L’«heroon» di Lefkandi

da F. PESANDO, L’Eubea, in E. GRECO (ed.), La città greca antica: istituzioni, società e forme urbane, Roma 1999, 99-102 [con modifiche].

Le testimonianze archeologiche confermano sempre più un precoce sviluppo dell’isola di Eubea agli albori dell’età geometrica. Presso il moderno villaggio di Lefkandi, in località Toumba (toponimo greco simmetrico del termine arabo tell, cioè collina artificiale), agli inizi degli anni Ottanta, è stata infatti messa in luce una ricca necropoli organizzata intorno a un gigantesco edificio interrato immediatamente dopo la sua costruzione, databile tra il 1000 e il 950 a.C.

Necropoli di Toumba (Lefkandi, Eubea). Planimetria a disegno in Antonaccio 2002, 18, da Kalligas 1988, 231.

Questo edificio si configura come un palazzo funerario, strutturato sul modello dell’abitazione più importante dell’epoca, cioè la residenza di un basiléus; delle regge di quel periodo – archeologicamente note solo da scarsi resti, ma in parte ricostruibili sulla base di numerosi riferimenti in Omero – l’edificio di Toumba riproduce l’articolazione canonica (m 45×10).

Heroon di Lefkandi. Veduta assonometrica (Popham-Sackett 1993).

La forma scelta per la costruzione presenta il lato corto di fondo absidato, preceduto da due vasti ambienti, corrispondenti a quelli che nell’architettura domestica erano il pròdromos (vestibolo, spesso dotato di un portico di legno compreso fra le ante) e il mègaron (la sala del focolare, utilizzata per tutte le cerimonie ufficiali del sovrano); nella stanza absidata, occupata nell’edificio di Toumba da grandi pithoi (recipienti) destinati alle offerte funebri, occorre riconoscere la sede del thàlamos (la stanza nuziale). Rimane incerto se l’edificio sia sorto come palazzo funerario o se, dopo aver funzionato come vera e propria reggia, sia stato trasformato in sepolcro (heroon) solo in seguito alla scomparsa del basilèus che vi aveva dimorato. In ogni caso, entrambe le ipotesi sono destinate a restare senza verifica, poiché secondo un triste destino cui sono spesso soggette le scoperte archeologiche, il mègaron fu quasi completamente distrutto dalla ruspa manovrata dal proprietario del terreno.

Heroon di Lefkandi. Planimetria in De Waele 1998, 381.

L’altissimo rango del personaggio sepolto nel palazzo funerario di Toumba emerge dalla tipologia delle sepolture e dalla straordinaria qualità degli oggetti in esse ritrovati. Due le deposizioni scoperte, una femminile a inumazione e una maschile a incinerazione; accanto alle due tombe venne ritrovata anche una grande fossa contenente i resti di quattro cavalli, tutti provvisti di morsi. Nella tomba maschile le ceneri del defunto, avvolte in una stoffa secondo una ritualità funeraria ben nota da Omero, vennero collocate in un’anfora di bronzo di fabbricazione cipriota e con orlo decorato da una teoria di leoni, vecchia di un secolo rispetto all’età in cui venne sepolto il basilèus; se nulla di preciso possiamo dire riguardo alle modalità con cui essa giunse in Eubea, la sua presenza indica comunque la ricchezza dei contatti fra quest’isola e aree geografiche situate anche a considerevole distanza, e ci lascia forse intravedere i contorni di quell’ideologia del dono fra re che costituisce un tratto caratteristico della civiltà omerica. Al corredo maschile appartenevano inoltre una spada, un rasoio, una cote e alcuni elementi in ferro, segno che il possesso e la lavorazione di questo metallo erano ancora sentiti come estremamente importanti nella società dell’epoca.

Sepolture dall’heroon di Lefkandi. Ricostruzione a disegno da Domínguez 2005, 212.

Molto ricca era anche la sepoltura femminile: la donna era abbigliata in modo particolarmente raffinato, con al collo una collana d’oro e due dischi di bronzo inseriti nell’abito funerario in corrispondenza del seno, mentre accanto alla testa era deposto un coltello di ferro con la punta rivolta verso l’alto. Impressionanti sono le analogie riscontrabili fra queste sepolture e i riti funerari eroici descritti dall’epica omerica; a quei riti riconducono infatti la presenza dei cavalli immolati, la cremazione dell’uomo, segno distintivo dell’eroe, l’uso di avvolgere le ceneri del defunto in un tessuto prezioso e, infine, l’inumazione della donna, nella quale la caratteristica più singolare è costituita dalla presenza del coltello collocato all’altezza del collo.

Per quanto concerne quest’ultimo aspetto, gli scopritori riconoscono nell’inumazione femminile la possibile testimonianza di un’autoimmolazione: la donna si sarebbe comportata come una suttee della tradizione induista e come molte «eroine tragiche» ricordate dalla tradizione mitica greca (per esempio, Soph. Trach. 718-720; Euripid. Supp. 1019-1021). Tuttavia, la forma del suicidio scelto (per lacerazione, come suggerirebbe la presenza del coltello) non è quella tipica della sfera femminile, che prevede in genere lo strangolamento per impiccagione (su questo punto cfr. Loraux 1988). Ciò che invece sembra evocare questa deposizione è il sacrificio umano compiuto presso le tombe degli eroi. Molto esplicitamente Omero ricorda  che nel corso dei funerali di Patroclo, oltre ai cavalli e ai cani, vennero uccisi dodici giovani troiani; ma il paragone più stringente con quanto documentato dal palazzo funerario di Toumba è fornito da brani tragici e da fonti mitografiche tarde in cui viene descritta la morte di Polissena, la più giovane fra le figlie di Priamo sgozzata da Neottolemo sul tumulo di Achille come parte dell’onore che spettava al grande eroe acheo dopo la conquista di Troia (Euripid. Ecub. 534-541; 557-567; Apollod. Epit. V 23).

Pittore del Gruppo Tirrenico. Sacrificio di Polissena. Anfora attica a figure nere, c. 570-550 a.C. dall’Italia. London, British Museum.

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Riferimenti bibliografici:

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Nerone fa uccidere Agrippina Minore (Tac. Ann. XIV 3-8)

Marzo 59: Nerone decide di uccidere la madre: prima tenta di far naufragare la nave su cui Agrippina faceva ritorno ad Anzio dalla Campania, dove aveva incontrato il figlio; poi, fallito il falso incidente, l’imperatore ordina a dei sicari di recarsi nella sua villa e di eliminarla.

Nerone Claudio Cesare Augusto Germanico. Aureus, Roma c. 55. Ar. 7,60 g. Recto: Nero Claud(ius) Divi f(ilius) Caes(ar) Aug(ustus) Germ(anicus) imp(erator) tr(ibunicia) p(otestate) co(n)s(ul). Busti drappeggiati dell’imperatore e di sua madre, voltati a destra.

[3, 1] Igitur Nero vitare secretos eius congressus, abscedentem in hortos aut Tusculanum vel Antiatem in agrum laudare, quod otium capesseret. postremo, ubicumque haberetur, praegravem ratus interficere constituit, hactenus consultans, veneno an ferro vel qua alia vi. placuitque primo venenum. [2] sed inter epulas principis si daretur, referri ad casum non poterat tali iam Britannici exitio; et ministros temptare arduum videbatur mulieris usu scelerum adversus insidias intentae; atque ipsa praesumendo remedia munierat corpus. ferrum et caedes quonam modo occultaretur, nemo reperiebat; et ne quis illi tanto facinori delectus iussa sperneret metuebat. [3] obtulit ingenium Anicetus libertus, classi apud Misenum praefectus et pueritiae Neronis educator ac mutuis odiis Agrippinae invisus. ergo navem posse componi docet, cuius pars ipso in mari per artem soluta effunderet ignaram: nihil tam capax fortuitorum quam mare; et si naufragio intercepta sit, quem adeo iniquum, ut sceleri adsignet, quod venti et fluctus deliquerint? additurum principem defunctae templum et aras et cetera ostentandae pietati.

[4, 1] Placuit sollertia, tempore etiam iuta, quando Quinquatruum festos dies apud Baias frequentabat. illuc matrem elicit, ferendas parentium iracundias et placandum animum dictitans, quo rumorem reconciliationis efficeret acciperetque Agrippina, facili feminarum credulitate ad gaudia. [2] venientem dehinc obvius in litora (nam Antio adventabat) excepit manu et complexu ducitque Baulos. id villae nomen est, quae promunturium Misenum inter et Baianum lacum flexo mari adluitur. [3] stabat inter alias navis ornatior, tamquam id quoque honori matris daretur: quippe sueverat triremi et classiariorum remigio vehi. ac tum invitata ad epulas erat, ut occultando facinori nox adhiberetur. [4] satis constitit extitisse proditorem, et Agrippinam auditis insidiis, an crederet ambiguam, gestamine sellae Baias pervectam. ibi blandimentum sublevavit metum: comiter excepta superque ipsum collocata. iam pluribus sermonibus, modo familiaritate iuvenili Nero et rursus adductus, quasi seria consociaret, tracto in longum convictu, prosequitur abeuntem, artius oculis et pectori haerens, sive explenda simulatione, seu pe[ri]turae matris supremus adspectus quamvis ferum animum retinebat.

[5, 1] Noctem sideribus inlustrem et placido mari quietam quasi convincendum ad scelus dii praebuere. nec multum erat progressa navis, duobus e numero familiarium Agrippinam comitantibus, ex quis Crepereius Gallus haud procul gubernaculis adstabat, Acerronia super pedes cubitantis reclinis paenitentiam filii et recuperatam matris gratiam per gaudium memorabat, cum dato signo ruere tectum loci multo plumbo grave, pressusque Crepereius et statim exanimatus est: Agrippina et Acerronia eminentibus lecti parietibus ac forte validioribus, quam ut oneri cederent, protectae sunt. [2] nec dissolutio navigii sequebatur, turbatis omnibus et quod plerique ignari etiam conscios impediebant. visum dehinc remigibus unum in latus inclinare atque ita navem submergere; sed neque ipsis promptus in rem subitam consensus, et alii contra nitentes dedere facultatem lenioris in mare iactus. [3] verum Acerronia, imprudentia dum se Agrippinam esse utque subveniretur matri principis clamitat, contis et remis et quae fors obtulerat navalibus telis conficitur. Agrippina silens eoque minus agnita (unum tamen vulnus umero excepit) nando, deinde occursu lenunculorum Lucrinum in lacum vecta villae suae infertur.

[6, 1] Illic reputans ideo se fallacibus litteris accitam et honore praecipuo habitam, quodque litus iuxta, non ventis acta, non saxis impulsa navis summa sui parte veluti terrestre machinamentum concidisset, observans etiam Acerroniae necem, simul suum vulnus adspiciens, solum insidiarum remedium esse [sensit], si non intellegerentur; [2] misitque libertum Agermum, qui nuntiaret filio benignitate deum et fortuna eius evasisse gravem casum; orare ut quamvis periculo matris exterritus visendi curam differret; sibi ad praesens quiete opus. [3] atque interim securitate simulata medicamina vulneri et fomenta corpori adhibet; testamentum Acerroniae requiri bonaque obsignari iubet, id tantum non per simulationem.

[7, 1] At Neroni nuntios patrati facinoris opperienti adfertur evasisse ictu levi sauciam et hactenus adito discrimine, ‹ne› auctor dubitaret‹ur›. [2] tum pavore exanimis et iam iamque adfore obtestans vindictae properam, sive servitia armaret vel militem accenderet, sive ad senatum et populum pervaderet, naufragium et vulnus et interfectos amicos obiciendo: quod contra subsidium sibi, nisi quid Burrus et Seneca? ‹expurgens› quos statim acciverat, incertum an et ante ignaros. [3] igitur longum utriusque silentium, ne inriti dissuaderent, an eo descensum credebant, ‹ut›, nisi praeveniretur Agrippina, pereundum Neroni esset. post Seneca hactenus promptius, ‹ut› respiceret Burrum ac s‹c›iscitaretur, an militi imperanda caedes esset. [4] ille praetorianos toti Caesarum domui obstrictos memoresque Germanici nihil adversus progeniem eius atrox ausuros respondit: perpetraret Anicetus promissa. [5] qui nihil cunctatus poscit summam sceleris. ad eam vocem Nero illo sibi die dari imperium auctoremque tanti muneris libertum profitetur: iret propere duceretque promptissimos ad iussa. [6] ipse audito venisse missu Agrippinae nuntium Agermum, scaenam ultro criminis parat, gladiumque, dum mandata perfert, abicit inter pedes eius, tum quasi deprehenso vincla inici iubet, ut exit‹i›um principis molitam matrem et pudore deprehensi sceleris sponte mortem sumpsisse confingeret.

[8, 1] Interim vulgato Agrippinae periculo, quasi casu evenisset, ut quisque acceperat, decurrere ad litus. hi molium obiectus, hi proximas scaphas scandere; alii, quantum corpus sinebat, vadere in mare; quidam manus protendere. questibus votis clamore diversa rogitantium aut incerta respondentium omnis ora compleri; adfluere ingens multitudo cum luminibus, atque ubi incolumem esse pernotuit, ut ad gratandum sese expedire, donec adspectu armati et minitantis agminis deiecti sunt. [2] Anicetus villam statione circumdat refractaque ianua obvios servorum abripit, donec ad fores cubiculi veniret; cui pauci adstabant, ceteris terrore inrumpentium exterritis. [3] cubiculo modicum lumen inerat et ancillarum una, magis ac magis anxia Agrippina, quod nemo a filio ac ne Agermus quidem: aliam fore laetae rei faciem; nunc solitudinem ac repentinos strepitus et extremi mali indicia. [4] abeunte dehinc ancilla: «Tu quoque me deseris?» prolocuta respicit Anicetum, trierarcho Herculeio et Obarito centurione classiario comitatum: ac si ad visendum venisset, refotam nuntiaret, sin facinus patraturus, nihil se de filio credere; non imperatum parricidium. [5] circumsistunt lectum percussores et prior trierarchus fusti caput eius adflixit. iam ‹in› morte‹m› centurioni ferrum destringenti protendens uterum «Ventrem feri!» exclamavit multisque vulneribus confecta est.

Veduta di una villa maritima. Affresco, ante 79, dalla sala n. 60 di Villa San Marco, Stabiae.

***

[3, 1] Nerone, dunque, incominciò a evitare di incontrarsi da solo con la madre e, quando lei se ne andava in campagna a Tuscolo o ad Anzio, si compiaceva con lei perché si prendeva un po’ di svago. Alla fine, considerando che la presenza di lei, in qualunque luogo ella si trovasse, era per lui pericolosa, decise di ucciderla, mostrandosi dubbioso solo sul fatto se dovesse adoperare il veleno o il ferro o qualche altro mezzo violento. In un primo momento, pensò al veleno. [2] Se, tuttavia, questo fosse stato propinato alla mensa del principe, ciò non si sarebbe potuto attribuire a una pura fatalità, dato il precedente della morte di Britannico, e, d’altra parte, sembrava difficile corrompere i servi di una donna che era vigile contro le insidie, proprio per la consuetudine di perpetrare delitti; c’era poi il fatto che Agrippina aveva assuefatto il proprio corpo con l’uso di antidoti contro i veleni. Nessuno, poi, avrebbe potuto trovare il modo di nascondere un eccidio fatto a colpi di pugnale, poiché Nerone temeva che colui che fosse stato prescelto a compiere così grave misfatto potesse anche ricusarne l’incarico. [3] Gli offrì un’idea ingegnosa il liberto Aniceto, capo della flotta di stanza a Capo Miseno e precettore di Nerone fanciullo, odioso ad Agrippina, che era da lui ricambiata di pari odio. Costui informò il principe che si poteva costruire una nave, una parte della quale, in alto mare, si sarebbe aperta tramite un apposito congegno e avrebbe fatto affogare Agrippina, colta di sorpresa. Nulla più del mare offriva possibilità di disgrazie accidentali e, se Agrippina fosse stata portata via da un naufragio, chi sarebbe mai stato tanto iniquo da attribuire a un delitto ciò che i venti e le onde avevano compiuto? Il principe avrebbe poi elevato alla madre morta un tempio, degli altari e altri segni d’onore, a testimonianza del proprio affetto filiale.

[4, 1] La trovata geniale fu accolta, favorita anche dalle circostanze, dato che Nerone celebrava presso Baia le Quinquatria. Là attrasse Agrippina, mentre andava ripetendo a tutti che si dovevano tollerare i malumori delle madri e che gli animi si dovevano riappacificare; da ciò sarebbe stata diffusa la voce di una riconciliazione e Agrippina l’avrebbe accolta con la facile credulità delle donne per quelle cose che suscitano piacere. [2] Nerone, poi, sulla spiaggia mosse incontro a lei che veniva dalla sua villa di Anzio e, avendola presa per mano, l’abbracciò e l’accompagnò a Bauli. Questo è il nome di una villa che è lambita dal mare, nell’arco del lido tra il promontorio Miseno e l’insenatura di Baia. [3] Era là ancorata fra le altre navi una più fastosa, come se anche ciò volesse rappresentare un segno d’onore per la madre: Agrippina, infatti, era solita viaggiare su una trireme con rematori della flotta militare. Fu allora invitata a cena, poiché era necessario attendere nottetempo per celare il piano. [4] È opinione diffusa che vi sia stato un traditore e che Agrippina, informata della trama, nell’incertezza se prestare fede all’avvertimento, sia ritornata a Baia in lettiga. Qui le manifestazioni di affetto del figlio cancellarono in lei ogni timore; accolta affabilmente, fu fatta collocare al posto d’onore. Con i più svariati discorsi, ora con tono di vivace familiarità, ora con atteggiamento più serio, come se volesse metterla a parte di più importanti questioni, Nerone trasse più a lungo possibile il banchetto; nell’atto poi di riaccompagnarla all’imbarco, la strinse al petto, guardandola fisso negli occhi, o perché volesse rendere più verisimile la finzione, o perché, guardando per l’ultima volta il volto della madre che andava a morire, sentisse vacillare l’animo suo, per quanto pieno di ferocia.

[5, 1] Quasi volessero rendere più evidente il delitto, gli dèi prepararono una notte tranquilla, piena di stelle e un placido mare. La nave non aveva ancora percorso lungo tratto; accompagnavano Agrippina appena due dei suoi familiari, Crepereio Gallo, che stava presso il timone, e Acerronia, che ai piedi del letto ove Agrippina era distesa andava rievocando lietamente con lei il pentimento di Nerone, e il riacquistato favore della madre; quando all’improvviso, a un dato segnale, rovinò il soffitto gravato da una massa di piombo e schiacciò Crepereio, morto sul colpo. Agrippina e Acerronia furono invece salvate dalle alte spalliere del letto, per caso tanto resistenti da non cedere al peso. [2] Nel parapiglia generale, non si effettuò neppure l’apertura dell’imbarcazione, anche perché i più, all’oscuro di tutto, erano di ostacolo alle manovre di coloro che invece erano al corrente della cosa. Ai rematori parve allora necessario inclinare la nave su di un fianco, in modo da affondarla; ma non essendo loro possibile, in un così improvviso mutamento di cose, un movimento simultaneo, anche perché gli altri che non sapevano facevano sforzi in senso contrario, ne venne che le due donne caddero in mare più lentamente. [3] Acerronia, pertanto, con atto imprudente, essendosi messa a urlare che era lei Agrippina e che venissero perciò a salvare la madre dell’imperatore, fu invece presa di mira con colpi di pali e di remi e con ogni genere di proiettile navale. Agrippina, in silenzio, e perciò non riconosciuta (aveva riportato una sola ferita alla spalla), dapprima a nuoto, poi con una barchetta da pesca in cui si era imbattuta, trasportata al lago Lucrino, rientrò nella sua villa.

[6, 1] Qui, ripensando alla lettera piena d’inganno con la quale era stata invitata, agli onori con i quali era stata accolta, alla nave che, vicino alla spiaggia e non trascinata da venti contro gli scogli, si era abbattuta dall’alto come fosse stata una costruzione terrestre, considerando anche il massacro di Acerronia e guardando la sua propria ferita, comprese che il solo rimedio alle insidie fosse quello di fingere di non aver capito. [2] Mandò, perciò, il liberto Agermo ad annunciare a suo figlio, che, per la benevolenza degli dèi e per un caso fortuito, si era salvata dal grave incidente; lo pregava, tuttavia, che, per quanto emozionato per il grave pericolo corso alla madre, non pensasse per ora di venirla a trovare, poiché, per il momento, lei aveva bisogno di tranquillità. [3] Frattanto, affettando in piena sicurezza, si prese cura di medicare la ferita e di riconfortare il suo corpo; un solo atto non fu in lei ispirato a simulazione, l’ordine di ricercare il testamento di Acerronia e di porre i beni di lei sotto sequestro.

[7, 1] Nerone, intanto, in attesa della notizia che il delitto era stato consumato, apprese, invece, che Agrippina si era salvata con una lieve ferita, avendo, tuttavia, corso un pericolo così grande da non farla dubitare intorno al mandante dell’insidia. [2] Allora Nerone, morto di paura, cominciò ad agitarsi gridando che da un minuto all’altro Agrippina sarebbe corsa alla vendetta, sia armando i servi sia eccitando alla sollevazione i soldati sia appellandosi al Senato e al popolo, denunciando il naufragio, la ferita e gli amici suoi uccisi. Quale aiuto egli avrebbe avuto contro di lei, se non ricorrendo a Burro e a Seneca? Perciò, fece subito chiamare l’uno e l’altro che, forse, erano già prima al corrente della vicenda. [3] Stettero a lungo in silenzio, per non pronunciare vane parole di dissuasione o, forse, perché pensavano che la cosa fosse giunta a un punto tale che, se non si fosse prima colpita Agrippina, Nerone avrebbe dovuto fatalmente morire. Dopo qualche momento, Seneca in questo soltanto si mostrò più deciso, in quanto, scambiandosi un’occhiata con Burro, gli domandò se fosse mai possibile ordinare ai soldati l’assassinio. [4] Burro rispose che i pretoriani, troppo devoti alla casa dei Cesari e memori di Germanico, non avrebbero certo osato compiere nessun atto nefando contro la prole di lui; toccava ad Aniceto di assolvere le promesse. [5] Costui, senza alcun indugio, chiese per sé l’incarico di consumare il delitto. A questa dichiarazione Nerone s’affrettò a proclamare che in quel giorno gli era conferito veramente l’Impero e che il suo liberto era colui che gli offriva dono sì grande: corse subito via e condusse con sé i soldati deliberati a eseguire gli ordini. [6] Egli, poi, saputo dell’arrivo di Agermo, messaggero inviato da Agrippina, si preparò ad architettare la scena di un delitto e nell’atto in cui Agermo gli comunicava il suo messaggio, gettò tra i piedi di lui una spada e, come se l’avesse colto in flagrante, comandò subito di gettarlo in carcere, per poter far credere che la madre avesse tramato l’assassinio del figlio e che, poi, si fosse data la morte per sottrarsi alla vergogna dell’attentato scoperto.

[8, 1] Frattanto, essendosi sparsa la voce del pericolo corso da Agrippina, come se ciò fosse accaduto per caso, a mano a mano che si diffondeva la notizia, tutti accorrevano sulla spiaggia. Alcuni salivano sulle imbarcazioni vicine, altri ancora scendevano in mare, per quanto consentiva la profondità delle acque. Alcuni protendevano le braccia con lamenti e con voti; tutta la spiaggia era piena di grida e delle voci di coloro che facevano domande e di quelli che rispondevano; una gran moltitudine s’affollò sul lido con lumi e, come si seppe che Agrippina era incolume, tutti le mossero incontro per rallegrarsi con lei, quando all’improvviso ne furono ricacciati dalla vista di un drappello di soldati armati e minacciosi. [2] Aniceto accerchiò la villa con le sentinelle e, abbattuta la porta e fatti trascinare via i servi che gli venivano incontro, procedette fino alla soglia della camera da letto di Agrippina, a cui solo pochi servi facevano la guardia, poiché tutti gli altri erano stati terrorizzati dall’irrompente violenza dei soldati. [3] Nella stanza c’erano un piccolo lume e una sola ancella, mentre Agrippina se ne stava in stato di crescente allarme perché nessuno arrivava da parte del figlio e neppure Agermo: ben altro sarebbe stato l’aspetto delle cose intorno, se veramente la sua sorte fosse stata felice; non c’era che quel deserto rotto da urla improvvise, indizi di suprema sciagura. [4] Quando anche l’ancella si mosse per andarsene, Agrippina nell’atto di volgersi a lei per dirle: «Anche tu mi abbandoni?», scorse Aniceto, in compagnia del trierarca Erculeio e del centurione di marina Obarito. Rivoltasi, allora, a lui gli dichiarò che, se era venuto per vederla, annunziasse pure a Nerone che si era riavuta; se, poi, fosse lì per compiere un delitto, ella non poteva avere alcun sospetto sul figlio: non era possibile che egli avesse comandato il matricidio. [5] I sicari circondarono il letto e primo il trierarca la colpì in testa con un bastone. Al centurione che brandiva il pugnale per finirla, protendendo il grembo, gridò: «Colpisci al ventre!»; e cadde trafitta da molte ferite.

(trad. it. di B. Ceva, Milano, BUR, 2011)

Trireme romana. Affresco, ante 79, da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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Una delle pagine più famose degli Annales di Tacito e insieme uno degli esempi meglio riusciti di storiografia tragica è il racconto del matricidio di Agrippina, preceduto dal fallimento di un rocambolesco naufragio appositamente organizzato. Nerone, oppresso dalla presenza della madre, decide di eliminarla e, scartate le opzioni dell’avvelenamento e dell’accoltellamento, decide, su proposta del liberto Aniceto, di far costruire una nave dotata di un congegno che provochi lo sganciamento di parte dello scafo e, di conseguenza, il naufragio di Agrippina. Il finto incidente viene organizzato nei minimi particolari, ma, al momento di affondare il natante, quelli fra l’equipaggio all’oscuro di tutto ostacolano il successo dell’impresa. Acerronia, liberta e compagna di viaggio dell’imperatrice madre, per sollecitare i soccorsi proclama a gran voce di essere lei Agrippina, ma, contro ogni sua aspettativa, viene massacrata a colpi di remi. Agrippina, intanto, contusa e ferita, riesce ad allontanarsi mettendosi in salvo a nuoto e, raccolta da una barca da pesca, viene riportata a riva.

Mentre Agrippina fa ritorno a casa, nella sua villa nei pressi del Lago Lucrino, pur resasi conto dei terribili propositi di suo figlio, decide di fingere di non avere sospetto alcuno, Nerone, impaurito dalle reazioni della potente madre, convoca d’urgenza Burro e Seneca, i suoi più fidati consiglieri e tutori. È chiaro a tutti che Agrippina vada eliminata prima che sia lei a muovere all’attacco! Il liberto Aniceto si assume l’onere di eseguire materialmente il matricidio. Intanto, l’arrivo del liberto di Agrippina, Agermo, giunto a portare al princeps un messaggio della madre, viene colto a pretesto dall’imperatore per mettere in scena un falso attentato contro la propria persona: mentre il latore è intento a recapitargli il messaggio, Nerone getta ai piedi di quello una spada, affinché tutti credano che Agrippina abbia mandato quell’uomo per assassinare il figlio. Quindi, ordina l’immediata esecuzione della madre, affinché assomigli a un suicidio.

La scena dell’azione si sposta nuovamente nella villa dell’imperatrice-madre, dove ella era stata portata dopo essere stata tratta in salvo. L’Augusta matrona si trova da sola nel suo cubiculum: accanto a lei soltanto un’ancella, che presto l’abbandonerà terrorizzata, non appena il ritardo di Agermo renderà evidente la sorte della padrona. Il lettore è accompagnato da Tacito all’interno della stanza di Agrippina, in una suspence crescente, ne condivide l’angoscia e il turbamento. Alla fine, Aniceto e i suoi sicari arrivano e, fatta irruzione nella casa, allontanati i servi, la uccidono con randelli e spade senza pietà.

Il racconto del matricidio è seguito da una serie di pettegolezzi che rendono ancor più torbido l’atto criminale. Tacito riferisce le voci secondo le quali Nerone avrebbe fatto apprezzamenti sulla bellezza della madre, alla vista del suo cadavere, e racconta l’episodio di Mnestere, un liberto della donna, che si trafisse con un pugnale alla vista della pira funebre; probabilmente, insinua l’autore, per amore dell’antica padrona. In linea con le tendenze della storiografia tragica, non manca neanche il riferimento a una profezia dei Caldei sulla fine di Agrippina per mano del figlio, cui la donna avrebbe risposto: “Mi uccida, purché imperi!”.

Gustav Wertheimer, Il naufragio di Agrippina.

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