Gli aspetti scenografici del teatro greco

di F. Ferrari, R. Rossi, L. Lanzi, Bibliothéke. Storia della letteratura, antologia e autori della lingua greca. 2. Atene e l’età classica, Bologna 2012, 10-15.

L’edificio teatrale greco è costituito da cavea, orchestra e scena. Una tarda tradizione riconnette i più antichi spettacoli teatrali in Atene all’agorà, con panche di legno e tavolati provvisori, ma in età classica le rappresentazioni si svolgevano nel teatro di Dioniso, situato ai piedi della scarpata meridionale dell’Acropoli e dominante l’area cultuale dedicata a Dioniso.

La cavea (il θέατρον vero e proprio come «luogo donde si guarda») era costituita dalle gradinate appoggiate a un pendio a conca e tagliate in senso verticale da scalinate (κλίμακες) che la dividevano in settori e in senso orizzontale da corridoi (διαζώματα) che consentivano un rapido affollamento e svuotamento del teatro.

Gli spettatori si distribuivano secondo gerarchie giuridiche e sociali: i seggi più vicini all’orchestra erano riservati agli alti funzionari della πόλις e agli orfani dei caduti in guerra, mentre il settore inferiore ai cittadini di pieno diritto.

Ricostruzione planimetrica del Teatro di Dioniso, Atene [Campanini, Scaglietti 2004, 70].

Al centro della prima fila, su una poltrona di pietra, sedeva il sacerdote di Dioniso, al quale il dio stesso si rivolge burlescamente in Aristofane, Rane 297: ἱερεῦ, διαφύλαξόν μ΄, ἵν’ ὦ σοι ξυμπότης («Ehi, sacerdote, salvami se vuoi che io continui a bere con te!»).

L’orchestra (ὀρχήστρα, cioè lo «spazio della danza»), al centro della quale sorgeva la θυμέλη («l’altare di Dioniso»), aveva un diametro di circa 20 metri o poco più e forma dapprima circolare, poi semicircolare, ma il coro (χορός) della tragedia si muoveva in formazione rettangolare (su cinque file quando il coro, con Sofocle, passo da 12 a 15 elementi) dopo aver fatto il suo ingresso preceduto da un suonatore di flauto doppio (αὐλητής).

Più liberi e variati erano i movimenti del coro comico, costituito da 24 elementi, che potevano raffigurare, oltre che uomini, esseri della più varia natura, molto spesso animali, ma anche nuvole o città (rispettivamente nelle Nuvole di Aristofane e nelle Città di Eupoli). Mentre i cori del ditirambo (διθύραμβος) eseguivano la τυρβασία circolare, la danza composta e stilizzata caratteristica della tragedia era chiamata ἐμμέλεια; le danze proprie del dramma satiresco e della commedia erano invece rispettivamente la vivace «sicinnide» (σίκιννις) e il lascivo «cordace» (κόρδας).

Pittore dell’Altalena (attribuito), Gruppo di coreuti che incede su sostegni di legno e trampoli (forse Titani). Pittura vascolare da un’anfora attica a figure nere, c. 550-525 a.C. Christchurch, University of Canterbury.

Fra la scena (ἐμμέλεια) e le due proiezioni dell’emiciclo della cavea si aprivano due corridoi laterali (εἴσοδοι o πάροδοι) che consentivano l’accesso degli spettatori alla cavea e l’ingresso, oltre che del coro, degli attori che non uscissero dall’edificio scenico. È dubbia la regola secondo cui da destra sarebbero entrati i personaggi provenienti dalla città, da sinistra quelli provenienti dalla campagna.

I drammi più antichi di Eschilo non sembrano presupporre un edificio scenico (σκηνή) quale invece compare sicuramente nell’Orestea del 458: si trattò inizialmente su una linea tangente all’orchestra di una costruzione in legno con tendaggi, con la trasformazione in requisito dell’area teatrale di un locale originariamente adibito a deposito per maschere, costumi e attrezzatura scenica e a camerino per i cambiamenti di costume degli attori. La scena fungeva da sfondo all’azione identificandosi volta a volta con un palazzo, un tempio, una tenda militare, una grotta.

Fra il 338 e il 330 a.C. il teatro di Dioniso, su iniziativa dell’oratore Licurgo, fu ricostruito in pietra (σκηνή compresa). Poi la scena fu proiettata in avanti per mezzo di un alto proscenio sostenuto da un colonnato.

Furono altresì create quinte girevoli su pali (περίακτοι), con decorazioni di paesaggi, che permettevano rapidi mutamenti di luogo. In relazione alla nuova struttura dovette essere introdotto anche un tipo a suola fortemente rialzata di quegli stivaletti in pelle con incurvatura delle punte che rappresentavano la consueta calzatura degli attori (i κόθορνοι, «coturni»).

Secondo una dubbia testimonianza dell’enciclopedia bizantina (X sec.) denominata Suda (φ 609) la decorazione della scena sarebbe stata introdotta per la prima volta, fra VI e V secolo a.C., da Formo di Siracusa, che avrebbe usato una tenda fatta di pelli conciate e dipinte di rosso (ἐχρήσατο […] σκηνῇ δερμάτων φοινικῶν), ma Aristotele fa della scenografia un invenzione di Sofocle (Poetica 1449a 18- 19), mentre Vitruvio (VII 1, 11) informa che Eschilo adottò la σκηνογραφία giovandosi dell’aiuto del pittore Agatarco di Samo. I pannelli decorati dovevano mostrare uno o più edifici o sfondi paesistici.

Scena tragica davanti a un palazzo. Pittura vascolare a figure rosse da un cratere tarentino, c. 350 a.C. Würzburg, Martin von Wagner Museum.

Un problema che è stato largamente discusso è quello dell’area antistante l’edificio scenico e retrostante l’orchestra, ovvero del cosiddetto proscenio (προσκήνιον): si dibatte se nel teatro del V secolo a.C. lo spazio in questione fosse costituito da una pedana soprelevata rispetto al livello dell’orchestra. Certo è che, se pure questa pedana esisteva, essa era tale da non impedire la comunicazione verbale e il transito dei personaggi e dei coreuti fra proscenio e orchestra (perciò, non avrebbe comunque potuto superare il dislivello corrispondente a due o tre scalini).

Dibattuta è anche la questione del numero di porte che si aprivano sulla facciata dell’edificio scenico: due sembrano richieste nelle Coefore di Eschilo (oltre a quella centrale, la porta degli alloggi delle donne, verso cui si precipita un servo) e tre nella Pace di Aristofane (abitazione di Trigeo, dimora di Zeus, caverna dello scarabeo). Anche il tetto della σκηνή poteva essere eventualmente utilizzato come spazio occupato dagli attori: da esso, per esempio, balza al suolo il servo frigio nell’Oreste di Euripide. Inoltre, ugualmente a un livello soprelevato, poteva essere utilizzata una piattaforma (θεολογεῖον) invisibile agli spettatori su cui gli attori salivano dal retro della scena.

Un altro problema che ha diviso gli studiosi riguarda l’esistenza e, in caso positivo, la frequenza di utilizzo, già nel corso del V secolo, di una sorta di basso carrello su ruote (ἐκκύκλημα), una piattaforma che, sospinta in avanti ed eseguendo un movimento circolare, serviva a rendere visibile al pubblico quanto avveniva nella parte più interna della scena: di esso trattano, con descrizioni sensibilmente divergenti, fonti tarde, fra cui gli scoli, cioè i commenti ai testi drammatici.

Un probabile uso di questa macchina si trova nell’Antigone di Sofocle (vv. 1294 ss., rappresentata nel 442 a.C.): Creonte, ormai conscio della catena di morti atroci che hanno decimato la famiglia a causa della sua ostinazione, vede da ultimo anche il corpo della moglie Euridice avvinto all’altare di Zeus Ercheo (Ἕρκειος, «Protettore del focolare domestico»), posto nel cortile interno del palazzo. Uscita di scena, la donna aveva annunciato che sarebbe andata a pregare per il figlio Emone e per la casata tutta. Grazie all’ἐκκύκλημα, gli spettatori potevano vedere l’altare domestico sul quale Euridice, dopo essere andata a piangere il figlio Megareo e ora anche Emone, si è tolta la vita.

Va rammentato, di passaggio, che le scene violente non potevano essere proposte sulla scena ed era, quindi, sempre un narratore – spesso un servo o un messaggero – a riferire al coro e al pubblico l’accaduto. Solo grida si potevano udire “dietro le quinte” e immaginare quanto si stava perpetrando o, come in questo caso, scorgere il cadavere. Oltre a questo, un altro celebre finale in cui si sarebbe fatto ricorso alla macchina è quello dell’Ippolito (430) di Euripide, mentre, per restare alla produzione sofoclea, si pensi all’Elena (v. 1458) e, probabilmente, all’Aiace (v. 344).

Ricostruzione schematica delle principali macchine teatrali in uso sulla σκηνή (link).

In ogni caso, a un tale congegno alludono due passi parodici di Aristofane. Negli Acarnesi (vv. 406-409) Diceopoli supplica Euripide di uscire di casa per prestargli qualche straccio dei suoi eroi cenciosi:

D                        Ti chiama Diceopoli di Collide: io!

E                         Ma non ho tempo!

D                      E dai: fatti trasportare fuori sul carrello!

E                         Ma non è possibile!

                       Su, avanti!

E                         Ecco, mi farò metter fuori sul carrello: non ho tempo di scendere!

Nelle Tesmoforiazuse è lo stesso Euripide a cercare l’aiuto di Agatone, il quale sta uscendo dalla σκηνή (νν. 95-96):

E                        Silenzio!

P                        Che c’è?

E                        Agatone sta uscendo!

P                        E quale sarebbe?

E                        Lui, quello che si fa metter sul carrello!

Pacificamente accertato è invece, per alcuni drammi, il ricorso a una macchina del volo, detta γέρανος («gru»), che – grazie a un sistema di cavi, carrucole e ganci – serviva per tenere sollevato in aria un personaggio o fargli percorrere un certo tragitto aereo.

Nella Pace di Aristofane, con parodia del perduto Bellerofonte di Euripide (dove il protagonista volava in groppa a Pegaso), Trigeo impartisce istruzioni dapprima allo scarabeo che intende cavalcare per recarsi a colloquio con Zeus (vv. 82-87):

T Oh, buono, buono: rallenta, asinello mio!
Non slanciarti con troppo impeto,
fin da principio fidando nella tua forza,
prima di aver ammorbidito
i muscoli col battito veloce delle ali!
E non soffiarmi addosso questo puzzo, per pietà!

Poi si rivolge al macchinista addetto alla manovra, il μηχανοποιός (vv. 174-176):

T Macchinista, pensa a me!
Già mi sento turbinare un vento sotto l’ombelico:
se non stai attento, ingrasserò lo scarabeo!

Con la macchina del volo arriva Oceano nel Prometeo di Eschilo (vv. 284 ss.), fugge per l’etere Medea alla fine dell’omonimo dramma euripideo, appaiono talora gli dèi di cui si dice che giungono per l’aria, come, nelle chiuse di alcuni drammi euripidei, Tetide (Andromaca), Atena (Ione), i Dioscuri (Elettra).

Pittore anonimo. Il volo di Medea. Pittura vascolare da un κρατήρ-κάλυξ lucano a figure rosse, c. 400 a.C. Cleveland, Museum of Art.

Talvolta i personaggi potevano comparire in scena anche su un carro da parata, come nell’Agamennone eschileo il sovrano argivo e la sua prigioniera Cassandra o, nell’Elettra di Euripide, Clitennestra, che si reca in campagna a far visita alla figlia.

Nell’area scenica potevano comparire anche tombe e altari, come, in Eschilo, nelle Supplici, dove uno rialzo sacro adorno di statue e altari degli dèi (una κοινοβωμία) diventa l’asilo delle Danaidi, o nelle Coefore, dove il tumulo di Agamennone è il luogo presso il quale Elettra scorge le orme del fratello e poi intona insieme con lui e con le coreute il commo di invocazione (κομμός) al padre defunto. E in Euripide si rifugiano ai piedi di un altare, fra gli altri, Andromaca perseguitata da Ermione e la sposa e i figli di Eracle perseguitati dal tiranno Lico (Eracle).

Occasionalmente anche un letto poteva essere portato alla vista degli spettatori. come, in Euripide, nel caso di Fedra delirante nell’Ippolito e di Oreste malato nell’Oreste o in Aristofane, per Strepsiade che, tormentato dal pensiero dei debiti, si agita su un pagliericcio al principio delle Nuvole.

La civiltà minoica

Verso la fine del III millennio (c. 2000) nel mondo egeo ebbero luogo profondi mutamenti, che coinvolsero soprattutto due regioni con sviluppi diversi. Da una parte, Creta e le Cicladi videro un’espansione dei centri abitati, adottarono il sistema palaziale e mantennero un intenso grado di scambi. Dall’altra, il Peloponneso e la Grecia continentale registrarono una significativa regressione culturale.

Creta, la più grande delle isole greche (ha una superficie di c. 8000 km2), situata nel cuore del Mar Egeo, fu crocevia di genti e culture, snodo strategico per i commerci, e grazie alla fertilità del suolo e al clima favorevole fu un luogo ideale in cui vivere. L’isola svolse per tutta la prima metà del II millennio (c. 2000-1450) un ruolo di primo piano, sia durante il periodo dei “primi palazzi” (c. 2000-1700), edificati in forme relativamente semplici a Cnosso e a Festo, sia soprattutto durante il periodo dei “secondi palazzi” (c. 1700-1450), cioè l’apogeo della civiltà che ivi fiorì.

Delfini. Affresco parietale, c. 1600-1450 a.C. dal megàron della Regina. Cnosso, sito archeologico del Palazzo.

Non è noto come gli abitanti di Creta chiamassero loro stessi, ma furono ribattezzati Minoici dall’inglese sir Arthur J. Evans (1851-1941), l’archeologo che condusse delle campagne di scavo a Cnosso tra il 1900 e il 1935: tale denominazione è tratta dal mitico re cnossio Minosse, ricordato da Tucidide (I 4) come il più antico possessore di una flotta e θαλασσοκράτωρ («signore del mare»). L’autore non ha fatto riferimento tanto al mito in sé, quanto piuttosto ha indagato le ragioni effettive che dovettero guidare l’azione di Minosse:

Ora, Minosse fu il più antico di coloro che conosciamo grazie alla tradizione a possedere una flotta e a detenere il controllo di gran parte di quel mare, che oggi si chiama “Greco” [sc. l’Egeo]. Egli ottenne il dominio delle Cicladi e fu il primo a colonizzarne la maggior parte, scacciandone i Cari e stabilendovi come capi i propri figli; e, com’era naturale, si prodigò quanto più poté per sgomberare il mare dai pirati, affinché i tributi gli arrivassero con maggior facilità[1].

Lo storico illustra gli effetti della talassocrazia, cioè il dominio dei mari esercitato dai Cretesi, fenomeno al quale collega il progresso economico cui dovette assistere l’intero bacino egeo. Del resto, anticamente la pirateria aveva rappresentato un diffuso mezzo di guadagno per molte genti affacciate sul mare, ai tempi di Tucidide le città greche adottavano ormai misure atte a combatterla per tutelare i viaggi e i commerci, mentre, in caso di guerra, non esitavano a rimetterla in auge per danneggiare i nemici.

Il «Principe dei gigli». Affresco parietale, c. 1600-1450 a.C., dal «Corridoio delle processioni» del Palazzo di Cnosso. Heraklion, Museo Archeologico.

Insomma, durante la seconda fase palaziale Cnosso divenne il centro egemone dell’isola, imprimendo sul territorio una significativa unità culturale.

Gli studiosi moderni periodizzano la storia di questa civiltà in due modi: seguendo la cronologia propria dell’Età del Bronzo, distinguono in Periodo Antico Minoico (c. III millennio), Periodo Medio Minoico (c. 2000-1570) e Periodo Tardo Minoico (c. 1570-1050); oppure individuano due fasi, contrassegnate dalla formazione e dallo sviluppo dei grandi palazzi, ovvero una Fase Protopalaziale (o “dei primi palazzi”) e una Fase Neopalaziale (o “dei secondi palazzi”); a marcare le differenze tra i due periodi si è assunta la data canonica dell’anno 1700, dopo la quale i primi palazzi avrebbero subito una grave distruzione.

Il sistema palaziale, già ampiamente collaudato in Asia occidentale, era una forma di organizzazione politico-sociale fortemente centralizzata, basata appunto sul palazzo e sulle sue funzioni: sede del potere politico, esso svolgeva anche un ruolo economico, sacrale e culturale. Come una vera e propria comunità autosufficiente, chi risiedeva nel palazzo organizzava il lavoro agricolo e la produzione artigianale, si preoccupava di gestire la raccolta delle materie prime, di immagazzinare prodotti e manufatti, di ridistribuire gli strumenti di lavoro e le risorse, ma anche di praticare e officiare il culto.

«Le raccoglitrici di croco». Affresco parietale, c. 1700-1600 a.C., da Akrotiri. Santorini, Museo Archeologico.

L’adozione di questo sistema è stata collegata, oltre che agli influssi orientali, a un’evoluzione interna legata a fattori diversi, come, per esempio, l’introduzione nell’isola delle colture della “triade mediterranea” (vite, ulivo e cereali), che avrebbe creato la necessità di organizzare la produzione, la raccolta di eccedenze e la loro ridistribuzione.

Dal punto di vista architettonico, il palazzo aveva una struttura complessa, che fu alla base della tradizione cretese del Labirinto: intorno a un grande cortile centrale, di forma quadrangolare e orientato in direzione Nord-Sud, si raggruppavano ambienti di servizio, aree d’abitazione e sale di ricevimento, luoghi di culto, magazzini, uffici, laboratori; un ampio cortile lastricato introduceva alla facciata monumentale, collocata sul lato occidentale; molti ambienti presentavano una ricca decorazione ad affreschi policromi. L’inserimento nel contesto naturale era particolarmente curato: l’edificio era aperto sull’ambiente circostante e sull’abitato che lo circondava, capace di ospitare una popolazione numerosa; particolare attenzione era posta all’aerazione e all’illuminazione. L’assenza di fortificazioni, che aveva fatto pensare a un pacifismo minoico ai primi interpreti, sembra indicare una certa sicurezza rispetto alle aggressioni esterne: non va dimenticato che i Cretesi, che confidavano nella loro potenza navale, erano un popolo di marinai, mercanti, pirati e conquistatori.

Guerrieri minoici. Illustrazione di G. Rava.

Un elemento fondamentale nello sviluppo dei palazzi è rappresentato dai progressi nei sistemi di notazione, computazione e scrittura: la Creta minoica, infatti, fu l’unica regione europea ad aver adoperato un sistema scrittorio fin dal III millennio. Gli scavi sull’isola hanno restituito sigilli di vario materiale, cretule d’argilla con impronte di sigilli, apposti su vasi, forzieri e porte, nonché tavolette e altri oggetti in terracotta. Mentre i sigilli e le cretule servivano a controllare la raccolta e la ridistribuzione di beni, la scrittura era necessaria per la contabilità, l’annotazione e la registrazione dei prodotti immagazzinati o scambiati.

Rispetto a quelle mesopotamiche e a quella egizia, la scrittura minoica fu approntata in maniera del tutto autonoma: prima una scrittura ideogrammatica (Evans la definì “geroglifica”), che ha la sua principale attestazione nel cosiddetto Disco di Festo, una tavoletta ceramica (c. 1600) dalla caratteristica forma circolare, dal diametro di 16 cm e solcata, su entrambe le facce, da 241 simboli disposti a spirale; poi la cosiddetta “Lineare A”, presente non solo a Creta ma anche nelle Cicladi. Si tratta, in entrambi i casi, di scritture sillabiche, che esprimevano una lingua non greca e che non è stato possibile finora decifrare.

Tavoletta ceramica con i segni incisi della Lineare A. La Canea, Museo Archeologico di Chanià.

La religione era un aspetto fondamentale della vita del palazzo, tanto che Evans fu indotto ad avanzare l’ipotesi di una “teocrazia” minoica, guidata da un re-sacerdote. Benché questa congettura non trovi riscontro sicuro, certo è che il palazzo riservava al culto ambienti specifici con adeguata decorazione.

La divinità più importante era una dea, che veniva generalmente rappresentata sotto sembianze umane in figurine dai seni prosperosi, simboli di fertilità, e in qualche caso nell’atto di stringere tra le mani una coppia di serpenti, creature ctonie, o affiancata da altri animali sacri. Le immagini della dea riproducono il modulo della πότνια θηρῶν («signora delle bestie») e la identificano con la Grande Madre mediterranea, espressione della fertilità della Terra e delle forze rigeneratrici della Natura.

«Dea dei Serpenti». Statuetta, faïence, c. 1600 a.C. da Cnosso. Heraklion, Museo Archeologico.

Ella proteggeva i raccolti e da lei, con ogni probabilità, era ritenuto discendere il potere regale del sovrano cretese, che si presentava in terra come suo figlio. Tra gli oggetti a lei sacri si segnalavano la λάβρυς, l’ascia bipenne utilizzata nei sacrifici, e le “corna di consacrazione”, che ornavano i tetti dei palazzi. Entrambi i paramenti erano manifestazioni simboliche ricollegabili alla natura del cerimoniale rivolto alla dea, che prevedeva l’immolazione di un toro mediante l’impiego, appunto, di una doppia ascia. Il significato sacrale attribuito al toro è testimoniato dall’onnipresenza di questo animale nell’arte minoica: tra le attestazioni più note si segnalano un vaso di steatite a forma di testa di toro e l’affresco proveniente dal palazzo di Cnosso (c. 1450-1400), raffigurante il gioco rituale della ταυροκαθάψια; quest’ultimo prevedeva che, quando il toro caricava, gli acrobati gli afferrassero le corna, compissero un doppio salto mortale sulla sua groppa e, infine, balzassero a terra in piedi: una prova di forza e di agilità assai difficile e molto pericolosa!

Testa di toro. Rhyton, steatite e limonite, c. 1425-1390 a.C. da Cnosso. Heraklion, Museo Archeologico.

Alla figura del toro si associano le leggende di Minosse, del Minotauro e di Dedalo e Icaro. Secondo il mito, infatti, il re cnossio aveva ordinato al celebre artefice Dedalo di costruire il Labirinto, un edificio a pianta complessa, al cui interno sarebbe stato difficile orientarsi a causa dell’intreccio di passaggi, in cui rinchiudere il mostruoso Minotauro, un essere metà uomo e metà toro che si cibava di carne umana. A costruzione ultimata, però, per impedire che Dedalo svelasse il modo di uscire dall’edificio, Minosse lo fece rinchiudere nel Labirinto insieme al figlio Icaro. Il mirabile artiere, tuttavia, fabbricò due paia di ali fatte di piume d’uccello e incollate con la cera, grazie alle quali riuscì a scappare con il figlio; Icaro, però, imprudentemente si avvicinò troppo al Sole, che sciolse la cera, facendolo precipitare in mare.

Il Labirinto, secondo la tradizione, continuò a mietere vittime. Dopo aver sottomesso gli Ateniesi per un torto subito, Minosse li costrinse, in segno di resa, a inviargli ogni anno sette fanciulli e sette fanciulle da offrire in pasto al Minotauro. Il mostro fu infine ucciso dall’eroe Teseo, che aveva fatto parte di un gruppo di ragazzi destinati al sacrificio, ma era poi riuscito ad avere la meglio sulla creatura e a uscire dal Labirinto: per far ciò aveva srotolato un gomitolo di lana che gli era stato dato da Arianna, la figlia del re, innamorata del giovane straniero[2].

La leggenda è forse un’eco del tributo che gli abitanti della Grecia continentale dovevano pagare ai Minoici, che spadroneggiavano sull’Egeo; il Labirinto, invece, sarebbe una rappresentazione simbolica del palazzo di Cnosso, che era il centro principale dell’isola; la figura del Minotauro, infine, potrebbe evocare la consuetudine dei re-sacerdoti cretesi di vestirsi con pelli e corna di toro. La vittoria di Teseo sul mostro e, quindi, su Minosse potrebbe simboleggiare la liberazione dal predominio cretese, durante la fase micenea della storia dell’isola[3].

Teseo e il Minotauro. Illustrazione di P. Connolly.

Le fonti antiche restituiscono un’immagine complessa e ambigua di Minosse, mitico re: talvolta è presentato come un despota autoritario, talvolta invece è annoverato tra i legislatori più saggi e giusti, e dunque riconosciuto come uomo dai giudizi equilibrati. Pareri discordanti circolavano anche in merito alle funzioni del Labirinto e ai riti che a esso erano associati.

Notevole fu l’impulso dato dal sistema palaziale alla produzione artistica: la centralizzazione della struttura economica garantiva la fornitura di materie prime e di servizi agli artigiani, favorendo il progresso tecnico come nell’uso del tornio, dell’incrostazione, della placcatura e della granulazione. Nell’ambito della produzione cretese si segnalano la ceramica del cosiddetto “stile di Kamarés” (dal nome della grotta sul monte Ida, dove furono scoperte le prime terrecotte), decorata con motivi naturalistici, tra i quali prevale il polpo, e preziosi manufatti di metallurgia e oreficeria. Non solo. Splendidi affreschi dalle tinte accese ornavano i palazzi: queste opere forniscono alcune informazioni interessanti sui costumi di questa civiltà. I gioielli erano portati indistintamente dalle donne e dagli uomini, entrambi i sessi avevano l’abitudine di dipingersi gli occhi e curarsi il volto con prodotti cosmetici.

Cratere decorato con gigli bianchi, ceramica di «stile Kamares», c. 1800-1700 a.C., da Festo (Creta). Heraklion, Museo Archeologico.

La documentazione archeologica, in sostanziale accordo con la visione tucididea della “talassocrazia” di Minosse, attesta i rapporti dell’isola di Creta con l’Egitto, con Cipro, con le coste dell’Asia Minore e con le altre isole dell’Egeo: l’epoca dei “secondi palazzi” segnò infatti una svolta rivoluzionaria per la civiltà minoica, ovvero l’egemonia di Cnosso su tutta l’isola e l’estensione dei traffici commerciali nel Mediterraneo, costituendo il momento di massimo splendore. I Cretesi possono essere identificati con i Keftiu dei testi egizi e con i Kaptara di quelli mesopotamici. Nelle Cicladi, durante il Tardo Periodo Cicladico (c. 1700-1600), la diffusione della cultura minoica fu notevole, soprattutto a Melo e a Tera (od. Santorini): qui, in particolare, nel 1967 venne alla luce un insediamento palaziale con splendidi affreschi, andato distrutto nelle catastrofiche eruzioni vulcaniche e dai conseguenti violenti terremoti, datati alla fine del XVII secolo. Il destino dell’isola, di cui buona parte sprofondò in mare a causa dell’esplosione del vulcano, probabilmente diede spunto alla formazione nella memoria collettiva dei Greci del mito di Atlantide, raccontato da Platone in due suoi dialoghi, il Timeo e il Crizia. La successiva ubicazione al di là delle Colonne d’Ercole di questo Paese leggendario rispose forse al bisogno dell’uomo Greco di collocare episodi a lui storicamente lontani in luoghi remoti, ai confini del mondo conosciuto.

Rovine di abitazioni ad Akrotiri, Thera/Santorini.

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Riferimenti bibliografici:

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Warren 1969 = P. Warren, Minoan Stone Vases, Cambridge 1969.


[1] Thuc. I 4, Μίνως γὰρ παλαίτατος ὧν ἀκοῇ ἴσμεν ναυτικὸν ἐκτήσατο καὶ τῆς νῦν Ἑλληνικῆς θαλάσσης ἐπὶ πλεῖστον ἐκράτησε καὶ τῶν Κυκλάδων νήσων ἦρξέ τε καὶ οἰκιστὴς πρῶτος τῶν πλείστων ἐγένετο, Κᾶρας ἐξελάσας καὶ τοὺς ἑαυτοῦ παῖδας ἡγεμόνας ἐγκαταστήσας· τό τε λῃστικόν, ὡς εἰκός, καθῄρει ἐκ τῆς θαλάσσης ἐφ’ ὅσον ἐδύνατο, τοῦ τὰς προσόδους μᾶλλον ἰέναι αὐτῷ.

[2] Lo Pseudo-Apollodoro (Bibl. III 15, 8-9; Epit. 7-9), per esempio, riferisce: «Non molto tempo dopo, Minosse, che aveva il domino sui mari, armò una flotta contro Atene e s’impossessò Megara […]. Il conflitto andava per le lunghe, ma Minosse non riusciva a conquistare anche Atene. Allora invocò Zeus affinché ottenesse riparazione dagli Ateniesi: la comunità fu colpita da carestia e pestilenza. Per prima cosa, perciò, gli Ateniesi, seguendo un’antica profezia, immolarono sulla tomba del Ciclope Geresto le figlie di Giacinto, Anteide, Egle, Litea e Ortea […]. Ma il sacrificio non servì a nulla ed essi domandarono all’Oracolo come potessero liberarsi dalle calamità. Il dio rispose che avrebbero dovuto subire una pena scelta da Minosse. Mandarono, quindi, dei messi a Minosse per domandargli a quale punizione avrebbero dovuto sottoporsi e quello rispose loro di inviargli sette ragazzi e sette ragazze, disarmati, da dare in pasto al Minotauro. Questo stava rinchiuso nel Labirinto, dove colui che entrava non poteva più uscirne perché i suoi intricati corridoi impedivano di trovare l’uscita […]. Al tempo del terzo tributo per il Minotauro, Teseo fu messo in lista: alcuni affermano che si fosse offerto spontaneamente. […] Quando Teseo giunse a Creta, la figlia di Minosse, Arianna, si innamorò di lui e promise di aiutarlo, a patto che acconsentisse di riportarla ad Atene e la facesse sua sposa. Il giovane accettò e giurò; allora Arianna chiese a Dedalo di rivelarle il modo di uscire dal Labirinto. E su consiglio dell’artefice, ella consegnò a Teseo, nel momento in cui vi entrò, un filo; il giovane lo legò al portale e s’inoltrò, tirandoselo dietro. S’imbatté nel Minotauro nell’ambiente più interno dell’edificio, lo uccise a forza di pugni e poi, seguendo il filo a ritroso, riguadagnò l’uscita».

[3] Plutarco di Cheronea (Thes. 15-16), oltre alla versione mitica più diffusa, riferisce anche una versione che “razionalizza” il racconto: «Minosse, convinto che suo figlio Androgeo fosse stato assassinato con l’inganno in Attica, aveva mosso guerra e arrecava molti mali ai suoi abitanti; la divinità, da parte sua, mandava in rovina il Paese: su di esso infatti si abbatterono sterilità e malattie innumerevoli e i fiumi si prosciugavano; il dio indicò loro di riconciliarsi e di riappacificarsi con Minosse, per far cessare l’ira e porre fine alle sofferenze; così, gli abitanti dell’Attica mandarono un araldo, chiesero di scendere a patti e conclusero un accordo in base al quale come tributo avrebbero inviato ogni nove anni sette ragazzi e sette ragazze: su questo concorda la maggior parte degli autori. Il racconto più tragico rappresenta il Minotauro che strazia nel Labirinto i giovani condotti a Creta, oppure essi che, dopo aver vagato, incapaci di trovare una via d’uscita, muoiono lì. […] Filocoro narra che i Cretesi non sono d’accordo su questo punto, ma sostengono che il Labirinto fosse una prigione con un solo svantaggio: coloro che fossero stati lì internati non avrebbero potuto fuggire; essi dicono anche che Minosse istituiva gare ginniche in onore di Androgeo e ai vincitori dava come premio i ragazzi, fino a quel momento imprigionati nel Labirinto. Le prime gare furono vinte da un uomo che allora era molto influente presso di lui e che comandava i suoi eserciti: si chiamava Tauro, era smodato e crudele di carattere, e anche nei confronti dei giovani Ateniesi si comportò in modo sprezzante e violento».

La villa romana di Desenzano del Garda (BS)

di D. Scagliarini Corlàita, in E. Roffia (ed.), Ville romane sul Lago di Garda, S. Felice d/B (BS) 1997, 191-206.

L’ubicazione della villa

Per quasi mezzo millennio, dalla fine del I secolo a.C. ai primi decenni del V secolo d.C., la zona di Desenzano denominata Borgo Regio è stata sede di una sequenza ininterrotta di edificazioni residenziali e produttive. Molti fattori spiegano in modo evidente tanta persistenza: lo splendido paesaggio del Lago, che lambiva l’edificio a est (oggi la sponda dista una settantina di metri): la fertilità del morbido pendio collinare che si elevava a ovest e costituiva il fundus della villa; l’opportunità itineraria della via Gallica, che passava a sud e collegava Verona, Brixia e Bergomum, e a sua volta a Verona si innestava nella via Postumia: l’ubicazione, che certamente comportava un proprio impianto portuale, all’estremità meridionale della principale rotta lacustre nord-sud, inserita a sua volta nella rete dei collegamenti padani e transalpini. Le stesse ragioni che hanno reso quest’area così appetita e densamente edificata spiegano anche, almeno in parte, perché gli scavi e il recupero della villa siano stati molto difficili.

Eroti intenti alla vendemmia. Mosaico pavimentale (dettaglio), c. I-V secolo, dal triclinium triabsidato (trichora). Desenzano del Garda, Villa romana.

Gli scavi e i restauri

La prima, isolata notizia dei resti archeologici risale all’Esposizione di archeologia preistorica e Belle arti che si tenne a Brescia nel 1875: qui furono esposti «Frammenti di mosaico (trovati) in via Borgo Regio»[1]. Solo dopo il rinvenimento, nell’ottobre 1921, di una porzione del mosaico dell’aula trichora 4 e di parte di un altro pavimento, il Soprintendente ai Musei e Scavi della Lombardia, G. Patroni, ordinò una campagna di scavo che, nel 1923, mise in luce in soli tre mesi la parte occidentale del settore A. Purtroppo i mosaici rimasero senza protezione, all’infuori di uno strato di sabbia, fino al 1928, quando il nuovo Soprintendente, E. Ghislanzoni (la cui competenza territoriale, per inciso, era paurosamente ampia, comprendendo la Lombardia, il Veneto e la Venezia dentina), promosse una campagna di restauro, tanto indifferibile quanto difficile, che durò fino al 1930[2]. Per il forte deterioramento subito, infatti, lo strappo dei mosaici si rivelo in più punti impossibile, e i restauratori intervennero pesantemente risarcendo le parti più compromesse, anche con l’impiego di tessere moderne. Ovviamente i risultati, se sono “tollerabili” nelle stesure geometriche, appaiono grossolanamente alteranti nelle parti figurative; l’intervento è reso più grave dalla perdita quasi completa della documentazione fotografica dei mosaici prima del restauro. Molto invadenti sono stati i restauri anche nelle parti in alzato: si confronti, per esempio, lo stato del ninfeo prima del restauro con la situazione attuale.

Negli stessi anni si ampliò lo scavo del settore A in direzione est, mettendo in luce anche il peristilio 2 e il vestibolo 1.

Nei decenni successivi l’unico intervento significativo fu l’edificazione, nel 1939, di una solida tettoia laterizia di protezione, visivamente piuttosto ingombrante, ma efficace. Negli anni 1963-70, la soprintendente M. Roberti promosse una ripresa degli scavi che portò al completamento del settore A e alla scoperta dei settori a e B; furono installate nuove strutture protettive in ondulux su elementi portanti in ferro (che purtroppo si sono dimostrate dannose per gli stillicidi rugginosi sui mosaici); fu allestito l’Antiquarium[3]. Si scavò anche la parte occidentale del settore D, rivelato e insieme brutalmente danneggiato da un’improvvisa escavazione abusiva a scopo edilizio.

Ercole vincitore in nudità eroica. Frammenti di statuetta, marmo lunense, c. metà del II secolo. Desenzano del Garda, Antiquarium della Villa romana.

Dal 1982 la Soprintendenza (G. Cerulli, E. Roffia, A.M. Ardovino) si è impegnata efficacemente nell’acquisizione progressiva dell’area, che, arrivata a circa un ettaro e mezzo, avrebbe garantito un consistente ampliamento dello scavo: purtroppo non il completamento, dato che gli ultimissimi scavi hanno accertato un’espansione della villa verso sud, in area densamente edificata, dove è stato possibile procedere solo per saggi. Dal 1988 sono ripresi gli scavi (a cominciare dal settore D, dove era avvenuto lo scempio dell’escavazione abusiva) e lo studio del complesso, con la pubblicazione di un primo volume di studi[4].

Contemporaneamente, la Soprintendenza ha affrontato il problema di una nuova sistemazione dell’Antiquarium e dell’area archeologica e, in particolare, della loro protezione. È stata adottata una copertura, applicata almeno ai settori B, C, D e costituita da una tensostruttura modulare (Albini, Bertolotti 1992), che presenta tra l’altro il pregio dell’estensibilità indefinita e della dislocazione variabile dei piedritti di sostegno, in modo da rispettare le strutture archeologiche; inoltre, costituisce un involucro neutro e visivamente “leggero”, che non si sostituisce ai volumi antichi perduti.

Frammenti di decorazione parietale a sfondo giallo con cornice azzurra e motivi floreali. Intonaco, c. metà del II secolo. Desenzano del Garda, Antiquarium della Villa romana.

Le ville più antiche

Nella vasta area occupata (anche se forse non interamente edificata) dalla villa tardoantica, si sono individuati resti di edifici precedenti, ma in modo discontinuo, e per la maggior parte nel corso di scavi del tutto insufficienti sotto l’aspetto tecnico e documentario[5]. Perciò, è possibile solo l’identificazione di qualche struttura e un tentativo di riconoscimento delle aree funzionali.

Inoltre, occorre tenere presente, evitando schematismi artificiosi, che i resti individuati non sembrano confluire entro fasce cronologiche ristrette, così da identificare fasi costruttive nettamente definite; è del resto possibile che, in un complesso tanto vasto, si sia verificato nel tempo un “flusso” quasi continuo di interventi, ed è quindi con questo significato che si parlerà di “periodi” nella storia edilizia di questo sito (Scagliarini Corlàita 1994; Rossi, Portulano 1994).

Il periodo più antico corrisponde alla fine del I secolo a.C. Sono state identificate due costruzioni quasi alle due estremità dell’area: a sud un gruppo di vani termali (attualmente sotto l’Antiquarium) costituisce il settore a, riferibile alla pars urbana; a nord, dove si è accertato il limite dell’edificio, nel settore D, vani con focolari intorno a un ampio cortile in battuto sono riferibili alla pars rustica. È possibile che appartenga a questa fase anche un corridoio sotterraneo sottostante al peristilio 2, che potrebbe essere stato coperto dai successivi innalzamenti del piano della villa.

Ricostruzione assonometrica del settore A della villa romana di Desenzano del Garda [Scagliarini Corlàita 1997, 199].

Intorno alla metà del I secolo d.C., tutte le parti individuate mostrano che il complesso aveva già assunto un orientamento unitario. Nel settore a le terme furono obliterate da una cisterna; nel settore A un piccolo tratto di mosaico geometrico bianco e nero sottostante alla trichora è un sicuro indizio della presenza di un ambiente residenziale: una serie di vani indefiniti, ma probabilmente residenziali, occupava l’area del futuro peristilio 2.

Funzioni produttive sono invece attestate nei settori B e D. Particolarmente interessante è l’identificazione di un grande pavimento in opus spicatum laterizio sottostante ai vani tardoantichi 32, 33, 35 e parzialmente 36, in cui un grande cerchio (Ø m 1, 62) corrisponde al piano di appoggio di una macina o, più probabilmente, un frantoio, data l’importanza della produzione olearia gardesana[6]. Il piano circolare è leggermente rilevato rispetto al pavimento circostante, che quindi mostra di essere stato sottoposto ad un’usura prolungata: infatti, il vano a opus spicatum è rimasto in uso anche nel periodo successivo. Immediatamente a nord, al di sotto dei successivi vani 34, 37 e parzialmente 35, restano le suspensurae di un vano riscaldato, che, data l’ubicazione, poteva appartenere al balneum servile.

Nel periodo 3, nella prima metà del II secolo d.C.[7], i settori C e D rivelano, nonostante i danni subiti, una trasformazione a funzioni residenziali. Nel settore D viene costruito un atrio con impluvio 61, di cui resta solo la sottofondazione. In posizione più arretrata, il fronte su cui l’escavazione abusiva si è arrestata producendo una sorta di rovinosa sezione stratigrafica, taglia a questo livello una vasta sala, corrispondente al vano 54, con un elegante pavimento musivo bianco e nero e pitture parietali, il cui zoccolo è ancora in situ. Si sono potute ricostruire due ampie porzioni della parte superiore delle pareti  con i frammenti di intonaco utilizzati come vespaio di sottofondazione quando il vano, nella fase tardoantica, è stato obliterato dal soprastante ambiente 54, in opus sectile. La decorazione, su uno zoccolo nero con meandro policromo, è scandita da pannelli rossi e gialli separati da larghe fasce di fiori e frutta con uccelli, una sorta di compendio delle pitture di giardino e frutteto del III e IV stile pompeiano (Scagliarini Corlàita 1993; in precedenza Frova 1986).

Frammenti di decorazione parietale a sfondo rosso con cornice azzurra. Intonaco, c. metà del II secolo. Desenzano del Garda, Antiquarium della Villa romana.

Tutto il settore settentrionale, quindi, viene adibito a funzioni di ingresso e di ricevimento con accesso dal Lago. Ma, mentre nel settore B permangono le funzioni produttive, anche il settore A deve aver ricevuto un assetto prestigiosamente residenziale. Gli indizi sono, più che edilizi, decorativi: un cospicuo complesso di statue, di cui si dirà, per le quali pare ovvio pensare che esistesse una struttura idonea ad accoglierle. È probabile che il peristilio 2, e forse anche il viridarium 5 risalgano a questo periodo, in cui l’edificio ha assunto una planimetria molto articolata, che pone le varie parti del complesso, relativamente autonome, in rapporto diretto, vedutistico e funzionale, col Lago.

La decorazione statuaria

Si tratta probabilmente del più consistente apparato statuario di una residenza privata dell’Italia settentrionale[8]: 8 statue conservate in misura apprezzabile, 6 di cui è riconoscibile l’iconografia, e 27 frammenti o gruppi di frammenti di diversa consistenza. Provengono per la maggioranza dal sotterraneo sottostante al peristilio 2, e sulle singolari circostanze della loro giacitura si dirà oltre, dato che esistono ragioni per ritenere che le statue siano rimaste in uso anche nella villa tardoantica.

Gli esemplari per i quali è possibile una valutazione stilistica riportano ad una cronologia relativamente omogenea, nell’arco della prima metà del II secolo e al classicismo eclettico che caratterizza questo genere di produzione, destinata a una clientela raffinata e soprattutto desiderosa di mostrare la propria appartenenza alla koiné culturale di matrice ellenistica. Anche i soggetti appartengono al repertorio decorativo delle abitazioni lusso: due statue di Ercole, l’eroe vincitore e benefico, almeno 7 statue di soggetto dionisiaco, tra cui un Dioniso con la pantera, un fanciullo con grappolo d’uva e una statuina di sileno cistoforo, di esecuzione molto raffinata; una base a forma di tripode riporta ad Apollo, divinità appropriata per l’otium intellettuale. Nell’ordinarietà dei soggetti si distingue però la scelta di iconografie piuttosto rare e complesse (come l’Ercole con la cornucopia o l’amorino addormentato sulla pelle leonina di Ercole), che sembra un esibizione di cultura mitografica e letteraria da parte del dominus.

Ercole con cornucopia. Frammenti di statua, marmo bianco, c. metà del II secolo. Desenzano del Garda, Antiquarium della Villa romana.

Si distacca dalle altre sculture, per il soggetto ma anche per la finezza esecutiva, la testa ritratto, in marmo lunense, purtroppo frammentaria, di un fanciullo, che l’acconciatura riporta ad età traianea o proto-adrianea; la corona di alloro potrebbe alludere ad un premio agonale o all’eroizzazione del giovane defunto.

Il marmo (Bugini, Folli 1994) più utilizzato è il pregiato marmo apuano o lunense, il che non esclude l’esecuzione locale, ma indica la volontà di allinearsi con la produzione della capitale: il secondo marmo per impiego è quello di Vezza d’Oglio, trasportato per via d’acqua dalla Valcamonica, e forse lavorato in un’officina di Brixia.

Ritratto di adolescente cinto di lauro. Frammento di busto, marmo bianco, c. 110-130. Desenzano del Garda, Antiquarium della Villa romana.

La grande villa tardoantica

La villa riceve una completa ristrutturazione architettonica e decorativa in un periodo databile tra la fine del dominato di Costantino e la metà del IV secolo. La datazione è confortata dai caratteri architettonici, dalla ricca decorazione musiva policroma e dai numerosi rinvenimenti monetali, anche se non rilevati stratigraficamente, che appartengono quasi esclusivamente al periodo dal terzo decennio del IV secolo agli inizi del V, con una concentrazione tra il 336 e il 348 (Arslan 1994). A ciò si aggiunge la menzione, nei giornali di scavi del 1929, di un possibile terminus post quem: il rinvenimento di una moneta costantiniana, perduta e del cui riconoscimento si vorrebbe essere certi, al di sotto del pavimento del vano 6 (Roffia 1994, 35).

Gli scavi del 1993-96 hanno chiarito la principale incognita di questa fase: l’ubicazione della pars rustica, dopo che nell’ultima fase il settore B era stato interamente convertito a funzioni di alto prestigio. Il settore produttivo si trasferisce dunque a sud, con un suo accesso ben marcato, che ne fa una struttura a sé, confermando che l’estensione della villa in questa direzione supera l’ampiezza dell’area archeologica.

Il resto della villa appare diviso in tre grandi complessi, il settore A a sud e i settori B, C, D, a nord, che seguono l’andamento della costa del lago verso est e sono separati tra loro da un percorso interno, di cui si è rinvenuto l’accesso 26.

Motivi geometrici. Mosaico pavimentale, c. I-V secolo, dal vestibulum ottagonale. Desenzano del Garda, Villa romana.

Il settore A è, per ora, il più compiutamente leggibile: è organizzato su di una lunga sequenza assiale dal lago verso l’interno, che inizia col vestibolo ottagonale 1, attraversa il peristilio 2 e l’atrio a forcipe 3, concludendosi nella magnifica aula a tre absidi 4 (triconchon, trichora), destinata al convito. L’allineamento proseguiva poi oltre la trichora con il viridarium 5 con ninfeo, che però non comunicava direttamente con gli altri vani, e quindi aveva carattere più privato.

All’asse dominante si affiancano due serie di vani residenziali, a cui si accede dalle due aree scoperte. Dal peristilio 2 si entra nel vano 12, che a sua volta disimpegna il cubiculum a due alcove 11 e un piccolo impianto termale 13-14, con vasca semicircolare, originariamente rivestita di marmo. Tutti questi vani erano riscaldati da hypocausta, come anche il vano di soggiorno 10, a cui si accede direttamente dal peristilio. Sembra che il complesso costituisca l’appartamento invernale del domimus, col suo balneum privato e un vano di soggiorno indipendente ma adiacente.

Sul lato sud del viridarium si aprono due vani poligonali 7-8, disimpegnati dal vano centrale absidato 6: la ricercatezza delle planimetrie, a cui dovevano corrispondere coperture a volta e abside, fa pensare all’appartamento estivo del dominus.

Lungo il lato nord del complesso si allineavano vani di servizio, comprensivi anche di un pozzo.

Altare funerario alla moglie di Q. Sertorio Callisto con iscrizione (Suppl.It. 667). Marmo rosso veronese, c. II-III secolo. Desenzano del Garda, Villa romana.

Il settore A è dunque organizzato attorno a un “percorso glorificante”, che esordiva scenograficamente con il propileo ottagonale”[9] affacciato sul Lago e proseguiva con la movimentata varietà dei volumi e delle coperture, su cui dominava conclusivamente l’aula trichora; gli accessi delle stanze laterali, ridotti al minimo, non interferiscono con il percorso celebrativo, cosicché il complesso, pur globalmente di rappresentanza, risulta diviso in una pars publica e una pars privata. Alla chiarezza del linguaggio architettonico corrispondeva il codice decorativo, che esibiva i temi figurati nei vani principali, cioè quelli in più diretto rapporto con la presenza del dominus. I mosaici geometrici, con una smagliante varietà cromatica e decorativa, si distendono nel vestibolo 1, nel quadriportico del peristilio, dove for mano una sequenza di “tappeti” di lunghezza diversa, ma nell’atrio a forcipe 3 interviene il tema degli amorini pescatori, divisi in quattro riquadri in modo da secondare le due direzioni del percorso, il soggetto è frequente e quindi generico, ma qui è introdotto per celebrare vivacemente le amoenitates lacustri.

Eroti intenti alla raccolta dei frutti. Mosaico pavimentale (dettaglio), c. I-V secolo, dal tablinium. Desenzano del Garda, Villa romana.

La parte centrale dell’aula trichora è scompartita in una serie di 25 riquadri figurati, con scene di caccia tra animali, amorini su bighe e soggetti vari riferibili alla sfera dionisiaca, che ben si addice ad una sala conviviale; gli stibadia carvi per i commensali occupavano le tre absidi.

Un complesso prestigioso e quasi aulico, che forniva una cornice celebrativa al dominus e un’ambientazione in tono col carattere tra cerimoniale e spettacolare che il convito aveva assunto presso la corte e nei ceti superiori[10].

Una tigre assalta un’antilope. Mosaico pavimentale (dettaglio), c. I-V secolo, dal triclinium triabsidato (trichora). Desenzano del Garda, Villa romana.

Anche lo spazio più riservato del viridarium si prestava ad un’ospitalità selettiva. Qui la decorazione parietale correggeva l’aspetto atono delle pareti con una pittura a transenne di giardino da cui sbucano fiori schematici ma vivacemente colorati.

Altri mosaici figurati segnalano l’importanza del vano 6 (protomi di fiere), e del confortevole oecus 10 (restano due scene di amorini che allestiscono trofei vegetali e psychai coronariae che intrecciano ghirlande; non è impossibile che facessero parte di una serie di quattro riquadri, rappresentanti le stagioni)[11].

L’elegante cubiculum 11 conserva un bel mosaico, purtroppo frammentario, rappresentante, entro una cornice di grandi conchiglie, un personaggio maschile al centro di un paesaggio alberato, affiancato da un cane e una pecora[12]. Piuttosto che un Buon Pastore, che mal si adatterebbe alle funzioni del vano, mi sembra probabile che il mosaico offra un’immagine bucolica dello stesso dominus, fortunato proprietario di un invidiabile fundus lacustre e terrestre.

Il Buon Pastore o Orfeo o il dominus (?) tra gli animali. Mosaico pavimentale, c. I-V secolo, dal vano 11 (forse il cubiculum padronale). Desenzano del Garda, Villa romana.

Il settore B doveva, per le ragioni che si sono dette, essere devoluto interamente a funzioni residenziali. Ciò è visibile solo nei vani a nord (30, 40,  42), con belle pavimentazioni geometriche, mentre a sud gli interventi finali hanno cancellato l’impianto immediatamente precedente.

Il settore C era occupato da un ampio complesso termale, che, raddoppiando il piccolo impianto dominicale di A. dimostrava la ricca specializzazione funzionale della villa. Anche il settore D appare interessato da rinnovi: essi confermano che, dopo aver allontanato il settore produttivo, in precedenza intercalato a quello residenziale, tutta la villa era stata destinata unitariamente a funzioni abitative più elevate.

Gli ultimi interventi

Verso la fine del IV o l’inizio del V secolo alcuni interventi limitati ma qualificanti, caratterizzati dall’impiego dell’opus sectile nelle pavimentazioni, completano il sontuoso complesso. L’impianto termale C viene così ampliato (vano 54, vasca 55). Ma l’intervento più innovativo è la costruzione nel settore B della grande abside 35 (non si è ancora scavata l’aula corrispondente), pavimentata con piastrelle policrome romboidali che imitano i cubi in prospettiva. L’abside è circondata da cinque vani sussidiari con semplici mosaici in bianco, mentre sotto parte di essa si era conservato l’hypocaustum del periodo 2, integrato dall’installazione dei tubuli parietali.

Eroti a pesca. Mosaico pavimentale, c. I-V secolo, dall’atrium a forcipe. Desenzano del Garda, Villa romana.

La villa viene così ad ascriversi a quella serie di sontuose villae e domus tardoantiche, di cui la più famosa è quella siciliana di Piazza Armerina[13], che presentano caratteri decorativi e architettonici ben definiti e mutuati con stringente emulazione dall’architettura dei palazzi imperiali, di cui i ricchi possessores amavano ripetere la fastosa cerimonialità. Componenti qualificanti sono la sequenza di vani del percorso glorificante, la presenza di una o nei casi più sontuosi due grandi sale di ricevimento: l’aula absidata o basilica per l’apparizione del dominus e la sala trilobata per l’ospitalità più selettiva e privilegiata del banchetto[14].

Ma, per ora, non si può neppure escludere l’ipotesi di una destinazione cultuale cristiana dell’aula basilicale. Vi sono infatti testimonianze di presenze cristiane nella villa tardoantica: lucerne paleocristiane (Bravar 1964-66) e l’importante coppa di vetro con scena cristologica (Roffia 1990). A questi reperti, che, essendo piccoli oggetti mobili, non hanno valore probante sulla destinazione dell’edificio, si aggiunge ora un’ipotesi (Bolla 1996): una piccola sepoltura infantile, che si inserisce nell’opus sectile dell’abside, potrebbe essere non una delle varie inumazioni posteriori alla fine della villa che si sono trovate in più punti, ma una “sepoltura privilegiata”, destinata a un piccolo defunto della familia e collocata in uno spazio consacrato.

Cristo predice il rinnegamento di Pietro, indicando il gallo e il cielo stellato (Mt. 26, 75: «Prius quam gallus cantet, ter me negabis»). Incisione su coppa, vetro, c. IV-V secolo. Desenzano del Garda, Antiquarium della Villa romana.

Rimane tuttavia la considerazione che, se l’aula absidata avesse avuto funzioni sacre, si sarebbe trattato di una destinazione parziale dell’edificio, dato che nel settore A rimanevano mosaici di carattere profano, anche se non accentuatamente pagani (più determinante in questo senso è la molto probabile presenza delle statue). Invece, nella varietà delle trasformazioni in senso religioso delle ville tardoantiche, prevalgono, per ovvie ragioni funzionali e semantiche, le conversioni unitarie come nel caso di Palazzo Pignano nel Cremonese (Massari et al., 1985), mentre la sopravvivenza della funzione precedente è molto rara.

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Mirabella Roberti 1995 = M. Mirabella Roberti, Le basiliche teodoriane di Aquileia e gli “oratori”. Considerazioni planimetriche e figurative, in G. Cavalieri Manasse, E. Roffia (eds.), Splendida civitas nostra. Studi archeologici in onore di Antonio Frova, Roma 1995, 217-221.

Peretti 1980 = M. Peretti, Un nuovo edificio romano a Desenzano del Garda, in Archeologia e storia a Milano e nella Lombardia orientale, Atti del Convegno (Varenna 1971-72), Como 1980, 125-136.

Roffia 1990 = E. Roffia, Coppa, in Milano capitale dell’Impero romano. 285-402 d.C., Catalogo della mostra (Milano 1990), Milano 1990, 401-402, 5d. 8i.

Roffia 1994 = E. Roffia, La scoperta della villa romana e i primi interventi di scavo e di restauro, in Desenzano 1, 43-58.

Rossi, Portulano 1994 = F. Rossi, B. Portulano, Nuovi scavi nell’area della villa romana 1988-1990, in Desenzano 1, 145-181.

Scagliarini Corlàita 1993 = D. Scagliarini Corlàita, Le pitture parietali della villa romana di Desenzano del Garda e il loro rapporto con i mosaici e l’architettura, in Funcional and Spatial Analysis of Wall Painting, Proceedings of the V International Congress on Ancient Wall Painting (Amsterdam 1992), BABesch Suppl. 3 (1993), 96-102.

Scagliarini Corlàita 1994 = D. Scagliarini Corlàita, La villa di Desenzano. Vicende architettoniche e decorative, in Desenzano 1, 43-58.

Scagliarini Corlàita 1996 = D. Scagliarini Corlàita, Gli ambienti poligonali nell’architettura residenziale tardoantica, CCAB 42 (1996), 837-873.

Scagliarini Corlàita et al. 1992 = D. Scagliarini Corlàita, M. Albini, C. Bertolotti, F. Rossi, Villa romana. Desenzano, Roma 1992.

Scagliarini Corlàita et al. 1994 = D. Scagliarini Corlàita, Le sculture, in Desenzano 1, 59-110.

Schumacher 1977 = W. Schumacher, Hirt und “Guten Hirt”, Roma 1977.

Villa Casale = G. Rizza, G. Garraffo (eds.), La villa romana del Casale di Piazza Armerina, in Atti della IV riunione scientifica della Scuola di Perfezionamento in Archeologia dell’Università degli Studi di Catania (Piazza Armerina 1983), Catania 1988.


[1] La storia dei rinvenimenti, degli scavi e dei restauri della villa è stata accuratamente ricostruita da Roffia 1994.

[2] L’intervento di Ghislanzoni, come la tardiva monografia che dedicò alla villa (1965), che si segnala soprattutto per l’apparato illustrativo, deve essere valutato tenendo conto delle metodologie dell’epoca e delle difficili condizioni operative.

[3] Gli scavi e i materiali di questo periodo sono stati pubblicati solo in piccola parte: Gerke 1966; Bravar 1964-66; Pedretti 1980; Mirabella Roberti 1982.

[4] Cfr. Desenzano 1, con i saggi di Roffia, Scagliarini Corlàita, Coralini, Ghetti, Compostella, Capoferro Cencetti, Bugini, Folli, Arslan, Rossi, Portulano. Inoltre, è stata pubblicata una guida per i visitatori (Scagliarini et al. 1992).

[5] Il fatto che solo tre monete (una di Adriano, due di Marco Aurelio) siano anteriori all’età di Gallieno, fra le 303 monete leggibili provenienti dall’area, è una conferma della scarsità delle indagini condotte negli strati anteriori alla villa tardoantica (Arslan 1994, 115).

[6] Nel settore B si sono rinvenute delle molae manuales per la macinazione dei cereali e la parte inferiore, frammentaria, di un frantoio, che, dimensionalmente, potrebbe appartenere a questo impianto. Dall’area della villa proviene anche un grosso contrappeso per torcular (Liverani 1987, 115; Colletti 1992), destinato alla spremitura dell’uva e delle olive.

[7] A questa datazione concorrono, nonostante la provenienza imprecisa, alcuni laterizi con bolli dell’officina individuata ad Arco, all’estremità settentrionale della rotta lacustre che faceva capo a Desenzano (Roffia 1994, 32).

[8] Scagliarini Corlàita et al. 1994; in particolare, le statue mitologiche sono state studiate da Coralini e Ghetti; il ritratto di fanciullo da Compostella; i disegni ricostruttivi sono di Capoferro Cencetti. Le analisi petrografiche sono state eseguite da Bugini, Folli 1994.

[9] Per il vestibolo 1 e per gli altri vani poligonali della villa (7-8), si vd. Scagliarini Corlàita 1996, 869-872.

[10] Sul tema del convito in età tardoantica, si vd. i contributi ormai classici di Lavin 1962 e Bek 1983; altra bibliografia in Scagliarini Corlàita 1996.

[11] Una prima presentazione delle pitture della villa in Scagliarini Corlàita 1993; in precedenza, Frova 1986 ha inquadrato il difficile tema della pittura parietale nella Venetia et Histria.

[12] Schumacher 1977, 221, 281, e, con sfumature diverse, Mirabella Roberti 1982 e Mirabella Roberti 1995, 218, sono propensi a interpretare la figura come una rappresentazione allusiva, più che ritrattistica, del dominus, in un contesto irenico.

[13] Della vastissima bibliografia su Piazza Armerina ricordo solo Carandini, Ricci, De Vos 1982 e Villa Casale.

[14] Il tema dell’ospitalità nella società tardoantica come forma di esaltazione del dominus, della sua rigorosa ritualizzazione e degli spazi architettonici deputati è stato dibattuto con interesse negli ultimi decenni; si vd., anche per la bibliografia precedente, Ellis 1988 ed Ellis 1991. In particolare, dei caratteri dell’architettura privata mutuali dalle residenze imperiali ha trattato in più occasioni Duval (cfr. 1987).

«Panem et circenses»: la passione per le corse dei carri

I Romani nutrivano una forte passione per gli spettacoli in generale (ludi publici): sebbene grande popolarità riscuotevano le rappresentazioni teatrali (ludi scaenici), le manifestazioni più amate erano senz’altro quelle marcatamente sportive, come i combattimenti gladiatori (munera), le cacce con animali esotici (venationes) e le corse dei carri (ludi circenses). Fin dall’età repubblicana questi eventi erano celebrati con regolarità in corrispondenza delle festività religiose previste dal calendario romano (ludi stati), come i ludi Apollinares in onore di Apollo, che, istituiti nel 212 a.C., si tenevano ogni anno in un periodo di otto giorni, dal 5 al 13 luglio (Liv. XXVI 23, 3; XXVII 6, 18; Per. 25, 3), e come i ludi Romani (o Magni) in onore di Giove, Giunone e Minerva, che, fondati da re Tarquinio Prisco (Liv. I 35; Eutrop. I 6), in origine si tenevano dal 12 al 14 settembre (Dion. Hal. 6, 95) e poi, dopo la morte di Cesare, si celebravano dal 4 al 19 settembre (Cic. Phil. II 4, 3; cfr. in Verr. II 52, 130). Nel corso del tempo, poi, molteplici divennero le occasioni per organizzare nuovi spettacoli, quali le esequie di un personaggio particolarmente importante, la candidatura o l’assunzione di una magistratura, l’inaugurazione di un nuovo edificio sacro, la celebrazione della vittoria o di un trionfo.

Uomo togato. Statua, marmo, c. 20-30 d.C. München, Glyptothek.

Bisogna tenere presente che nella mentalità romana, questi spettacoli non erano un semplice strumento d’intrattenimento e svago, ma costituivano un momento irrinunciabile della vita sociale e politica di ciascun cittadino, che, prendendovi parte, percepiva la propria appartenenza al corpo civico. In età repubblicana, in particolare, la partecipazione in prima persona dei magistrati nell’allestimento dei ludi publici si affermò in relazione all’importanza assunta dall’evergetismo della nobilitas: l’organizzazione delle manifestazioni non era affidata a una singola personalità, ma all’intero collegio magistratuale, il quale riceveva una determinata quota dall’aerarium stanziata appositamente per il finanziamento dei ludi. In genere, la cura degli spettacoli era a carico degli aediles, a eccezione dei ludi Apollinares, che erano di competenza del praetor urbanus (Liv. XXVI 23, 3). Ciononostante, soprattutto in occasione delle elezioni politiche, un magistrato era libero di intervenire personalmente nell’organizzazione degli eventi, investendo cospicue somme impensa sua per accrescere la propria popolarità e attirarsi il favore dell’elettorato. In questo modo, la rappresentazione più costosa e gli apparati più complessi garantivano all’editor ludorum l’opportunità di mostrare ai concittadini la propria generosità e l’idoneità ad ambire a cariche pubbliche superiori. A tal proposito, in età tardo repubblicana, questo valore attribuito agli spettacoli trovò largo favore presso i populares, tra i quali spiccava Gaio Giulio Cesare (Suet. Iul. 10).

Scena di frumentatio («distribuzione di pane») da parte di un candidato a una magistratura. Affresco (particolare), ante 79, da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Tra le manifestazioni che esercitavano una notevole attrattiva sulle masse molto apprezzati erano i ludi circenses, le gare dei carri trainati da una o due coppie di cavalli (bigae o quadrigae). Il luogo più grande e famoso di Roma in cui si tenevano le corse era il Circo Massimo, posto un in avvallamento tra il Palatino e l’Aventino (Liv. I 35, 8; Eutrop. I 6). In origine, come per spettacoli di altro tipo, non era un edificio in muratura: le competizioni avevano luogo in un circuito (circus) ellissoidale appositamente allestito in una zona pianeggiante della città e gli spettatori prendevano posto su tribune lignee (furcae). La monumentalizzazione della struttura fu inaugurata da Cesare (Plin. NH XXXVI 102; Suet. Iul. 39, 2) e terminata sotto Augusto (Dion. Hal. III 68, 1-4; Aug. RGDA 19; DCass. XLIX 43, 2; L 10, 3; Vitruv. Arch. I 3, 2; Cassiod. Var. III 51). L’edificio era costruito attorno a una pista (arena) lunga e relativamente stretta (c. 450 × 80 m), divisa al centro nel senso della lunghezza da una barriera (spina). Alle estremità del basamento c’erano due colonnette semicilindriche (metae), sulle quali poggiavano tre coni: ciascuno di essi presentava sulla sommità un uovo di marmo, che richiamava i Dioscuri (Castore e Polluce), protettori dei giochi, e l’uovo orfico, metafora del cosmo diviso tra luce e oscurità; la piattaforma, sulla quale erano solitamente eretti piccoli monumenti (sacelli, altari, obelischi), ospitava, infatti, sette figure a forma di uovo (ova) e altrettante figure a forma di delfino (delphini) – chiara allusione a Nettuno Equestre: queste figure venivano tolte da un apposito addetto per indicare il numero di giri compiuti dai concorrenti (cfr. Liv. XLI 27, 6): sette erano le figure, sette erano i giri che i carri dovevano compiere attorno alla spina, come sette erano i pianeti allora conosciuti (cfr. Anth. Pal. I 197; Cassiod. Var. III 51; Isid. Etym. 18, 27-41; Coripp. Iust. I 314-344; Lyd. Mens. 1, 12; 4, 30 Wuench). Sui due lati lunghi paralleli e sul lato stretto semicircolare, l’arena era circondata da file di sedili (loca) per il pubblico (cavea) – con una capienza stimata di 150.000 posti – , sorrette da sostruzioni, gallerie e arcate; l’altro lato stretto era occupato dai cancelli di partenza (carceres), dai quali uscivano i cocchi, che, a destra della spina, dovevano compiere i sette giri in senso antiorario (cfr. Liv. VIII 20, 2). Al di sopra dei carceres c’erano i palchi riservati ai magistrati organizzatori degli eventi.

Rappresentazione del Circo Massimo agli inizi del IV secolo. Illustrazione di J.-C. Golvin.

I ludi circenses erano e sono ancora oggi sinonimo di intrattenimento di massa: stando al poeta Giovenale (Sat. X 77-81), nella Roma del II secolo d.C., iam pridem, ex quo suffragia nulli / vendimus, effudit curas; nam qui dabat olim / imperium, fasces, legiones, omnia, nunc se / continet atque duas tantum res anxius optat, / panem et circenses («Ormai, da quando non si vendono più voti, [il popolino] ha perso ogni interesse; un tempo esso dava tutto, il potere, le insegne, le legioni; adesso lascia fare e due sole cose spasmodicamente desidera, la distribuzione di pane e i giochi del circo»). Quasi le stesse parole in Frontone (Princ. 5, 11): populum Romanum duabus praecipue rebus, annona et spectaculis, teneri («Il popolo romano è dominato da due passioni fondamentali, ovvero le distribuzioni di grano e gli spettacoli»). Il fanatismo per le corse dei carri raggiunse in età imperiale caratteri del tutto simili a quelli dell’attuale tifo calcistico, compresi gli scontri violenti tra supporter delle opposte squadre, l’enorme popolarità dei campioni, i loro guadagni astronomici, ecc. Sul mondo poteva governare un Nerone o un Marco Aurelio, l’Impero poteva essere tranquillamente sconvolto da rivolte e guerre civili, essere minacciato dalle externae gentes, che a Roma, per umili e potenti, liberi o servi, uomini e donne, l’interrogativo più importante era se avrebbe vinto la propria squadra del cuore!

Le tifoserie del circo. Illustrazione di E. Marini.

Questi spettacoli, insomma, erano in epoca imperiale la principale attrazione per la plebe: disprezzati dagli intellettuali (Plin. Ep. IX 6), oltraggiati dai Padri della Chiesa (Tert. Spect. 7-8), furono comunque lo strumento principale attraverso il quale i principes si facevano amare da milioni di persone: per esempio, è noto che Claudio allestì corse dei carri sul colle Vaticano, adornò il Circo Massimo con parapetti di marmo e mete dorate e vi assegnò dei posti riservati ai membri del Senato (Suet. Claud. 21, 2); anche Nerone, tra gli spectaculorum plurima et varia genera che offriva al popolo, non poté esimersi dall’organizzare ludi circenses (Suet. Nero 11, 1). Vitellio, durante il suo brevissimo principato, intensificò la centralità dello spettacolo come sua prassi politica, al punto tale da governare l’Impero secondo il consiglio e il capriccio dei più spregevoli istrioni e aurighi (Suet. Vit. 12, 1).

Auriga. Busto frammentario, avorio, inizi III secolo. London, British Museum.

La documentazione epigrafica sull’effettivo allestimento degli spettacoli è piuttosto scarsa e distribuita in modo disomogeneo e dal punto di vista geografico e dal punto di vista giuridico. Da quanto emerge dalle iscrizioni, sembra che i ludi organizzati dai magistrati municipali non fossero tanto espressione di liberalità e munificenza, quanto piuttosto veri e propri investimenti dovuti per il mantenimento della carica. D’altra parte, il titolo di curator ludorum è attestato in maniera incerta al di fuori di Roma: la preparazione delle manifestazioni era un’impresa tanto grande che persino gli stessi imperatori, talvolta, ne affidavano il disbrigo a funzionari deputati (cfr. Tac. Ann. XIII 22). Nella maggior parte delle città, soprattutto nelle comunità più piccole, pochissimi erano gli uomini abbastanza facoltosi da potersi permettere l’allestimento di ludi circenses o munera gladiatoria. In altri casi, invece, l’importanza dell’organizzazione degli spettacoli, che costituivano senz’altro uno dei momenti più importanti della vita degli editores, è splendidamente illustrata dalle testimonianze archeologiche, ovvero dai mosaici pavimentali delle villae e delle domus dei cittadini più abbienti dell’Impero. Del resto, questo tipo di raffigurazione erano solitamente collocate nelle sale di ricevimento (atrium e triclinium), in modo tale che il dominus potesse mostrare ai propri ospiti gli spettacoli che aveva allestito; e spesso incaricavano i mosaicisti di corredare le immagini di uomini e animali con i loro nomi propri. A ogni modo, dunque, il sistema adottato per l’approntamento degli spettacoli differiva da contesto a contesto ed era condizionato dalle usanze locali e dalle capacità economiche dell‘élite.

Corse coi carri nel circo. Mosaico, II-III sec. da Lugdunum. Fourvière, Musée gallo-romain.

Per esempio, nelle province galliche le architetture deputate alle corse dei carri sono sicuramente attestate a Narbo, Arelate, Vienna, Lugdunum e Mediolanum Santonum, tutte metropoli epigraficamente ricche. Il fatto che solo tre iscrizioni – da Narbo (EAOR 5, 1), Arelate (CIL XII 670) e Lugdunum (CIL XIII 1921) – menzionino eventi circensi, tutti privatamente sovvenzionati, testimonia forse che l’allestimento dei giochi fosse una pratica istituzionalizzata, una regolare mansione dei magistrati superiori. Le province iberiche, invece, forniscono testimonianze più numerose: le competizioni dei cocchi sono documentate in circa venti centri urbani, molti dei quali erano cittadine, dove però non sono state rivenute vestigia di stadi e ippodromi: per esempio, a Tucci in Baetica, dove nel corso del II secolo il flamen coloniarum immunium Lucio Lucrezio Fulviano (CIL II 1663) e il duovir Marco Valerio Marcello (CIL II 1685) impensa sua diedero giochi del circo. Queste testimonianze rivelano che in località simili, sebbene non vi fossero edifici monumentali appositi, gli sponsores facevano allestire gli eventi in spazi aperti; inoltre, la portata ridotta e i costi contenuti degli spettacoli, tenuti di solito per l’inaugurazione di un monumento o per altre speciali occasioni, possono spiegare la poca frequenza con cui venivano organizzati. Quasi paradossalmente, invece, le grandi capitali provinciali, come Tarraco, pur disponendo di imponenti edifici circensi, non hanno restituito alcun documento ufficiale che registri un solo evento sportivo.

Corsa dei carri nel circo. Bassorilievo, marmo, III sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

In origine, a disputare le gare erano i giovani patrizi; con il tempo, però, la dignitas della nobiltà impedì ai rampolli delle gentes di esibirsi in pubblico, partecipando attivamente ai ludi. Così, per questo genere di manifestazioni, venivano assunti aurighi professionisti di bassa estrazione sociale, addestrati e specializzati, in grado di soddisfare le esigenze dei ludi circenses. L’aumento delle gare dei carri innalzò gli standard, favorì la competizione e incrementò la qualità nell’allenamento di cavalli e conducenti.

Auriga con quadriga. Rilievo, marmo, fine III secolo da un sarcofago. Roma, Villa Albani.

Agli inizi del Principato, degli uomini d’affari di classe equestre, detti domini factionum, noleggiavano le bestie e il personale di servizio a coloro che organizzavano gli spettacoli (editores ludorum): con il tempo, i domini delle squadre si resero conto del proprio potere e che senza il loro lavoro, gli sponsores non potevano offrire i giochi (cfr. Plin. NH X 34; DCass. LV 10; Suet. Nero 22; HA Comm. 16, 9).

Durante le competizioni gli aurighi guidavano i cavalli stando ritti sui cocchi, vestiti dei colori delle squadre (factiones) in lizza, la cui comparsa è stimata entro la fine del II secolo a.C.; le fazioni, organizzate in vere e proprie società sportive, erano quattro: la bianca (albata), la rossa (russata), la verde (prasina) e l’azzurra (veneta). I colori rispondevano a un preciso significato: il bianco richiamava all’inverno ed era consacrato agli Zeffiri; il rosso era il simbolo dell’estate ed era posto sotto la protezione di Marte; il verde era dedicato alla primavera e alla Madre Tellus; l’azzurro, rappresentante l’autunno, era consacrato a Nettuno (Cassiod. Var. III 51, 5). Era ben nota la preferenza di alcuni imperatori verso un particolare club: Vitellio e Caracalla furono tifosi degli Azzurri (cfr. Suet. Vit. 7, 1; DCass. LXXVIII 1, 2; 9, 7; 10, 1; 17, 4), Caligola , Nerone e Elagabalo dei Verdi (Suet. Cal. 55, 2; Nero 22, 1; SHA Elag. 19, 2) – i preferiti anche del poeta Marziale. Come accade in certe città italiane di oggi, che dispongono di due squadre calcistiche, dove il tifo per l’una o per l’altra ha anche una connotazione di “distinzione” o di “volgarità”, nella Roma imperiale la preferenza verso la prasina factio era per i “popolari”, mentre quella per la veneta era da aristocratici: per esempio, Trimalcione, dopo essersi arricchito, parteggia per gli Azzurri e sfotte gli amici più umili che tengono per i Verdi (Petr. Sat. LXX 10, 13). Vitellio fece condannare a morte dei plebei che avevano gridato: «Abbasso gli Azzurri!» (Suet. Vit. 14). Giovenale (XI 197 ss.) scrive che, se i Verdi perdevano, l’Urbe intera piombava in una disperazione tale da superare quella anticamente provata per la disfatta di Canne!

Gli aurighi delle quattro factiones (veneta, russata, albata e prasina). Pannelli di mosaico, c. III secolo. Roma, Museo di P.zzo Massimo alle Terme.

Come accade nelle moderne società atletiche, non era insolito che gli aurighi cambiassero squadra, come testimonia l’iscrizione di Sesto Vistilio Eleno (AE 2001, 268), vissuto nel I secolo: il documento offre l’istantanea di un aspirante campione, un florens puer, la cui carriera fu tragicamente spezzata da una morte prematura: il ragazzo si era appena trasferito dalla factio prasina, dov’era allenato da Orfeo, a quella veneta, dove sarebbe stato preparato da Datileo, quando morì improvvisamente all’età di 13 anni.

Come sembra suggerire l’epigrafe, le factiones dovevano disporre di “manager” o “talent-scout” (doctores), che garantivano questi trasferimenti; inoltre, lascia pensare che molti cocchieri iniziassero la loro carriera sportiva in età precocissima – come testimonia anche il titulus funerario di Crescente, un agitator factionis venetae di origine mauritana (CIL VI 10050).

Auriga africano. Statuetta, bronzo, c. II secolo, da Altrier. Luxembourg, Musée national d’histoire et d’art.

Indubbiamente le factiones investivano ingenti capitali per assumere gli atleti più capaci, tanto quanto ne spendevano per acquistare i cavalli migliori alla corsa – solitamente comprati in Sicilia, in Italia meridionale, in Nord Africa e nella Penisola iberica. Per la cura delle bestie e la preparazione delle corse ogni “scuderia” poteva contare su una squadra di specialisti (cfr. CIL VI 10074-10076: aurigae, conditoresi, succonditores, sellarii, sutores, sarcinatores, medici, magistri, doctores, viatores, vilici, tentores, sparsores, hortatores). Prima delle gare, gli agitatores e i loro assistenti annusavano lo sterco dei cavalli per controllare se avessero digerito bene e se le biade fossero state opportunamente bilanciate.

La scomparsa prematura degli aurighi Eleno e Crescente testimonia la natura rischiosa di questo sport, nonché la considerazione in cui erano tenuti dal popolino come dispensatori di buona sorte o, addirittura, fattucchieri. Gli agitatores, come mostrano le fasces nelle rappresentazioni scultoree e musive, erano soliti legarsi le redini in vita: ciò aumentava non solo la manovrabilità del cocchio ma anche il rischio di essere trascinati a terra, con gravi lesioni, persino mortali, in caso d’incidente. Sebbene le cause del decesso degli aurighi non siano solitamente riportate sui tituli (a eccezione, p. es., di CIL VI 10049), i pericoli della pista sono chiaramente evidenziati dalle fonti letterarie (p. es., Cic. resp. II 68) e dalla descrizione dei rimedi medici per le ferite riportate (Plin. NH XXVIII 237). La fortuna (e non solo l’abilità) che avevano nel guidare i loro cocchi a tutta velocità, soprattutto nei punti più difficili dell’arena, suscitava un certo fascino nelle tifoserie.

Scena di trionfo dell’auriga della factio veneta. Mosaico, c. III secolo. Madrid, Museo Arqueológico Nacional.

I conducenti dei carri, e più ancora i loro cavalli, erano oggetto di chiacchiera ed erano gli idoli della folla, che, durante le corse, viveva momenti di puro delirio. Alcuni celebri aurighi, oltre a essere elogiati per le loro imprese, erano spesso invidiati: Scorpo, il più famoso cocchiere di età flavia (clamorosi gloria circi), morì all’età di 27 anni, dopo aver totalizzato ben 2.048 vittorie ed essersi classificato nella categoria dei miliarii (Mart. X 53); inoltre, Scorpo guadagnava 15 sacci d’oro all’ora (Mart. X 74). Quand’era ancora in vita, l’auriga Publio Elio Gutta Calpurniano aveva fatto innalzare per sé, verso la metà del II secolo, un monumento sormontato dalle statue dei suoi cavalli preferiti, corredate con i loro nomi. In una dettagliata iscrizione (CIL VI 10047) egli fece elencate le vittorie 1.127 conseguite per le quattro factiones. Per esempio, con Victor («il Vincitore»), un sauro, Calpurniano vinse 429 volte per la squadra verde (prasina): il nome benaugurale del cavallo indica probabilmente che si trattava quello di testa (equus funalis), cioè posto alla sinistra del carro; dalla sua abilità nella curva circum metas dipendeva il successo di ogni virata. Il clou della gara, infatti, era proprio il giro attorno alle metae: l’auriga, per fare la curva più stretta possibile e guadagnare tempo sui rivali, nel girare doveva cercare di rasentare le colonnie, evitando però di far ribaltare il cocchio (cfr. Varr. l. L. V 153, 3). Nell’elencare i suoi trionfi Calpurniano ha voluto distinguerli in base alla tipologia: per esempio, a pompa, cioè direttamente dopo il corteo inaugurale; o equorum anagonum, ossia con cavalli che non avevano mai corso prima. Alcuni anni dopo Calpurniano, Gaio Appuleio Diocle, agitator factionis russatae di origini lusitane, divenne la star del circo e uno tra gli atleti più pagati dell’antichità (ottenne una fortuna di circa 36.000.000 di sesterzi!): i suoi amici gli dedicarono una statua per commemorarne le vittorie. Stando all’iscrizione (CIL VI 10048; cfr. XIV 2884), l’auriga iniziò la sua carriera a 18 anni e si ritirò dalle corse a 42: in questo lasso di tempo, egli prese parte a 4.257 competizioni e ne vinse ben 1.462. L’elevato numero di gare disputate a Roma, in particolare, dimostra che i conduttori dei carri più abili partecipavano a più di una corsa al giorno.

Scena della corsa dei carri nel Circo Massimo (dettaglio). Mosaico, IV secolo, dalla palestra. Piazza Armerina, Villa del Casale.

Un’iscrizione del 275 (CIL VI 10060) rivela che a quel tempo un auriga poteva arricchirsi a tal punto da diventare egli stesso dominus factionis: è il caso di Claudio Aurelio Polifemo, dominus et agitator factionis russatae di Roma. Simile posizione fu raggiunta da un contemporaneo, un certo Marco Aurelio Libero, originario dell’Africa sahariana, divenuto dominus et agitator factionis prasinae (CIL VI 10058). L’agiatezza materiale e lo status sociale di alcuni atleti potevano aumentare anche grazie alle simpatie che alcuni principes nutrivano nei loro riguardi o ai donativa con cui i sovrani li gratificavano (Suet. Cal. 55, 2-3); si ha notizia di agitatores elevati a importanti uffici pubblici (SHA Elag. 6, 12).

Il maggior numero di tabellae defixionum relative alle attività sportive concerne le corse dei carri: circa un’ottantina di laminette plumbee proviene dai grandi ippodromi di Roma, Cartagine, Hadrumetum, Leptis Magna, Antiochia, Damasco, Apamea, Tiro, a cui va aggiunta un’ampia silloge da Caesarea. Siccome si trattava di manifestazioni che attiravano migliaia di persone, il cui malcontento poteva minacciare la stabilità di un princeps, non sorprende che i ludi circenses fossero un argomento privilegiato di maledizione. I conducenti dei carri, difatti, erano tra gli artisti e gli atleti più pagati e adorati (o odiati!) del mondo antico: ciò, unitamente all’aleatorietà e ai pericoli che insidiavano le competizioni, insieme all’ansia di vittoria degli editores e dei tifosi, fece sì che non fosse infrequente ricorrere alla magia nera per danneggiare gli avversari, scoraggiare incidenti e contrastare le imprecazioni dei rivali. Un autore cristiano del IV secolo, Anfilochio di Iconio, nei suoi Iambi ad Seleucum descrive i ludi circenses come γοητείας ἅμιλλαν, οὐχ ἵππων τάχος (v. 179, «una gara di maghi, non una corsa di cavalli»). I testi magici di maledizione relativi alle competizioni dei carri differiscono dalle defixiones per altri sport, in quanto coinvolgevano non solo le abilità e le capacità degli atleti, ma anche quelle dei loro animali. Una tavoletta (Tremel, no. 53) di II-III secolo, rinvenuta nella tomba di un funzionario imperiale in una necropoli di Cartagine, evoca lo spettro del morto affinché paralizzi i cavalli delle squadre avversarie:

Ἐξορκίζω σε ὅστις ποτ’ οὖν εἶ, νεκυδαίμων ἄωρε, κατὰ τ . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . καὶ τὰ . . . . . τα [ὀνό]ματα α . . πων

βρουραβρουρα μαρμαρει μαρμαρει αμαρταμερει απε-

ωρνομ φεκομφθω βαιεψων σαθσαθιεαω . . . . ββαιφρι

ἵνα καταδήσης τοὺς ἵππους τοῦ οὐενέτου καὶ τοῦ συνζύγου

αὐτοῦ πρασίνου . . . . . . . . ]εους σοι [ σεσημειοωμ]ένα ἐν τοῖς θα[λ]α[σσίοις]

ὀστράκοις παρακατατέθηκα ἐν τούτω τῶ σκεύει, Οὐιττᾶτον

Δηρεισῶρε Οὐικτῶρε Ἀρμένιον Νίμβον Τύριον Ἀμορε Πραικλ-

ᾶρον τὸν καὶ Τετραπλὰ Οὐρεῖλε Παρᾶτον Οὐικτῶρε

Ἰμβου]τρί[ουμ] Φονεῖκε Λίκον καὶ τοῦ συνζύγου αὐτοῦ πρα-

σίνου Δάρειον Ἄγιλε Κουπείδινε Πουγιῶνε Πρ-

ετιῶσον Προυνικὸν Δάρδανον Εἴναχον Φλόριδον Πάρδον

Σερουᾶτον Φούλγιδον Οὐικτῶρε Προφίκιον˙ κατά-

<δησον αὐτοῖς δρόμον πόδας νείκην ὁρμὴν ψυχὴν ταχύτη-

τα, ἐκκόψον ἐκνεύρωσον ἐξάρθρωσον αὐτοὺς ἵνα>

δησον αὐτοῖς τὸν δρόμον τὴν δύναμιν τὴν ψυχὴν τὴν ὁρμὴν τ-

ὴν ταχύτητα, ἄφελε αὐτῶν τὴν νείκην, ἐμπόδισον αὐ-

τοῖς τοὺς πόδας, ἐκκόψον ἐκνεύρωσον ἐξάρθρωσον αὐτοὺς ἵνα

μὴ δυνασθῶσιν τῆ αὔριον ἡμέρα ἐλθόντες ἐν

τῶ ἱπποδρόμω μήτε τρέχειν μήτε περιπατεῖν μήτε ν-

εικησαι μηδὲ ἐξελθεῖν τοὺς πυλῶνας τῶν ἱππαφ-

ίων μήτε προβαίνειν τὴν ἀρίαν μήτε τὸν σπάτιον μηδὲ

κυκλεῦσαι τοὺς καμπτῆρας, ἀλλὰ πεσέτωσαν

σὺν τοῖς ἰδίος ἡνιόχοις, Διονυσίω τοῦ οὐενέτου καὶ Λα-

μυρῶ καὶ Ῥεστουτιάνω καὶ τοῦ συνζύγου αὐτοῦ

πρασίνου Πρώτω καὶ Φηλεῖκε καὶ Ναρκίσσω […]

«Io ti supplico, chiunque tu ora sia, spirito di un morto deceduto anzitempo, per (il potere?) […] e […] i nomi […]». [Le ll. 4-5 contengono voces magicae]. «Affinché tu blocchi i cavalli degli Azzurri e quelli dei loro alleati Verdi […], ti affido i loro nomi su cocci marini in questo vaso: Vittatus, Derisor, Victor, Armenios, Nimbus, Tyrios, Amor, Praeclarus Tetraplas, Virilis, Paratus, Victor, Imboutrious, Phoenix, Likos e i cavalli dei loro alleati conducenti dei Verdi: Darius, Agilis, Cupido, Pugio, Pretiosus, Prounicus, Dardanos, Inachos, Floridus, Pardos, Servatus, Fulgidus, Victor, Prophikios; blocca loro la corsa, le zampe, la vittoria, la forza, l’audacia, la velocità, distruggili, falli impazzire, slogali, affinché blocchi loro la corsa, la forza, l’animo, l’audacia, la velocità, togligli la vittoria, ostacola loro le zampe, distruggili, falli impazzire, slogali affinché domani una volta giunti nell’ippodromo non possano correre né muoversi né vincere né lasciare le linee di partenza, non percorrano né l’area né lo spazio né facciano il giro delle mete, ma cadano coi propri cocchieri, Dioniso, Lamuro e Restuziano degli Azzurri e i loro alleati conducenti dei Verdi, Proto, Felice e Narcisso […]».

Scena di incidente tra aurighi (dettaglio). Mosaico, IV secolo, dalla palestra. Piazza Armerina, Villa del Casale. Mosaico.

Talvolta capita che gli atleti non fossero nemmeno menzionati, mentre i nomi dei cavalli venivano elencati in modo meticoloso: in una lunga tabella rinvenuta ad Antiochia (Tremel, no. 11) sono colpiti da imprecazione ben trentasei cavalli della factio veneta – probabilmente l’intera scuderia! In altri casi i nomi degli animali e dei loro conduttori sono intenzionalmente sovrapposti, così da augurare il peggio sia agli uni sia agli altri (cfr. Tremel, no. 18; 26). Ora, tutte le testimonianze suggeriscono che, almeno fino al VII secolo, la magia fosse uno strumento caratteristico delle competizioni equestri, nonostante le disposizioni di legge che minacciavano coloro che praticassero la defixio, e che vi si facesse ricorso non tanto come un disperato, ultimo tentativo di sbarazzarsi degli avversari più tosti, quando piuttosto era de facto (se non de iure) riconosciuto come un sistema efficace per ottimizzare le prestazioni dei concorrenti.

Scena di corsa dei carri. Rilievo funerario, marmo, II secolo. Roma, Museo Laterano.

Già alla fine del III secolo, le riforme politiche e amministrative promosse da Diocleziano, cioè la trasformazione della carica imperiale da unica a collegiale (tetrarchia), la conseguente suddivisione dell’Impero in partes e la moltiplicazione dei palatia con i loro apparati di corte, comportarono un’apparizione (adventus) sempre più rara e sporadica dei sovrani all’interno di Roma, che ormai aveva perso il suo ruolo di capitale e di sede imperiale. In questo contesto, il praefectus Urbi assunse a Roma il ruolo di principale responsabile di ogni aspetto relativo all’organizzazione dei ludi publici, fossero promossi dall’imperatore stesso o allestiti e finanziati direttamente dai magistrati cittadini. Rispetto al passato, comunque, l’ormai consolidata pratica di indire grandiosi eventi pubblici in occasione dell’entrata in carica non si configurava più come un atto spontaneo di evergetismo, ma come un vero e proprio obbligo sancito dalla legge a partire dall’epoca di Costantino (CTh. VI 4, 1-2). Quei magistrati che, essendo dotati di una limitata disponibilità economica, non erano in grado di competere con gli sponsores più facoltosi né di sobbarcarsi investimenti maggiori per la cura dei ludi, erano colpiti da pesanti sanzioni: essi dovevano corrispondere il pagamento alla città di un’ammenda pari a 50.000 modii di grano (CTh. IV 7; 11; VI 4) e rimborsare ai funzionari (censuales) le spese di cui si erano fatti carico per garantire comunque lo svolgimento degli eventi in programma (CTh. VI 4, 6). Nonostante l’onere finanziario, grandiosi spettacoli continuarono a essere celebrati dagli esponenti più abbienti dell’aristocrazia senatoria, che facevano letteralmente a gara nel proporre allestimenti sempre più costosi: nell’ottica delle famiglie più in vista di Roma, l’investimento di ingenti quantità di denaro per i ludi era uno strumento privilegiato non solo per ostentare la propria capacità patrimoniale, ma anche per ottenere visibilità e prestigio, ribadendo la propria posizione politica e sociale (Symm. Ep. IV 58, 2).

Scene di corse con i carri. Dittico dei Lampadii (Flavio Lampadio), avorio, VI secolo. Brescia, Museo di S. Giulia.

Contemporaneamente, la fondazione di più sedi imperiali ebbe l’effetto di moltiplicare le factiones circensi, che cominciarono ad assumere via via un peso socialmente e politicamente maggiore fino a divenire veri e propri gruppi di pressione: nel corso del IV secolo, in particolare, il circus si configurò come luogo privilegiato di interazione tra gli stessi sovrani e i loro sudditi. L’importanza assunta dai giochi equestri e dall’edificio nel quale essi avevano luogo è chiaramente testimoniata da Ammiano Marcellino (XXVIII 4, 29): hi omne, quod vivunt, vino et tesseris inpendunt et lustris et voluptatibus et spectaculis: eisque templum et habitaculum et contio et cupitorum spes omnis Circus est maximus: et videre licet per fora et compita et plateas et conventicula circulos multos collectos in se controversis iurgiis ferri, aliis aliud, ut fit, defendentibus («Costoro [= gli abitanti dell’Urbe] consacrano tutta la vita al vino, ai dadi, ai bordelli, ai piaceri e agli spettacoli; per loro il Circo Massimo è il tempio, la casa, l’assemblea e la meta dei loro desideri. È possibile vedere nei fori, nei trivi, nelle piazze e nei luoghi di riunione molti gruppi in preda a contrasti, poiché, chi sostiene, com’è naturale, una tesi, chi un’altra»). Non di rado, tale trasformazione fu spesso causa di drammatici eventi.

Scena di preparazione degli aurighi ai carceres del Circo Massimo. Mosaico, IV secolo, dalla palestra. Piazza Armerina, Villa del Casale.

Nel 390 a Tessalonica il magister militum per Illyricum Buterico, in ottemperanza alle severe disposizioni in materia di fornicazione contro natura (CTh. IX 7, 6), ordinò l’arresto di un celebre cocchiere, colpevole di aver violentato un giovane coppiere. Il rifiuto opposto dal comandante alla richiesta di scarcerazione dell’atleta, particolarmente amato dal popolo, fece scoppiare una violenta sommossa che costò la vita allo stesso Buterico e ad altri ufficiali; probabilmente la rivolta fu promossa dal partito anti-gotico, che si opponeva alla politica imperiale dell’hospitalitas (Soz. HE VII 25, 3; Ruf. HE II 18; Theod. HE V 17; Zon. XIII 8). Com’è noto, l’incidente suscitò la collera di Teodosio, che, intenzionato a punire duramente l’affronto, non avviò alcuna inchiesta contro i colpevoli, ma pianificò accuratamente la propria vendetta: con la scusa di dare giochi nel circo, l’imperatore fece affluire la cittadinanza all’ippodromo per poi far intervenire l’esercito e massacrare la folla (Theod. HE V 18, 10). Forse per l’intercessione di Ambrogio, vescovo di Mediolanum, Teodosio sarebbe tornato sui suoi passi e avrebbe accarezzato l’idea di una revoca dell’ordine brutale (Ambros. Ep. 51, 3); tuttavia, quando la revoca fu inviata, l’eccidio era già stato compiuto, lasciando nell’arena 7.000 corpi esanimi e suscitando uno scandalo in tutto l’Impero (Ambros. Ep. 51, 6; ob Theod. 34; Paul. v. Ambros. 24; August. civ. Dei V 26; Theod. HE V 17, 3). Un altro episodio notevole dell’età tardoantica è quello che ebbe per protagonista Porfirio Calliopa, celebre auriga della squadra verde di Antiochia: nel 507, al tempo dell’imperatore Anastasio, durante la celebrazione dell’ennesima vittoria nella località di Dafne, l’atleta incitò i tifosi del circo alla violenza contro la comunità ebraica; la folla assaltò la sinagoga, ne massacrò i fedeli raccolti in preghiera, ne depredò i paramenti sacri e la diede alle fiamme; l’edificio fu poi convertito in una chiesetta per commemorare il martirio di San Leonzio (JoMal. Chron. XVI 5, 396).

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L’«heroon» di Lefkandi

da F. PESANDO, L’Eubea, in E. GRECO (ed.), La città greca antica: istituzioni, società e forme urbane, Roma 1999, 99-102 [con modifiche].

Le testimonianze archeologiche confermano sempre più un precoce sviluppo dell’isola di Eubea agli albori dell’età geometrica. Presso il moderno villaggio di Lefkandi, in località Toumba (toponimo greco simmetrico del termine arabo tell, cioè collina artificiale), agli inizi degli anni Ottanta, è stata infatti messa in luce una ricca necropoli organizzata intorno a un gigantesco edificio interrato immediatamente dopo la sua costruzione, databile tra il 1000 e il 950 a.C.

Necropoli di Toumba (Lefkandi, Eubea). Planimetria a disegno in Antonaccio 2002, 18, da Kalligas 1988, 231.

Questo edificio si configura come un palazzo funerario, strutturato sul modello dell’abitazione più importante dell’epoca, cioè la residenza di un basiléus; delle regge di quel periodo – archeologicamente note solo da scarsi resti, ma in parte ricostruibili sulla base di numerosi riferimenti in Omero – l’edificio di Toumba riproduce l’articolazione canonica (m 45×10).

Heroon di Lefkandi. Veduta assonometrica (Popham-Sackett 1993).

La forma scelta per la costruzione presenta il lato corto di fondo absidato, preceduto da due vasti ambienti, corrispondenti a quelli che nell’architettura domestica erano il pròdromos (vestibolo, spesso dotato di un portico di legno compreso fra le ante) e il mègaron (la sala del focolare, utilizzata per tutte le cerimonie ufficiali del sovrano); nella stanza absidata, occupata nell’edificio di Toumba da grandi pithoi (recipienti) destinati alle offerte funebri, occorre riconoscere la sede del thàlamos (la stanza nuziale). Rimane incerto se l’edificio sia sorto come palazzo funerario o se, dopo aver funzionato come vera e propria reggia, sia stato trasformato in sepolcro (heroon) solo in seguito alla scomparsa del basilèus che vi aveva dimorato. In ogni caso, entrambe le ipotesi sono destinate a restare senza verifica, poiché secondo un triste destino cui sono spesso soggette le scoperte archeologiche, il mègaron fu quasi completamente distrutto dalla ruspa manovrata dal proprietario del terreno.

Heroon di Lefkandi. Planimetria in De Waele 1998, 381.

L’altissimo rango del personaggio sepolto nel palazzo funerario di Toumba emerge dalla tipologia delle sepolture e dalla straordinaria qualità degli oggetti in esse ritrovati. Due le deposizioni scoperte, una femminile a inumazione e una maschile a incinerazione; accanto alle due tombe venne ritrovata anche una grande fossa contenente i resti di quattro cavalli, tutti provvisti di morsi. Nella tomba maschile le ceneri del defunto, avvolte in una stoffa secondo una ritualità funeraria ben nota da Omero, vennero collocate in un’anfora di bronzo di fabbricazione cipriota e con orlo decorato da una teoria di leoni, vecchia di un secolo rispetto all’età in cui venne sepolto il basilèus; se nulla di preciso possiamo dire riguardo alle modalità con cui essa giunse in Eubea, la sua presenza indica comunque la ricchezza dei contatti fra quest’isola e aree geografiche situate anche a considerevole distanza, e ci lascia forse intravedere i contorni di quell’ideologia del dono fra re che costituisce un tratto caratteristico della civiltà omerica. Al corredo maschile appartenevano inoltre una spada, un rasoio, una cote e alcuni elementi in ferro, segno che il possesso e la lavorazione di questo metallo erano ancora sentiti come estremamente importanti nella società dell’epoca.

Sepolture dall’heroon di Lefkandi. Ricostruzione a disegno da Domínguez 2005, 212.

Molto ricca era anche la sepoltura femminile: la donna era abbigliata in modo particolarmente raffinato, con al collo una collana d’oro e due dischi di bronzo inseriti nell’abito funerario in corrispondenza del seno, mentre accanto alla testa era deposto un coltello di ferro con la punta rivolta verso l’alto. Impressionanti sono le analogie riscontrabili fra queste sepolture e i riti funerari eroici descritti dall’epica omerica; a quei riti riconducono infatti la presenza dei cavalli immolati, la cremazione dell’uomo, segno distintivo dell’eroe, l’uso di avvolgere le ceneri del defunto in un tessuto prezioso e, infine, l’inumazione della donna, nella quale la caratteristica più singolare è costituita dalla presenza del coltello collocato all’altezza del collo.

Per quanto concerne quest’ultimo aspetto, gli scopritori riconoscono nell’inumazione femminile la possibile testimonianza di un’autoimmolazione: la donna si sarebbe comportata come una suttee della tradizione induista e come molte «eroine tragiche» ricordate dalla tradizione mitica greca (per esempio, Soph. Trach. 718-720; Euripid. Supp. 1019-1021). Tuttavia, la forma del suicidio scelto (per lacerazione, come suggerirebbe la presenza del coltello) non è quella tipica della sfera femminile, che prevede in genere lo strangolamento per impiccagione (su questo punto cfr. Loraux 1988). Ciò che invece sembra evocare questa deposizione è il sacrificio umano compiuto presso le tombe degli eroi. Molto esplicitamente Omero ricorda  che nel corso dei funerali di Patroclo, oltre ai cavalli e ai cani, vennero uccisi dodici giovani troiani; ma il paragone più stringente con quanto documentato dal palazzo funerario di Toumba è fornito da brani tragici e da fonti mitografiche tarde in cui viene descritta la morte di Polissena, la più giovane fra le figlie di Priamo sgozzata da Neottolemo sul tumulo di Achille come parte dell’onore che spettava al grande eroe acheo dopo la conquista di Troia (Euripid. Ecub. 534-541; 557-567; Apollod. Epit. V 23).

Pittore del Gruppo Tirrenico. Sacrificio di Polissena. Anfora attica a figure nere, c. 570-550 a.C. dall’Italia. London, British Museum.

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