La battaglia di Teutoburgo – settembre 9 d.C. (Vell. II 117-119)

Nel 9 d.C., l’esperto generale romano Publio Quintilio Varo, governatore della Germania, seguendo le informazioni fornite da Arminio, fidato comandante cherusco e praefectus di un contingente di auxilia germanico, si pose alla guida di un’armata per reprimere una rivolta scoppiata all’estremità settentrionale dell’Impero in un territorio solo parzialmente sottomesso. Anziché incontrare gli attesi rinforzi promessi dai Cherusci, Varo cadde in un’imboscata, approntata nientemeno che dallo stesso Arminio, nella foresta di Teutoburgo. Circondato su tre lati da pendici boscose, paludi e terrapieni erbosi, l’esercito romano resse l’urto iniziale; durante la marcia in territorio “amico”, le truppe si erano però distanziate in modo talmente disordinato da rendere in definitiva impossibile un disimpegno. I continui attacchi “mordi e fuggi” degli assalitori germanici aumentarono la confusione e il panico nei ranghi di Varo e solo alcuni soldati superstiti riuscirono a riattraversare il Reno. Il sito della catastrofe (clades Variana) è stato localizzato dagli studiosi nei pressi dell’altura di Kalkriese, vicino a Osnabrück.

La distruzione di tre “invincibili” legioni romane a opera dei “barbari” germani scosse Roma fin nel profondo. La battaglia della foresta di Teutoburgo (saltus Teutoburgensis), passata alla storia come una delle più importanti in assoluto, cambiò effettivamente il corso della storia. Secondo Svetonio (Aug. 23, 2), come ricevette la notizia, il princeps avrebbe iniziato a battere violentemente la testa contro le pareti, gridando: Quinctili Vare, legiones redde! («Quintilio Varo, rendimi le legioni!»). Il numero delle unità coinvolte – XVII, XVIII e XIX – non furono mai più utilizzati, in parte per vergogna e in parte per superstizione.

The Varian disaster, 9 CE. Illustrazione di A. McBride.

Il biasimo, comunque, non è da attribuire ai soldati: secondo il contemporaneo Velleio Patercolo, la responsabilità ultima della disgregazione e della distruzione dell’esercito di Varo era dovuta alla mediocrità dello stesso comandante e alla codardia dimostrata dai suoi subalterni. Quella che segue è la versione dei fatti trasmessa dallo storico (Vell. II 117-119):

Tantum quod ultimam imposuerat Pannonico ac Delmatico bello Caesar manum cum intra quinque consummati tanti operis dies funestae ex Germania epistulae caesi Vari trucidatarumque legionum trium totidiemque alarum et sex cohortium ***, velut in hoc saltem tantummodo indulgente nobis Fortuna, ne occupato duce ‹tanta clades inferretur. Sed› et causa ‹et› persona mora exigit.

Varus Quintilius nobili magis quam inlustri ortus familia, vir ingenio mitis, moribus quietus, ut corpore ita animo immobilior, otio magis castrorum quam bellicae adsuetus militiae, pecuniae vero quam non contemptor Syria, cui praefuerat, declaravit, quam pauper divitem ingressus dives pauperem reliquit; is cum exercitui qui erat in Germania praeesset, concepit a se homines qui nihil praeter vocem membraque habent hominum, quique gladiis domari non poterant, posse iure mulceri. Quo proposito mediam ingressus Germaniam velut inter viros pacis gaudentes dulcedine iurisdictionibus agendoque pro tribunali ordine trahebat aestiva. At illi, quod nisi expertus vix credat, in summa feritate versutissimi natumque mendacio genus, simulantes fictas litium series et nunc provocantes alter alterum in iurgia, nunc agentes gratias quod ea Romana iustitia finiret feritasque sua novitate incognitae disciplinae mitesceret et solita armis decerni iure terminarentur, in summam socordiam perduxere Quinctilium, usque eo ut se praetorem urbanum in foro ius dicere, non in mediis Germaniae finibus exercitui praeesse crederet.

Tum iuvenis genere nobilis, manu fortis, sensu celer, ultra barbarum promptus ingenio, nomine Arminius, Segimeri principis gentis eius filius, ardorem animi vultu oculisque praeferens, adsiduus militiae nostrae prioris comes, ‹cum› iure etiam civitatis Rom‹an›ae ius equestris consecutus gradus, segnitia ducis in occasionem sceleris usus est, haud imprudenter suspicatus neminem celerius opprimi quam qui nihil timeret, et frequentissimum initium esse calamitatis securitatem. Primo igitur paucos, mox plures in societatem consilii recepit; opprimi posse Romanos et dicit et persuadet, decretis facta iungit, tempus insidiarum constituit. Id Varo per virum eius gentis fidelem clarique nominis, Segesten, indicatur. Postulabat etiam ‹vinciri socios. Sed praevalebant iam› fata consiliis omnemque animi eius aciem praestrinxerat; quippe ita se res habet ut plerumque cui fortunam mutaturus ‹est› deus consilia corrumpat, efficiatque, quod miserrimum est, ut quod accidit id etiam merito accidisse videatur et casus in culpam transeat. Negat itaque se credere spe‹cie›mque in se benevolentiae ex merito aestimare profitetur. Nec diutius post primum indicem secundo relictus locus.

Ordinem atrocissimae calamitatis, qua nulla post Crassi in Parthis damnum in externis gentibus gravior Romanis fuit, iustis voluminibus ut alii ita nos conabimur exponere: nunc summa deflenda est. Exercitus omnium fortissimus, disciplina, manu experientiaque bellorum inter Romanos milites principes, marcore ducis, perfidia hostis, iniquitate Fortunae circumventus, cum ne pugnandi quidem egrediendive occasio iis, in quantum voluerant, data esset immunis, castigatis etiam quibusdam gravi poena quia Romanis et armis et animis usi fuissent, inclusus silvis paludibus insidiis ab eo hoste ad internecionem more pecudum trucidatus est quem ita semper tractaverat ut vitam aut mortem eius nunc ira nunc venia temperaret. Duci plus ad moriendum quam ad pugnandum animi fuit; quippe paterni avitique exempli successor se ipse transfixit. At e praefectis castrorum duobus quam clarum exemplum L. Eggius, tam turpe Ceionius prodidit, qui, cum longe maximam partem absumpisset acies, auctor deditionis supplicio quam proelio mori maluit. At Vala Numonius, legatus Vari, cetera quietus ac probus, diri auctor exempli, spoliatum equite peditem relinquens fuga cum alis Rhenum petere ingressus est; quod factum eius Fortuna ulta est; non enim desertis superfuit sed desertor occidit. […] Vari corpus semiustum hostis laceraverat feritas; caput eius abscisum latumque ad Maroboduum et ab eo missum ad Caesarem gentilicii tamen tumuli sepultura honoratum est.

Cenotafio di Marco Celio, centurione della legio XVIII (CIL XIII 8648). Edicola con iscrizione, c. 9-14, da Colonia Ulpia Traiana (od. Xanten). Bonn, Rhein. Landesmus.

«Cesare aveva appena portato a termine la campagna dalmato-pannonica, quando, cinque giorni dopo che si era conclusa questa così grande impresa, delle lettere di malaugurio dalla Germania recarono la notizia che Varo era stato ucciso ed erano state massacrate tre legioni, altrettanti squadroni di cavalleria e sei coorti [ausiliarie]***, come se, almeno riguardo a ciò, soltanto la Sorte fosse stata benevola verso di noi, non ci sarebbe stato il pericolo che, impegnato il comandante, ci venisse inferta una simile disfatta. Ma i prodromi [di questa sciagura] e il personaggio richiedono che io mi soffermi un poco.

Quintilio Varo, nato da una famiglia più illustre che nobile, era un uomo di indole mansueta, tranquillo di carattere, alquanto lento sia nel corpo sia nella mente, avvezzo più all’inattività nell’accampamento che alle fatiche della guerra; ma che non disprezzasse il denaro, invero, lo provò la provincia di Siria, della quale era stato governatore, dove entrò povero e se ne uscì ricco, lasciando la regione povera da che era ricca; egli, allorché ebbe assunto il comando dell’armata di stanza in Germania, credette che fossero uomini quegli esseri che non avevano nulla di umano fuorché la voce e le membra e che quelli che non potevano essere domati con le armi, potessero essere ammansiti con il diritto. A questo scopo, penetrato nel cuore della Germania, come se [si trovasse] fra persone che godevano dei frutti della pace, conduceva la campagna estiva amministrando la giustizia civile e presiedendo i tribunali.

Eppure quelli [= i Cheruschi] – cosa che si stenta a credere, senza averne fatta personale esperienza – astutissimi pur nella massima rozzezza, razza nata per la menzogna, simulando una serie di finte querele, ora provocandosi a vicenda in contese e ora mostrandosi riconoscenti, perché quelle fossero ricomposte dalla giustizia romana, la loro indole selvaggia fosse addolcita dalla novità di una disciplina sconosciuta e fossero determinate col diritto quelle cose che si era soliti decidere con le armi, ridussero Quintilio ad un’eccessiva indolenza, al tal punto che egli credeva di esercitare il diritto nel foro come un pretore urbano anziché di avere il comando di un esercito nel bel mezzo della Germania.

Fu allora che un giovane di nobile stirpe, di nome Arminio – figlio di Sigimero, capo di questa tribù, vigoroso, acuto di mente, d’ingegno superiore a quello di un barbaro, che mostrava nello sguardo e nel volto l’ardore del suo animo, fedele compagno d’armi nella nostra precedente campagna, gratificato del diritto di cittadinanza romana, conseguendo anche i diritti dell’ordine equestre – approfittò dell’indolenza del generale per ordire il suo misfatto, poiché non senza saggezza aveva considerato che nessuno può essere eliminato più rapidamente di chi non ha nessun timore e che la troppa sicurezza molto spesso sia il principio di una disgrazia. Dapprima fece partecipi del suo piano pochi dei suoi, poi molti altri. Disse – e li convinse – che i Romani potevano essere schiacciati; fece seguire alla decisione l’azione, stabilì il momento opportuno per l’agguato. Ciò venne riferito a Varo da un uomo fidato, originario di quella gente dal nome illustre, Segeste. Chiedeva anche di ‹arrestare i cospiratori, ma ormai› il destino ‹prevaleva› sulle decisioni [poiché] aveva completamente offuscato il lume della ragione. Così, infatti, vanno le cose che per lo più la divinità, quando intende cambiare la Fortuna di qualcuno, gli sconvolge la mente e fa in modo che – e questa è la cosa più triste – quanto accade gli sembra essere accaduto anche giustamente e la sfortuna si tramuta in colpa. Varo si rifiuta di credergli e dichiara di sperare [da parte dei Germani] in una buona disposizione nei suoi riguardi, adeguata ai meriti. Non rimase ancora tempo, dopo il primo avvertimento, per riceverne un altro.

Anch’io, come altri [scrittori], cercherò di esporre in un’opera di maggior respiro le circostanze dettagliate di quest’orribile disgrazia che causò ai Romani la perdita più grave in terra straniera, dopo quella di Crasso presso i Parti: ora devo accontentarmi di deplorarla sommariamente. L’esercito più forte di tutti, primo tra le truppe romane per disciplina, coraggio ed esperienza in guerra, si trovò intrappolato, vittima dell’indolenza del suo comandante, della perfidia del nemico, dell’iniquità della Sorte e, senza che fosse stata data ai soldati nemmeno la possibilità di tentare una sortita e di combattere liberamente, com’essi avrebbero voluto, poiché alcuni furono anche puniti severamente per aver fatto ricorso alle armi e al coraggio, da veri Romani, chiuso da un’imboscata tra le selve e le paludi, fu ridotto allo sterminio da quel nemico che aveva sempre sgozzato come bestie al punto da regolare la sua vita e la sua morte ora con collera, ora con pietà. Il generale mostrò nella morte maggior coraggio di quanto ne avesse mostrato nel combattere: erede, infatti, dell’esempio del padre e del nonno si trafisse con la sua stessa spada. Ma dei due prefetti del campo, Lucio Eggio lasciò un esempio tanto illustre quanto fu vergognoso quello di Ceionio, il quale, quando la battaglia aveva già portato via la maggior parte dei suoi, propose di arrendersi e preferì morire tra le torture invece che in combattimento. Quanto a Vala Numonio, luogotenente di Varo, per il resto uomo tranquillo e onesto, fu autore di uno scelleratissimo esempio, abbandonando i cavalieri che erano stati privati del cavallo e ridotti a piedi, cercò di fuggire con gli altri verso il Reno. La fortuna, però, fece vendetta del suo gesto. Non sopravvisse, infatti, a quelli che aveva tradito, e morì da traditore. […] La furia selvaggia dei nemici bruciò a metà il corpo di Varo e lo fece a pezzi. La sua testa mozzata e mandata a Maroboduo, che poi la inviò a Cesare, ebbe tuttavia gli onori della sepoltura nella tomba di famiglia».

The Battle of Teutoburg Forest (Germany, AD 9). Illustrazione di A. McBride.

Una delle conseguenze del disastro di Teutoburgo fu il definitivo abbandono dei piani per un eventuale controllo della Germania Magna. Roma non effettuò ulteriori tentativi di annessione dei territori transrenani e per i successivi quattro secoli il fiume segnò il confine dell’Impero romano.

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Il 𝐶ℎ𝑟𝑜𝑛𝑖𝑐𝑜𝑛 di Marcellino Comes

Nel 519 a Costantinopoli, alla morte dell’imperatore Anastasio, un certo Marcellino completò la prima redazione della sua cronaca. L’opera si prefiggeva di continuare la narrazione dei fatti storici, riprendendo dal punto in cui si erano interrotti gli analoghi lavori di Eusebio di Cesarea e di Girolamo; il suo racconto, però, in questa prima versione, era condotto attraverso un’ottica pro-illirica, schierata a favore dell’ortodossia e fortemente polemica verso l’imperatore appena scomparso. Ma chi era Marcellino, noto come Marcellinus Comes o Μαρκελλίνος ό Κόμης? Ora, ben pochi sono stati gli studiosi a esercitarsi sulla figura e sull’opera di questo autore vissuto a cavallo tra V e VI secolo e altrettanto scarse sono le informazioni sulla sua biografia: i dati disponibili sono ricavabili dai riferimenti sparsi nel suo Chronicon (soprattutto nella prefazione) e dalla testimonianza delle Institutiones di Cassiodoro. Lo si dice Illyricianus: si è supposto che Marcellino fosse originario della regione compresa tra la Dacia ripensis e la Moesia superior, un’area corrispondente all’od. Macedonia. È probabile che abbia iniziato la sua carriera come militare verso la fine del V secolo, magari nelle campagne di Anastasio contro Unni e Bulgari. E, benché la sua scrittura tradisca l’influsso delle contemporanee scuole di retorica, non è chiaro se abbia ricevuto un’educazione classica e teologica. A ogni modo, dopo il 519 egli sarebbe entrato al servizio del patricius Giustiniano in qualità di segretario personale (cancellarius) fino al 527, quando quello divenne imperatore. A tal proposito, nel suo capitolo dedicato agli storici cristiani, Cassiodoro (Inst. I 17, 2) spiega: Chronica vero, quae sunt imagines historiarum brevissimaeque temporum commemorationes, scripsit Graece Eusebius, quem transtulit Hieronymus in Latinum, et usque ad tempora sua deduxit eximie. hunc subsecutus est suprascriptus Marcellinus Illyricianus, qui adhuc patricii Iustiniani fertur egisse cancellos, sed meliore conditione devotus a tempore Theodosii principis usque ad fores imperii triumphalis Augusti Iustiniani opus suum Domino iuvante perduxit, ut qui ante fuit in obsequio suscepto gratus, postea ipsius imperio copiose amantissimus appareret («Eusebio ha scritto in greco cronache che sono immagini di storia e brevissime memorie dei tempi; le ha tradotte in latino Girolamo, il quale le ha continuate fino ai suoi giorni in maniera eccellente. L’ha seguito il suddetto Marcellino l’Illirico, che si dice essere stato in precedenza segretario del patrizio Giustiniano: con l’aiuto del Signore, dopo il miglioramento civile del suo padrone, egli ha proseguito l’opera dal tempo dell’imperatore Teodosio fino all’inizio del governo dell’Augusto Giustiniano, affinché colui che era stato prima gradito nel servizio del suo padrone si mostrasse poi fervidissimo durante l’impero di questi»; tr. it. Donnini 2001). La cronografia di Marcellino, dunque, vanta il primato di essere la prima continuazione delle narrazioni di Eusebio e di Girolamo, compilata a Costantinopoli e scritta dal punto di vista dell’Oriente romano, e di registrare avvenimenti fondamentali ben oltre il V secolo: ciò, oltre alla prestigiosa raccomandazione cassiodorea (ibid. 1), spiega il discreto successo dell’opera. È noto poi che se ne ebbe una seconda redazione entro il 534, nella quale l’esposizione dei fatti si colloca in un orizzonte politico del tutto nuovo: vi è posta al centro la figura di Giustiniano, di cui si lodano le imprese e gli atti di governo; l’atteggiamento dello scrittore è di gratitudine e celebrazione panegiristica; il testo è in gran parte assorbito dalla propaganda imperiale e culmina nel trionfo per la riconquista dell’Africa.

Oxford, Bodleian Library. Codex Oxoniensis Bodleianus Lat. auct. T II 26 (c. VII secolo), Marcellini v.c. comitis Chronicon, tab. I [Mommsen 1894, ].

Uno dei passi meglio noti della cronaca riguarda l’anno 476 (Chron. Marcell. 11, 91): Odoacer rex Gothorum Romam optinuit. Orestem Odoacer ilico trucidavit. Augustulum filium Orestis Odoacer in Lucullano Campaniae castello eum poena damnavit. Hesperium Romanae gentis imperium, quod septmgentesimo nono urbis conditae anno primus Augustorum Octavianus Augustus tenere coepit, Qum hoc Augustulo periit, anno decessorum regni imperatorum quingentesimo vigesimo secundo, Gothorum debiue regibus Romam tenentibus («Odoacre, re dei Goti, si impadronì di Roma ed assassinò subito Oreste. Il figlio di questi, Augustolo, fu esiliato nel Castel Lucullano in Campania. L’impero romano d’Occidente, che il primo Augusto, Ottaviano, aveva assunto nell’anno 709 della fondazione di Roma, perì con questo Augustolo cinquecentoventidue anni dopo che i suoi predecessori avevano iniziato a regnare, e da allora i re Goti furono padroni di Roma»; tr. it. Gasparri-Di Salvo-Simoni 1992 []). Marcellino è il primo autore conosciuto ad affermare che la deposizione di Romolo Augustolo da parte di Odoacre sancì la fine dell’Impero romano d’Occidente: come si vede, l’esposizione è asciutta e si limita alla nuda sequenza dei fatti senza aggiungere alcun commento.

Flavio Romolo Augusto. Solidus, Roma 31 ottobre 475-4 settembre 476. AV 4,41 g. Recto: D(ominus) N(oster) Romulus Augustus P(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto affrontato, elmato, diademato di perle e corazzato dell’imperatore, con lancia e scudo.

Oltre all’aggiornamento del Chronicon, dopo il 527 non è chiaro che cosa Marcellino abbia fatto. Sono state avanzate delle ipotesi: è possibile che egli sia stato ammesso nel Senato di Costantinopoli, come confermerebbero i titoli di cui si fregia nella prefazione (ego vero vir clarissimus Marcellinus comes); oppure è probabile che, seguendo la parabole di molti funzionari del tempo, nei suoi ultimi anni egli abbia abbracciato la vita monastica. Della sua scomparsa non si hanno notizie precise, dato che se ne perdono le tracce dopo il 534.

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Il Laterculus Veronensis (o Registro di Verona)

Il manoscritto II (2), della Biblioteca Capitolare di Verona, databile alla prima metà del VII secolo, conserva ai ff. 225r, l. 14-226r, l. 19 una lista delle province romane risalente all’epoca di Diocleziano e Costantino. L’elenco contiene centouno province organizzate secondo il sistema delle dioeceseis (διοίκησεις) introdotto da Diocleziano alla fine del III secolo: il documento riporta sei diocesi orientali (Oriens, Pontica, Asiana, Thracia, Moesiae, Pannoniae) e sei diocesi occidentali (Britanniae, Galliae, Viennensis, Italiciana, Hispaniae, Africa). Nella parte conclusiva di questa lista, sono riportati i nomi delle gentes barbarae sottomesse all’Impero e quelli delle città sorte oltre il Reno.

Mappa dell’Impero romano durante la prima Tetrarchia di Diocleziano (284-305 d.C.).

Pubblicato per la prima volta da Scipione Maffei nel 1742 e, dopo un lungo periodo di silenzio, riscoperto da Theodor Mommsen nel 1862 ed edito con il titolo di Verzeichniss der römischen Provinzen aufgesetzt um 297, da allora il documento, convenzionalmente noto come Laterculus Veronensis (o Registro di Verona), fu oggetto di aspri dibattiti. A proposito della cronologia della compilazione, il Mommsen sosteneva che la lista fosse databile attorno al 297, ma le scoperte epigrafiche e papirologiche del XX secolo smentirono ben presto questa ipotesi. La vexata quaestio si appuntò quasi fin da subito intorno a due poli: da una parte, coloro che, con il Mommsen, ribadivano la tesi dell’omogeneità integrale del documento l’hanno variamente datato chi intorno al 305 (Costa 1912, 1834; Nesselhauf 1938, n. 2, 8-9; Stein 1959, 437), chi tra il 304 e il 314 (Keyes 1916, 196 ss.), chi ancora tra il 308 e il 315 (Bury 1923, 127 ss.), oppure tra il 312 e il 320 (Jones 1954, 21-29) o tra il 312 e il 314 (Kolbe 1962, 65 ss.) o ancora più precisamente verso il 314 (Jones 1964, 381-391); altri interpreti, invece, hanno compulsato del tutto questa tesi, attribuendo la caratteristica dell’omogeneità agli elenchi delle due partes imperii: secondo tale ricostruzione, la configurazione amministrativa delle province occidentali andrebbe datata agli anni 303-306, mentre quella delle province orientali agli anni 312-324 (Mispoulet 1906, 254 ss.; Schwartz 1937, 79 ss.; Chastagnol 1960, 3-4).

Verona, Biblioteca Capitolare. MS II (2), prima metà VII secolo, f. 225r-226r. Laterculus Veronensis – Lista delle province raggruppate in diocesi [ed. dipl. di BARNES 1982, 201-208].

In realtà, la congettura della presunta omogeneità del Registro è sempre stata molto fragile, anche perché costringerebbe a collocare il testimone in un arco di tempo davvero circoscritto. Da un lato, mentre ancora esistevano due Numidiae distinte nella primavera del 314 (Cirtensis e Militiana), quando Costantino convocò il Concilio di Arelate (od. Arles) per il 1° agosto (Optat. App. 3, 205, 33/34 Ziwsa), e le due province sarebbero state riunificate entro la fine di quell’estate (CIL VIII 18905), dall’altro i papiri contemporanei non menziona alcun governatore per l’Aegyptus Herculia (P. Cairo Isid. 73-74; cfr. Boak, Youtie 1960, 285-286; de Salvo 1964, 34 ss.), mentre il Laterculus di Verona raggruppa sotto la diocesi d’Oriente le due suddivisioni egizie della Iovia (che comprendeva il Basso Egitto e i dintorni di Alessandria) e dell’Herculea (cioè la regione a est del Delta del Nilo, con capitale Pelusium), entrambe create sotto Diocleziano. Secondo Timothy D. Barnes (1982, 204-205), sebbene il registro veronese possa apparire un documento omogeneo circa gli ultimi mesi del 314, prove più precise sulla riunificazione delle Numidiae e sulla divisione dell’Aegyptus potrebbero facilmente smentire questo assunto.

C. Aurelio Valerio Diocleziano. Follis, Nicomedia c. 294-295. Æ 9,62 g. Recto: Imp(erator) C(aesar) C(aius) Val(erius) Diocletianus P(ius) F(elix) Aug(ustus). Testa barbata e laureata dell’imperatore, voltata a destra.

Anche l’opinione che le due partes registrate siano omogenee, pur con cronologie differenti, per la quale ogni elenco delle diocesi dovrebbe presentare una certa coerenza interna, risulta decisamente smentita proprio dal caso della dioecesis Orientis: Barnes ha osservato che l’elenco veronese menziona due province chiamate Arabia (Arabia, item Arabia), seguite appunto dall’Aegyptus Iovia e dall’Aegyptus Herculea (in seguito chiamata Augustamnica). In particolare, la regione meridionale della provincia arabica di fondazione traianea era stata accorpata da quella di Palaestina già prima del 314 (Brümnow, von Domaszewski 1909): Eusebio di Cesarea nel suo De martyribus Palaestinae, infatti, riferisce che nel 307 il governatore locale aveva condannato dei cristiani ai lavori forzati nelle miniere di rame di Fenò in Palestina (Euseb. De mart. Pal. VII 2). Ora, se Fenò (od. Khirbet-Fenan) faceva parte della Palaestina nel 307 (o ancora nel 311, quando l’autore compose il suo libello), allora – secondo Barnes (1975, 277-278) – una delle due province arabiche menzionate dal Laterculus doveva essere stata soppressa ancor prima dell’istituzione dell’Aegyptus Herculea; da ciò consegue che il Registro di Verona non è assolutamente omogeneo né nella sua interezza né nelle sue singole parti.

Funzionari romani in Egitto, III secolo. Illustr. di G. Sumner.

In altre parole, lo storico britannico identifica l’Arabia Nova con l’Aegyptus Herculea, ma l’equazione proposta non trova conferma nei papiri coevi: l’argomentazione di Barnes, secondo cui all’interno della presunte provincia sarebbe esistito un νόμος Ἀραβικός (corrispondente al Delta orientale), non è convincente a causa della moltitudine di toponimi di questo genere in tutto l’Egitto. Lo studioso menziona un papiro, all’epoca ancora inedito, attestante la presenza tra il 314 e il 318 di una circoscrizione detta Νέα Ἀραβεία (Arabia Nova), e suppone che una città, Ἐλευθεροπόλις, si trovasse nei pressi dell’Herculea (inv. P. Oxy. 29 4B.48/G [6-7]a). John R. Rea (1983, 183-186), invece, ha respinto l’interpretazione di Barnes, pubblicando il papiro come P. Oxy. 50, 3574: egli, a ragione, ha osservato che esiste un’unica città chiamata Eleuteropoli (in Palaestina) e che ciò sarebbe confermato dal nome semitico del firmatario, Αὐρ(ήλιος) Μάλχος (Aurelio Malco), figlio di Gionata, che presentò la sua petizione al praeses Herculiae; conferme sulle relazioni tra questa città e Ossirinco si trovano anche altrove (P. Oxy. 14, 1722). Insomma, Rea sostiene che all’epoca in cui fu redatto il Laterculus Veronensis esistevano effettivamente due Arabiae: l’una (comprendente Eleuteropoli) era l’Arabia Nova, con capitale Petra, mentre l’altra, forse denominata Arabia Vetus, aveva come centro amministrativo la città di Bostra. Questa ricostruzione è abbastanza convincente, soprattutto perché non implica la costruzione congetturale di altre entità territoriali, come una presunta Eleuteropoli da qualche parte sul Delta del Nilo. In seguito, Barnes (1996) ha ritrattato la sua posizione, collocando la redazione del documento nel 314.

Seguendo un ordine geografico approssimativo, il Registro di Verona prosegue con un elenco delle varie gentes barbarae che si trovavano lungo i confini dell’Impero partendo da ovest, con gli Scoti (gli Irlandesi), e terminando a est sulle coste occidentali del mar Nero con i Persae. Le etnie note ai funzionari e ai militari romani dell’epoca costantiniana erano le seguenti:

Scoti. Picti. Caledonii. Rugii. Herulii. Saxones. Camari. Crinsiani. Ampsivarii. Angrivarii. Flevi. Bructer. Chatti. Burgundiones. Alamanni. Suebi. Franci. Chattuarii. Iuthungi. Armilausini. Marcomanni. Quadi. Taifali. Hermonduri. Vandali. Sarmatae. Sciri. Carpi. Scythae. Gothi. Indii. Armeni. Palmyreni. Mosoritae. Theui. Isauri. Phryges. Persae.

L’elenco continua menzionando le genti quae in Mauretania sunt e si conclude con gli abitati sorti trans Rhenum fluvium. Il registro di per sé fa capire i problemi incontrati dalle autorità imperiali, le quali dovevano cercare di raccogliere informazioni di carattere militare e civile su tutte queste popolazioni (peraltro molto variegate linguisticamente e culturalmente) e seguire la complessa politica interna ed estera di ognuna di esse così da essere pronte a fronteggiare qualunque minaccia imminente. Senza contare che queste erano soltanto le stirpi più vicine alle frontiere.

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L’Historia Augusta

L’Historia Augusta, secondo il filologo svizzero Isaac Casaubon (1559-1614), o Vita diversorum principum et tyrannorum, secondo il titolo tràdito dai manoscritti, è una raccolta di trenta biografie di imperatori dal II al III secolo, da Adriano a Numeriano (117-284), con lacune per gli anni 244-260. L’opera non comprende solo i profili degli Augusti, ma anche quelle che gli studiosi hanno definito «vite sussidiarie», brevi biografie o di eredi designati o di usurpatori (tyranni): una serie di notizie che rende l’Historia Augusta un testo di importanza fondamentale per le attuali conoscenze del periodo fra il II e il III secolo, su cui scarso è l’apporto di altre fonti. In effetti, si tratta di una delle opere tra le più curiose della tarda antichità tanto per il suo carattere di enigma letterario quanto per il suo peculiare contenuto, che mescola spudoratamente verità e invenzione.

Un letterato nel suo studio. Rilievo, marmo, III-IV sec. d.C. Roma, Museo della Civiltà romana.

L’Historia Augusta presenta, infatti, una serie di problemi assai intricati, in modo particolare in merito ad attribuzione e a datazione, tutte questioni che secoli di dibattito critico non hanno risolto e che ancora giacciono sostanzialmente aperte (Johne 1976). Per quanto riguarda la datazione, nel suo insieme la raccolta si presenta composta tra la fine del III e gli inizi del IV secolo, se non altro per la serie di dediche e apostrofi rivolte in più luoghi a imperatori da Diocleziano a Costantino (cfr. S.H.A. Clod. 1, 1; 3, 1; Aurel. 44, 5). L’altra vexata quaestio filologica riguarda la paternità della raccolta, perché le varie biografie figurano scritte da sei distinti autori, non altrimenti noti: Elio Sparziano, Giulio Capitolino, Volcacio Gallicano, Trebellio Pollione, Elio Lampridio, Flavio Vopisco. Non pochi indizi hanno fatto supporre che la redazione appartenga a un’età successiva, in quanto i presunti biografi rivelano conoscenze inconciliabili con l’epoca alla quale dichiarano di appartenere. Per questo e per altre contraddizioni, si è fatta strada nel tempo l’ipotesi che i sei nomi siano del tutto fittizi e che l’opera sia stata composta in epoca più tarda, probabilmente da un unico autore, un falsario che grazie all’anonimato sperava di rendere più attraenti i suoi scritti. Altri hanno preferito un’ipotesi intermedia e cioè che qualcuno, nella seconda metà del IV secolo, abbia ripreso e rielaborato biografie originariamente redatte in età dioclezianea e costantiniana (Dessau 1889; contra Mommsen 1890; Lippold 1991; 1998). L’orientamento tradizionalista e anticristiano dell’opera ha fatto comunque propendere per una datazione agli anni di Giuliano (361-363) o ai primi anni d’impero di Teodosio (379-395), momenti in cui si ebbe una breve ma intensa ripresa pagana; altri ancora hanno pensato addirittura al V o al VI secolo (cfr. Baynes 1926; Hartke 1940; 1951; Straub 1963).

P. Licinio Egnazio Gallieno. Busto, marmo, 261 d.C. ca. Bruxelles, Musée Royal

Dal punto di vista ideologico, chi ha composto le biografie doveva essere di estrazione senatoria: infatti, gli imperatori sono valutati positivamente o negativamente in base alla loro condotta nei confronti del venerando consesso. Così, per esempio, Massimino Trace (235-238), che si oppose al latifondo e si batté contro l’evasione fiscale dell’élite senatoria africana, è raffigurato come una «belva crudelissima», brutale, ignorante e ingorda, solo muscoli e niente cervello; Gallieno (253-268), invece, che escluse i senatori dalla carriera militare, è presentato come un lussurioso, un uomo disonesto e incapace: «Regge lo Stato con la competenza dei bambini quando giocano a fare gli imperatori» (S.H.A. Gall. 10, 2). Diversamente, il filosenatorio Severo Alessandro (222-235) è descritto come un principe modello, idealizzato al punto che il suo profilo apparve ad Edward Gibbon una «goffa imitazione della Ciropedia». Al contrario, le biografie di Commodo, Caracalla, Elagabalo sono un vero e proprio «museo degli orrori».

Dal punto di vista stilistico, la narrazione è condotta in modo piano e monotono, «giornalistico» e sciattamente cronachistico. Sul piano contenutistico, l’opera è piena di incongruenze, esagerazioni macroscopiche su particolari secondari, che fanno perdere il punto di vista sui maggiori problemi storici; presenta molte profezie post eventum, fastidiosi pettegolezzi e notizie certamente false, al punto che qualcuno l’ha intesa come una parodia della storiografia ufficiale. Inclini alla curiosità aneddotica, queste biografie sono state considerate la degenerazione del modello svetoniano, al quale intendono riallacciarsi (forse sono andati perduti la prefazione e i ritratti di Nerva e di Traiano, che avrebbero continuato il De vita Caesarum; cfr. (S.H.A. Max. Balb. 4, 5; Prob. 2, 7; Quatt. tyr. 1, 1-2). Anche lo schema compositivo è lo stesso dei ritratti di Svetonio: esposizione cronologica fino all’assunzione del potere imperiale e, nella fase successiva, per categorie tematiche (per species).

C. Vibio Treboniano Gallo. Statua, bronzo, III sec. da Roma. New York, Metropolitan Museum of Art.

Fine prevalente dell’opera, a onta delle dichiarazioni di documentazione rigorosa (conscientia, fidelitas, diligentia), è l’intrattenimento del lettore, ma anche il suo ammaestramento morale, presentando modelli positivi da emulare e modelli negativi da evitare. D’altronde, in tutta la raccolta si avverte fortissima la tendenza all’inserimento, accanto a dati storici, di elementi di pura invenzione. Questo, tuttavia, non accade in maniera sistematica, ma in misura crescente a mano a mano che l’opera procede; le informazioni contenute nella prima serie di biografie (fino circa a quella di Caracalla), infatti, sono in larga parte accettabili, ma dalla vita di Macrino in poi iniziano a prendere il sopravvento gli elementi fantasiosi: riferimento a documenti falsi, personaggi totalmente inventati, notizie strampalate, il tutto narrato con un aplomb degno di un grande biografo.

Per esempio, Giulio Capitolino informa che i genitori di Massimino Trace si chiamavano, rispettivamente, Micca e Ababa. Sembrerebbe un’encomiabile completezza di informazione, se non fosse che non solo la notizia è palesemente inventata, ma per di più si tratta di una storpiatura delle parole che compongono la notizia dello storico greco Erodiano, che aveva definito l’imperatore un μιξοβάρβαρος, «mezzo barbaro» (Hdn. VI 8, 1): da qui il padre Micca e la madre Ababa. C’è poi una costante passione per i giochi di parole: Caracalla che si sarebbe potuto fregiare anche del titolo di Geticus Maximus, e non perché avesse trionfato sui Geti/Goti, ma perché aveva fatto assassinare il fratello Geta. Talvolta, all’interno delle singole biografie amplissimo spazio è concesso ai particolari più curiosi e insoliti, come mostra questo brano tratto dalla vita di Elagabalo, che si sofferma a lungo sulle sue assurde stravaganze: «Aveva anche l’abitudine di invitare a cena otto persone tutte calve, oppure otto persone strabiche, otto sofferenti di podagra o anche otto sordi, otto individui tutti di carnagione scura, oppure otto spilungoni o otto grassoni, divertendosi, nel caso di questi ultimi, a osservare gli equilibrismi cui dovevano ricorrere per prendere posto intorno alla tavola (S.H.A. Helag. 25, 1).

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Gaio Sallustio Crispo

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Il primo grande storico

Sallustio è il primo grande storico della letteratura latina di cui si possono leggere per intero le opere principali, essendo andate perdute le Origines di Catone. La sua novità consiste nell’aver scelto di narrare non un lungo periodo della storia romana, ma singoli avvenimenti (la congiura di Catilina e la guerra di Giugurta) che, pur essendo stati di breve durata, gli sembrarono decisivi per le conseguenze che avrebbero avuto sugli sviluppi successivi. Sallustio scelse dunque il genere della monografia, ovvero della «trattazione isolata».

In realtà, la monografia (dal greco μόνος, «singolo, isolato», e γράφειν, «scrivere») non è un vero e proprio genere letterario, ma un sottogenere della storiografia, che corrisponde alla scelta di trattare non una lunga epoca, ma un periodo circoscritto, un evento o un luogo isolato, che sembrano di particolare interesse per l’autore. Il modello ispiratore della scelta, in questo come in altri ambiti, fu Omero, che nell’Iliade narrò la guerra di Troia, per di più concentrandosi sugli eventi accaduti in cinquantuno giorni dell’ultimo anno di conflitto. Questa abilità di selezione fu lodata già da Aristotele, anche riguardo all’Odissea, in diversi passi della Poetica (p. es., 59a 30-37).

Venendo alla storiografia vera e propria, l’iniziatore della monografia fu l’ateniese Tucidide (c. 460-400 a.C.). Contrapponendosi al suo grande predecessore Erodoto, che aveva narrato la storia e le usanze di più popolazioni dalle origini fino alle guerre persiane, Tucidide decise di raccontare soltanto la guerra del Peloponneso (431-404), affermando nel proemio di aver capito (e a ragione) fin dall’inizio che si trattava di un fatto senza precedenti (I 1). Per sottolineare la novità di questo conflitto rispetto ai precedenti, dopo il proemio Tucidide inserì un lungo excursus sulla storia più antica – chiamato «archeologia» –, una scelta che sarebbe stata imitata da Sallustio nei capp. 6-13 del De Catilinae coniuratione.

Altri storici contemporanei di Tucidide scelsero la forma monografica in base non tanto all’evento, quanto al luogo: così Ellanico di Lesbo e Damaste di Sigeo scrissero opere su singoli Paesi e popoli ricche di notazioni etnografiche o su singole genealogie di eroi, mentre Ippia di Reggio e Antioco di Siracusa si concentrarono sull’Italia meridionale. Nel IV secolo il genere monografico continuò a fiorire (in particolare, i numerosi autori di storie dell’Attica presero il nome di attidografi); alla fine del III secolo vi si affiancarono le monografie dedicate alle straordinarie imprese di Alessandro il Grande (tra gli autori si ricordano Tolemeo, Nearco e Callistene), che però scaddero ben presto nel romanzesco.

Com’è noto, la prima storiografia romana fu di tipo annalistico, ovvero di ampio respiro e scandita anno per anno, fosse essa scritta in poesia (gli Annales di Ennio) o in prosa (le Origines di Catone). Il primo scrittore romano che optò per l’impianto monografico fu Celio Antipatro (II secolo a.C.), autore di un’opera – andata perduta – sulla seconda guerra punica.

La scelta di Celio Antipatro rimase alquanto isolata, finché non fu ripresa da Sallustio, che dedicò le sue due più importanti opere alla congiura di Catilina (63) e alla guerra contro Giugurta (111-105), affermando esplicitamente di voler scrivere «su argomenti scelti» (carptim… perscribere, Cat. 4, 2). Dopo queste due monografie, l’autore praticò anche l’annalistica componendo le Historiae, che narravano i fatti avvenuti dal 78 a.C. in poi.

Anche il più grande storico di età imperiale, Tacito, che ebbe Sallustio come modello di composizione, etica e stile, praticò entrambi i generi: oltre agli Annales e alle Historiae, che raccontano gli accadimenti dalla morte di Augusto, Tacito compose anche una monografia etnografica sui Germani (De origine et situ Germanorum) e un breve De vita Iulii Agricolae, che, pur essendo di per sé un elogio funebre, è in realtà un quadro monografico sul principato di Domiziano.

Insomma, ad avvenimenti brevi Sallustio dedicò opere brevi; malgrado questa caratteristica, le monografie contengono riflessioni che mostrano una lucidità e un’intelligenza proprie di chi ha partecipato attivamente alla vita politica per un lungo tratto della sua vita. il cupo pessimismo dell’autore e la sua tragica visione della Storia si riflettono in uno stile personalissimo, che rifugge dall’eleganza esornativa ciceroniana e fa largo uso di forme poetiche e arcaiche.

Maestro di Marradi. L’espulsione di Tarquinio il Superbo e di suo figlio Sesto da Roma. Tempera e oro su tavola, XV secolo. Collezione privata.

La vita: dalla politica attiva all’otium letterario

Gaio Sallustio Crispo nacque ad Amiternum, in Sabina (oggi vicino a L’Aquila), il 1 ottobre 86, da una famiglia facoltosa che però non aveva mai dato magistrati alla res publica; egli era perciò un homo novus, come il suo conterraneo Marco Porcio Catone il Censore, che fu per lui importante esempio ideologico e letterario. Sallustio compì probabilmente gli studi a Roma, dove i suoi interessi cominciarono a gravitare verso la politica, in un’epoca abbastanza convulsa per lo Stato romano. Una notizia non troppo certa lo vuole questore nel 55 o nel 54. Si legò inizialmente ai populares: tribuno della plebe nel 52, condusse una campagna accanita contro l’uccisore di Clodio, Milone, e contro Cicerone che lo appoggiava. Poco dopo dovette subire la vendetta degli optimates: nel 50 fu espulso dal Senato per indegnità morale.

Dopo lo scoppio della guerra civile, Sallustio combatté per la causa di Cesare e fu riammesso nel venerando consesso dopo la vittoria di quest’ultimo: la sua carriera politica riprese rapida, tanto che nel 46 era già arrivato a essere pretore. Una volta sconfitti i pompeiani anche in Africa a Tapso, Cesare nominò Sallustio governatore della nuova provincia, costituita in gran parte dalle annessioni dal regno di Numidia, tolto a Giuba che aveva appoggiato il nemico. Sallustio dette tuttavia prova di malgoverno e di rapacità, e al suo rientro a Roma, a fine mandato, fu colpito dall’accusa de repetundis. Per evitargli una sicura condanna e una nuova espulsione dal Senato, probabilmente Cesare gli consigliò di ritirarsi una volta per tutte dalla vita politica. Fu da quel momento in poi che, presumibilmente, Sallustio si dedicò alla storiografia. La morte lo colse nel 35 o nel 34, nella sua lussuosa residenza con grande parco tra il Quirinale e il Pincio (i cosiddetti Horti Sallustiani), facendo sì che restasse incompiuta la sua opera maggiore, le Historiae.

Strumenti da scrittura (tabulae ceratae, stilus, volumen). Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Le opere

Sallustio, dunque, si dedicò alla storiografia quando le circostanze gli impedirono di partecipare ancora alla vita politica. Questo dato biografico è il punto di partenza della riflessione sulla Storia e sul ruolo dello storico che egli svolge nei proemi delle due monografie, il De Catilinae coniuratione e il Bellum Iugurthinum, composte e pubblicate forse fra il 43 e il 40. Egli segue una prassi propria della storiografia classica, consistente nell’esordire svolgendo alcuni temi di carattere generale e affermando, prima di tutto, l’utilità della Storia: essa è per lo storico latino tanto più importante, rispetto ai suoi predecessori greci, in quanto la mentalità romana considerava assolutamente primaria la partecipazione alla vita pubblica e guardava con sospetto alle attività intellettuali che comportassero il distacco dalla res publica e il prevalere degli interessi privati.

Appunto contro le resistenze di questo sistema di valori tradizionali Sallustio vuole rivendicare l’importanza dell’opera dello storico. Per tale processo di legittimazione egli parte da premesse filosofiche e precisamente dal tema platonico del dualismo dell’essere umano, composto da animus e corpus: il primo è di origine divina ed è chiamato a funzioni di guida, mentre il secondo, che è mortale e che l’uomo ha in comune con gli altri animali, deve obbedire al primo. È dunque solennemente proclamata la superiorità della parte spirituale dell’uomo su quella fisica: all’animus, appunto, l’autore riconduce tutte le occupazioni nobili ed elevate, quelle apportatrici di fama, che consentono di trascendere i limiti mortali della vita umana.

Un’opera di più vasto respiro, le Historiae, iniziata intorno al 39 e rimasta incompiuta al libro V, copriva il periodo fra il 78 e il 67, cioè dalla morte di Silla alla conclusione della guerra piratica di Pompeo, riallacciandosi alla narrazione di Cornelio Sisenna (c. 120-67 a.C.); ne restano numerosi frammenti, fra i quali alcuni di vaste dimensioni ( parte del proemio, quattro discorsi e due lettere). Opere spurie sono considerate le due Epistulae ad Caesarem senem de re publica e l’Invectiva in Ciceronem.

Come si è visto, dopo un’iniziale, intensa partecipazione attiva alla vita pubblica, ovvero al negotium, Sallustio si ritirò a vita privata e si dedicò all’attività letteraria, ovvero all’otium. Poiché i Romani concepivano l’otium in maniera potenzialmente negativa, cioè come tempo sottratto alla cura degli affari e della politica, Sallustio sentì il bisogno di giustificarsi per il passaggio dal negotium all’otium, e lo fece nei due lunghi proemi che antepose alle sue monografie. Sebbene si nutrano di luoghi comuni della filosofia divulgativa, questi proemi rispondono all’esigenza profonda di dare conto della propria attività intellettuale di fronte a un pubblico come quello romano, fedele alla tradizione per cui fare storia era compito più importante che scriverne. Giustificazioni analoghe aveva più volte dovuto fornire Cicerone – anch’egli in testi proemiali – a proposito delle sue opere filosofiche; ma in Cicerone la rivalutazione dell’attività intellettuale è compiuta con un orgoglio senz’altro superiore a quello di Sallustio, che alla storiografia attribuisce un valore di gran lunga inferiore a quello della politica, e comunque non le conferisce un significato “autonomo”. Per Sallustio la storiografia resta infatti strettamente legata alla prassi politica, e la sua maggiore funzione è individuata nel contributo alla formazione dell’uomo politico. Tuttavia, l’attività politica non è più praticabile, a detta di Sallustio, perché a Roma trionfa ormai la corruzione.

I pochi cenni autobiografici contenuti nei proemi di Sallustio sono volti a spiegare l’abbandono della vita politica con la crisi che ha irrimediabilmente corrotto le istituzioni e la società. Sallustio denuncia l’avidità di ricchezza e di potere come i mali che avvelenano la vita pubblica dei cittadini, e in ciò si fa evidente il contrasto fra la pagina scritta e quanto si sa della sua carriera disonesta di amministratore. Ma la cosa più importante è che la stessa storiografia sallustiana tende a configurarsi come indagine sulla crisi. Questo approccio serve a dare conto dell’impianto monografico delle due prime opere storiche, che costituiva una novità quasi totale nella storiografia latina. Proprio l’impostazione monografica serviva in maniera eccellente a delimitare e a mettere a fuoco un singolo problema storico sullo sfondo di una visione organica della storia di Roma. Così il De Catilinae coniuratione illumina il punto più acuto della crisi, il delinearsi di un pericolo sovversivo di qualità fino ad allora ignota alla res publica; il Bellum Iugurthinum, invece, affronta direttamente, attraverso una vicenda paradigmatica, il nodo costituito dall’incapacità della nobilitas ormai corrotta a difendere lo Stato, e insiste sulla prima resistenza vittoriosa dei populares. Contemporaneamente, l’impianto monografico risentiva dell’esigenza di opere brevi di raffinata fattura stilistica, acuitasi dopo l’esperienza neoterica della poesia e la scelta della monografia portò Sallustio a elaborare un nuovo stile storiografico.

Jan Bruegel il Giovane, Allegoria della guerra. Olio su tela, c. 1640. Collezione privata.

Il De Catilinae coniuratione

Sallustio sceglie come argomento della sua prima monografia la congiura di Lucio Sergio Catilina, repressa da Cicerone console nel 63, perché vi scorge una pericolosa novità: il tentativo di coalizzare contro lo strapotere del Senato una sorta di “blocco sociale” costituito dalle masse di diseredati del proletariato urbano, dei poveri delle campagne, dai membri decaduti del patriziato, forse persino da frotte di servi. Il fenomeno catilinario aveva suscitato nei gruppi dirigenti dell’Urbe timori che possono apparire eccessivi, ma senza la paura dei ceti possidenti nei confronti degli strati inferiori della società non si comprende l’importanza che fu attribuita alla congiura.

Sallustio, come molti suoi contemporanei, vedeva nel sovversivismo catilinario uno dei sintomi della ben più grave malattia di cui soffriva la società romana. A essa lo storico, interrompendo la narrazione, dedica un ampio excursus, quasi all’inizio dell’opera (capp. 6-13): si tratta della cosiddetta «archeologia», che, sul modello tucidideo, traccia una rapida storia dell’ascesa e della decadenza di Roma. Anche se con il senno di poi la congiura di Catilina può sembrare un evento di modesta portata, ingigantito da Cicerone per aumentare i propri meriti e da Sallustio per finalità storiografiche, resta il fatto che fece una grande impressione presso i contemporanei. A partire dall’epoca di Gracchi (133-120 a.C.), passando per i tumulti di Saturnino (100) e Druso (91) e per lo scontro tra Mario e Silla (88-82), la violenza civile a Roma era aumentata a dismisura e in modo incontrollato, finché Catilina non fece il grande passo: per la prima volta qualcuno tramava segretamente contro la res publica. Catilina era pronto a massacrare in un attimo i membri di quel Senato che frequentava abitualmente e i magistrati con cui si intratteneva ogni giorno come se nulla fosse. Sallustio, dunque, si è chiesto come sia stato possibile giungere a tanto. Mentre uno storico moderno spiegherebbe i fatti attraverso motivazioni economiche, politiche e sociali, Sallustio – storico moralista e “tragico” – addita una causa di natura collettiva, cioè la decadenza morale di tutta Roma e una di natura individuale, cioè la malvagità d’animo del protagonista e di tutti coloro che avevano scelto di seguirlo.

I capitoli 9-11, che espongono la prima delle due ragioni, sono estratti dalla cosiddetta «archeologia», l’excursus che presenta l’ascesa di Roma dal periodo della fondazione al presente dell’autore. La tesi di Sallustio è che fino alla distruzione di Cartagine (146) i Romani, valorosi in guerra e giusti e miti in tempo di pace, abbiano mantenuto boni mores; ma, una volta scomparso il grande rivale, l’Urbe è precipitata in un baratro di corruzione e violenza, culminato nella dittatura di Lucio Cornelio Silla.

[9.1] Igitur domi militiaeque boni mores colebantur, concordia maxuma, minuma avaritia erat; ius bonumque apud eos non legibus magis quam natura valebat. [2] iurgia discordias simultates cum hostibus exercebant, cives cum civibus de virtute certabant. in suppliciis deorum magnifici, domi parci, in amicos fideles erant. [3] duabus his artibus, audacia in bello, ubi pax evenerat aequitate, seque remque publicam curabant. [4] quarum rerum ego maxuma documenta haec habeo, quod in bello saepius vindicatum est in eos, qui contra imperium in hostem pugnaverant quique tardius revocati proelio excesserant, quam qui signa relinquere aut pulsi loco cedere ausi erant; [5] in pace vero quod beneficiis magis quam metu imperium agitabant et accepta iniuria ignoscere quam persequi malebant.

[10.1] Sed ubi labore atque iustitia res publica crevit, reges magni bello domiti, nationes ferae et populi ingentes vi subacti, Carthago aemula imperi Romani ab stirpe interiit, cuncta maria terraeque patebant, saevire fortuna ac miscere omnia coepit. [2] qui labores, pericula, dubias atque asperas res facile toleraverant, iis otium divitiaeque, optanda alias, oneri miseriaeque fuere. [3] igitur primo pecuniae, deinde imperi cupido crevit: ea quasi materies omnium malorum fuere. [4] namque avaritia fidem probitatem ceterasque artis bonas subvortit; pro his superbiam, crudelitatem, deos neglegere, omnia venalia habere edocuit. [5] ambitio multos mortalis falsos fieri subegit, aliud clausum in pectore, aliud in lingua promptum habere, amicitias inimicitiasque non ex re, sed ex commodo aestumare, magisque voltum quam ingenium bonum habere. [6] haec primo paulatim crescere,interdum vindicari; post ubi contagio quasi pestilentia invasit, civitas inmutata, imperium ex iustissumo atque optumo crudele intolerandumque factum.

[11.1] Sed primo magis ambitio quam avaritia animos hominum exercebat, quod tamen vitium propius virtutem erat. [2] nam gloriam honorem imperium bonus et ignavos aeque sibi exoptant; sed ille vera via nititur, huic quia bonae artes desunt, dolis atque fallaciis contendit. [3] avaritia pecuniae studium habet, quam nemo sapiens concupivit: ea quasi venenis malis inbuta corpus animumque virilem effeminat, semper infinita ‹et› insatiabilis est, neque copia neque inopia minuitur. [4] sed postquam L. Sulla armis recepta re publica bonis initiis malos eventus habuit, rapere omnes, trahere, domum alius, alius agros cupere, neque modum neque modestiam victores habere, foeda crudeliaque in civis facinora facere. [5] huc adcedebat, quod L. Sulla exercitum, quem in Asia ductaverat, quo sibi fidum faceret, contra morem maiorum luxuriose nimisque liberaliter habuerat. Loca amoena, voluptaria facile in otio ferocis militum animos molliverant: [6] ibi primum insuevit exercitus populi Romani amare potare, signa tabulas pictas vasa caelata mirari, ea privatim et publice rapere, delubra spoliare, sacra profanaque omnia polluere. [7] igitur ei milites, postquam victoriam adepti sunt, nihil relicui victis fecere. [8] quippe secundae res sapientium animos fatigant: ne illi conruptis moribus victoriae temperarent.

Scena di vendita e trasporto delle merci. Rilievo, calcare, III sec. Arlon, Musée Luxembourgeois.

[9.1] In pace e in guerra, dunque, era onorata la buona condotta; regnava la concordia, non si conosceva brama di arricchire. Il diritto e l’onestà erano osservati non in forza di leggi ma per impulso naturale. [2] Alterchi, discordie, contese se ne avevano solo con i nemici esterni: tra concittadini si gareggiava soltanto per il valore. Erano splendidi nel culto reso agli dèi, parsimoniosi nella loro vita privata e leali agli amici. [3

]Sia nella vita privata sia in quella pubblica, si attendevano a due principi, spietati in guerra, erano equi quando era tornata la pace. [4] Sono cose di cui potrei addurre documenti irrefutabili, perché in guerra è accaduto di dover punire soldati per essersi lanciati sul nemico contro gli ordini o attardati a combattere dopo il segnale della ritirata, più spesso che per aver disertato o ceduto terreno sotto la pressione degli avversari. [5] In tempo di pace, d’altro canto, esercitavano il loro dominio più con la benevolenza che con il terrore e preferivano perdonare alle offese ricevute anziché punirne i responsabili.

[10.1] Ma come la res publica, con la tenacia e la giustizia, si espanse e i re più potenti furono soggiogati e le genti barbare e le grandi nazioni sottomesse con la forza, e la rivale dell’impero romano, Cartagine, fu rasa al suolo dalle fondamenta e si erano aperti tutti quanti i mari e le terre, la sorte cominciò a infierire e a sovvertire ogni cosa. [2] Per quelle stesse persone che avevano sopportato senza un lamento fatiche, pericoli, sorti incerte e avverse, la tranquillità e il benessere, beni d’altro canto desiderabili, si trasformarono in travagli e sciagure. [3] La brama di ricchezza e di potere aumentò e con essa, si può dire, divamparono tutti i mali. [4] Fu la cupidigia a spazzar via la buona fede, la rettitudine e tutte le norme del vivere onesto, indusse la gente all’arroganza, alla crudeltà, alla noncuranza verso gli dèi, alla convinzione che non ci fosse cosa che non fosse in vendita. [5] L’ambizione indusse molti a fingere, a tener chiuso in cuore un pensiero e ad averne un altro pronto sulla lingua, a considerare amici e nemici non per i loro reali meriti, ma secondo il proprio tornaconto, a sembrare onesti più che a esserlo davvero. [6]

 Sulle prime, questi vizi aumentarono lentamente; a volte, furono anche puniti. Ma più il contagio si diffuse come una pestilenza, la città mutò volto e quel governo che era il più giusto, il migliore, divenne crudele e intollerabile.

[11.1] Nei primi tempi, peraltro, più della cupidigia tormentava gli animi l’ambizione, un difetto sì ma non molto lontano dal pregio. [2] Infatti, alla gloria, agli onori, al potere aspirano tutti allo stesso modo, l’uomo di valore e l’incapace; ma i primi vi tendono percorrendo la retta via, i secondi, privi di qualità, cercano di raggiungere la meta con la frode e il raggiro. [3] L’avidità contiene in sé la brama di denaro, che nessun sapiente ha mai desiderato e desidera. Essa, quasi fosse intrisa di veleni mortali, infiacchisce il corpo e l’anima più virile; non conosce limiti né sazietà, non si attenua né per abbondanza né per difetto. [4] Ma, dopo che Lucio Silla, preso il potere con le armi, fece seguire fatti atroci nonostante i fausti inizi, tutti si diedero a commettere stupri e rapine, chi bramava una casa, chi i poderi, i vincitori non conoscevano freno né misura, compivano atrocità e crudeltà contro i concittadini. [5] A ciò si aggiungeva il fatto che Lucio Silla aveva lasciato vivere nel lusso e trattato con eccessiva liberalità, contrariamente al costume degli avi nostri, l’esercito che aveva condotto con sé in Asia per renderselo leale. L’amenità e la molle piacevolezza dei luoghi avevano rapidamente fiaccato nell’ozio lo spirito fiero di quei soldati. [6] Laggiù per la pima volta un esercito del popolo romano sperimentò piaceri che non conosceva, ad amoreggiare, a bere smodatamente, ad apprezzare opere d’arte, statue, quadri e vasellame cesellato, e incominciò a rubarli dalle case private e dai luoghi pubblici, a spogliare i templi, a profanare ciò che apparteneva agli dèi e agli uomini. [7] Quei soldati, dopo la vittoria, non lasciarono niente ai vinti. [8] La prosperità corrompe perfino l’animo del saggio: figuriamoci se quei degenerati avrebbero saputo moderarsi nella vittoria!

L. Cornelio Silla. Aureo, campagna orientale, 84-83 a.C. AV 10, 76. Recto: L(ucius) Sulla. Testa diademata di Venere voltata a destra con Cupido stante, reggente una foglia di palma.

Nella visione pessimistica di Sallustio, la società romana del suo tempo era ormai minata da un processo irreversibile di degenerazione morale, che aveva rovesciato i boni mores che un tempo avevano fatto la grandezza di Roma. In quest’ottica, un episodio come la congiura di Catilina rappresenta il culmine di una “malattia” che ha progressivamente corroso il tessuto sociale, e per capirne le implicazioni è necessario rileggere lo sviluppo storico che ha portato dagli antichi fasti all’attuale decadenza della res publica. È questa, come più volte si è detto, la funzione della cosiddetta «archeologia», in cui, sul modello dell’analoga digressione di Tucidide, Sallustio interrompe la linea narrativa della monografia per tracciare una sorta di “storia morale” di Roma, dall’età mitica fino al suo presente, una storia di progressiva, inesorabile decadenza.

Mentre i primi quattro capitoli dell’excursus sono dedicati all’elogio della moralità arcaica, gli ultimi quattro, in perfetta simmetria, descrivono la china “discendente” di questa parabola. Il punto di svolta, per l’autore, è la distruzione di Cartagine (10, 1), e da qui in poi si apre l’elenco delle “tappe della rovina”. Sallustio è attento alla scansione temporale dei fenomeni, come mostra l’abbondanza di indicatori cronologici. L’autore cita questo evento come coronamento delle vittorie ottenute da Roma, fra III e II secolo a.C., contro reges magni (Pirro d’Epiro, Perseo di Macedonia e Antioco di Siria), nationes ferae e populi ingentes. L’idea che a partire da questo fatto fosse iniziata la decadenza dell’Urbe circolava già da qualche tempo: nel II secolo, infatti, lo storico Polibio di Megalopoli aveva notato come la paura per il nemico stimolasse la concordia fra i concittadini, mentre il benessere che segue alla sconfitta del nemico e alla conquista di nuovi territori avviasse un processo di decadenza (è la cosiddetta “teoria del metus hostilis”). In quest’ottica, però, è interessante notare come Sallustio attribuisca all’azione della fortuna l’inizio del rovinoso processo, o meglio al fatto che la virtus, indebolendosi, lasciò spazio al gioco della fortuna. Inoltre, i primi segni della decadenza sono l’insorgere della cupido pecuniae e poi della cupido imperii (10, 3), ai cui effetti, avaritia e ambitio, sono dedicati i successivi paragrafi. Si inserisce, a questo punto, il secondo evento cruciale, cioè la dittatura di Silla (11, 4-7), che, nella visione di Sallustio, diede modo all’avaritia di scatenarsi senza più ritegno, tra proscrizioni, permissività nei confronti di militari corrotti, e crudeltà crescente fra concittadini. In chiusura, una frase sentenziosa denuncia il carattere inevitabile di tale processo e l’inconciliabilità delle secundae res con la conservazione dei boni mores (11, 8).

L’immagine della Roma antica che emerge da questa pagina sallustiana è fortemente idealizzata: l’autore evita di fare qualsiasi cenno alle lotte fra patrizi e plebei, che ebbero luogo nei primi secoli della storia repubblicana, per aumentare il contrasto fra questa età e la successiva decadenza, macchiata da ben più cruente stragi fra i cives. Di quel periodo Sallustio ricorda solo gli episodi più edificanti, per quanto sconcertanti, come si scorge in 9, 4: l’immagine del soldato romano che rischia di essere punito più per un eccesso di ardimento che per essere fuggito allude all’episodio di Tito Manlio Torquato, console nel 340, che condannò all’esecuzione capitale il proprio figlio per aver combattuto contravvenendo ai suoi ordini. Il paragrafo 9, 5, invece, celebra l’imperialismo romano come un dominio basato sulla benevolenza e la mitezza, piuttosto che su un regime di terrore nei confronti delle popolazioni sottomesse.

Anche l’idea che i boni mores vigessero più per istinto naturale che per la forza delle leggi è un elemento fortemente idealizzante, che si ritrova nell’immagine “aurea” del virgiliano regno di Saturno (Verg. Aen. VII 203) e diventa ben presto luogo comune (per es., Hor. Carm. III 24, 35-36). Un altro tratto elogiativo è il contrasto fra la parsimonia privata e la magnificenza del culto divino, per cui Sallustio trae probabilmente spunto da un’orazione di Demostene (Dem. 3, 25), che opponeva il fasto dei templi all’umiltà delle abitazioni private nell’antica Atene.

Catilina incarna in sé, portandoli al massimo grado, i vizi della società contemporanea: le sue colpe sono le stesse della civitas, come Sallustio riconosce verso la fine del ritratto del protagonista (5). Perciò, al termine dell’excursus “archeologico”, ecco di nuovo e subito Catilina, che questa degenerazione ricapitola e impersona (14).

[14.1] In tanta tamque conrupta civitate Catilina, id quod factu facillumum erat, omnium flagitiorum atque facinorum circum se tamquam stipatorum catervas habebat. [2] Nam quicumque inpudicus adulter, ganeo manu ventre pene bona patria laceraverat, quique alienum aes grande conflaverat, quo flagitium aut facinus redimeret, [3] praeterea omnes undique parricidae sacrilegi convicti iudiciis aut pro factis iudicium timentes, ad hoc quos manus atque lingua periurio aut sanguine civili alebat, postremo omnes quos flagitium, egestas, conscius animus exagitabat, ii Catilinae proxumi familiaresque erant. [4] Quod si quis etiam a culpa vacuos in amicitiam eius inciderat, cotidiano usu atque inlecebris facile par similisque ceteris efficiebatur. [5] Sed maxume adulescentium familiaritates adpetebat: eorum animi molles et aetate fluxi dolis haud difficulter capiebantur. [6] Nam ut cuiusque studium ex aetate flagrabat, aliis scorta praebere, aliis canis atque equos mercari; postremo neque sumptui neque modestiae suae parcere, dum illos obnoxios fidosque sibi faceret. [7] Scio fuisse nonnullos, qui ita existumarent iuventutem, quae domum Catilinae frequentabat, parum honeste pudicitiam habuisse; sed ex aliis rebus magis quam quod cuiquam id compertum foret haec fama valebat.

Scena di vita quotidiana nel foro. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

[14.1] In una città così grande e così corrotta, non era stato difficile a Catilina raccogliersi attorno tutti i dissipati e i criminali e farne, si può dire, la sua guardia del corpo. [2] Non c’era, infatti, degenerato, adultero, puttaniere, scialacquatore del patrimonio al gioco, al bordello, a tavola, non c’era uno indebitato fino al collo per riscattarsi dall’infamia o dal delitto, [3] non c’era un parricida o un sacrilego d’ogni paese, condannato o in attesa di sentenza, non uno di quei sicari e spergiuri che prosperano sul sangue dei cittadini, non c’era infine coscienza inquieta per il disonore, il bisogno, i rimorsi che non fosse tra i suoi. [4] E se capitava a qualcuno, ancora immune da colpe, di entrare nel giro, i rapporti quotidiani, le tentazioni, ben presto lo facevano diventare come gli altri. [5] Cercava, soprattutto, di attirare i giovani: le loro menti ancora informi e malleabili cadevano facilmente nella pania. [6] Infatti egli li assecondava nelle loro passioni, a uno procurava donne, a un altro comperava cani e cavalli, insomma non lesinava denaro né badava alla dignità pur di farsene amici fidati. [7] So che alcuni hanno sospettato di costumi disonesti i giovani che frequentavano la casa di Catilina; ma erano voci, congetture basate su tutto il contorno, non su fatti accertati.

In questo breve capitolo Sallustio mostra come un Catilina si trovasse perfettamente a suo agio in mezzo alla corruzione di Roma, essendone alimentato e alimentandola a sua volta con i suoi misfatti. In particolare, qui l’autore allude all’immoralità sessuale dei suoi seguaci, sulla quale Catilina poteva fare leva per attirarli: con lui c’era ogni inpudicus, adulter e quicumque… pene bona patria laceraverat, perciò a Catilina bastava scorta praebere («procurare prostitute»). Queste accuse erano sicuramente gravi per la rigida morale sessuale dei Romani, ma ancora tollerabili: la prostituzione era accettata, purché non mettesse in discussione la famiglia e restasse nell’ambito eterosessuale.

L’accusa più grave è quella di pederastia contenuta in 14, 7, espressa per litote con parum honeste pudicitiam habuisse. Sallustio, però, ne prende onestamente le distanze, definendola basata genericamente ex aliis rebus, ben sapendo che nella lotta politica il pettegolezzo sessuale contro gli avversari (soprattutto su forme di sessualità eterodossa) era un’arma diffusissima. Cicerone nell’orazione pro Caelio (56 a.C.) avrebbe riportato le voci sull’amore incestuoso di Clodia (la catulliana Lesbia) con il fratello Clodio, il tribuno che lo aveva mandato in esilio; a sua volta, Cicerone fu accusato di intrattenere rapporti incestuosi con l’amatissima figlia Tullia. E già un secolo prima, il grande commediografo Terenzio era stato accusato di essere l’amasio di Scipione Emiliano e di Gaio Lelio, e di farsi comporre le commedie proprio da loro.

Un secondo excursus, collocato al centro dell’opera (capp. 37-39), denuncia la degenerazione della vita politica romana nel periodo che va dalla dittatura sillana alla guerra civile fra Cesare e Pompeo. La condanna coinvolge in pari modo le due parti in lotta, i populares e gli optimates: da un lato i demagoghi, che con elargizioni e promesse alla plebe ne aizzano l’emotività per farne il piedistallo delle proprie ambizioni; dall’altro i nobiles e gli equites, che si fanno paladini della dignità del Senato, ma combattono in realtà solo per consolidare e ampliare i propri privilegi. Sallustio scorge un legame organico fra la faziosità delle parti contrapposte e il pericolo di sovversione sociale; abolire la “conflittualità” diffusa è necessario per mettere i ceti possidenti definitivamente al riparo da quel pericolo.

La condanna del «regime delle factiones» è in questo senso coerente con le aspettative che Sallustio ripone in Cesare. Da parte di quest’ultimo, lo storico auspicava probabilmente l’attuazione di una politica per certi aspetti non diversa da quella che Cicerone si riprometteva dal suo princeps: un regime autoritario che sapesse porre fine alla crisi della res publica, ristabilendo l’ordine, rinsaldando la concordia fra i ceti possidenti, restituendo prestigio e dignità a un Senato ampliato con uomini nuovi provenienti dall’élite di tutta Italia. La divergenza principale fra l’ideale di Sallustio e la politica effettivamente perseguita da Cesare riguardava probabilmente la funzione che questi aveva attribuito all’esercito: Sallustio – anche qui non troppo diversamente da Cicerone – doveva sentirsi disgustato dall’inquinamento del Senato con l’immissione di personaggi provenienti dai ranghi militari. Questa impostazione generale spiega la parziale deformazione che nel De coniuratione Sallustio ha compiuto del personaggio di Cesare, purificandolo, per così dire, da ogni contatto e legame con i catilinari ed evitando la condanna esplicita della sua politica come capo dei populares.

Nel riferire la seduta del Senato del 5 dicembre 63 a.C., in cui fu decisa la condanna a morte dei complici del complotto (Cat. 51), Sallustio fa pronunciare a Cesare un lungo discorso che, per sconsigliare l’estremo supplizio, fa largo appello a considerazioni legalitarie. Il discorso “rifatto” da Sallustio non è, a quanto pare, una sostanziale falsificazione; ma l’insistenza sulle tematiche legalitarie, se anche trovava qualche appiglio nell’intervento effettivamente pronunciato da Cesare in quell’occasione, è soprattutto coerente con la propaganda cesariana degli ultimi anni, quale mostrano i Commentarii, e con l’ideale politico sallustiano. La preoccupazione per l’ordine e la legalità conteneva, agli occhi dello storico, un valore perenne: mostrandola operante nel pensiero di Cesare fin dal 63, Sallustio implicitamente suggeriva la coerenza e la continuità della sua linea politica.

Immediatamente dopo la narrazione della seduta del Senato, l’autore delinea i ritratti di Marco Porcio Catone e di Cesare, che in quell’occasione avevano espresso pareri opposti (Cat. 54). L’idea del confronto fra i due personaggi non è senza rapporti con la polemica su Catone che si era sviluppata dopo il suo suicidio in Utica, e alla quale aveva preso parte lo stesso Cesare con l’Anticato. Sallustio sembra essere stato il primo a tentare una riflessione pacata, che approda a una sorta di ideale “conciliazione” fra i due personaggi. Il ritratto di Cesare si sofferma da un lato sulla sua liberalità, munificentia, misericordia, e dall’altro sull’infaticabile energia che sorregge la sua brama di gloria; le virtù tipiche di Catone sono invece quelle, radicate nella tradizione, di integritas, severitas, innocentia. Malgrado ciò, «pari era in loro la grandezza d’animo, pari era la fama» (magnitudo animi par, item gloria). Differenziando i mores dei due personaggi, Sallustio voleva affermare che entrambi erano positivi per lo Stato romano, anzi nelle loro virtù individuava aspetti complementari; in particolare, nei principi etico-politici affermati da Catone, Sallustio – al di là dei dissensi sul ruolo del ceto nobiliare cui Catone dava voce – riconosceva un fondamento irrinunciabile per la res publica.

Indicando in Cesare e in Catone i più grandi Romani dell’epoca, Sallustio non perseguiva certo l’intento di denigrare Cicerone; ma è un fatto che, dalla narrazione dei fatti, la figura del console, che si era trovato a reprimere il complotto, appare alquanto ridimensionata a chi abbia presenti i vanti che lo stesso Arpinate si era largamente prodigato. Il Cicerone di Sallustio non è il politico che domina gli eventi grazie alla lucidità della propria mente, ma un magistrato che fa il suo dovere, pur non essendo un eroe, superando inquietudini e incertezze.

Attinge, invece, una sua grandezza, sia pure malefica, il personaggio di Catilina stesso, del quale l’autore delinea un ritratto a tinte forti e contrastanti (Cat. 5), sottolineandone da un lato l’energia indomabile, dall’altro la facile consuetudine con ogni forma di depravazione. Ne emerge il tipo dell’«eroe nero», che con la sua tensione verso il male mette in moto nella Storia le dinamiche più rovinose.

[5.1] L. Catilina, nobili genere natus, fuit magna vi et animi et corporis, sed ingenio malo pravoque. [2] Huic ab adulescentia bella intestina, caedes, rapinae, discordia civilis grata fuere, ibique iuventutem suam exercuit. [3] Corpus patiens inediae, algoris, vigiliae supra quam cuiquam credibile est. [4] Animus audax, subdolus, varius, cuius rei lubet simulator ac dissimulator, alieni adpetens sui profusus, ardens in cupiditatibus; satis eloquentiae, sapientiae parum. [5] Vastus animus inmoderata, incredibilia, nimis alta semper cupiebat. [6] Hunc post dominationem L. Sullae lubido maxuma invaserat rei publicae capiundae; neque id quibus modis adsequeretur, dum sibi regnum pararet, quicquam pensi habebat.[7] Agitabatur magis magisque in dies animus ferox inopia rei familiaris et conscientia scelerum, quae utraque iis artibus auxerat, quas supra memoravi. [8] Incitabant praeterea corrupti civitatis mores, quos pessuma ac divorsa inter se mala, luxuria atque avaritia, vexabant.

Cesare Maccari, Cicerone denuncia la congiura di Catilina in Senato (dettaglio). Affresco, 1882-88. Roma, Palazzo di Villa Madama.

[5.1] Lucio Catilina, di nobile stirpe, fu d’ingegno vivace e di corpo vigoroso, ma d’animo perverso e depravato. [2] Sin da giovane era portato ai disordini, alle violenze, alle rapine, alla discordia civile; in tali esercizi trascorse i suoi anni giovanili. [3] Aveva un fisico incredibilmente resistente al digiuno, al freddo, alla veglia; [4] uno spirito intrepido, subdolo, incostante, abile a simulare e a dissimulare. Avido dell’altrui, prodigo del proprio; ardente nelle passioni, non privo d’eloquenza, ma di poco giudizio; [5] un animo sfrenato, sempre teso a cose smisurate, incredibili, estreme. [6] Finito il dispotismo di Lucio Silla, egli fu preso dalla smania di impadronirsi del potere; pur di raggiungerlo, non aveva scrupoli. [7] Quell’animo impavido era turbato ogni giorno di più dalla penuria di denaro e da cattiva coscienza, rese più gravi dalle male abitudini cui ho accennato. [8] Lo spingeva inoltre su quella china la corruzione della città, nella quale imperavano ormai due vizi diversi ma parimenti funesti, il lusso e la cupidigia.

I ritratti sono dedicati a personalità illustri ed eccezionali, nel bene e nel male; ciò corrisponde a una visione della Storia che è fatta soprattutto dal confronto e dallo scontro di grandi uomini, più che da fattori socio-economici e politici, ai quali uno storico moderno darebbe maggiore importanza. Sicuramente in queste scelta giocano un ruolo notevole anche le esigenze della storiografia antica, comunemente concepita più come operazione letteraria e artistica che come attività divulgativa di tipo scientifico. I ritratti dei grandi personaggi del passato costituiscono un elemento di comune impiego nelle opere storiografiche antiche, dove fornivano esempi illustri ai quali i lettori avrebbero potuto conformarsi. Ebbene, tale funzione paradigmatica in Sallustio viene per lo più a cadere: ciò che egli vuole imprimere nel suo pubblico è l’ammirazione per le potenti manifestazioni di grandi personalità, tanto che anche un personaggio del tutto negativo come Catilina non manca di suscitare una certa forma di rispetto per la sua grandezza perversa e per la sua virtus, benché rivolta al male. Il giudizio morale è netto e senza appello: Catilina, patrizio decaduto, ex sillano, divenuto un popularis estremista in cerca di appoggi presso i diseredati e addirittura fra gli schiavi, non trova benevolenza presso un moderato come Sallustio.

L’introspezione prende la forma dell’antitesi: lo stile raffigura con evidenza il conflitto interiore di aspetti contrari compresenti in una stessa personalità. Per rendere questa opposizione interiore l’autore si serve di una prosa concitata, in cui la variatio riflette la frantumazione della personalità. Infatti, man mano che il ritratto prende forma, anche il soggetto grammaticale non è più il personaggio, ma i singoli elementi che lo compongono (corpo, animo, passioni, ecc.): dopo aver scomposto Catilina in corpus e animus, nella parte conclusiva del ritratto, dove il periodare si fa più disteso, sono le passioni a divenire il soggetto: lubido, inopia e conscientia scelerum “invadono” il personaggio e dilagano sulla pagina.

Il Bellum Iugurthinum

All’inizio della sua seconda monografia, Sallustio spiega che la guerra contro Giugurta (svoltasi tra il 111 e il 105 a.C.) fu la prima occasione in cui «si osò andare contro l’insolenza della nobiltà». In effetti, il Bellum Iugurthinum è largamente indirizzato a mettere in luce le responsabilità della classe dirigente romana nella crisi della res publica.

Giugurta, infatti, dopo essersi impadronito con il crimine del regno di Numidia, aveva corrotto con il denaro gli esponenti dell’aristocrazia capitolina inviati a combatterlo in Africa, riuscendo così a concludere una pace vantaggiosa. Quinto Cecilio Metello, inviato in Africa, aveva ottenuto successi notevoli, ma non decisivi; Gaio Mario, suo luogotenente, dopo lunghe insistenze ottenne da lui il permesso di recarsi a Roma per presentare la candidatura al consolato. Eletto sommo magistrato per il 107, Mario riceve l’incarico di portare a termine la guerra in Africa e modifica la composizione dell’esercito, arruolando i capite censi. Il conflitto riprese con alterne vicende e si concluse solo quando il re di Mauritania, Bocco, tradì Giugurta, suo potente alleato e suocero, e lo consegnò ai Romani.

Nella narrazione sallustiana, la guerra contro l’usurpatore numida acquista rilievo sullo sfondo della rappresentazione della degenerazione della vita politica romana: l’opposizione antinobiliare, cui Sallustio si riallaccia, rivendicava contro le classi superiori corrotte il merito della politica di espansione, della difesa del prestigio di Roma. Come nella monografia precedente, lo storico inserisce al centro dell’opera un excursus (Iug. 41-42), che indica nel «regime delle fazioni» (mos partium et factionum) la causa prima della lacerazione e nella rovina della res publica; ma la condanna è probabilmente più sfumata e, per così dire, meno equanime che nel De coniuratio. Nella seconda monografia, il bersaglio polemico è la nobilitas e nell’excursus traspare, per esempio, la preoccupazione di non condannare la politica graccana in maniera globale, ma solo nei suoi eccessi.

Per certi aspetti, il quadro che emerge dal Bellum Iugurthinum è piuttosto deformante: al fine di rappresentare la nobilitas come un blocco unico guidato da un gruppo corrotto, Sallustio trascura di parlare dell’ala dell’aristocrazia favorevole a un impegno attivo nella guerra, la frangia più legata al mondo degli affari e più incline alla politica di imperialismo espansionistico.

Le linee direttive della politica dei populares sono esemplificate nei discorsi che Sallustio fa tenere dal tribuno Gaio Memmio (Iug. 31) per protestare contro l’operato inconcludente di certa parte del Senato, e successiva da Gaio Mario (Iug. 85), quando quest’ultimo convince la plebe ad arruolarsi in massa. Per Sallustio, ambedue gli interventi rappresentano i migliori valori etico-politici espressi dalla causa mariana nella lotta contro lo strapotere della nobilitas. Memmio invita il popolo alla riscossa contro l’arroganza dei pauci ed enumera i mali del loro regime: il tradimento degli interessi della cosa pubblica, la dilapidazione del denaro pubblico, il monopolio sulle ricchezze, sulle risorse e sulle cariche politiche.

Nel discorso di Mario, d’altra parte, il motivo centrale è fornito dall’affermazione di una nuova aristocrazia, l’aristocrazia della virtus, che si fonda non sulla nascita, ma sui talenti naturali, sulle qualità e le competenze di ciascuno e sul tenace impegno a svilupparli (Iug. 85, 18-30). Mario si richiama ai valori antichi che avevano fatto la grandezza di Roma, quei valori che in un’epoca remota avevano permesso di emergere agli stessi capostipiti delle gentes patrizie, ormai tralignanti e caratterizzate solo da inettitudine.

Presunto ritratto di Gaio Mario. Testa, marmo, I secolo a.C. München, Glyptothek.

[85.18] Invident honori meo: ergo invideant labori, innocentiae, periculis etiam meis, quoniam per haec illum cepi. [19] Verum homines conrupti superbia ita aetatem agunt, quasi vostros honores contemnant; ita hos petunt, quasi honeste vixerint. [20] Ne illi falsi sunt, qui divorsissumas res pariter exspectant, ignaviae voluptatem et praemia virtutis. [21] Atque etiam, cum apud vos aut in senatu verba faciunt, pleraque oratione maiores suos extollunt: eorum fortia facta memorando clariores sese putant. [22] Quod contra est: nam quanto vita illorum praeclarior, tanto horum socordia flagitiosior. [23] Et profecto ita se res habet: maiorum gloria posteris quasi lumen est, neque bona neque mala eorum in occulto patitur. [24] Huiusce rei ego inopiam fateor, Quirites; verum, id quod multo praeclarius est, meamet facta mihi dicere licet. Nunc videte quam iniqui sint. [25] Quod ex aliena virtute sibi adrogant, id mihi ex mea non concedunt, scilicet quia imagines non habeo, et quia mihi nova nobilitas est, quam certe peperisse melius est quam acceptam corrupisse. [26] Equidem ego non ignoro, si iam mihi respondere velint, abunde illis facundam et compositam orationem fore. Sed in vostro maxumo beneficio cum omnibus locis me vosque maledictis lacerent, non placuit reticere, nequis modestiam in conscientiam duceret. [27] Nam me quidem ex animi mei sententia nulla oratio laedere potest: quippe vera necesse est bene praedicet, falsam vita moresque mei superant. [28] Sed quoniam vostra consilia accusantur, qui mihi summum honorem et maxumum negotium inposuistis, etiam atque etiam reputate, num eorum paenitendum sit. [29] Non possum fidei causa imagines neque triumphos aut consulatus maiorum meorum ostentare; at, si res postulet, hastas vexillum phaleras, alia militaria dona, praeterea cicatrices advorso corpore. [30] Hae sunt meae imagines, haec nobilitas, non hereditate relicta, ut illa illis, sed quae egomet meis plurumis laboribus et periculis quaesivi.

[85.18] Sono invidiosi della mia posizione: e che lo siano dunque anche della fatica, dell’integrità che me l’hanno procurata! [19] Invece, uomini bacati dall’ambizione, vivono come se avessero a disdegno le cariche che voi conferite e le brigano come se vivessero onestamente. [20] Quanto s’ingannano nel pretendere di conseguire insieme due cose incompatibili, il piacere dell’ozio e i premi della virtù! [21]Aggiungo che, quando si alzano a parlare davanti a voi o in Senato, riempiono i loro interventi delle lodi degli antenati, convinti di accrescere il proprio lustro con il ricordo delle gesta di quelli. [22] Accade invece l’esatto contrario: quanto più è illustre la gloria degli avi, tanto più è infame la viltà dei posteri! [23] Giacché questa è la verità: la gloria degli antenati, per i discendenti, è una specie di fiaccola che non lascia nell’ombra virtù né vizi. [24] Confesso, o Quiriti, che questa fiaccola mi manca: eppure, cosa molto più onorifica, io sono in grado di elencare le mie proprie gesta! [25] Constatate, ora, l’iniquità del loro atteggiamento: quel che si arrogano in nome del merito altrui non vogliono concedermelo in nome del mio! [26] E il motivo? Io non possiedo stemmi nobiliari ed è di fresco conio la mia nobiltà: ma resta pur vero che è meglio acquistarsela di persona che disonorarla dopo averla ricevuta in eredità! [27] Che con tutto questo riconosco che, se volessero controbattere, avrebbero larga scelta fra discorsi eloquenti e ben elaborati: tuttavia, poiché offendono me e voi a proposito di una carica da voi generosamente conferita, non ho voluto tacere, temendo che il mio silenzio potesse essere interpretato come un’ammissione di colpevolezza! [28] Del resto, sono profondamente convinto che nessun discorso potrebbe nuocermi: giacché, se veritiero, dovrebbe dir bene di me, se falso, sarebbe senz’altro smentito dalla condotta della mia vita. ma, dacché si è messa sotto accusa la vostra decisione di conferirmi la più alta magistratura e il più difficile degli incarichi, esaminate a fondo se dobbiate pentirvene. [29] È vero: non sono in grado di offrirvi in garanzia ritratti, trionfi o consolati di antenati illustri; bensì, se sarà il caso, lance, stendardi, piastrine e altre decorazioni militari, per non parlare delle ferite ricevute in pieno petto! [30] Questi sono i miei stemmi, questa la mia nobiltà: sono titoli che non ho ereditato, come è stato per i miei detrattori, ma che ho acquistato di persona fra sacrifici e rischi innumerevoli!».

Gaio Mario. Busto, marmo, c. I secolo a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

L’oratore si rivolge ai convenuti chiamandoli con l’appellativo che li indicava nella loro totalità: Quirites, che i Romani derivavano da Quirinus, nome con cui Romolo fu assunto tra gli dèi, ma che deriva, in realtà, da *co-viri, «uomini riuniti». Mario non intende fare come gli altri politici, che, quando cercano voti e consensi, sono pronti a mille promesse e, una volta eletti, se ne dimenticano, diventando da affabili boriosi. Piuttosto, egli vuole presentarsi come l’esatto opposto: per lui la vera fatica non è la campagna elettorale, ma comincia dopo, quando si entra in carica; dovrà dimostrarsi all’altezza dell’incarico affidatogli, perché i suoi rivali aspetteranno solo un suo passo falso, e non potrà difendersi dietro alla gloria della sua stirpe. Ma egli ammette di sentirsi tranquillo da questo punto di vista, perché ha dalla sua l’esperienza pratica. Egli è un homo novus, che non può vantare tra i propri avi nessun console o pretore o edile curule. Il suo discorso ruota attorno all’antitesi fra la presunta nobiltà degli aristocratici, fatta solo di teoria e vuote parole, e la virtus di chi, come Mario, si è fatto da sé. Anzi, a ogni supposta gloria degli avversari egli contrappone, con gesto plateale e quasi patetico, ben altri tipi di trionfo: medaglie, cicatrici e forza fisica. E, siccome Mario tiene questo discorso per convincere il popolo ad arruolarsi, sottolinea con forza che questo è ciò che saprà insegnare a chi vorrà seguirlo.

Nel complesso, l’intervento di Mario esprime soprattutto le aspirazioni dell’élite italica a una maggiore partecipazione al potere; tuttavia, il giudizio complessivo di Sallustio su di lui rimane segnato da ambivalenze e sfumature spesso difficili da cogliere nella loro reale portata. L’ammirazione per l’uomo che ha saputo opporsi all’arroganza dei pauci è in qualche modo limitata dalla consapevolezza delle responsabilità che in futuro Mario si sarebbe assunto nelle guerre civili; ma già l’arruolamento dei capite censi getta ombre inquietanti sulla sua figura. Sallustio non sembra approvare il provvedimento – in cui si individuava comunemente l’origine degli eserciti personali e professionali che avrebbero distrutto la res publica – e pare anzi che egli veda come inquinata dall’affermarsi del proletariato militare quell’aristocrazia della virtus che Mario (con piena coscienza di homo novus) esalta nel proprio discorso. Il fondamentale moderatismo fa sì che Sallustio non possa accantonare importanti riserve sull’uomo che, nella lotta antinobiliare, non aveva esitato ad agitare la feccia plebea e a porre quasi le sorti dello Stato nelle mani del popolino.

Non si può abbandonare la trattazione del Bellum Iugurthinum senza accennare al ritratto di Giugurta (Iug. 6-8): come già nei confronti di Catilina, Sallustio non nasconde la propria perplessa ammirazione per l’energia indomabile che è sicuro segno di virtus, anche se di una virtus depravata. Una differenza importante rispetto al ritratto di Catilina è che la personalità del re numida è rappresentata, per così dire, in evoluzione: la sua natura non è corrotta fin dall’inizio, ma lo diventa progressivamente. Il seme della degenerazione è gettato in lui durante l’assedio di Numantia, da nobili e da homines novi romani. Per il suo personaggio, Sallustio non ha comunque scusanti o attenuanti, né si sforza mai di illuminare la situazione dal punto di vista di Giugurta: quest’ultimo, una volta che la sua indole si è ormai irrimediabilmente traviata, è solo un piccolo e perfido tiranno, ambizioso e privo di scrupoli. Non è certo l’eroe dell’indipendenza numidica che alcuni interpreti hanno creduto di ravvisare in lui: agli occhi dello storico romano le ragioni dell’imperialismo erano tanto evidenti da apparire indiscutibili.

Regno di Numidia. Dramma, Cirta c. 118-106 a.C., AR 3,14 g. Recto: Testa laureata di Giugurta voltata a sinistra.

Le Historiae

La maggiore opera storica di Sallustio rimase incompiuta per la morte dell’autore: le Historiae iniziavano con il 78 a.C., riallacciandosi alla narrazione di Sisenna, ma non è chiaro fino a che punto Sallustio si ripromettesse di condurre il racconto (i frammenti che restano non vanno comunque oltre il 67). Dopo gli esperimenti monografici, l’autore si cimentava ora in un’impresa di vasto respiro: si imponeva il ritorno alla forma annalistica, che del resto anche in seguito avrebbe dato prova di tenace vitalità nella storiografia latina. L’opera (per i moderni perduta, ma nota almeno fino al V secolo) influenzò molto la cultura dell’età augustea. Alcuni frammenti superstiti sono particolarmente ampi. Si tratta di quattro discorsi – per esempio, quello del tribuno Gaio Licinio Macro per la restaurazione della tribunicia potestas, nel 73; quello di Marco Emilio Lepido contro il sistema di governo dei sillani; quello di Lucio Marcio Filippo, una violenta reazione al demagogismo dell’intervento di Lepido – e di un paio di lettere, una di Gneo Pompeo Magno e una di re Mitridate VI Dionisio Eupatore del Ponto. Di queste lettere ha particolare importanza quella che l’autore immagina scritta proprio dal sovrano orientale (Hist. IV F 69 Maurenbrecher): dalle sue parole, infatti, affiorano chiaramente i motivi delle lagnanze dei popoli soggiogati e dominati da Roma e la sola ragione che i Romani hanno di portare guerra a tutte le nazioni è la loro inestinguibile sete di ricchezze e di potere (cupido profunda imperii et divitiarum). Le Historiae dipingono un quadro in cui dominano le tinte cupe: la corruzione dei costumi dilaga senza rimedio; a parte poche nobili eccezioni (come Sertorio, campione di libertas, che, ribelle a Silla e al prepotente potere degli optimates, aveva fondato nella Penisola iberica una nuova res publica), sulla scena politica si affacciano soprattutto avventurieri, demagoghi e nobili corrotti. In generale, il pessimismo sallustiano sembra acuirsi nell’ultima opera: dopo l’uccisione di Cesare e la frustrazione delle aspettative riposte nel dittatore, lo storico non ha più una parte dalla quale schierarsi né aspetta più alcun salvatore.

Mitridate VI del Ponto, con leontea. Busto, copia romana del I sec. d.C. da originale greco di sec. a.C. Paris, Musée du Louvre.

Lo stile

L’epoca che aveva portato alla massima elaborazione formale sia la prosa artistica sia la poesia si aspettava anche la nascita di un nuovo stile storico. A questo riguardo, Cicerone pensava a uno stile armonioso e fluido e considerava la storiografia opus oratorium maxime («un genere che dev’essere più di tutto oratorio»): un’idea che risaliva al retore Isocrate, maestro di alcuni storici molto apprezzati dai Romani e che appare tanto più comprensibile se si pensa che a Roma l’oratoria aveva raggiunto la sua maturità almeno una generazione prima della storiografia.

E, invece, fu proprio Sallustio a fissare lo stile della futura storiografia (anche se non in modo esclusivo): nutrendosi della lezione di Tucidide e di Catone il Censore, egli elaborò uno stile fondato sull’inconcinnitas (il contrario della ricerca ciceroniana della simmetria, il rifiuto di un discorso ampio e regolare, proporzionato), sull’uso frequente di antitesi, asimmetrie, e variationes. Il difficile equilibrio fra questo dinamismo inquieto da una parte e un vigoroso controllo che sapesse frenarlo dall’altra produceva un effetto di gravitas austera e maestosa, un’immagine di meditata essenzialità di pensiero.

A tale gravitas contribuisce parecchio la ricca patina arcaizzante. L’arcaismo, però, non è solo nella scelta di parole desuete, ma anche nella ricerca di una concatenazione delle frasi di tipo paratattico. I pensieri così si giustappongono l’uno all’altro come blocchi autonomi di una costruzione; è evitato il periodare per subordinazione sintattica, in cui un pensiero dipende da un altro come un’espansione ordinata gerarchicamente; sono evitate le strutture bilanciate e le clausole ritmiche care al discorso oratorio elaborato. Estrema è l’economia dell’espressione (asindeti e, in genere, omissione di legami sintattici, ellissi di verbi ausiliari); ma alla condensazione del discorso reagisce il gusto per l’accumulo asindetico di parole quasi ridondanti (con effetto intensivo). L’allitterazione frequente dà colore arcaico, ma potenzia anche il senso delle parole. Uno stile arcaizzante, insomma, ma al contempo innovatore, perché il suo andamento spezzato è del tutto anticonvenzionale e perché lessico e sintassi contrastano di fatto quel processo di standardizzazione che si stava verificando nel linguaggio letterario. Sul piano della tecnica narrativa, l’esigenza di sobrietà e di austerità imponeva la rinuncia a tutta una serie di effetti drammatici tipici della storiografia “tragica”, incline a suscitare emozioni e, perciò, ispirata a uno stile di narrazione vivace e, per così dire, “realistico”. Ma la limitazione approda a una drammaticità più intensa proprio perché più controllata, meno effusa. I protagonisti delle due monografie, Catilina e Giugurta, sono personaggi “tragici”; e gli argomenti delle due opere, oltre che per il loro interesse come sintomi rivelatori della crisi, sono scelti anche in funzione della varietà e della drammaticità dei casi che lo storico può mettere in scena. Lo stile elaborato nelle due monografie doveva acquisire più piena maturità artistica nelle Historiae, tanto da costituire uno dei modello