazione del simulacro è pervenuta l’iscrizione frammentaria del rendiconto relativo alle spese (IG I³ 458): «Chichesippo del demo di Mirrinunte è stato segretario dei sovrintendenti alla costruzione della statua. Ricevuta da parte dei tesorieri, di cui Demostrato, figlio di Csipete, è stato loro segretario: 100 talenti. Tesorieri: Ctesio, Strosia, Antifate, Menandro, Timocare, Smocordo, Fidelide. Si è acquistato dell’oro per un valore di 6 talenti, 1618 dracme e 1 obolo; il costo complessivo è stato di 87 talenti, 4652 dracme e 5 oboli. Si è acquistata una partita d’avorio per 2 talenti e 743 dracme». Seguendo lo schema del tempio di Apollo a Corinto o dello stesso tempio pisistratide di Atena Polias sull’Acropoli, sul retro l’opistodomo si articola come un vestibolo, dando accesso a una sala posteriore, la cui copertura è sorretta da quattro colonne, forse ioniche, che incrementano le commistioni tra linguaggi morfologici diversi, presenti in vario modo nell’edificio.

Ictino, Callicrate e Fidia, Partenone. Tempio octastilo, periptero di ordine dorico, 447-438 a.C. Fronte occidentale e lato settentrionale. Atene, Acropoli.

Il monumento, che si configurava come un tempio-tesoro, destinato ad accogliere le dediche più preziose del santuario di Atena, dovette la sua eccezionalità alle esigenze connesse alla realizzazione di un ambizioso programma iconografico, di cui la statua della dea era essenzialmente il fulcro. All’esterno, infatti, si avvaleva di vari cicli figurativi, in larga parte volti all’esaltazione della comunità ateniese e a rivendicare il ruolo di “campione” nella lotta contro i barbari, che Atene rivendicava presso gli altri Greci: un fregio ionico che rappresentava la processione delle Panatenee lungo il perimetro esterno della cella; metope scolpite nel fregio dorico della peristasi; frontoni con statue.

Nel 437, mentre nel Partenone si completano i frontoni, fu aperto il cantiere dei Propilei, destinati a dotare il complesso sacro dell’Acropoli di un accesso monumentale adeguato alle ambizioni della πόλις. L’incarico di dirigere i lavori fu affidato a Mnesicle, il quale propose la realizzazione di una struttura complessa, che avrebbe integrato in un unico edificio il propileo vero e proprio, una sala da banchetti a nord e un vestibolo al santuario di Atena Nike a sud. Il progetto affrontava per la prima volta, a livello monumentale, le difficoltà dell’integrazione in un unico organismo di più strutture a scala diversa, anticipando quello che sarebbe stato un tema centrale dell’architettura ellenistica. La planimetria del complesso combinava in uno schema a Π un corpo centrale, anfiprostilo esastilo dorico, e due ali di proporzioni minori con prospetto tristilo in antis. A causa dell’orografia del sito, l’edificio centrale presentava quote diverse a est e a ovest, raccordate da gradini posti a ridosso del muro trasversale; il dislivello comportò lo sfalsamento della parte anteriore rispetto a quella posteriore, entrambe coperte con tetto a due falde, determinando così un doppio frontone sul prospetto ovest, comunque non percepibile da chi accedeva all’Acropoli. Alla parte anteriore del corpo centrale, la cui copertura era peraltro sostenuta da due file di alte colonne ioniche, furono collegate l’ala nord, che ospita un ampio ἑστιατόριον («salone del focolare»), e l’ala sud, che, pur salvaguardando la simmetria del prospetto, adottava una planimetria irregolare determinata dai vincoli imposti dal τέμενος di Atena Nike, che faceva da vestibolo di ingresso.

Atene. Acropoli, ναΐσκος di Athena Nike, sezione (disegno di Giraud, in Brouskari, 1997).

Tuttavia, il progetto non fu portato a compimento: a nord-est e a sud-est erano stati previsti anche altri due ambienti, attestati da diverse evidenze; se l’imminenza della guerra del Peloponneso fu all’origine di questa interruzione, essa non impedì comunque di porre mano alla realizzazione del nuovo tempio nel santuario di Atena Nike, forse proprio per l’attualità dell’epiclesi della dea. Questa costruzione fu intrapresa intorno al 427 con l’edificazione di un anfiprostilo tetrastilo ionico: la tipologia templare affondava le sue radici in modelli cicladici medio e tardo-arcaici e si era diffusa largamente in Atene e in altre località dell’Attica, durante l’epoca proto-classica. Il tempio di Atena Nike era infatti espressione di un’architettura di stile ionico affermatasi in Attica con forme ormai autonome, indipendenti dai modelli più antichi; i tratti più caratteristici si possono rilevare sia nelle proporzioni dell’ordine, con colonne e trabeazione relativamente pesanti, sia negli elementi morfologici, che combinano particolari di ascendenza cicladica o asiatica (capitelli d’anta, architravi a fasce) con componenti rielaborate in forme originali (capitelli e basi attiche).

L’ultimo edificio realizzato sull’Acropoli fu l’Eretteo, la cui costruzione (421-405) iniziò durante la «pace di Nicia», in una fase di ripresa delle tradizioni religiose e dei culti poliadici più ancestrali. Le apparenti irregolarità del complesso rispondono, oltre che alla particolare orografia del sito, a vincoli determinati dalla peculiare concentrazione nell’area di attività e testimonianze sacre. Ai culti di Poseidone, Eretteo, Boote ed Efesto (forse anche Atena) furono aggiunti anche il Κεκρόπιον e il Προστομιαῖον, la sorgente di acqua salata fatta scaturire, secondo il mito, da Poseidone, mentre il Πανδρόσειον, nel cui τέμενος c’erano l’olivo sacro ad Atena e l’altare di Zeus Herkèios, fu annesso in un recinto subito a ovest.

Atene. Acropoli, Eretteo, prospetto orientale (elaborazione grafica da Paton, Stevens, 1927).

Anche l’Eretteo risultò, dunque, una costruzione complessa, in cui il corpo principale venne suddiviso in due ambienti separati tra loro e aperti su quote diverse; mentre a est, infatti, la cella, preceduta da una facciata esastila ionica, si raccorda con il piano dell’Acropoli e fronteggia l’antico altare, i vani a occidente si aprono 3 m più in basso, su una corte a nord e sul Πανδρόσειον. La terminazione ovest, necessariamente contratta, fu risolta con un alto podio sormontato da un prospetto tetrastilo in antis con semicolonne ioniche addossate a pilastri: l’accesso ai vani occidentali e al Πανδρόσειον fu reso possibile da nord, tramite un ampio portico prostilo tetrastilo ionico a tal fine parzialmente sfalsato rispetto all’edificio principale. Addossata al suo angolo sud-ovest, presso la tomba di Cecrope, si trova la cosiddetta «Loggia delle Cariatidi», con figure femminili stanti in luogo di colonne, che riveste la funzione di ἡρῷον del mitico primo re dell’Attica. Sostanzialmente in controtendenza appare l’architettura dell’edificio, che, se da un lato recupera forme recessive, eco di soluzioni proto-classiche, dall’altro introduce un estremo decorativismo, estraneo alla cultura architettonica cicladico-attica, evidente sia nella sovrabbondanza dell’intaglio decorativo, sia nella ricercata dicromia dei fregi, configurandosi come il corrispettivo in architettura dello “stile ricco” della scultura contemporanea.

Genserico, i Vandali e il nuovo sacco di Roma

Nella lingua italiana il termine “vandalo” è da sempre sinonimo di distruttore selvaggio, che, senza alcuna motivazione ma solo come manifestazione di violenza, per gusto perverso o per ignoranza, devasta e rovina beni e oggetti di valore, e soprattutto monumenti, opere d’arte. Con questa accezione, nel suo Rapport sur les destructions opérées par le vandalisme, et sur les moyens de le réprimer del 1794, l’abate Henri Grégoire, vescovo costituzionale di Blois, coniò il concetto di “vandalismo”. La pessima nomea, che dall’antichità al Rinascimento, fino all’età moderna, accompagnò il popolo dei Vandali deriva dalle sanguinarie imprese compiute durante la conquista della dioecesis Africae nel V secolo (Possid. Vita August. 31, 1, Romaniae eversores). I Vandali erano una stirpe germanica del gruppo etnico orientale, suddivisi nei due rami degli Asdingi e dei Silingi. A causa della pressioni unniche e della carestia, intorno al 400, sotto re Godigiselo (PLRE 2, 515-516), gli Asdingi lasciarono le proprie sedi in Pannonia e si portarono in Raetia. Nel 401/2 furono sconfitti in battaglia dal “generalissimo” Flavio Stilicone, che, indottoli a concludere un foedus, consentì loro di insediarsi tra il Noricum e la Vindelicia. Nel 405 Godigiselo ruppe l’accordo con l’Impero romano e, unitosi all’orda barbarica di Radagaiso, invase l’Italia, dove, nei pressi di Florentia, fu battuto ancora una volta dalle forze di Stilicone. Nel 406, alleato con Alani e Suebi, Godigiselo portò i suoi nella valle del Meno, riunì sotto di sé tutte le tribù vandaliche e mosse in armi contro i Franchi, foederati dei Romani, che difendevano la frontiera renana nei pressi di Augusta Treverorum: mentre infuriava la zuffa, però, il re dei Vandali cadde ucciso (Greg. Tur. Hist. Franc. II 9; Theoph. HE 5931; 6026; cfr. Procop. Bell. III 3, 1-2). Gli successe il figlio Gunderico (PLRE 2, 522), che, unite le sue forze a quelle degli Alani di re Respendiale, sconfisse i Franchi e alla fine del 406 attraversò il Reno. Senza incontrare alcuna resistenza, i barbari invasero e saccheggiarono le Galliae con grande ferocia (Oros. VII 3, 4; Chron. min. I 299; 465 Mommsen; Zos. VI 3), poi, nel 409, varcarono i Pirenei (Chron. min. II 17 Mommsen; Soz. IX 12; Greg. Tur. Hist. Franc. II 2). Le distruzioni causate da questi razziatori sia in Gallia sia in Hispania dovettero essere state notevoli. Pur dando per scontata una certa esagerazione delle fonti letterarie, come la nota immagine, prospettata dal vescovo Orienzio nel suo Commonitorium, dell’intera Gallia invasa dal fumo di un’unica pira funeraria (Orien. Comm. II 184, uno fumavit Gallia tota rogo), occorre considerare che per due anni l’intero settore subì l’assalto degli invasori e la stessa sorte toccò alla Penisola iberica nei due anni successivi.

Cavaliere vandalico. Illustrazione di J. Shumate.

Tra l’altro, siccome la dioecesis Hispaniarum non era una regione di frontiera, le truppe imperiali di stanza sul posto erano poco numerose e, quindi, incapaci di proteggere la popolazione da una simile minaccia: nel suo De gubernatione Dei il moralista Salviano di Marsiglia ricorda quanto facilmente i Vandali poterono spazzare via le forze romane in battaglia (Salv. Gub. VII 12, 52, Quid in Hispania, ubi etiam exercitus nostros bellando contriverant?). Inoltre, non erano soltanto i barbari a causare distruzioni, debacchantibus per Hispanias: il vescovo Idazio, un cronista del tempo (Chron. min. II 17 Mommsen), parla anche di gravi pestilentiae, della perdita di ricchezza da parte dei centri urbani a causa del tyrannicus exactor e di terribili carestie tali da indurre perfino le madri a cuocere e cibarsi dei loro stessi pargoli (matres quoque necatis vel coctis per se natorum sint pastae corporibus); simili notizie si ritrovano anche nell’Historia Wandalorum compilata da Isidoro, vescovo di Hispalis (Chron. min. II 295 Mommsen). Sembra che la situazione cominciò a migliorare nel 411 allorché i barbari delle Hispaniae decisero di concludere la pace con le autorità romane e di trovare un accomodamento, secondo i dettami della foederatio e dell’hospitalitas (cfr. C.Th. VII 8, 5): i Vandali Asdingi di Gunderico presero una parte della Gallaecia, mentre i Suebi occuparono la parte restante, che si affacciava sull’Oceano; gli Alani ebbero la Lusitania e la Carthaginensis, mentre i Vandali Silingi la Baetica (Oros. VII 40, 10). Secondo Idazio, gli Hispani delle città e dei castelli sopravvissuti alle catastrofi (residui a plagis) si arresero a diventare servi dei nuovi arrivati, che detenevano il potere in tutte le province. Sembra che la migrazione e l’insediamento dei Vandali nella Penisola iberica siano stati provocati dalle pressione dei Visigoti.

Nel 416 il re goto Wallia dei Balti (PLRE 2, 1147), infatti, concluse un foedus con l’Impero d’Occidente. Poco tempo dopo, onorando l’accordo, Romani nominis causa Wallia mosse guerra ai barbari delle Hispaniae e ne fece strage: stando a Idazio (Chron. min. II 19 Mommsen), tutti i Silingi della Baetica furono spazzati via, il loro re Fredebaldo fu catturato e tenuto come ostaggio a Ravenna, mentre gli Alani subirono perdite tali che i pochi sopravvissuti, ormai privi della loro guida, re Attace, si posero sotto il comando di Gunderico, che da allora si fregiò del titolo di rex Vandalorum et Alanorum (Oros. VII 43, 10-15; Olympiod. F Blockley).

Mappa della Penisola iberica nel V secolo relativa all’insediamento delle popolazioni barbariche.

Comunque, l’avvenimento più importante della storia dei Vandali fu la loro partenza dalle Hispaniae a seguito dell’intrepida decisione di Genserico. Le fonti antiche offrono di questo sovrano un ritratto a dir poco negativo: variamente noto come Gaisericus, Geisiricus, Ginziricus o Γιζέριχος, il re dei Vandali appare come il vero prototipo del barbaro efferato, crudele e astuto, abituato a vivere con poco, ma, al contempo, avido di ricchezze altrui, facile all’ira e incline all’intrigo, completamente privo di quell’umanità e di quel rispetto delle leggi che altri condottieri germanici avevano appreso e assorbito al contatto con i Romani (Iord. Get. 33, 168). Il suo fanatismo religioso lo spinse a instillare nei suoi la convinzione che la conquista della dioecesis Africae fosse una vera e propria “guerra santa” contro le gerarchie ecclesiastiche niceno-calcedoniane, colpevoli della persecuzione degli ariani. La descrizione di Genserico e dei suoi è talmente convenzionale da aver fatto sorgere il dubbio, fra gli interpreti moderni, che si tratti, se non di una mistificazione, almeno di un’esagerazione della propaganda cattolica: più terribili erano le efferatezze attribuite a Genserico, più luminosa ed eroica sarebbe apparsa l’opposizione del clero e dei fedeli ortodossi (Possid. Vita August. 28, 4; Socr. HE VII 9-10; Soz. HE IX 6; Procop. Bell. III 5, 25; Salv. Gub. VII 12, 54).

Chi era, allora, questo rex superbissimus, impius fautore dell’Arriana perfidia? Un uomo crudele e selvaggio, così come viene dipinto dagli scrittori contemporanei, oppure un sovrano capace e lungimirante, un capo carismatico e un guerriero eccellente, abile creatore e amministratore di regni? È noto che Genserico era figlio illegittimo di Godigiselo e, sebbene fosse nato da una concubina, ancora giovane, nel 428 successe come re al fratellastro Gunderico – questi, secondo Idazio, sarebbe morto dopo essere stato reso pazzo da un demone a seguito della conquista di Hispalis (Sidon. Carm. III 358-380; V 97; Procop. Vand. I 3, 23; Chron. min. II 22 Mommsen). Dal momento che l’accessione al trono di Genserico avvenne senza opposizioni, è probabile che, a quel tempo, presso i Vandali la semplice appartenenza di uno dei due genitori alla famiglia reale asdinga garantisse ai figli il diritto di essere considerati membri della dinastia e consentisse loro di aspirare al regno. Onde evitare il rischio che tali diritti fossero messi in discussione, Genserico tolse di mezzo la cognata e il nipote. Sin da subito egli si mostrò un uomo forte e autoritario, dotato di un’ottima esperienza in guerra e di un’intelligenza non comune, capace di trascinare il suo popolo in un’impresa piena di incognite (cfr. Procop. Bell. III 3, 24).

Un guerriero vandalo e la sua famiglia. Illustrazione di P. Glodek.

Nel maggio del 429 Genserico raccolse tutta la sua gente – i Vandali e gli Alani, con mogli, figli e tutte le persone a loro carico – nel porto di Iulia Traducta in Baetica, presso le Colonne d’Ercole, e ne organizzò l’emigrazione. Appena prima di compiere la traversata, Genserico respinse un’offensiva scatenata dagli Svevi alla provincia romana, ne inseguì le truppe in fuga fino in Lusitania e inflisse una dura disfatta al loro re, Eremigario, nei pressi di Augusta Emerita (Chron. min. II 21 Mommsen). Si disse che in Tingitana fossero sbarcati 80.000 Vandali. Come spesso accade, quello delle cifre è un problema cruciale ed è stato molto dibattuto in relazione ad altre migrazioni barbariche. Il vescovo Vittore di Vita, autore dell’Historia persecutionis Africanae provinciae, scrisse, come lui stesso riferisce, a circa sessant’anni dall’evento. Afferma che in tanti oltrepassarono il mare e Genserico, nella sua astuzia (calliditate), volendo fare della fama del suo popolo (crudelis ac saevus) una fonte di terrore, ordinò che l’intero assembramento venisse contato, compresi i neonati venuti alla luce quello stesso giorno. Insomma, inclusi vecchi, ragazzi e bambini, servi e padroni, si scoprì che formavano un totale di 80.000 persone. La notizia venne diffusa ad arte ovunque e ancora ai suoi tempi, continua Vittore, gli ignoranti in materia credevano che questo fosse il numero degli armati (Vict. Vit. HP I 1, 1-2). Inoltre, secondo Possidio (Vita August. 28), l’orda di Genserico era composta non solo da Vandali e Alani, ma anche un consistente gruppo di Goti (… immanium hostium Vandalorum et Alanorum commixtam secum habens Gothorum gentem…).

È bene notare che il sovrano vandalico, con tutta probabilità, volle diffondere cifre che avrebbero fatto colpo e creato preoccupazione dovunque. La notizia trova conferma nel racconto di Procopio di Cesarea, per il quale si tratto di uno stratagemma cui Genserico ricorse per far credere ai Romani di disporre di un numero maggiore di soldati di quanto non fossero in realtà – ovvero, verosimilmente, meno di 10.000 (Procop. Bell. III 5, 18).

Lo sbarco di Genserico in Nordafrica. Illustrazione di A. McBride.

A ogni modo, attrattovi dalla situazione di caos venutasi a creare per la rivolta dei Mauri, che le autorità imperiali non riuscivano a controllare, e forse chiamato dal comes Africae Bonifacio, in rotta di collisione con l’imperatore, Genserico portò a termine la traversata e raggiunse la Mauritania (Chron. min. I 472; II 21 Mommsen; Procop. Bell. III 3, 23-26; Iord. Get. 23, 167-169). Da lì, distrutta Altava, i Vandali investirono le città di Tassacora, Portus Magnus, Cartenna, Caesarea, Icosium, Autia e Sitifis, e, muovendo per 2.000 km verso est, lungo gli assi viari della costa, raggiunsero le tre popolose province di Numidia, Proconsularis e Byzacena. Anche lì i barbari saccheggiarono diversi centri abitati, quali Cirta, Calama, Thagaste, Sicca e Thuburbo Maior: migliaia di persone vennero trucidate e un numero ancor maggiore fu ridotto in schiavitù. Dopo aver sbaragliato a più riprese le forze romane, nell’estate del 430 i Vandali raggiunsero la città di Hippo Regius: durante l’assedio, il 28 agosto, si spense l’uomo che ne era stato vescovo per trentacinque anni, Aurelio Agostino forse il più grande teologo nella storia della Chiesa (Possid. Vita August. 28-30; Chron. min. I 473; II 22 Mommsen). Dopo quattordici mesi di blocco, nel 431 la città cadde in mano agli assalitori (Procop. Bell. III 3, 31-34).

Genserico sapeva bene che ogni conquista andava consolidata e, siccome la guerra cominciava a pesare anche per la sua gente, avendo preso il controllo di una sola città, ebbe l’accortezza di intavolare trattative con l’imperatore Valentiniano III (PLRE 2, 1138-1139): così l’11 febbraio 435 si addivenne a un trattato di pace, in forza del quale i Vandali furono individuati come foederati al servizio dell’Impero per la Numidia Cirtana (Chron. min. I 474 Mommsen). Ciononostante, ben presto, Genserico iniziò a comportarsi come un sovrano autonomo, esercitando sulla regione un potere assoluto: tutte le terre, sia pubbliche sia di proprietà privata, furono confiscate e annesse al demanio regio, quindi suddivise in lotti e distribuite ai più fedeli soldati del re (sortes Vandalorum). Quanto alle popolazioni locali, scampate alla morte o alla servitù, le comunità africane furono costrette al pagamento di tributi assai onerosi, nonostante la formale conservazione della legislazione imperiale (cfr. Procop. Bell. III 5, 16). Le fonti documentali, confluite nel corpus di Vittore di Vita, come la già nominata Historia persecutionis Africanae provinciae, la Notitia provinciarum et civitatum Africae e la Passio beatissimorum martyrum, tramandano una delle pagine più terribili della storia della repressione ariana contro l’ortodossia nicena: sono innumerevoli gli episodi di torture inflitte agli ecclesiastici e ai fedeli, che, durantes in catholica fide, preferirono subire il martirio piuttosto che abiurare. Si narra come gli sfortunati fossero costretti a bere aceto o liquidi corporali, o a trascinare enormi pesi; coloro che rifiutavano di abbracciare l’Arriana impietas erano messi all’ergastolo, condannati all’esilio o, preferibilmente, uccisi. Si racconta di prelati arsi sul rogo, dilaniati dalle belve nel circo o legati a cavalli e trascinati su terreni accidentati. Tutti gli eventi narrati, comunque, vengono tendenzialmente ridotti a uno scontro fra omousiani e ariani, nel quale i primi vengono rappresentati come pii sottoposti alle più atroci torture, descritte finanche con eccessiva dovizia di particolari, mentre i secondi risultano sempre essere spietati carnefici, protagonisti negativi di una concatenazione di piccole rappresentazioni agiografiche (cfr. Vict. Vit. HP I 3-4; I 6; I 8; I 10; I 12; Nov. Val. II 12, 13, 6; Ferrand. Vita Fulg. I 4). Chiaramente negli episodi dello scontro vengono meno le considerazioni politiche, economiche e militari dei soggetti agenti.

Città del Vaticano. Ms. Vat. gr. 1613 (c. 1000). Menologio di Basilio II, f. 172r. Il martirio di Oreste di Cappadocia.

Instaurato il proprio regno nel Nordafrica, Genserico divenne ben presto una figura importantissima negli equilibri mediterranei e influì di molto sulle vicissitudini dell’Impero d’Occidente: difatti, fra i sovrani barbarici insediati entro i confini di Roma, Genserico fu sotto molti riguardi quello che ottenne i maggiori successi. Quanto alla gestione del regno, a quanto pare, egli operò una serie di riforme: il sovrano doveva essere coadiuvato da ministri e burocrati, in massima parte di stirpe vandalica, ma anche di origini romane. Nella persona del re erano concentrati tutti i poteri, come il comando degli eserciti e l’esercizio della giustizia. Inoltre, solo a lui era consentito elargire donativa, in moneta sonante o in beni immobili, ai propri sudditi.

Regno dei Vandali. Genserico. Siliqua, Cartagine c. 455-476. AV 4,25 g. Recto: busto diademato, imperlato, drappeggiato e corazzato dell’imperatore (Onorio), voltato a destra.

L’ambizione di Genserico non sembrava conoscere limiti. Stando alle cronache, nel 439 l’Asdingo mosse fuori dai suoi confini e, rotti i patti con Roma, attaccò Cartagine, per importanza la seconda città della pars Occidentis e porto di fondamentale rilevanza per gli approvvigionamenti annonari necessari al mantenimento dell’Urbe: il 19 ottobre Cartagine fu espugnata magna fraude (Vict. Vit. HP I 12-14; Chron. min. I 477; II 23; 80; 296 Mommsen). Nel suo sermone De tempore barbarico (2, 5), il vescovo Quodvultdeus, scampato al pericolo delle persecuzioni trascorrendo l’esilio a Napoli, compianse gli orrori che i Cartaginesi dovettero patire e lamentava come l’empio dominio dei Vandali avesse provocato un sovvertimento sociale, rendendo persino i padroni di molti servi asserviti ai nuovi arrivati. La presa della metropoli, che di lì a poco divenne la capitale del regno, completò la conquista vandalica della dioecesis Africae, costituendo una robusta base di potere nel Mediterraneo occidentale. Il successo e la longevità del dominato degli Asdingi in Nordafrica dipesero in gran parte dal nuovo foedus siglato nel 442 tra Genserico e Valentiniano III: con questo accordo l’imperatore riconobbe formalmente il regno vandalico e il sovrano barbaro «alleato e amico» dell’Impero, ma i Vandali avrebbero dovuto corrispondere al governo di Roma un tributo in moneta e in natura (Vict. Vit. HP II 39; III 4; Procop. Bell. III 5, 12-13); per garantire la tenuta del patto, il principe Unnerico (PLRE 2, 572-573) fu inviato a Roma come ostaggio e promesso alla figlia dell’imperatore, Eudocia, che all’epoca aveva solo sette anni (PLRE 2, 407-408; Procop. III 4, 13-14; Merob. Pan. I 7-8; 17-18; II 29; Chron. min. I 479 Mommsen). Mai, prima di allora, la linea politica ufficiale aveva contemplato una simile alleanza tra i barbari e la famiglia imperiale; senza contare che avrebbe avuto ripercussioni di lunghissima durata. Genserico, infatti, diede prova di essere un sovrano energico e lungimirante, stratega eccellente e capace di condurre i suoi di vittoria in vittoria e fu uno dei grandi sopravvissuti del V secolo: sfuggì a una grave congiura, probabilmente finanziata o voluta dal governo imperiale (Iord. Get. 34, 169), scampò al massiccio attacco navale condotto contro di lui nel 460 dall’imperatore d’Occidente riuscendo a catturare gran parte della flotta romana; sopravvisse alla disastrosa spedizione inviata da Costantinopoli nel 468; e fu persino in grado di sopravvivere all’istituzione imperiale in Occidente, morendo nel 477.

L’estensione del regno vandalico tra il 435 e il 442 [Modéran 1998].

Indubbiamente, la figura di Genserico è legata al secondo grande saccheggio di Roma. Il 17 marzo 455, subito dopo l’assassinio di Valentiniano III, il senatore Petronio Massimo (PLRE 2, 749-751), ispiratore della congiura, venne proclamato imperatore, ma il suo regno ebbe vita assai breve, durato soltanto undici settimane. La morte di Valentiniano III, infatti, ebbe come immediata conseguenza la rottura del delicato complesso di equilibri sul quale si fondavano i rapporti tra l’Impero e i Vandali, cosicché il conflitto divenne inevitabile (Chron. min. I 483-484; II 86 Mommsen; Iord. Rom. 334).

Re Genserico si mosse con una straordinaria rapidità e un eccezionale tempismo: alla fine di maggio, la flotta vandalica, con un minaccioso carico di armati, aveva già raggiunto la foce del Tevere. Le cause delle ostilità aperte da Genserico, nel giugno 455, con l’assedio di Roma sono esposte nei dettagli dallo storico Giovanni di Antiochia (FHG IV 201, 6 Müller). Lo scrittore riferisce che il re dei Vandali, quando Massimo fu eletto imperatore, ritenne che fosse venuto finalmente il momento giusto per assalire l’Italia, in quanto la morte degli animatori e dei firmatari del trattato di pace del 442 rendeva legittimo il suo atto. Altre fonti (οἱ δέ φασι), invece, riferiscono che il motivo per cui Genserico decise di violare la pace per dare l’avvio alla «quarta guerra punica» (come la definì Sidonio Apollinare, Carm. VII 550-556; 588), fu la richiesta d’intervento espressagli esplicitamente dall’imperatrice, l’Augusta Licinia Eudossia (PLRE 2, 410-412), decisa a vendicare l’uccisione del marito e l’onta delle odiate nozze a cui Massimo l’aveva costretta (cfr. Procop. Bell. III 4, 37-39; Malal. Chronogr. 14, 26, 365; CP 592, 2-7). Anche nel Panegyricus dictus Avito Augusto di Sidonio Apollinare (Carm. VII 441), recitato il 1° gennaio 456, si allude alle «armi furtive del Vandalo» (furtivis Vandalus armis), che ebbe ragione di Roma nn con una guerra giusta e leale, ma per il tradimento dell’imperatrice. In realtà, la strategia usata da Genserico rende probabile l’ipotesi che già da tempo il re avesse deciso di violare i trattati di pace del 442 e di prepararsi a entrare in guerra. La rapida e fortunata incursione sulle coste laziali fu resa possibile da una grande spedizione marittima, a cui presero parte anche soldati libici reclutati sulle coste africane. Quindi, difficilmente si sarebbe potuta improvvisare una simile spedizione in tempi brevi. Genserico si ritenne svincolato dai patti che lo legavano all’Impero romano oltre che dalla morte di coloro che li avevano stipulati, in particolare Valentiniano (la cui scomparsa fornì il pretesto per iniziare la guerra), anche dall’ascesa sul trono d’Occidente di un sovrano che non era investito di un’autorità legittima. Massimo era un usurpatore, e pertanto bisognava rispondere all’invito di Eudossia.

La flotta di Genserico in viaggio verso Roma. Illustrazione di S. Ó’Brógáin.

Quali che furono le cause, Genserico si lanciò all’attacco di Roma. La sua efficiente marina poteva contare su un valido corpo di soldati, anche se il re non aveva certamente con sé tutti gli uomini (Vandali e Alani) abili alle armi, la cui presenza era troppo necessaria in Africa per gestire l’immenso territorio controllato. Si valse però del contributo e della preparazione militare di guerrieri mauri e libici (Paul. Diac. Rom. XIV 16). Per trasportare il corpo di spedizione (si calcola che il suo esercito dovesse essere composto da almeno 14.000 uomini), sembra che Genserico non disponesse di grandi navi, bensì, in prevalenza, di piccoli e veloci legni. Roma non era affatto preparata a fronteggiare un attacco di tale entità: i generali dell’Impero, tra i quali all’epoca si distinguevano Maggiorano e Ricimero, erano ancora impegnati, con le poche forze disponibili, nell’Italia settentrionale. Tutto sommato, la città era considerata sicura per la famiglia imperiale, trasferitavisi al tempo delle incursioni di Attila, e il suo perimetro era quasi indifeso. L’imperatore Massimo, dal canto suo, avvertiva uno spiacevole presentimento, se, come riferisce Sidonio Apollinare (Ep. II 13, 5), considerava felice Damocle per il fatto che, almeno solo per la durata di un banchetto, aveva dimenticato la minaccia della spada che stava sospesa sulla sua testa (felicem te, Damocles, qui non uno longius prandio regni necessitatem toleravisti). L’imperatore sapeva probabilmente che Genserico lo considerava un usurpatore, e non rimase poi molto stupito quando il suo presagio divenne realtà.

Dopo una felice e tranquilla navigazione, la flotta vandalica giunse alle foci del Tevere. Gli storici non precisano dove avvenne lo sbarco dei Vandali, né l’itinerario seguito da Genserico per arrivare in Italia. Procopio (Bell. III 5, 1) dice semplicemente che «salpò per l’Italia con una potente flotta» (στόλῳ πολλῷ ἐς Ἰταλίαν κατέπλευσεν): probabilmente i Vandali sbarcarono a Ostia e, subito dopo, s’impadronirono di Porto, che certamente divenne la base per le operazioni successive e da cui, seguendo la via Portuense, si incamminarono verso Roma. Genserico, condottiero troppo prudente ed esperto per spingersi subito sotto le mura della città, al sesto miglio della vecchia porta claudiana fermò le sue truppe. Questo particolare si deduce dal frammento già citato dell’Antiocheno (FHG IV 201, 6 Müller), secondo il quale i Vandali si sarebbero accampati «in Azesto» (ἐν τῷ Ἀζέστῳ). Dal momento che non esiste nella campagna romana una località con questo nome, sembra evidente che si tratti di una corruzione dell’espressione a sexto (miliario): dunque, l’accampamento dei Vandali doveva trovarsi sulle colline, nei pressi dell’attuale Magliana. Se a Roma qualcuno avesse organizzato una valida difesa, probabilmente sarebbe stato difficile per gli invasori superare la cinta muraria che l’imperatore Aureliano aveva fatto costruire a protezione della città. Invece gli avvenimenti precipitarono. Giovanni di Antiochia (ad l.c.) riferisce che Massimo, venuto a conoscenza dell’imminente arrivo di Genserico, pensò soltanto ad abbandonare la città. Dato il segnale del “si salvi chi può”, si avviò a cavallo verso una porta, «ma i suoi più fidi servi e gli uomini della guardia imperiale, nel vederlo fuggire, lo insultarono e lo vituperarono per la viltà. Quando già era quasi in salvo, un tale lo colpì con una pietra alla tempia, uccidendolo. La folla, poi, gli fu addosso, lo fece a pezzi e ne portò in giro le membra sulle picche» (αὐτῶν τῶν βασιλικῶν δορυφόρων καὶ τῶν ἀμφ’ αὐτὸν ἐλευθέρων οἷς μάλιστα ἐκεῖνος ἐπίστευεν, ἀπολιπόντων, οἳ ὁρῶντες ἐξελαύνοντα ἐλοιδόρουν τε καὶ δειλίαν ὠνείδιζον· τῆς δὲ πόλεως ἐξιέναι μέλλοντα βαλών τις λίθῳ κατὰ τοῦ κροτάφου ἀνεῖλε· καὶ τὸ πλῆθος ἐπελ θὸν τόν τε νεκρὸν διέσπασε, καὶ τὰ μέλη ἐπὶ κόντῳ φέρων ἐπαιωνίζετο; cfr. Procop. Bell. III 5, 2). Alcune fonti riportano il nome dell’uccisore: Giordane (Get. 45, 235) dice che fu un soldato romano di nome Urso, mentre, secondo Sidonio (Carm. VII 442), fu un milite burgundo della guardia del corpo, che era quasi tutta composta da barbari. Due giorni dopo, Genserico, avendo saputo che Roma era senza governo e senza difesa, l’assediò per quattordici giorni: vinta facilmente la resistenza degli abitanti, il Vandalo decise di espugnarla, ma accadde allora qualcosa che non aveva calcolato. Ad attenderlo, trovò papa Leone I: si ripeteva quanto era già accaduto tre anni prima con Attila. Ancora una volta, all’avvicinarsi di un nemico tanto temibile e preceduto da una fama terribile, il papa ritenne opportuno intervenire in prima persona, sperando di limitare i danni (Chron. min. I 484 Mommsen; Paul. Diac. Rom. XIV 16).

The Hague, Koninklijke Bibliotheek. MMW 10 A 11 (XV secolo), Saint Augustin, La Cité de Dieu, traduite en français par R. de Presles, f. 15r. Papa Leone il Grande convince Genserico ad astenersi dal saccheggio di Roma.

L’impresa riuscì anche questa volta, anche perché i Vandali non erano più l’orda scalmanata che aveva attraversato il Noricum e la Gallia. Genserico li teneva in pugno e, con un solo cenno, poteva incitarli alla distruzione, ma anche obbligarli a rispettare determinati vincoli. Quando Leone I e il sovrano barbaro si trovarono di fronte, quest’ultimo provò rispetto per il pontefice e forse subì, come già Alarico e poi Attila, il fascino della città Eterna. Qualcosa scosse l’animo di Genserico, che diede l’ordine di non appiccare incendi e di non abbandonarsi a inutili spargimenti di sangue. In quell’occasione, a quanto sembra, la foga distruttiva e priva di senso che ancora oggi è chiamata “vandalismo” non si manifestò. Un condottiero non poteva privare comunque i suoi soldati dalla preda bellica – oro, argento, oggetti preziosi –, come imponevano le dure leggi della guerra, e il papa non poté quindi impedire il sistematico saccheggio di Roma. I Vandali portarono via con loro anche uno stuolo di prigionieri: in particolare prelevarono quelli che, per età o per prestanza fisica, potevano essere impiegati utilmente in Africa e coloro che, per condizione sociale, potevano essere oggetto di un buon riscatto. Del gruppo facevano parte anche l’imperatrice Eudossia con le due figlie, Placidia ed Eudocia, e Gaudenzio, figlio del generale Ezio, più diversi senatori, che non erano fuggiti (Iord. Rom. 334; Procop. Bell. III 5, 3-5; Malal. Chronogr. 14, 26, 366; Chron. min. II 86 Mommsen). Così, finita la ragione della sua “permanenza” a Roma, Genserico prese la via del ritorno e, senza altri atti di guerra, tornò in Africa per celebrare al più presto il matrimonio tra suo figlio Unnerico e la principessa Eudocia (Procop. Bell. III 5, 6).

***

Riferimenti bibliografici:

V. Aiello, I Vandali nell’Africa romana: problemi e prospettive di ricerca, MedAnt 8 (2005), 547-569.

D. Álvarez Jiménez, Vándalos y vandalismo, RH 8 (2008), 112-122.

D. Álvarez Jiménez, Sidonius Apollinarsi and the Fourth Punic War, in D. Hernández de la Fuente (ed.), New Perspectives on Late Antiquity, Cambridge 2011, 158-172.

D. Álvarez Jiménez, Aníbal vándalo y la ‘Cuarta Guerra Púnica’. El uso del recuerdo púnico en el contexto del conflicto vándalorromano, in S. Remedios, F. Prados, J. Bermejo (eds.), Aníbal de Cartago. Historia y Mito, Madrid 2012, 457-491.

R. Arcuri, La regalità presso i Vandali. Prospettive storiche ed etnografiche, in L. De Salvo, E. Caliri, M. Casella (eds.), Fra Costantino e i Vandali. Atti del Convegno Internazionale di Studi per Enzo Aiello (1957-2013), Messina, 29-30 ottobre 2014, Bari 2016, 545-561.

A. Ben Abed-Ben Khader, L’Afrique au V ͤ siècle à l’époque vandale : nouvelles données de l’archéologie, in Carthage. L’histoire, sa trace, son écho, Paris 1955, 308-315.

G.-M. Berndt, Konflikt und Anpassung. Studien zu Migration und Ethnogenese der Vandalen, Husum 2007.

G.-M. Berndt, R. Steinacher (eds.), Das Reich der Vandalen und seine Vorgeschichte(n), Wien 2008.

G.-M. Berndt, R. Steinacher (eds.), Arianism: Roman Heresy and Barbarian Creed, Farnham-Burlington 2014.

A.E.R. Boak, Manpower Shortage and the Fall of the Roman Empire in the West, Westport 1974.

C. Bourgeois, Les Vandales, le vandalisme et l’Afrique, AntAfr 16 (1980), 213-228.

P.R.L. Brown, Religious Dissent in the Later Roman Empire: the Case of North Africa, History 46 (1961), 83-101.

H. Castritius, Die Vandalen. Etappen einer Spurensuche, Stuttgart 2007.

H. Castritius, Barbaren im Garten ‘Eden’: Der Sonderweg der Vandalen in Nordafrika, Historia 59 (2010), 371-380.

M.B. Charles, Ramming the Enemy in Late Antiquity: Galleys in the Fifth Century A.D., Latomus 59 (2010), 479-488.

D. Claude, H. Reichert, s.v. Geiserich, RGA 10 (1998²), 567-584.

F.M. Clover, Geiseric the Statesman: A Study in Vandal Foreign Policy, Chicago 1966.

F.M. Clover, Le culte des empereurs dans l’Afrique vandale, BACTHS 15/16 (1984), 121-128.

F.M. Clover, The Late Roman West and the Vandals, London 1993.

C. Courtois, Les Vandales et l’Afrique, Paris 1955.

A. Demandt, Vandalismus. Gewalt gegen Kultur, Berlin 1997.

H.-J. Diesner, Das Vandalenreich Aufstieg und Untergang, Stuttgart 1966.

J. Durliat, Les grandes propriétaires africains et l’état byzantin, CT 29 (1981), 517-531.

J. Durliat, Le salaire de la paix sociale dans les royaumes barbares (V ͤ-VI ͤ siècles), in H. Wolfram, A. Schwarcz (eds.), Anerkennung und Integration. Zu den wirtschaftlichen Grundlagen der Völkerwanderungszeit 400-600, Wien 1988, 21-72.

N. Francovich Onesti, I Vandali. Lingua e storia, Roma 2002.

E.-F. Gautier, Genséric, roi des Vandales, Paris 1937.

M.E. Gil Egea, Piratas o estadistas: la pólitica exterior del reino vandalo durante el reinado de Genserico, Polis 9 (1997), 107-129.

M.E. Gil Egea, África en tiempos de los Vándalos, Alcalá de Henares 1998.

A. Gitti, Eudossia e Genserico, ASI 83 (1925), 3-38.

W. Goffart, Barbarians and Romans AD. 418-584. The Techniques of Accomodation, Princeton 1980.

W. Goffart, Barbarian Tides. The Migration Age and the Later Roman Empire, Philadelphia 2006.

M. Guarducci, Licinia Eudoxia imperatrice d’Occidente, BCACR 93 (1989-1990), 41-52.

P. Heather, L’Impero e i barbari. Le grandi migrazioni e la nascita dell’Europa, Milano 2010.

T. Howe, Vandalen, Barbaren und Arianer bei Victor von Vita, Frankfurt-a.-M. 2007.

C. Lepelley, Les cités de l’Afrique romaine au Bas-Empire 1: La permanence d’une civilisation municipale, Paris 1979.

F. Lot, Du régime de l’hospitalité, RBPH 7 (1928), 975-1011.

A.H. Merrills, The Origins of “Vandalism”, IJCT 16 (2009), 155-175.

A.H. Merrils, R. Miles, The Vandals, Oxford 2010.

R. Miles, Vandal North Africa and the Fourth Punic War, CPh 112 (2017), 384-410.

Y. Modéran, L’Afrique et la persécution vandale, in Histoire du Christianisme, 3, Paris 1998, 247-278.

Y. Modéran, Une guerre de religion: les deux églises d’Afrique à l’époque vandale, AntTard 11 (2003), 21-44.

Y. Modéran, L’établissement territorial des Vandales en Afrique, AntTard 10 (2002), 87-122.

Y. Modéran, Les Vandales et l’Empire romain, Arles 2014.

F. Montone, Il barbaro che Roma non sconfisse. Il vandalo Genserico in una similitudine del poeta Sidonio Apollinare, Salternum 16 (2012), 67-77.

J. Moorhead (ed.), Victor of Vita: History of the Vandal Persecution, Liverpool 1992.

A. Morazzani, Essai sur la puissance maritime des Vandales, BAGB 4 (1966), 539-561.

J.M. O’Flynn, Generalissimos of the Western Roman Empire, Edmonton 1983.

W. Pohl (ed.), Kingdoms of the Empire. The Integration of Barbarians in Late Antiquity, Leiden-New York-Köln 1997.

W. Pohl, The Vandals: Fragments of a Narrative, in A.H. Merrils (ed.), Vandals, Romans and Berbers. New Perspectives on Late Antique North Africa, London 2004, 31-48.

T.W. Potter, Le città romane dell’Africa settentrionale nel periodo vandalico, in P. Delogu (ed.), Le invasioni barbariche nel meridione dell’Impero: Visigoti, Vandali, Ostrogoti, Soveria Manelli 2001, 119-150.

U. Roberto, Roma capta. Il sacco della città dai Galli ai Lanzichenecchi, Roma-Bari 2012.

U. Roberto, Dépouiller Rome? Genséric, Avitus et les statues en 455, RH 684 (2017), 775-801.

A. Rodolfi, A Difficult Co-exstince in Vandal Africa: King Genseric and Catholics, SPatr 39 (2006), 117-124.

J.J. Saunders, The Debate on the Fall of Rome, History 48 (1963), 1-17.

L. Schmidt, Histoire des Vandales, Paris 1953.

A. Schwarcz, The Settlement of the Vandals in North Africa, in A.H. Merrills (ed.), Vandals, Romans and Berbers. New Perspectives on Late Antique North Africa, London 2004, 49-57.

D. Shanzer, Intention and Audiences: History, Hagiography, Martyrdom, and Confession in Victor of Vita’s Historia Persecutionis, in A.H. Merrils (ed.), Vandals,

Romans and Berbers. New Perspective on Late Antique North Africa, London 2004, 271-290.

Y. Thébert, L’évolution urbaine dans les provinces orientales de l’Afrique romaine tardive, Opus, 2 (1983) 99-132.

D. Vera, Enfiteusi, colonato e trasformazioni agrarie nell’Africa Proconsolare del tardo Impero, L’Africa Romana 4 (1986), 267-293.

P. von Rummel, Settlement and Taxes: the Vandals in North Africa, in P.C. Díaz, I. Martín Viso (eds.), Entre el impuesto y la renta: problemas de la fiscalidad tardoantigua y altomedieval, Bari 2011, 23-37.

K. Vössing, Das Königreich der Vandalen. Geiserichs Herrschaft und das Imperium Romanum, Darmstadt 2014.

E. Zocca, Mutazioni della tipologia martiriale in età vandalica: un diverso punto di osservazione sulla “persecutio” anticattolica, in A. Bartolomei Romagnoli, U. Paoli, P. Piatti (eds.), Hagiologica. Studi per Réginald Grégoire, I, Fabriano 2012, 597-631.

Quinto Aurelio Simmaco, il pagano

Fra le personalità del paganesimo agonizzante, personaggio dalla carriera politica non eclatante (cfr. CIL VI 1699 = ILS 2946 []), Quinto Aurelio Simmaco (PLRE I 865-870) fu, tutto sommato, uno degli uomini più influenti del suo tempo, occupando a ragione una posizione di primo piano: non solo per via del suo impegno in difesa degli antichi riti, ma anche e soprattutto in quanto figura di intellettuale esemplare. Buon letterato, erudito, tra le sue opere si annoverano in particolare le lettere, composte in una raffinata – anche se ridondante – prosa letteraria, attraverso le quali Simmaco si adoperò per restituire di sé un’immagine ideale: quella di difensore non soltanto della tradizione, ma, con essa, di tutta la cultura classica. Per questo egli amava presentarsi come senatore e vir litteratus: non solo volle dirsi iustus heres veterorum litterarum, ma osò fregiarsi dell’agnomen ex virtute di Tullianus, per fugare ogni dubbio sul proprio modello principale. Ciononostante, Simmaco considerava gli studi come qualcosa di statico, fermamente ancorato a una concezione immutabile (Symm. Rel. III 4, consuetudinis amor magnus est); il sapere, a suo avviso, era uno strumento al servizio della carriera politica (Symm. Ep. I 20, 1, quia iter ad capessendos magistratus saepe litteris promovetur).

Giovane magistrato romano. Statua, marmo, fine IV secolo, dal ninfeo degli Horti Liciniani. Roma, Centrale Montemartini.

Nei nove libri di lettere compilati verso la fine della sua vita, si contano più di 900 epistole ad amici, principalmente di raccomandazione, consolatorie, di ringraziamento e di augurio. Sul modello pliniano, un decimo libro comprendeva la corrispondenza ufficiale, due lettere all’imperatore e quarantanove Relationes («suppliche») presentate ai sovrani. Un palinsesto di Bobbio (Vat. Lat. 5750), risalente al VI secolo, conserva otto Orationes di Simmaco, tra le quali tre panegirici imperiali. Tra l’altro, pare che il senatore abbia progettato anche l’edizione dell’opera omnia liviana (Symm. Ep. IX 13: munus totius Liviani operis quod spopondi).

L’altisonante sequenza onomastica che lo contraddistingueva potrebbe trarre in inganno: come quella di molte famiglie in vista nella seconda metà del IV secolo, la fortuna del casato di Simmaco era piuttosto recente. Nel 330 suo nonno aveva rivestito il consolato ordinario, ma fino a due anni prima un altro membro della stirpe era stato ancora un esponente dell’ordine equestre, seppure del massimo rango, come attesta il titolo di vir perfectissimus. Non a torto, l’accento solenne di Simmaco nel parlare della propria ascendenza è stato tacciato di snobismo, nel vero senso della parola. Fu suo padre, in effetti, Lucio Aurelio Avianio Simmaco, a portare il nome della schiatta ai massimi livelli: grande esempio di dottrina (Amm. Marc. XXVII 3, 3) e di cultura letteraria (Symm. Ep. I 2; 32), intellettuale assai versatile, dapprima praefectus annonae, poi praefectus Urbi (364), Avianio Simmaco fu spesso portavoce del Senato presso gli imperatori (CIL VI 1698 = ILS 1257 [], multis legationibus pro amplissimi ordinis desideriis apud divos principes functo). Difatti, nel 361 egli aveva avuto l’onore di condurre un’ambasceria alla corte di Costanzo II, che allora si trovava ad Antiochia (Amm. Marc. XXI 12, 24). In quell’occasione Avianio Simmaco aveva conosciuto personalmente il retore Libanio, con il quale condivideva la passione per i λόγοι e per gli autori antichi (περὶ τῶν παλαιῶν), che costituivano evidentemente l’argomento principe delle loro quotidiane conversazioni. A raccontarlo è lo stesso Libanio, trent’anni dopo, in una lettera a Quinto Aurelio Simmaco (Lib. Ep. 1004), nella quale il vecchio retore esprime tutta la propria soddisfazione per essere stato onorato da una missiva (non pervenuta) da parte di un senatore del rango di Simmaco. Questo documento, d’altra parte, attesta l’esistenza di una fitta rete di amicizie tra le élites colte delle due partes imperii.

Bamberg, Staatsbibliothek. Ms. Class. 5 (c. 845), Anicio Manlio Severino Boezio, De institutione arithmetica, f. 2v. Simmaco e Boezio.

Quinto Aurelio Simmaco era nato, dunque, in seno di una famiglia ormai senatoria, intorno al 340. Nel 364/5 egli ricevette la correctura, cioè il governatorato, Lucaniae et Brittiorum: cominciò allora la sua attività letteraria, con le prime lettere raccolte nel ricco epistolario. Simmaco si sarebbe servito di questo canale di comunicazione per garantirsi una relazione privilegiata con un personale politico e amministrativo socialmente variegato, ma detentore di un potere e di un’autorità con i quali inevitabilmente avrebbe dovuto fare i conti e tenersi buoni attraverso scambi di cortesie, favori, raccomandazioni.

Il 25 febbraio 369 fu una data importante nella sua carriera e nella sua esperienza umana (cfr. Amm. Marc. XXVI 1, 7): recatosi ad Augusta Treverorum come portavoce del Senato in occasione dei quinquennalia dell’imperatore, Simmaco pronunciò di fronte al sovrano due panegirici, rispettivamente in onore di Valentiniano I (Symm. Or. 1) e di suo figlio Graziano (Symm. Or. 3). Ciò gli valse la considerazione del comitatus imperiale, presso il quale si stabilì per circa un anno, partecipando, tra l’altro, anche alla spedizione contro gli Alamanni e ricevendo l’incarico di celebrare la vittoria con un altro discorso tenuto di fronte al princeps il 1° gennaio 370 (Symm. Or. 2). Proprio lì, nella corte installata sulla Mosella, ebbe luogo una delle esperienze più importanti della vita di Simmaco: incontrò e frequentò Decimo Magno Ausonio, letterato e poeta di Burdigala, cantore delle bellezze della Gallia, ma anche cristiano e precettore del giovane Graziano (Symm. Or. 3, 7; Auson. 19 [Epigr.] 26, 5, 320 Peiper; 20 [Grat. Act.] 15, 68, 370 Peiper; Amm. Marc. XXXI 10, 18; [Aur. Vict.] Epit. Caes. 47, 4). Nonostante le differenze di fede, i due si legarono di profonda amicizia, forse la più sincera che Simmaco abbia mai stretto, testimoniata da una trentina di lettere raccolte nel libro I dell’epistolario (Symm. Ep. I 13-43).

Dal 370 al 373 Simmaco fu a Roma. Nel 370 sposava Rusticiana, figlia del praefectus Urbi Memmio Vitrasio Orfito (Amm. Marc. XIV 6, 1), che l’anno successivo gli diede una figlia, Galla, e, ben tredici anni più tardi, un figlio, Quinto Fabio Memmio Simmaco. Nel 373/4 Simmaco ricevette il proconsolato d’Africa (C.Th. XII 1, 73; Symm. Ep. VIII 5; 20; IX 115; CIL VIII 24584 []; AE 1966, 518 []): sotto il suo mandato, la praefectura minacciata dai torbidi provocati dai Donatisti (C.Th. XVI 6, 1), dalla rivolta di Firmo in Mauretania (Amm. Marc. XXIX 5, 5-50) e dall’invasione degli Asturi in Tripolitania (Amm. Marc. XXVIII 6), vide le imprese di Teodosio il Vecchio, inviato da Valentiniano per ripristinare la pace nella regione. Dopo quell’incarico, per almeno dieci anni Simmaco si astenne dal rivestire ulteriori incombenze; fu scelto solo per missioni onorifiche, ma, nel frattempo, il suo prestigio in Senato cresceva, anche se il titolo di princeps Senatus gli venne conferito soltanto in seguito. Nel 375 succedeva al padre al soglio imperiale Graziano, guidato dai consigli del maestro Ausonio: nelle lettere al retore bordolese, Simmaco salutava l’avvento del sovrano come l’inizio di un novum saeculum (Symm. Ep. I 13; cfr. Or. 3).

Intorno al 377 Simmaco perse il padre Lucio, allora console (Symm. Or. 4), che lo lasciò erede di una cospicua fortuna, basata prevalentemente sulla proprietà fondiaria, com’era costume dell’aristocrazia imperiale: tre case nell’Urbe (una sul Celio), una dimora a Capua e ben quindici villae, tre nel suburbio di Roma e dodici nell’Italia Suburbicaria, oltre a proprietà in Sicilia e Mauretania. Le tenute, comunque, dovevano essere mal gestite e le rendite risultavano basse, tanto che negli ultimi anni Simmaco fu costretto a venderne alcune per pareggiare il bilancio (cfr. Symm. Ep. II 52; 57; 59; III 12; 55; 82; 88; VI 60; 66; 70; 72; 80; VII 18; IX 50; CIL VI 1699 []).

Magistrato romano. Statua (dettaglio del busto), marmo, fine IV secolo, dal ninfeo degli Horti Liciniani. Roma, Centrale Montemartini.

Nonostante, dal 381, gli imperatori in carica, influenzati da carismatici prelati cristiani, intensificassero le misure in campo religioso, rendendole sempre più repressive, sia contro i cristiani eretici sia contro i cultori delle antiche tradizioni, gli stessi sovrani perseguirono una sistematica politica di collaborazione con le élite: difatti, nel 383, Virio Nicomaco Flaviano il Vecchio, uno dei membri più cospicui dell’aristocrazia romana, sarebbe stato chiamato a ricoprire l’incarico di praefectus praetorio Italiae et Illyrici (cfr. CIL VI 1782 = ILS 2947 []; Symm. Ep. II 8, 22-23; 31), mentre suo figlio avrebbe ricevuto il proconsolato Asiae; l’anno successivo sarebbero divenuti consules i pagani Ricomero e Clearco (C.Th. I 6, 9), mentre Simmaco sarebbe stato designato praefectus Urbi (cfr. C.Th. IV 17, 4; XI 30, 44).

Ora, un esame spassionato delle fonti rende comprensibile la vivacità con cui, per oltre vent’anni, i senatori romani avrebbero sostenuto le loro posizioni, conducendo, in nome del conservatorismo religioso e del tradizionalismo, un’ostinata battaglia in difesa di quei privilegi e di quelle sfere d’interesse, che le riforme costantiniane avevano riservato all’ordo amplissimus. D’altronde, nel corso del IV secolo l’aristocrazia romana era diventata ciò che non era mai stata in precedenza: una classe politica rigidamente esclusiva ed ereditaria, che lo stesso Simmaco definì pars melior generis humani (Symm. Ep. I 52;IV 4; 9; cfr. Or. VI 1, nobilissimi humani generis; Or. VIII 3, impulsu fortasse boni sanguinis, qui se semper agnoscit). A ogni modo, non si trattò di una battaglia improntata a un astratto e retorico passatismo né di una lotta in difesa di puri e semplici privilegi economici, ma di uno scontro fondamentalmente politico. Simmaco e gli altri senatori romani difendevano la propria identità di ceto e di gruppo dirigente che la pesante legislazione grazianea del 382 sembrava mettere in discussione: l’abolizione dei contributi statali al culto delle Vestali, la confisca del terreno sacro dei templi e dei collegia sacerdotali, oltre alla rimozione della Curia dell’ara Victoriae, furono percepiti tutti come atti discriminatori e persecutori (cfr. C.Th. XVI 10, 15). Pertanto, i senatori romani inviarono presso Graziano una delegazione, guidata da Simmaco, per sollecitare il sovrano a tornare sui propri passi; ma persuaso da Ambrogio, vescovo di Mediolanum, l’imperatore si rifiutò di ricevere l’ambasceria (Symm. Rel. III 1; 20; Ambr. Ep. XVII 5, 10; 16; Paul. VA 26, 1; cfr. Amm. Marc. XXX 9, 5). Quando tra il 383 e il 384 le province occidentali furono funestate da una grave carestia, Simmaco in una lettera Flaviano fratri connesse immediatamente la calamità con l’empietà del sovrano e la interpretò come una punizione divina (Symm. Ep. II 7).

Flavio Valentiniano II. Busto, marmo, c. 387-390 da Aphrodisias. Istanbul, Museo Archeologico.

Nell’estate del 384, salito intanto alla porpora il fratellastro di Graziano, Valentiniano II, una nuova legazione del Senato, sempre diretta da Simmaco, fu inviata a Mediolanum per chiedere ancora una volta la restaurazione dell’altare della Vittoria e la riattribuzione dei sostegni economici ai collegi sacerdotali romani. Ricevuto, questa volta a corte, Simmaco tenne un’ampia e appassionata relatio, sostenendo la causa della religione tradizionale in una prospettiva di tolleranza per tutti i culti, rivolto al giovanissimo imperatore, che ancora dodicenne era stato posto sotto la tutela della madre Giustina (Symm. Rel. III). Ma alle argomentazioni del senatore si oppose con energia e con autorità dell’episcopus della città, che in due dense epistole rivolte al principe, sul quale peraltro esercitava un forte ascendente, confutò punto per punto le tesi pagane. Fu così respinta la richiesta di Simmaco e risultò conseguentemente vano il tentativo di riottenere un importante segno dell’antica religione (Ambr. Ep. XVII-XVIII). Contrariamente a quello che talvolta si vuole credere, l’oratore e il vescovo furono di volta in volta alleati o rivali in quella pratica di patronato verso le comunità non meno che nei confronti dei singoli (cfr. Symm. Ep. I 63); la questione dell’altare della Vittoria più che di un conflitto religioso si trattò di una controversia tra due eminenti personalità politiche, decise a darsi battaglia senza esclusioni di colpi.

Nel frattempo era venuto a mancare anche Vettio Agorio Pretestato, un altro grande personaggio della Roma pagana, suo alleato (Amm. Marc. XXVII 9, 8; XXVIII 1, 24; CIL VI 1779 = ILS 1259 []; CIL VI 102 = ILS 4003 []): Simmaco, sentendosi privo di appoggi, nel 385 diede le dimissioni dalla prestigiosa carica di praefectus della Città.

Verso il 387 a Roma si celebrarono le nozze fra la figlia di Simmaco e Flaviano il Giovane, evento che sancì l’alleanza politica tra le due famiglie. A ricordo dello sposalizio si conservano le valve di un raffinato dittico d’avorio, che rappresentano entrambe due figure femminili intente a compiere atti di culto presso un altare, sopra le cui teste campeggiano le incisioni: Symmachorum – Nicomachorum.

Dittico Symmachorum – Nicomachorum. Incisione su valve, avorio, fine IV secolo. London, Victoria and Albert Museum – Paris, Musée national du Moyen Âge.

Sempre nel 387 l’usurpatore Magno Massimo si guadagnò il sostegno dell’aristocrazia tradizionalista e Simmaco si fece trascinare nell’impresa, pronunciando, tra l’altro, un panegirico dell’anti-imperatore. Teodosio, l’Augustus ufficiale, era però l’uomo forte e, nel 388, il rivale fu sconfitto a Poetovio e a Siscia (cfr. Pan. Lat. II 34-35): Simmaco, preso dal panico e caduto in disgrazia, dovette cercare rifugio e asilo nientemeno che in una chiesa (Socr. HE V 14, 3-9; Symm. Ep. II 13; 30-31). Il vincitore gli accordò la grazia. Dopo una fuga in Campania, un rovescio finanziario e altre peripezie, alla fine, Simmaco riuscì a tornare a Roma, dove incontrò Teodosio e riguadagnò i favori della corte. Nell’autunno del 390 riuscì addirittura a farsi eleggere consul posterior per l’anno successivo, insieme a Flavio Eutolmio Taziano, consul prior (cfr. Lib. Ep. 990). Da qualche tempo era divenuta prassi che un console fosse designato in Occidente e l’altro in Oriente e che entrambi ottenessero la sanzione imperiale attraverso decreti pubblici (C.Th. VIII 11, 1; 12; CLRE 16; 26). Comunque, nel discorso d’insediamento, tenuto a Mediolanum, il 1° gennaio 391 di fronte al comitatus imperiale riunito, Simmaco non trovò di meglio che ritirare fuori la vecchia questione dell’altare della Vittoria: Teodosio lo fece immediatamente espellere (Ambr. Ep. LVII 4; Paul. VA 26; [Prosp.] De promiss. III 38, 41; Paul. VA 26, 2).

Il 22 agosto 392, dopo aver assassinato Valentiniano II, il magister militum Flavio Arbogaste scelse come candidato alla porpora il magister scrinii Flavio Eugenio, un anziano retore di origini galliche, che, seppur cristiano, nutriva interesse verso i culti aviti (Ambr. de ob. Valent.; Zos. IV 54, 1; Socr. HE V 25; Soz. HE VII 22, 4). Malgrado avesse tentato di ottenere la propria cooptazione nella pars Occidentis, con l’intercessione di Ambrogio, Teodosio sconfessò Eugenio, trattandolo come un usurpatore (Ambr. Ep. LVII; Zos. IV 54-55; CIL XIII 8262 = ILS 790 []). Il pretendente riuscì a ottenere il plauso di una parte del Senato romano: Flaviano il Vecchio fu riottenne la carica di praefectus praetorio Italiae et Illyrici, cui si aggiunsero pure la responsabilità prefettizia sull’Africa e un consolato sine collega per l’anno 394, mentre suo figlio fu creato praefectus Urbi. Intanto, nella primavera del 393 l’ara Victoriae veniva ricollocata al suo posto nella Curia, i templi riaperti e la libertà di culto ripristinata (Ambr. Ep. LVII 6-12; in Psalm. 35, 25; Ep. LXI 1; de ob. Theod. 39, 5; Paul. VA 26-27).

Fl. Eugenio. Siliqua, Augusta Treverorum c. 392-394. AR 1,75 g. Recto: D(ominus) n(oster) Eugeni-us p(ius) f(elix) Aug(ustus). Busto diademato, drappeggiato e corazzato dell’usurpatore, voltato a destra.

Teodosio si preparò a muover guerra: riunite le sue truppe, l’imperatore marciò verso l’Italia con al seguito un contingente gotico, guidato dal rex Alarico. Lo scontro campale si svolse sulle rive del fiume Frigidus (od. Vipacco), affluente dell’Isonzo, e infuriò per due giorni tra il 5 e il 6 settembre 394. Al termine di un sanguinoso combattimento, risultò chiara la definitiva disfatta della compagine occidentale: sembrava quasi che gli antichi dèi avessero abbandonato i loro seguaci. Eugenio e Arbogaste andarono incontro al loro destino, il primo tradito e assassinato, il secondo togliendosi la vita (Philostorg. 11, 2; Socr. HE V 25; Oros. VII 35).

Come è stato osservato, l’idea che l’aristocrazia romana avesse aderito con entusiasmo all’usurpazione, facendosi parte attiva del movimento e fornendo supporto logistico e ideologico, e che la “reazione pagana” fosse stata il collante decisivo per il consenso a Eugenio è smentita dalla continuità dei ruoli-chiave al governo dell’Impero. Nonostante le opposte propagande avessero tinto di sacro l’intera vicenda – da parte cristiana, come lotta tra le forze del bene e quelle del male, da parte tradizionalista, come difesa del mos maiorum –, essa andrebbe ridimensionata a livello di uno sgradevole incidente di percorso: mentre le fonti pagane sottolineano l’atteggiamento del trionfatore nei riguardi del Senato romano, costretto a una conversione coatta alla nuova fede in cambio del perdono politico, da parte cristiana il suicidio di Flaviano il Vecchio fu interpretato come un atto di coerenza e celebrato nell’ottica provvidenzialistica della mors persecutorum. In realtà, lo stesso Teodosio, che nutriva profonda stima nell’uomo di cultura, già suo prestigioso ministro, se solo ne avesse avuto l’opportunità, avrebbe certamente preferito risparmiargli la vita. D’altra parte, il VI libro dell’epistolario simmachiano conserva alcune lettere indirizzate Nicomachis filiis (Symm. Ep. VI 2, 6, 8, 22), dalle quali emergono le difficoltà affrontate dal genero e dalla figlia Galla nei due anni successivi: in particolare, gli sposi erano angustiati dalla prospettiva di dover rimborsare il salario percepito da Flaviano padre in qualità di praefectus praetorio sotto l’usurpatore e molte altre controversie private. In una situazione del genere, la rete di conoscenze di Simmaco si rivelò provvidenziale (cfr. Symm. Ep. V 47).

L’apoteosi di Q. Aurelio Simmaco. Bassorilievo, avorio, 402 d.C. da un dittico. London, British Museum.

Quanto a Teodosio, egli non ebbe il tempo di gustare i frutti della sua vittoria: a causa dei postumi di una ferita in battaglia, si spense a Mediolanum il 17 gennaio 395. Ora, toccava al magister militum utriusque, il semi-vandalo Flavio Stilicone, ricompattare la fazione teodosiana, rinnovando la solidarietà tra corte imperiale e aristocrazia: le crisi, le controversie e i pericoli che avrebbe dovuto affrontare rendevano necessario il consolidamento dei buoni rapporti con l’ordo senatorius. Dopo l’amnistia decretata per legge il 18 maggio 395 (C.Th. XV 14, 11-12), quantomai propizia in tal senso si rivelò la morte di Ambrogio, occorsa il 4 marzo 397: l’intensificarsi delle relazioni con gli esponenti dell’élite costituiva una ripresa delle alleanze teodosiana e un’oggettiva necessità politica. Per questo disegno nessuna personalità poteva risultare più opportuna di quella di Simmaco, il quale da parte sua non si lasciò sfuggire l’occasione: è significativo che le prime quattordici lettere del IV libro dell’epistolario siano quelle indirizzate al generalissimo vandalo (Symm. Ep. IV 1-14). I testi mostrano la deferenza con la quale l’estensore trattò il destinatario, la stima nutrita nei suoi riguardi, l’impiego di un linguaggio e di formalità tipici dell’amicitia politica romana, il superamento degli stereotipi negativi propri dell’élite senatoria nei riguardi degli individui di origine barbarica.

Con il suo impegno, blandendo di volta in volta il suo destinatario, Simmaco riuscì a ottenere la completa riabilitazione del genero Flaviano, al punto da fargli nuovamente avere la praefectura Urbi per l’anno 400. Grazie ai buoni uffici di Stilicone e alla concessione dell’uso gratuito del servizio pubblico per i suoi agenti, nel 401 l’oratore poté far venire da ogni parte dell’Impero le bestie più stravaganti in occasione dei ludi allestiti dal figlio Memmio Simmaco per la sua elezione a praetor (cfr. Symm. Ep. V 56). D’altra parte, il contributo di Simmaco garantì al generalissimo vandalo il sostegno del Senato nelle crisi che attanagliavano il suo regime. I loro rapporti, dunque, furono volti a un cordiale e reciproco scambio di favori.

Vittoria Alata. Statua, bronzo, I secolo, da un’intercapedine del Capitolium. Brescia, Museo di S. Giulia.

Ma il suo chiodo fisso era ancora l’altare della Vittoria: nell’inverno 401/2 Simmaco si recò a Mediolanum in rappresentanza del Senato romano, tornando alla carica ma inutilmente (Symm. Ep. V 95; VII 2; 13-14). All’inizio del 402, dopo un avventuroso viaggio di ritorno, reso pericoloso dalle bande dei Goti che erravano nei dintorni della sede imperiale, egli risulta di nuovo a Roma, in precarie condizioni di salute (Symm. Ep. IV 13; 56; V 94-96). Dopo questa data non si hanno più notizie di lui e tutto lascia pensare che egli morisse nel corso di quello stesso anno. La risposta polemica De ara Victoriae del poeta cristiano Prudenzio nella Contra Symmachum costituisce, per certi versi, una sorta di necrologio del senatore (Prud. c. Symm. II 7-16).

***

Riferimenti bibliografici:

M.T.W. Arnheim, The Senatorial Aristocracy in the Later Roman Empire, Oxford 1972.

T.D. Barnes, Augustine, Symmachus, and Ambrose, in From Eusebius to Augustine: Selected Papers 1982-1993, Aldershot 1994, 7-13.

S.J.B. Barnish, Transformation, and Survival in the Western Senatorial Aristocracy, C.A.D. 400-700, PBSR 56 (1988), 120-155.

M. Bertolini, Sull’atteggiamento religioso di Q.A. Simmaco, SCO 36 (1987), 189-208.

H. Bloch, The Pagan Revival in the West, in A. Momigliano (ed.), The Conflict between Paganism and Christianity in the Fourth Century, Oxford 1964, 199-224.

R. Bonney, A New Friend for Symmachus?, Historia 24 (1975), 357-374.

G.W. Bowersock, Symmachus and Ausonius, in F. Paschoud (éd.), Colloque Genevois sur Symmaque à l’occasion du mille six centième anniversaire du conflit de l’autel de la Victoire, Paris 1986, 1-12.

P. Bruggisser, Gratia noui saeculi : Symmaque et le siècle de Gratien (Epist. 1, 13), MH 44 (1987), 134-149.

P. Bruggisser, Orator disertissimvs : A propos d’une lettre de Symmaque à Ambroise, Hermes 115 (1987), 106-115.

P. Bruggisser, Symmaque et la mémoire d’Hercule, Historia 38 (1989), 380-383.

P. Bruggisser, Symmaque, ou le rituel épistolaire de l’amitié littéraire. Recherches sur le premier livre de la correspondance, Fribourg 1993.

P. Bruggisser, Rarissimes païens. L’art du persiflage dans le Contre Symmaque de Prudence, Historia 51 (2002), 238-253.

R. Burgess, Quinquennial Vota, and the Imperial Consulship in the Fourth and Fifth Centuries, 337-511, NC 148 (1988), 77-96.

J.-P. Callu, Date et genèse du premier livre de Prudence contre Symmaque, REL 59 (1981), 235-260.

J.-P. Callu, Symmachus Nicomachis Filiis, in in F. Paschoud (éd.), Colloque Genevois sur Symmaque à l’occasion du mille six centième anniversaire du conflit de l’autel de la Victoire, Paris 1986, 17-40.

J.-P. Callu, Deux interpolations au Livre I ͤ ͬ des Lettres de Symmaque, in Y. Lehmann (éd.), Antiquité tardive et humanisme de Tertullien à Beatus Rhenanus: mélanges offerts à François Heim à l’occasion de son 70 Anniversaire, Turnhout 2005, 181-196.

J.-P. Callu (éd.), Symmaque, Lettres, voll. I-IV, Paris 1972-2002.

J.-P. Callu (éd.), Symmaque, Correspondance, Paris 2003.

J.-P. Callu (éd.), Culture profane et critique des sources de l’antiquité tardive: trente et une études de 1974 à 2003, Rome 2006.

J.-P. Callu (ed.), Symmaque Tome V. Discours – Rapports, Paris 2009.

A. Cameron, The Antiquity of the Symmachi, Historia 48 (1999), 477-505.

A. Cameron, The Last Pagans of Rome, Oxford 2011.

A. Cameron, The Origin, Context, and Function of Consular Diptychs, JRS 103 (2013), 174-207.

A. Cameron, Were Pagans Afraid to Speak Their Minds in a Christian World? The Correspondence of Symmachus, in M.R. Salzman, M. Sághi, R. Lizzi Testa (eds.), Pagans and Christians in Late Antiquity Rome: Conflict, Competition, and Coexistence in the Fourth Century, Cambridge 2016, 64-113 = in A. Cameron (ed.), Studies in Late Roman Literature and History, Bari 2016, 223-266.

F. Canfora, Sulla controversia per l’altare della Vittoria tra pagani e cristiani nel IV secolo, in Studi storici in onore di G. Pepe, Bari 1969, 103-126.

F. Canfora (ed.), Simmaco – Ambrogio, L’altare della Vittoria, Palermo 1991.

G.A. Cecconi, Commento storico al libro II dell’Epistolario di Q. Aurelio Simmaco, Pisa 2002.

A. Chastagnol, L’évolution de l’ordre sénatorial aux IIIe et IVe siècles de notre ère, RhM 94 (1970), 305-314.

A. Chastagnol, Le Senat dans l’oevure de Symmaque, in F. Paschoud (éd.), Colloque Genevois sur Symmaque à l’occasion du mille six centième anniversaire du conflit de l’autel de la Victoire, Paris 1986, 73-96.

A. Chastagnol, L’evoluzione dell’ordine senatorio nei secoli III e IV della nostra era, in S. Roda (ed.), La parte migliore del genere umano. Aristocrazie, potere e ideologia nell’Occidente tardoantico, Torino 1996, 9-21.

R. Chenault, Statues of Senators in the Forum of Trajan and the Roman Forum in Late Antiquity, JRS 102 (2012), 103-132.

R. Chenault, “Thick Clouds and Continuous Cold”: The Date and Political Context of Symmachus’s Embassy to Trier, JLA 14 (2021), 213-228.

E. Colagrossi, Non uno itinere. La disputa tra Simmaco e Ambrogio nel quadro del conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel IV secolo d.C., in E. Piazza (ed.), Quis est qui ligno pugnat? Missionari ed evangelizzazione nell’Europa tardoantica e medievale (secc. IV-XIII), Verona 2016, 81-98.

A. Coşkun, Symmachus, Ausonius und der “senex olim Garumnae alumnus”: Auf der Suche nach dem Adressaten von Symm. epist. 9,88, RhM 145 (2002), 120-128.

A. Coşkun, Q. Aurelius Symmachus und die Stadtpraefecten unter Kaiser Valentinian II. (a. 383-87), Prosopon 13 (2003), 1-11.

L. Cracco Ruggini, Simmaco e la poesia, in AA.VV., La poesia tardoantica: tra retorica, teologia e politica, Atti del V Corso della Scuola Superiore di Archeologia e civiltà medievali presso il Centro di Cultura Scientifica “E. Majorana”, Erice, 6-12 dicembre 1981, Messina 1984, 477-521.

L. Cracco Ruggini, Simmaco: otia e negotia di classe, fra conservazione e rinnovamento, in F. Paschoud (éd.), Colloque Genevois sur Symmaque à l’occasion du mille six centième anniversaire du conflit de l’autel de la Victoire, Paris 1986, 97-118.

L. Cracco Ruggini, Rome in Late Antiquity: Clientship, Urban Topography, and Prosopography, CPh 98 (2003), 366-382.

S. Cristo, Quintus Aurelius Symmachus: A Political and Social Biography, Ph.D. diss. Fordham 1974.

S. Cristo, A Judicial Event in the Urban Prefecture of Symmachus, Latomus 36 (1977), 688-693.

I. D’Auria, Polemiche antipagane: Ambrogio (epist. 10, 73, 8) e Prudenzio (c. Symm. 2, 773-909) contro Simmaco (rel. 3, 10), StPatr 85 (2017), 1-14.

F. Del Chicca (ed.), Q. Aurelius Symmachus V.C. Laudatio in Valentinianum seniorem Augustum prior, Roma 1984.

F. Del Chicca, La struttura retorica del panegirico latino tardoimperiale in prosa. Teoria e prassi, AFLC 6 (1985), 79-113.

F. Del Chicca, Simmaco, Oratio 2, 17 e il tema polemica del pattuire pretio coi barbari, RCCM 28 (1986), 131-138.

F. Del Chicca, Per la datazione dell’Oratio 3 di Simmaco, Athenaeum 65 (1987), 534-541.

V. Del Core, Segnali di crisi nei frammenti panegiristici di Simmaco, in R. Angiolillo, E. Elia, E. Nuti (eds.), Crisi: immagini, interpretazioni e reazioni nel mondo greco, latino e bizantino, Atti del Convegno Internazionale dottorandi e giovani ricercatori, Torino, 21-23 ottobre 2013, Alessandria 2015, 73-84.

I. Dionigi, A. Traina, M. Cacciari (eds.), La maschera della tolleranza (Ambrogio, Epistole XVII e XVIII; Simmaco, Terza Relazione), Milano 2005.

S. Döpp, Prudentius’ Gedicht gegen Symmachus. Anlass und Struktur, JAC 23 (1980), 65-81.

O.N. Dorman, A Further Study of the Letters of Symmachus, Based on a New Manuscript of the Florilegium Group, TpAPhA 63 (1932), 45-53.

J.E. Dunlap, The Manuscripts of the “Florilegium” of the Letters of Symmachus, TpAPhA 57 (1926), xxv-xxvi = CPh 22 (1927), 391-398.

J.E. Dunlap, The Earliest Editions of the Letters of Symmachus, CPh 32 (1937), 329-340.

J.V. Ebbeler, C. Sogno, Religious Identity and the Politics of Patronage: Symmachus and Augustine, Historia 56 (2007), 230-242.

R.J. Edgeworth, Symmachus Ep. III.47: Books, Not Children, Hermes 120 (1992), 127-128.

W. Evenepoel, Ambrose vs. Symmachus: Christians and Pagans in AD 384, AncSoc 29 (1998-1999), 283-306.

S. Fascione, Inter sodales Apollinis ac Dianae sectator. Elementi di ripresa pliniana nell’epistolario di Simmaco, IFC 18 (2018/19), 259-276.

M. Forlin Patrucco, S. Roda, Le lettere di Simmaco ad Ambrogio. Vent’anni di rapporti amichevoli, in Ambrosius Episcopus. Atti del Congresso Internazionale di studi ambrosiani, Milano 2-7 dicembre 1974, II, Milano 1976, 284-297.

C.W. Fornara, Studies in Ammianus Marcellinus: I. The Letter of Libanius and Ammianus’ Connection with Antioch, Historia 41 (1992), 328-344.

E. Germino, La Relatio XXVII di Simmaco e l’ordo successionis del collegium archiatrorum di Roma, Koinonia 39 (2015), 249-272.

S. Giglio, A proposito della “Relatio” 49 di Q. Aurelio Simmaco, ARC 8 (1990), 579-597.

S. Giglio, Intorno alla “Relatio” 23 di Q. Aurelio Simmaco, SDHI 62 (1996), 309-330.

S. Giglio, Giurisdizione e fisco nelle “Relationes” di Q. Aurelio Simmaco, ARC 13 (2001),191-216.

B. Girotti, Nicomaco Flaviano, “historicus disertissimus”?, Hermes 143 (2015), 124-128.

C. Gnilka, Zur Rede der Roma bei Symmachus Rel. 3, Hermes 118 (1990), 464-470.

B. Goldlust, Rhétorique de l’éloge dans le livre 1 de la “Correspondance” de Symmaque: à propos de Symm., “Epist.”, 1,3,2 et de Aus., ap. Symm., “Epist.” 1,32,3, REAP 55 (2009), 215-224.

G. Haverling, Studies on Symmachus’ Language and Style, Göteborg 1988.

J. Hillner, Domus, Family, and Inheritance: The Senatorial Family House in Late Antique Rome, JRS 93 (2003), 129-145.

M. Humphries, Nec metu nec adulandi foeditate constricta: The Image of Valentinian I from Symmachus to Ammianus, in J.W. Drijvers, D. Hunt (eds.), The Late Roman World and its Historian: Interpreting Ammianus Marcellinus, London 1999, 117-126.

G. Ivascu, Clementia principis. An Aspect of the Imperial Power in Symmachus’ Works, C&C 15 (2020), 95-104.

G. Kelly, Pliny, and Symmachus, Arethusa 46 (2013), 261-287.

G. Kelly, The First Book of Symmachus’ Correspondence as a Separate Collection, in F.R. Moretti, R. Ricci, C. Torre (eds.), Culture and Literature in Latin Late Antiquity: Continuities and Discontinuities, Turnhout 2015, 197-220.

B. Kiilerich, Symmachus, Boethius, and the Consecratio Ivory Diptych, AntTard 20 (2012), 205-215.

R. Klein, Symmachus: eine tragische Gestalt des ausgehenden Altertums, Darmstadt 1971.

R. Klein, Der Streit um den Victoriaaltar ; die dritte Relatio des Symmachus und die Briefe 17, 18 und 57 des Mailänder Bischofs Ambrosius, Darmstadt 1972.

R. Klein, Die Romidee bei Symmachus, Claudian und Prudentius, in F. Paschoud (éd.), Colloque Genevois sur Symmaque à l’occasion du mille six centième anniversaire du conflit de l’autel de la Victoire, Paris 1986, 119-144.

R. Klein, Symmachus. Eine tragische Gestalt des ausgehenden Heidentums, Darmstadt 1986.

R. Klein, Die dritte Relatio des Symmachus. Ein denkwürdiges Zeugnis des untergehenden Heidentums, in U. Schmitzer (ed.), Suus cuique mos: Beiträge zur paganen Kultur des lateinischen Westens im 4. Jahrhundert n. Chr., Göttingen 2004, 25-58.

D. Lassandro, L’altare della vittoria: “letture” moderne di un’antica controversia, in A. Garzya (ed.), Metodologie della ricerca sulla tarda antichità. Atti del Primo Convegno dell’Associazione di Studi Tardoantichi, Napoli 1989, 443-450.

D. Lassandro, La controversia de ara Victoriae del 384 d.C. nell’età sua e nella riflessione dei moderni, in F. Bessone, E. Malaspina (eds.), Politica e cultura in Roma antica. Atti dell’incontro di studio in ricordo di Italo Lana (Torino, 16-17 ottobre 2003), Bologna 2005, 157-171.

D. Lassandro, Simmaco, Ambrogio e la controversia sull’altare della Vittoria, in B. Luiselli (ed.), Saggi di storia della cristianizzazione antica e altomedievale, Roma 2006, 213-224.

D. Lassandro, Una disputa religiosa tra il prefetto pagano Simmaco ed il vescovo Ambrogio sul finire del IV secolo d.C., Euphrosyne 35 (2007), 231-240.

D. Lassandro, I paradigmi della controversia ‘De ara Victoriae’ tra il senatore pagano Simmaco e il vescovo Ambrogio, in M. Marin, M. Veronese (eds.), Temi e forme della polemica in età cristiana (III-V secolo), Bari 2012, 359-368.

M. Lauria, De ara Victoriae virginibusque Vestalibus, SDHI 50 (1984), 235-280.

D. Liebs, Landraub und Gerechtigkeit in Rom 384 n. Chr.: (Symmachus, Relatio 28), in O. Behrends (ed.), Gerechtigkeit und Geschichte: Beiträge eines Symposions zum 65. Geburtstag von Malte Dießelhorst, Göttingen 1996, 90-106.

R. Lizzi Testa, Senatori, popolo, papi: il governo di Roma al tempo dei Valentiniani, Bari 2004.

R. Lizzi Testa, Alla corte dell’imperatore: Quinto Aurelio Simmaco e i suoi amici quaestores, in G. Crifò (ed.), XVI Convegno Internazionale in onore di Manuel J. Garcia Garrido, Napoli 2007, 325-364.

B. Marien, Symmachus’ Epistolary Influence: the Rehabilitation of Nicomachus Flavianus through Recommendation Letters, in K. Choda, M. Sterk de Leeuw, F. Schulz (eds.), Gaining and Losing Imperial Favour in Late Antiquity: Representation and Reality, Leiden 2019, 105-124.

A. Marcone, Commento storico al Libro VI dell’Epistolario di Q. Aurelio Simmaco, Pisa 1983.

A. Marcone, Simmaco e Stilicone, in F. Paschoud (éd.), Colloque Genevois sur Symmaque à l’occasion du mille six centième anniversaire du conflit de l’autel de la Victoire, Paris 1986, 145-162.

A. Marcone, Commento storico al Libro IV dell’Epistolario di Q. Aurelio Simmaco, Pisa 1987.

A. Marcone, Praesentia tuae imago. Storia e preistoria di un topos epistolare e la corrispondenza di Simmaco, in J.-M. Carrié (éd.), “Humana sapit” : études d’antiquité tardive offertes à Lellia Cracco Ruggini, Turnhout 2002, 201-208.

A. Marcone, L’ultima aristocrazia pagana di Roma e le ragioni della politica, ITFC 8 (2008-2009), 99-111.

D. Matacotta, Simmaco. L’antagonista di Sant’Ambrogio, Firenze 1992.

J.F. Matthews, Symmachus and the “Magister Militum” Theodosius, Historia 20 (1971), 122-128.

J.F. Matthews, Symmachus, and the Oriental Cults, JRS 63 (1973), 175-195.

J.F. Matthews, The Letters of Symmachus, in J.W. Binns (ed.), Latin Literature of the Fourth Century, London-Boston 1974, 58-99.

J.F. Matthews, Western Aristocracies and Imperial Court, A.D. 364-425, Oxford 1975.

J.F. Matthews, Symmachus and His Enemies, in F. Paschoud (éd.), Colloque Genevois sur Symmaque à l’occasion du mille six centième anniversaire du conflit de l’autel de la Victoire, Paris 1986, 163-175.

J.A. McGeachy Jr., Quintus Aurelius Symmachus and the Senatorial Aristocracy of the West, diss. Chicago 1942.

S. McGill, The Right of Authorship in Symmachus’ Epistulae 1.31, CPh 104 (2009), 229-232.

B. Moroni, Il conflitto per l’altare della Vittoria in Ambrogio, De obitu Valent. 19-20, RIL 130 (1996), 237-263.

A.V. Nazzaro, L’utilizzazione di Virgilio nella disputa Simmaco-Ambrogio “De ara Victoriae”, in C. Gallico (ed.), Cultura latina cristiana fra terzo e quinto secolo. Atti del Convegno, Mantova, 5-7 novembre 1998, Firenze 2001, 245-261.

N. Marinone, Il medico Disario in Simmaco e Macrobio, Maia 25 (1973), 344-345.

S. Mazzarino, Tolleranza e intolleranza: la polemica sull’ara della Vittoria, in Antico, tardoantico ed era costantiniana, I, Bari 1974, 339-377.

G. Mazzoli, Prima fortuna medievale di Simmaco, Sandalion 2 (1979), 235-246.

G. Mazzoli, Corniger Hesperidum (Prud. c. Symm. II 606), CdM 8 (2019), 125-138.

P. Meloni, Il tempo e la storia in Simmaco e Ambrogio, SSR 1 (1977), 103-124.

P. Meloni, Il rapporto fra impegno politico e fede religiosa in Simmaco e Ambrogio, Sandalion 1 (1978), 153-170.

L.R. Miranda, Simmaco. L’antagonista di Sant’Ambrogio, CCM 17 (2013), 184-188.

A.F. Norman, On the Dating of Three Letters of Symmachus, ByZ 57 (1964), 1-5.

S. Olszaniec, The Two Prefects of 384 – Symmachus and Praetextatus, in K. Twardowska, M. Salamon, S. Sprawski, M. Stachura, S. Turlej (eds), Within the Circle of Ancient Ideas and Virtues. Studies in Honour of Professor Maria Dzielska, Kraków 2014, 233-242.

A. Pabst (ed.), Quintus Aurelius Symmachus, Reden = Orationes, Darmstadt 1989.

D.C. Pangerl, Von der Kraft der Argumente. Die Strategien des römischen Stadtpräfekten Symmachus und des Bischofs Ambrosius von Mailand beim Streit um den Victoriaaltar im Jahre 384, RQcAK 107 (2012), 1-20.

F. Paschoud, Réflexions sur l’idéal religieux de Symmaque, Historia 14 (1965), 215-235.

F. Paschoud, Symmaque, Jérome et l’Histoire Auguste, MH 57 (2000), 173-182.

A. Pellizzari, Commento storico al libro III dell’Epistolario di Q. Aurelio Simmaco: introduzione, commento storico, testo, traduzione, indici, Pisa 1998.

A. Pelttari, Symmachus’ Epistulae 1.31 and Ausonius’ Poetics of the Reader, CPh 106 (2011), 161-169.

M. Petric, Corruption and Elites in Late Antiquity: The Case of Quintus Aurelius Symmachus, Keria 20 (2018), 63-87.

G. Polara, A proposito di Symm. epist. 2, 7, 3, in M. Paladini (ed.), Templa serena. Studi in onore di Enrico Flores, Napoli 2021, 261-266.

S.R. Rebenich, Augustinus im Streit zwischen Symmachus und Ambrosius um den Altar der Victoria, Laverna 2 (1991), 53-75.

S.R. Rebenich, “Pars melior humani generis” – Aristokratie(n) in der Spätantike, in H. Beck, P. Scholz, U. Walter (eds.), Die Macht der Wenigen. Aristokratische Herrschaftspraxis, Kommunikation und “edler” Lebensstil in Antike und Früher Neuzeit, München 2009, 153-175.

H. Remus, Apuleius to Symmachus (and Stops in Between): Pietas, Realia and the Empire, in S.G. Wilson, M. Desjardins (eds.), Text and Artifact in the Religions of Mediterranean Antiquity: Essays in honour of Peter Richardson, Waterloo 2000, 527-550.

S. Roda, Simmaco nel gioco politico del suo tempo, SDHI 39 (1973), 53-111.

S. Roda, Commento storico al libro IX delle epistole di Simmaco, Pisa 1981.

S. Roda, Una nuova lettera di Simmaco ad Ausonio?, REA 83 (1981), 273-280.

S. Roda, Una nuova lettera di Simmaco ad Ausonio? (Nota a proposito di Symm. Ep., IX, 88), in Mélanges à la mémoire de Franco Simone, Genève 1983, 27-37.

S. Roda, Polifunzionalità della lettera comendaticia: teoria e prassi nell’epistolario simmachiano, in La parte migliore del genere umano. Aristocrazie, potere e ideologia nell’Occidente tardoantico, Torino 1996, 225-254.

K. Rosen, Fides contra dissimulationem. Ambrosius und Symmachus im Kampf um den Victoriaaltar, JAC 37 (1994), 29-36.

M.R. Salzman, Travel and Communication in the Letters of Symmachus, in L. Ellis, F.L. Kidner (eds.), Travel, Communication and Geography in Late Antiquity: Sacred and Profane, Aldershot 2004, 81-94.

M.R. Salzman, Symmachus and His Father: Patriarchy and Patrimony in the Late Roman Senatorial Elite, in R. Lizzi Testa (ed.), Le trasformazioni delle élites in età tardoantica: Atti del Convegno Internazionale, Perugia, 15-16 marzo 2004, Roma 2006, 357-376.

M.R. Salzman, Symmachus’ Ideal of Secular Friendship, in É. Rebillard, C. Sotinel (éds.), Les frontières du profane dans l’Antiquité tardive, Rome 2010, 247-272.

M.R. Salzman, Symmachus’ Varro: Latin Letters in Late Antiquity, BICS 61 (2018), 92-105.

H. Schneider, Der Einspruch des Symmachus, in W. Geerlings, R.M. Ilgner (eds.), Monotheismus – Skepsis – Toleranz, Turnhout 2009, 73-210.

D.R. Shackleton Bailey, Critical Notes on Symmachus’ Private Letters, CPh 78 (1983), 315-323.

J.J. Sheridan, The Altar of Victory: Paganism’s Last Battle, AntClass 35 (1966), 186-206.

O. Seek (ed.), Q. Aurelii Symmachi quae supersunt, MGH AA 6, 1, Berlin 1883.

M. Siedow, Q. Aurelius Symmachus und die Netzwerke der spätrömischen Aristokratie soziale Netzwerkanalyse in der alten Geschichte?, in D. Bauerfeld, L. Clemens (eds.), Gesellschaftliche Umbrüche und religiöse Netzwerke. Analysen von der Antike bis zur Gegenwart, Bielefeld 2014, 13-43.

E. Simon, The Diptych of the Symmachi and Nicomachi: An Interpretation. In Memoriam Wolfgang F. Volbach 1892-1988, G&R 39 (1992), 56-65.

K. Smolak, Simmaco ed Enea. Alcune considerazioni riguardo a Prudenzio, Contra Symmachum 2,583-640, in M.G. Moroni (ed.), Poesia tardoantica e medievale: Atti del 6° Convegno Internazionale di Studi, Macerata, 3-5 dicembre 2013, Pisa 2018, 101-114.

C. Sogno, Q. Aurelius Symmachus: A Political Career between Senate and Court, New Haven 2002.

C. Sogno, Aegidius Beneventanus and the “Epistulae” of Q. Aurelius Symmachus, MJ 40 (2005), 407-416.

C. Sogno, Q. Aurelius Symmachus: A Political Biography, Ann Arbor 2006.

C. Sogno, Age, and Style in Late Antique Epistolography: Symmachus’ Polemics against the Rhetoric of the Old, in A. Classen (ed.), Old Age in the Middle Ages and the Renaissance: Interdisciplinary Approaches to a Neglected Topic, Berlin 2007, 85-102.

C. Sogno, The Letter Collection of Quintus Aurelius Symmachus, in Id., B.K. Storin, E.J. Watts (eds.), Late Antique Letter Collections: A Critical Introduction and Reference Guide, Oakland 2017, 175-189.

J. Straub, Germania Provincia. Reichsidee und Vertragspolitik im Urteil des Symmachus und der Historia Augusta, in F. Paschoud (éd.), Colloque Genevois sur Symmaque à l’occasion du mille six centième anniversaire du conflit de l’autel de la Victoire, Paris 1986, 209-230.

C.-M. Ternes, Ambroise, Symmaque, deux cultures pour une Europe?, in R. Poignault, O. Wattel de Croizant (éds.), D’Europe à l’Europe. I. Le mythe d’Europe dans l’art et la culture de l’Antiquité au XVIII ͤ siècle. Actes du colloque tenu à l’ENS, Paris (24-26 avril 1997), Tours 1998, 117-130.

K. Thraede, Concordia Romana in der Antwort des Prudentius auf die dritte Relatio des Symmachus, in Id., E. Dassmann (eds.), Tesserae: Festschrift für Josef Engemann, Münster i. W. 1991, 380-394.

D. Vera, Commento storico alle “Relationes” di Quinto Aurelio Simmaco (Introduzione, commento, testo, traduzione, appendice sul libro X, 1-2, indici), Pisa 1981.

D. Vera, Simmaco e le sue proprietà: struttura e funzionamento di un patrimonio aristocratico del quarto secolo d.C., in F. Paschoud (éd.), Colloque Genevois sur Symmaque à l’occasion du mille six centième anniversaire du conflit de l’autel de la Victoire, Paris 1986, 231-276.

L.M.A. Viola, Quinto Aurelio Simmaco: lo splendore della Romanitas; la perfezione dell’uomo religioso romano-italiano e la costituzione della civiltà universale della Pace, Forlì 2010.

M. Vitiello, Emperor Theodosius’ Liberty, and the Roman Past, HSCPh 108 (2015), 571-620.

C. Vogler, Les médecins dans le Code Théodosien 13.3 et la Relatio 27 de Symmaque, in J.-J. Aubert (éd.), Droit, religion et société dans le Code Théodosien; troisièmes Journées d’Etude sur le Code Théodosien, Neuchâtel, 15-17 février 2007, Genève 2009, 327-373.

E. Walter, Die dritte Relatio des Symmachus und die Entgegnungen des Bischofs Ambrosius von Mailand und des Prudentius. Vorschlag für eine Unterrichts-Einheit, AU 20 (1977), 5-20.

J. Weisweiler, The Price of Integration. State and Élite in Symmachus’ Correspondence, in P. Eich, S. Schmidt-Hofner, C. Wieland (eds.), Der wiederkehrende Leviathan. Staatlichkeit und Staatswerdung in Spätantike und Früher Neuzeit, Heidelberg 2011, 343-373.

G. Wirth, Symmachus und einige Germanen, in F. Paschoud (éd.), Colloque Genevois sur Symmaque à l’occasion du mille six centième anniversaire du conflit de l’autel de la Victoire, Paris 1986, 277-300.

J. Wytzes, Der Streit um den Altar der Viktoria: die Texte der betreffenden Schriften des Symmachus und Ambrosius mit Einleitung, Übersetzung und Kommentar, Amsterdam 1936.

P. Zanna, Ambrogio, Simmaco, Agostino: il dialogo tra retorica, religione e pastorale dei pagani, in L. Alici, R. Piccolomini, A. Pieretti (eds.), La filosofia come dialogo. A confronto con Agostino, Roma 2005, 85-103.

M. Zelzer, Symmachus, Ambrosius, Hieronymus und das römische Erbe, StPatr 28 (1993), 146-160.