Eufrone, tiranno di Sicione

Eufrone (Εὔϕρων) fu tiranno di Sicione ai tempi della seconda invasione di Epaminonda nel Peloponneso, fra il 369 e il 365 a.C. Le fonti antiche che ne parlano sono principalmente due, la Bibliotheca historica di Diodoro Siculo e le Elleniche di Senofonte. Mentre il primo (Diod. XV 70, 3) offre un rapido accenno alla parabola storica del tiranno, limitandosi a riferire le condizioni in cui Eufrone riuscì a impadronirsi del potere, il secondo (Xen. Hell. VII 1, 44-46; 3, 1-12) fornisce un resoconto un po’ più dettagliato. Le due testimonianze, comunque, rendono la cronologia dei fatti di difficile determinazione, dato che la prima propende per ambientarli nel 369, mentre la seconda intorno al 366/5.

A ogni modo, fino al IV secolo a.C. in Sicione era rimasta in vigore una costituzione ispirata alle antiche leggi (κατὰ τοὺς ἀρχαίους νόμους ἡ πολιτεία ἦν); già in precedenza la città aveva conosciuto la tirannide, ma, liberatasene nel 418/7 con l’aiuto di Sparta, era in seguito rimasta fedele a un regime oligarchico, tenace sostenitore dell’alleanza peloponnesiaca.

Sicione, Rovine di un tempio dorico.

L’invasione tebana nella penisola e la creazione della Confederazione arcade provocarono un diffuso clima di tensione che ebbe importanti risvolti anche in Sicione, dove le fazioni avverse si appoggiavano ora all’uno, ora all’altro degli antagonisti esterni. I gruppi in lotta erano da una parte l’élite plutocratica, dall’altra il resto della popolazione.

Secondo la testimonianza senofontea, faceva parte del governo oligarchico lo stesso Eufrone, il più influente dei cittadini presso gli Spartani (παρὰ τοῖς Λακεδαιμονίοις μέγιστος ἦν τῶν πολιτῶν): costui si era deciso a prendere il sopravvento sugli avversari (παρὰ τοῖς ἐναντίοις αὐτῶν πρωτεύειν). Perciò, approfittando anche del particolare momento storico, che vedeva un avvicinamento diplomatico tra Arcadi e Argivi, Eufrone fece notare a costoro che se Sicione avesse continuato la propria politica filo-spartana (πάλιν λακωνιεῖ), la città avrebbe ben presto costituito una minaccia per gli altri Peloponnesiaci.

Al contrario, – egli sosteneva – se vi fosse stata instaurata una democrazia, i vicini avrebbero avuto la sicurezza di un governo amico; egli stesso, se ne avesse ottenuto l’appoggio, si sarebbe proposto garante del nuovo corso, giustificando la propria iniziativa con una certa avversione per l’arroganza dei Lacedemoni (τὸ φρόνημα τῶν Λακεδαιμονίων) e la volontà di liberarsi dall’asservimento (τὴν δουλείαν ἀποφυγών) a loro. La fonte diodorea lo dipinge come un uomo che si distingueva per audacia e spudoratezza (διαφέρων θράσει καὶ ἀπονοίᾳ).

Pittore Cleimaco. Combattimento di opliti sotto le mura di Tebe (dettaglio). Pittura vascolare da una ὑδρία attica a figure nere, 560-550 a.C. c. Paris, Musée du Louvre.

Alla luce delle dichiarate intenzioni di Eufrone, gli Arcadi e gli Argivi gli diedero un appoggio incondizionato. Egli, dunque, alla presenza degli alleati esterni convocò il popolo nell’agorà per proclamare la nuova costituzione, retta su principi di uguaglianza e parità (ἐσομένης ἐπὶ τοῖς ἴσοις καὶ ὁμοίοις); quindi, indisse delle votazioni per eleggere gli strateghi: fu scelto lui stesso insieme a Ippodamo, Cleandro, Acrisio e Lisandro. Poi, Eufrone mise insieme un esercito di mercenari, del quale non ebbe difficoltà ad assicurarsi l’appoggio grazie a un trattamento generoso; e, anzi, riuscì a ingrossarne le fila con una distribuzione di denaro prelevato dal tesoro della città e dai templi e servendosi dei beni confiscati a quaranta tra i cittadini più ricchi, che aveva fatto espellere con l’imputazione di filo-laconismo (ἐπὶ λακωνισμῷ). Infine, si sbarazzò dei suoi colleghi, gli uni facendoli assassinare proditoriamente, gli altri bandendoli. Insomma, considerati gli atti compiuti, era palese che Eufrone avesse instaurato una vera e propria tirannide. A quanto pare, per mantenere il consenso degli alleati egli o fece ricorso al denaro oppure partecipò insieme ai suoi mercenari alle loro spedizioni militari.

Tuttavia, Eufrone non volle aderire alla Lega arcadica né intese rassegnarsi ad assoggettarsi a Tebe. Perciò, nello stesso periodo, Enea di Stinfalo, comandante supremo della Confederazione arcade (στρατηγὸς τῶν Ἀρκάδων), ritenendo intollerabile la posizione politica di Sicione, marciò in armi contro la città, vi entrò e, salito sull’acropoli, convocò i cittadini più in vista (ὄντων τοὺς κρατίστους) e richiamò in patria quelli che erano stati banditi senza decreto (τοὺς ἄνευ δόγματος ἐκπεπτωκότας) e li fece sollevare tutti contro il tiranno. Questi, atterrito, passò dalla parte avversaria con estrema facilità e, con i buoni uffici di Pasimelo di Corinto, leader della fazione filo-spartana, consegnò il porto sicioneo ai Lacedemoni: Senofonte dice espressamente che con un ulteriore voltafaccia Eufrone rientrò nella loro alleanza (ἐν ταύτῃ αὖ τῇ συμμαχίᾳ ἀνεστρέφετο), asserendo di non esserne mai venuto meno! Egli spiegò che, quando in città si era votato sulla questione dell’abbandono dell’alleanza con Sparta, lui stesso aveva fatto parte della minoranza che si era opposta. Quanto all’instaurazione del regime democratico, egli si giustifico sostenendo che aveva fatto così per punire i traditori. Ora, veniva a consegnare il porto – l’unico settore rimasto sotto il suo controllo – agli antichi alleati. Senofonte osserva che le sue giustificazioni davanti agli Spartani furono udite da molte persone, ma che non è possibile stabilire con certezza quante di loro vi abbiano creduto (ὁπόσοι δὲ ἐπείθοντο οὐ πάνυ κατάδηλον).

Gruppo Protopaneziano. Scena di simposio con due uomini sulla κλίνη. Pittura vascolare da una κύλιξ attica a figure rosse, c. 510-500 a.C. da Orvieto. Boston, Museum of Fine Arts.

Eufrone riparò ad Atene, dove si diede ad arruolare un nutrito contingente di mercenari; quindi, ritornò a Sicione e s’impadronì della città. Tuttavia, non riuscì a ridurre in suo potere l’acropoli, dove intanto si era insediato un armosta tebano al comando di una guarnigione e vi si erano trincerati gli aristocratici suoi avversari. Valutando l’impossibilità di espugnare la città alta senza attirarsi l’ostilità tebana, decise di partire per Tebe, dopo aver raccolto dei fondi, per convincere le autorità cadmee a evacuare Sicione e consegnargli gli avversari. Gli esuli espulsi in precedenza, venuti a conoscenza del suo viaggio e dei suoi piani, inviarono anch’essi una delegazione a Tebe. Constata la familiarità con cui Eufrone si relazionava alle autorità del posto, gli aristocratici furono presi dal timore che la sua missione potesse sortire un esito positivo. I più intrepidi di loro, armati di sangue freddo, mentre i magistrati della città e i membri del consiglio erano in seduta, avvicinarono Eufrone sull’acropoli tebana e lo sgozzarono. La presentazione del racconto senofonteo porta a valutazioni controverse del personaggio: tiranno e traditore, ma pianto alla sua morte dal popolo, che ne recuperò la salma e la seppellì nell’agorà, tributandogli onori eroici, come attesta un’iscrizione postuma (IG II² 448). Senofonte, unico testimone per questo episodio, descrive Eufrone come un tiranno dai tratti molto ben riconoscibili: macchinando con le potenze esterne per ottenere il controllo della propria città e approfittando delle rivalità interne, una volta imposto il proprio dominio sulla comunità, lo ha mantenuto con l’oppressione e l’illegalità. Se la fonte di Diodoro è particolarmente avversa a Eufrone, è evidente che la sua tirannide fu dura solo per i ricchi oligarchi sicionei e gli amici di Sparta.

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Per una definizione della «polis»

di C. BEARZOT, La polis greca, Bologna 2009, 9-15.

La storia della Grecia antica è caratterizzata, com’è noto, dalla centralità dell’esperienza politica vissuta nell’ambito della comunità cittadina, la πόλις. Essa costituisce, per i Greci, la principale forma di Stato, tant’è vero che il pensiero politico greco si concentra quasi interamente sulla πόλις e sulle sue forme costituzionali. Il celebre dibattito erodoteo sulle costituzioni, il cosiddetto λόγος τριπολιτικός (Hdt. III 80-82) verte, non a caso, sulle costituzioni della πόλις; nella Politica, Aristotele si preoccupa quasi esclusivamente della πόλις, senza dare significativo spazio a questioni che riguardino, per esempio, gli Stati federali. Nello stesso senso ci indirizza la terminologia: la costituzione è detta πολιτεία, in quanto avvertita come elemento fondamentale della πόλις, mentre il termine che designa il cittadino è πολίτης, come se appunto la πόλις fosse l’unica forma di Stato.

Il mondo greco, in realtà, conobbe anche altre forme di organizzazione politica: gli Stati federali, i cosiddetti κοινά o ἔθνη, presenti accanto alle πόλεις fin dall’arcaismo, e gli Stati territoriali, dalla Siracusa di Dionisio I ai regni ellenistici. Tali forme sono alternative della πόλις e ne mettono in discussione alcuni limiti, come la «gelosia della cittadinanza», l’incapacità di dar vita a un equilibrio internazionale stabile, il carattere di «società chiusa». Ma il pensiero politico greco, come mostra anche l’incertezza terminologica relativa a Stati federali e territoriali, non sembra considerare altre forme di Stato che la πόλις medesima.

Eracle uccide l’Idra di Lerna. Rilievo, marmo, c. III sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Il termine πόλις, infatti, ha diverse valenze e può significare «cittadella fortificata», «acropoli», «centro urbano», ma anche «entità statale» dotata di centro politico e soprattutto κοινωνία πολιτική, «comunità» nella sua dimensione politica. Le fonti antiche segnalano con grande insistenza il carattere non tanto urbanistico, quanto sociale e istituzionale della πόλις. Che la città sia, prima di tutto, una comunità di uomini associati fra loro lo mostra un topos letterario molto comune, quello secondo cui sono gli uomini, i cittadini, a costituire la realtà cittadina. Già Alceo (F 112, 10 Lobel-Page) afferma che «sono gli uomini la torre che difende la città» (ἄνδρες γὰρ πόλι]ο̣ς πύργος ἀρεύ[ιος). Analoga impostazione offre Tucidide (VII 77, 7), quando fa dire allo stratega ateniese Nicia, in un discorso pronunciato durante la spedizione di Sicilia, che i soldati ateniesi devono essere coraggiosi e capaci di sfuggire ai nemici, se vogliono che le sorti di Atene si risollevino: egli ricorda che «gli uomini infatti costituiscono la città, non le mura o le navi vuote d’uomini» (ἄνδρες γὰρ πόλις, καὶ οὐ τείχη οὐδὲ νῆες ἀνδρῶν κεναί).

Allo stesso modo, Temistocle, quando, nel 480, durante la seconda guerra persiana, il corinzio Adimanto gli rinfaccia di essere un ἄπολις, un uomo senza πόλις, perché Atene è stata distrutta dall’attacco persiano, e di non poter quindi parlare né dare il proprio voto nell’assemblea panellenica, risponde (Hdt. VIII 61) dimostrando «come gli Ateniesi avessero una città e una terra più grandi dei Corinzi, finché avessero duecento navi in assetto di guerra: nessuno dei Greci infatti avrebbe potuto respingere l’attacco» (ὡς εἴη καὶ πόλις καὶ γῆ μέζων ἤ περ ἐκείνοισι ἔστ’ ἂν διηκόσιαι νέες σφι ἔωσι πεπληρωμέναι· οὐδαμοὺς γὰρ Ἑλλήνων αὐτοὺς ἐπιόντας ἀποκρούσεσθαι).

Questi passi inducono a definire la πόλις prima di tutto come una comunità politica di cittadini insediata su un territorio. La prevalenza della dimensione politica è ben illustrata da un passaggio di Pausania (X 4, 1), in cui si afferma che la città focese di Panopeo – priva di strutture urbanistiche adeguate, giacché gli abitanti non possiedono archivi né ginnasio né teatro né agorà, né strutture di servizio o abitazioni degne di questo nome – sembrerebbe non meritare il nome di πόλις: eppure, essa va considerata tale, perché gli abitanti «sono divisi dai vicini da confini e mandano anch’essi delegati all’assemblea dei Focesi» (ὅμως δὲ ὅροι γε τῆς χώρας εἰσὶν αὐτοῖς ἐς τοὺς ὁμόρους, καὶ ἐς τὸν σύλλογον συνέδρους καὶ οὗτοι πέμπουσι τὸν Φωκικόν).

Oplita che balza dal carro (ἀποβάτης). Rilievo votivo con iscrizione (SEG I 131), marmo pentelico, V sec. a.C. dal tempio di Anfiarao a Oropos. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

È dunque la dimensione politica, unita a quella territoriale, a definire la πόλις e, quando i Greci si soffermano sul problema del rapporto fra l’uomo e lo Stato, è alla πόλις che pensano. Un passo del Filottete di Sofocle, in cui l’eroe lamenta di essere stato reso «ἄπολις, un morto tra i vivi», evidenzia bene il rapporto fra l’uomo greco e la πόλις. Nella stessa prospettiva possono essere richiamate le celebri definizioni aristoteliche, che parlano dell’uomo come di un animale «che per natura vive nella πόλις» e ritengono quest’ultima una struttura il cui fine è di «far vivere bene» l’uomo (Aristot. Pol. I 1253a).

A riprova di quanto detto, si osservi che tracce di riflessione sugli Stati federali, che pure accompagnano la storia dei Greci fin dall’arcaismo, sono molto modeste nel pensiero politico ellenico. Aristotele vi dedica uno spazio limitatissimo, arrivando addirittura a negare che uno Stato federale possa avere una vera e propria costituzione (Aristot. Pol. VI 1326b). Discutendo delle dimensioni dello Stato ideale, il filosofo afferma infatti che una città che abbia un numero troppo esiguo di cittadini non può bastare a sé stessa e tradisce così la sua natura di città, mentre quella che ne ha troppi, pur bastando a sé stessa come un ἔθνος, non è una πόλις, perché difficilmente potrà avere una costituzione (πολιτεία). Se Aristotele coglie qui un elemento caratteristico delle federazioni, la forza demografica, finisce tuttavia, sottolineando l’assenza di πολιτεία, per negarne il carattere di vero e proprio Stato. Qualche traccia di riflessione sul federalismo si trova nel IV secolo, nelle Elleniche di Ossirinco (cap. 19, 2-4, pp. 32-33 Chamers) e in Senofonte (Hell. V 2, 12-19), e poi soprattutto in Polibio (II 37 ss.), che attribuisce all’ordinamento federale la crescita della potenza degli Achei in età ellenistica; ma si tratta sempre di interventi piuttosto modesti in confronto alla riflessione sulla πόλις.

Quanto agli Stati territoriali, una riflessione in merito è praticamente assente: non si arrivò mai, infatti, a elaborare una teoria dello Stato ellenistico, che valorizzasse aspetti come, per esempio, la funzione di elementi etnici diversi. Nelle definizioni presenti nelle fonti letterarie ed epigrafiche sembra essere sottolineata una delle caratteristiche principali dello Stato territoriale, ovvero la complessità politica e sociale e l’articolazione fra realtà diverse all’interno del territorio: τὰ πράγματα indica l’insieme degli affari ed è di carattere assai vago: «re, amici, forze armate» (βασιλεύς, φίλοι, δυνάμεις) esprime l’ideologia della monarchia militare; βασιλεῖς, δυνάσται, πόλεις ed ἔθνη comprende l’intero mondo ellenistico nelle sue forme statali. Queste definizioni evidenziano un’articolazione tra elementi centralizzanti (sovrano, esercito) e realtà locali (πόλεις, ἔθνη, φίλοι), cogliendo la complessità dello Stato ellenistico.

Né nel caso degli Stati federali né nel caso di quelli territoriali, dunque, abbiamo una riflessione che possa essere lontanamente paragonata a quella sulla πόλις: non a caso, il celebre saggio di Victor Ehrenberg dal titolo Der Staat der Griechen (1965) era interamente dedicato alla πόλις. Tuttavia, la storiografia più recente sia è sottratta al condizionamento degli antichi: sono ormai numerosi i contributi moderni dedicati anche agli Stati federali e territoriali, e sintesi recenti sulle forme dello Stato antico, come quella di Alexander Demandt (Antike Staatsformen. Eine vergleichende Verfassungsgeschichte der Alten Welt, 1995), mostrano un pieno superamento della posizione poleocentrica.

Una pur breve storia della storiografia moderna sulla πόλις richiederebbe uno spazio enorme: si intende qui, pertanto, solo richiamare alcune delle più recenti riflessioni su questo tema, che continua ad attirare l’attenzione degli studiosi. Se il problema delle origini della πόλις sembra, di fatto, non risolvibile in modo soddisfacente allo stato attuale, si è però sviluppata una serie di riflessioni su altri temi non meno significativi, dal problema della divisione/organizzazione dello spazio e del rapporto con il territorio (la χώρα) a quello, ricco di sfumature, del significato della πόλις come comunità cittadina.

Il tentativo di ridiscutere il concetto di πόλις nel senso di «città-Stato» e la sua adeguatezza a cogliere pienamente il fenomeno storico cui fa riferimento, condotto da Wilfrid Gawantka (Die sogenannte Polis, 1985), ha messo in evidenza la necessità di verificare la validità di concetti interpretativi che rischiavano ormai di diventare veri e propri luoghi comuni (un «mito storiografico», come è stato sottolineato da Maurizio Giangiulio in Alla ricerca della polis, 2001). La nozione di città-Stato elaborata dai moderni (che la intendono come forma di Stato per antonomasia nel mondo greco e ne sottolinea l’assoluta preminenza sull’individuo) non sarebbe necessariamente corrispondente alla nozione greca di πόλις e sarebbe comunque troppo rigida per esprimere le diverse realtà locali in cui era frazionata la Grecia antica: il termine πόλις sembra infatti far riferimento a una grande varietà di forme di insediamento e di comunità politiche e a livelli cronologici troppo diversi.

Senocratea presenta il proprio figlio al dio-fiume Cefiso alla presenza degli dèi. Rilievo su stele votiva, marmo pentelico, c. 410 a.C. dal Falero. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

La ridiscussione del concetto di πόλις, dopo la provocazione di Gawantka, non è certo mancata: particolarmente intensa è stata la discussione sollevata, soprattutto in area anglosassone, sul carattere non statuale dell’esperienza poleica. L’idea di una «stateless polis» è stata anticipata da alcuni interventi volti a sottolineare il carattere prevalentemente «sociale» della città greca. Robin Osborne (Demos: The Discovery of Classical Attika, 1985) ha sottolineato che nella πόλις mancano tanto una vera e propria «autorità statale» che monopolizzi la coercizione, quanto un potere esecutivo vero e proprio; sulla stessa linea, Paul Cartledge (Kosmos: Essays in Order, Conflict, and Community in Classical Athens, 1998) ha osservato che la πόλις ignora la distinzione tra governanti e governati e le nozioni di «diritti dell’individuo» e di «tolleranza», mentre conosce una serie di forme di controllo sociale, cui si affida per il mantenimento dell’ordine costituito. In seguito, la riflessione è stata approfondita da Moshe Berent (The Stateless Polis: towards a Re-evaluation of the Classical Greek Political Community, 1994; Anthropology and the Classics: War, Violence, and the Stateless Polis, 2000): muovendo da modelli antropologici, egli sostiene che la πόλις non corrisponda ai criteri necessari per poter parlare di «Stato» in senso hobbesiano e weberiano. Essa, infatti, non presenterebbe una adeguata distinzione fra popolo e potere esecutivo; non avrebbe il monopolio della coercizione (essendo priva di esercito permanente e di polizia), con la conseguente necessità di affidare la tutela dell’ordine pubblico all’iniziativa individuale e al controllo sociale; mancherebbe inoltre di aspetti essenziali, come una territorialità ben definita e un’adeguata burocrazia. La πόλις non era dunque una «città-Stato», ma una «stateless community»: non nel senso di una comunità tribale tenuta insieme dalla parentela, come vorrebbe l’antropologia (una prospettiva di questo genere sarebbe inaccettabile nell’interpretazione della πόλις greca), ma nel senso di una comunità di guerrieri, la cui coesione dipendeva dalla tattica di combattimento oplitico.

Una prima obiezione potrebbe riguardare l’opportunità di valutare la statualità della πόλις sulla base di confronti con uno Stato di tipo moderno, alcuni aspetti del quale risalgono a non prima del XIX secolo, e sono quindi posteriori alla stessa riflessione di Hobbes. Ma soprattutto, posizioni come quella di Berent sembrano sottovalutare aspetti importanti della πόλις, dalla complessità della struttura istituzionale alla territorialità. Una critica serrata alle posizioni di Berent è venuta da uno dei massimi studiosi di storia delle istituzioni greche e in particolare della democrazia ateniese, Mogens H. Hansen (A Comparative Study of Thirty City-state Cultures: An Investigation, 2002).

Prima di considerare gli argomenti di Hansen, vale la pena di richiamare il prezioso contributo offerto, nell’ambito degli studi sulla πόλις, dal Copenaghen Polis Centre, che ha operato sotto la sua guida dal 1993 al 2005. Le ricerche del CPC hanno preso l’avvio dalla riconosciuta necessità di evitare una discussione su basi esclusivamente teoriche e di raccogliere preventivamente una documentazione più ampia possibile sulla πόλις, per poter poi, sulla base dell’analisi di un materiale davvero esaustivo, mettere a fuoco i diversi problemi che la riguardano. Nei numerosi volumi prodotti dal centro di ricerca troviamo una raccolta delle fonti per la storia della πόλις, un prezioso «inventario» delle medesime e gli atti di vari convegni dedicati alle più diverse problematiche concernenti la πόλις. Sulla base di questo ampio lavoro preparatorio, il carattere statuale della πόλις viene rivendicato con convinzione da Hansen e dal suo gruppo di ricerca; la stessa traduzione di πόλις con «città-Stato», tanto contestata, è apparsa ad Hansen sostanzialmente corretta («city-State is the best possible equivalent to polis», in Polis and City-State: an Ancient Concept and its Modern Equivalent, 1998, 123).

Corcira e Atene (personificate) di fronte a Zeus in trono sanciscono un’alleanza. Rilievo, marmo, c. 375 a.C. da una stele iscritta. Atene. Museo Archeologico Nazionale di Atene.

Nella sua polemica con Berent, Hansen sottolinea prima di tutto come non si possa restringere la discussione al concetto di Stato come «governo», concentrandosi su problemi come la monopolizzazione dell’uso della coercizione, ma si debba piuttosto considerare anche lo Stato come «territorio» e come «corpo politico». Ora, già non sarebbe corretto parlare di totale assenza di istituzioni di governo nella πόλις; se poi si considerano le altre due prospettive, le differenze tra Stato antico e Stato moderno tendono a indebolirsi. Il territorio, pur non costituendo certo la parte fondamentale della πόλις, ne è infatti un elemento di rilievo, come mostrano diversi aspetti, dalla problematica del confine alle dispute territoriali ai provvedimenti di bando, che implicano un riferimento al concetto di territorio. Quanto allo Stato come corpo politico, è questa una sicura caratteristica della πόλις che non è però affatto assente negli Stati moderni; per contro non manca, nel pensiero, l’idea che la πόλις sia non solo il corpo cittadino, ma anche qualcosa di impersonale, distinguibile dai πολῖται (la documentazione proposta da Hansen mette in luce come l’azione di un cittadino o di un organo di governo, intrapresa «a favore» o «per conto» della πόλις, evidenzi una distinzione fra il singolo individuo e la comunità nel suo complesso, intesa in senso istituzionale). Ciò consente di non enfatizzare il problema della mancata distinzione tra popolo ed esecutivo, fra governanti e governati, che caratterizzerebbe la πόλις: la sovrapposizione tra depositari della sovranità e detentori del potere esecutivo è in effetti un elemento presente nella città greca, e in particolare in quella democratica, ma è anche vero che non si è mai governanti e governati contemporaneamente, in quanto il cittadino, quando diviene magistrato, assume comunque uno statuto particolare.

Per quanto riguarda l’amministrazione della giustizia, Hansen osserva innanzitutto che alcune caratteristiche, come l’assenza di forze di polizia, il ricorso all’autodifesa da parte del cittadino, la sua possibilità di intervenire con azioni suppletive come l’arresto sommario, l’uso dell’iniziativa popolare nella promozione dell’azione legale, non sono esclusive della πόλις, ma sono riscontrabili anche in molti Stati europei del XVIII secolo; a questo rilievo egli aggiunge che non si può affermare che l’ordine pubblico nella πόλις fosse garantito dal solo controllo sociale, essendo prevista una serie di complessi meccanismi giuridici. Quanto, invece, all’assenza di un esercito stabile come indizio di assenza di statualità, prima di tutto bisogna tener conto di una serie di eccezioni (ta cui, come ammette lo stesso Berent, Sparta, Atene e le città rette da regimi tirannici; ma Hansen menziona altri casi: la Siracusa democratica, Tebe, Argo, la Lega arcadica, l’Elide); inoltre, occorre piuttosto valutare il grado di militarizzazione della società, molto elevato nelle città greche, in cui i cittadini potevano essere spesso chiamati alle armi e in cui le spese militari erano notevoli. Anche il livello progredito delle relazioni internazionali e degli istituti delle diplomazia non depone a favore dell’interpretazione della πόλις come «stateless society».

A parere di Hansen, insomma, le differenze tra πόλις e Stato moderno finiscono per risultare modeste, se si considera la documentazione nel suo complesso senza selezionarla indebitamente allo scopo di costruire quello che egli definisce «a skewed model», un modello distorto. Ciò che accomuna Stato moderno e πόλις, al di là delle inevitabili differenze, è la nozione di «cittadinanza»: cioè l’appartenenza di un individuo a uno Stato, in virtù della quale egli, come cittadino, gode di una serie di privilegi in campo politico, economico e sociale e di adeguate forme di tutela (nonostante l’assenza, spesso sottolineata, della nozione di «diritti dell’individuo»). Dunque, la πόλις può essere considerata uno Stato, perché assomma le seguenti caratteristiche: è un potere pubblico legittimo con giurisdizione su un territorio definito, che si manifesta nella costituzione e nelle leggi ed è in grado di monopolizzare l’uso della forza; inoltre, conosce una chiara separazione fra Stato e società, fra pubblico e privato.

Demos (personificazione) incorona un cittadino meritevole. Rilievo, marmo pario, fine IV sec. a.C. da una stele onorifica. Atene, Museo dell’Agorà.jpg

Se dunque Berent tenta di escludere il carattere statuale della πόλις sulla base di un improprio confronto con lo Stato moderno, è anche vero che Hansen, da parte sua, tende talora a sovrapporre Stato moderno e πόλις: le due visioni contengono entrambe elementi anacronistici. La πόλις, in realtà, non era né una «stateless community», né uno Stato nel senso moderno del termine, come ha evidenziato Michele Faraguna (Individuo, Stato, comunità. Studi recenti sulla polis, 2000). Com’è stato sottolineato da Giangiulio (Stato e statualità nella polis, 2004), è certamente legittimo parlare di statualità della πόλις, ma in senso del tutto peculiare, perché peculiare è il rapporto tra ambito sociale e ambito politico nella mentalità greca. la città in senso politico-istituzionale e la città intesa come società, in realtà, coesistevano, come nella riflessione aristotelica, in un rapporto complesso che non poteva prescindere dal legame con il territorio.

Ancora, il carattere fortemente «politico» dell’esperienza della πόλις è stato rivendicato anche da Oswyn Murray (Cities of Reason, 1991; The Greek City: from Homer to Alexander, 1993), il quale ha proposto un’idea della πόλις come «città della ragione», in cui ogni decisione è assunta in seguito all’applicazione della procedura razionale della decisione. La πόλις, benché appaia certamente diversa da forme organizzative moderne, si presenta pertanto non come una società tribale, ma come un contesto in cui si esprime pienamente una forma di razionalità politica: essa offre la possibilità di «vivere secondo ragione», di «vivere bene» in senso aristotelico, in base a un ordine non imposto dall’alto, ma concordato dalla comunità.

Per concludere, se alcune discussioni, spesso condotte in base a modelli mutuati dall’antropologia e a confronti non sempre convincenti con esperienze moderne, appaiono talora poco produttive, merito indiscusso di questa serie di ricerche è stato soprattutto di mettere in luce le molteplici e non univoche dinamiche che caratterizzano la πόλις greca, di sottoporne a verifica alcuni contenuti tradizionalmente dati per scontati (per esempio, il concetto di autonomia) e, insieme, di mostrare come la complessità delle realtà poleiche non implichi che si debba rinunciare al concetto di πόλις come modello, purché del suo carattere di modello si abbia consapevolezza.

Un’ἀρετή a misura d’uomo (Simon. F 542 PMG)

Circa a metà del Protagora platonico (339a-347a), nel pieno di una discussione sulla virtù (ἀρετή), l’omonimo filosofo che dà il nome al dialogo propone a Socrate una riflessione sull’elaborazione poetica di tale argomento.

A tal proposito, Protagora cita i primi versi del celebre encomio che il vecchio Simonide di Ceo, verso la fine del VI secolo a.C., aveva dedicato al tessalo Scopas, tiranno di Crannone.

Il dialogo tra i due saggi, entrambi profondi conoscitori del componimento, di cui citano pochi versi alla volta, discutendoli partitamente, diviene una vera e propria esegesi perpetua, in cui il rivoluzionario relativismo etico simonideo, rivisitato dal sofista Protagora, è sottoposto allo spietato vaglio della morale aristocratica di cui Platone, per bocca di Socrate, si fa paladino e restauratore.

La testimonianza offerta dal filosofo è altresì importante e interessante per due ragioni: innanzitutto, perché illumina del livello raggiunto dall’esegesi letteraria nell’Accademia; in seconda analisi, per il fatto di rappresentare, proprio dal punto di vista critico, l’archetipo delle animose dispute fra i filologi cui è stato esposto il brano fino a oggi!

Il problema affrontato da Simonide, dunque, è il seguente: se è difficile diventare compiutamente «valenti» dal momento che la realtà esterna può costringere un individuo ad agire contro il suo volere, un criterio di giudizio a “misura d’uomo” potrà pur sempre far riferimento ai realistici margini d’azione dell’individuo, e il poeta cesserà di farsi cantore della virtù assoluta (perfetta valentia dell’uomo «quadrato», cioè simmetricamente costruito come i κοῦροι delle statue coeve) e loderà invece chi non commetta volontariamente azioni riprovevoli.

Policleto, Diadumenos. Statua, Copia in marmo di età romana dall’originale in bronzo del V secolo a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale

ἄνδρ’ ἀγαθὸν μὲν ἀλαθέως γενέσθαι

χαλεπὸν χερσίν τε καὶ ποσὶ καὶ νόωι

τετράγωνον ἄνευ ψόγου τετυγμένον·

[

[

[

[

[

[

[

οὐδέ μοι ἐμμελέως τὸ Πιττάκειον

νέμεται, καίτοι σοφοῦ παρὰ φωτὸς εἰ-

ρημένον· χαλεπὸν φάτ’ ἐσθλὸν ἔμμεναι.

θεὸς ἂν μόνος τοῦτ’ ἔχοι γέρας, ἄνδρα δ’ οὐκ

ἔστι μὴ οὐ κακὸν ἔμμεναι,

ὃν ἀμήχανος συμφορὰ καθέληι·

πράξας γὰρ εὖ πᾶς ἀνὴρ ἀγαθός,

κακὸς δ’ εἰ κακῶς [

[ἐπὶ πλεῖστον δὲ καὶ ἄριστοί εἰσιν

[οὓς ἂν οἱ θεοὶ φιλῶσιν.]

τοὔνεκεν οὔ ποτ’ ἐγὼ τὸ μὴ γενέσθαι

δυνατὸν διζήμενος κενεὰν ἐς ἄ-

πρακτον ἐλπίδα μοῖραν αἰῶνος βαλέω,

πανάμωμον ἄνθρωπον, εὐρυεδέος ὅσοι

καρπὸν αἰνύμεθα χθονός·

ἐπὶ δ᾽ὑμὶν εὑρὼν ἀπαγγελέω.

πάντας δ’ ἐπαίνημι καὶ φιλέω,

ἑκὼν ὅστις ἔρδηι

μηδὲν αἰσχρόν· ἀνάγκαι

δ’ οὐδὲ θεοὶ μάχονται.

[

[

[οὐκ εἰμὶ φιλόψογος, ἐπεὶ ἔμοιγε ἐξαρκεῖ

ὃς ἂν μὴ κακὸς ἦι] μηδ’ ἄγαν ἀπάλαμνος εἰ-

δώς γ’ ὀνησίπολιν δίκαν,

ὑγιὴς ἀνήρ· οὐ μὴν† ἐγὼ

μωμήσομαι· τῶν γὰρ ἠλιθίων

ἀπείρων γενέθλα.

πάντα τοι καλά, τοῖσίν τ’ αἰσχρὰ μὴ μέμεικται.

È veramente difficile diventare un uomo

valente nelle mani, nei piedi e nella mente,

quadrato, plasmato senza macchia.

[

[

[

[

[

[

[

E nemmeno, a mio avviso, risulta intonato quel

detto di Pittaco, benché si stato pronunciato da

uomo saggio: “È difficile – diceva – essere valente!”.

Soltanto un dio potrebbe avere questo privilegio,

non è possibile che non sia ignobile un uomo

che disgrazie irreparabili abbiano colto:

se ha successo, infatti, ogni uomo è buono,

ma se è inetto, le cose gli vanno male [

[del resto, i migliori per lungo tempo sono

[coloro che gli dèi prediligono].

E dunque, proprio io non butterò via una parte

della mia esistenza a cercare ciò che è impossibile

in una vuota e inconcludente speranza,

cioè, un uomo senza difetti, fra quanti

ci nutriamo del frutto dell’ampia terra;

ma se lo scoverò, ve lo farò sapere!

Io elogio e ammiro tutti coloro che,

di propria volontà, non commettono

alcunché di turpe: contro la necessità

nemmeno gli dèi combattono.

[

[

[Io non sono uno incline alla polemica, dacché mi

basta che uno non sia] malvagio né troppo inetto e

che conosca la giustizia che giova alla città,

un uomo moralmente sano; io non lo

biasimerò: infatti, è infinita

la generazione degli stolti.

Bello è tutto ciò a cui il male non si mescola.

Policleto, Doriforo. Statua, Copia in marmo di età romana dall’originale in bronzo del V secolo a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

L’argomento su cui è imperniato l’intero componimento consiste nella difficoltà (o forse meglio, nell’impossibilità!) per un essere umano di essere o diventare ἀγαθός («valente»). Vi sottende una problematica che è forse meglio evidente grazie a un confronto con il F 16 Voigt di Saffo, il cui tema centrale risponde alla domanda: «Che cos’è la cosa più bella?» (τί τὸ καλόν;); domanda per la quale, in età arcaica, esisteva un interesse particolare verso una sorta di gerarchia di valori. Quanto a Simonide, nello specifico, si è tentato di dire che su questo punto egli sia andato oltre Saffo: con il poeta di Ceo, infatti, si giunge alla critica di quei valori, uscendo da una considerazione personale (quale quella della poetessa di Lesbo) nella quale si indica un valore che supera tutti gli altri, per arrivare alla negazione di qualsiasi soluzione rigidamente gerarchica e definitiva. Simonide fu poeta portato a considerare la relatività dei valori. All’etica dell’assoluto (nobiltà, salute, ricchezza, ecc.), egli contrapponeva una “relatività” di principi, forse meno eroici ma più umani, che da un punto di vista estetico-agonale discendevano a quello più vasto dell’impegno civico e sociale dell’individuo nella πόλις.

Il carme è introdotto da tre versi retti dall’espressione γενέσθαι / χαλεπὸν (sott. ἔστι); γενέσθαι, aor. inf. di γίγνομαι, vuol dire letteralmente “entrare in un nuovo stato dell’essere”, quindi “divenire”. In τετράγωνος qualcuno ha ravvisato tracce della dottrina pitagorica, secondo la quale il numero 4 e il quadrato rappresenterebbero la perfezione, la massima compiutezza. Non si esclude, tuttavia, che Simonide alluda piuttosto al canone delle quattro virtù – che ha numerose attestazioni – la più celebre delle quali si ha in Platone: saggezza, temperanza, coraggio e giustizia (cfr. Pind. N II); τετυγμένον, part. perf. di τεύχω, “creare, plasmare”. Quanto a Pittaco di Mitilene, com’è noto, egli era annoverato fra i Sette Sapienti: la citazione di una sua massima da parte del poeta rivela, per la prima volta nella letteratura greca, la volontà di precisare la paternità del materiale utilizzato da un autore. Il tiranno di Lesbo è definito σοφοῦ… φωτὸς (v. 12): l’aggettivo, qui attestato per la prima volta nei riguardi del personaggio, lo include decisamente nel canone dei grandi saggi; il sostantivo, invece, è un omerismo per dire “uomo” (anche se nell’accezione epica andrebbe inteso come “uomo dalle qualità eccezionali”).

Il poeta muove una polemica personale al motto del tiranno, uomo arcaico: contrappone infatti al suo ἔμμεναι (inf. eol. di εἰμί, “essere”) il proprio γενέσθαι (“divenire”); “essere” al presente infinito indica una condizione costante, statica e continua, propria di una persona o di una cosa. Nella concezione arcaica, dunque, un individuo nasceva già “valente” e sarebbe rimasto tale in tutto l’arco della sua esistenza. Diversamente, “diventare” presuppone una realtà completamente opposta, nella quale la persona, come ogni altra cosa, è soggetta al divenire, al mutevole, all’influsso variabile delle circostanze contingenti.

Scultore anonimo. Auriga di Delfi. Statua, bronzo, c. 475 a.C. dal Santuario di Apollo Pizio. Delfi, Museo Archeologico.

Simonide, insomma, della società del suo tempo sottolinea la difficoltà a raggiungere lo stato di eccellenza e di perfezione proprio degli uomini di una volta, cui quelli di oggi devono comunque aspirare e protendersi, malgrado le difficoltà e i condizionamenti della vita. Solo alla divinità, infatti, è concesso il privilegio di “essere”: gli dèi, una volta venuti alla luce, sono immutabili, eternamente giovani ed eternamente belli. Quest’idea è rimarcata anche da Pindaro (Pyth. X 21-22), che afferma: «Non un uomo, ma un dio sarebbe chi avesse il cuore scevro d’affanni». Ma mentre per Pindaro è possibile che una persona, oltre a mille difficoltà e tribolazioni, raggiunga una stabile felicità (anche in virtù dello status sociale e del favore divino di cui possa godere), per Simonide, invece, la vicenda umana è sempre e costantemente soggetta al mutare delle cose: perciò, la valentia di ciascuno è determinata dalla condizione in cui egli si trova. Di conseguenza, le contingenze diventano per Simonide gli unici criteri che consentano di giudicare la condizione mortale.

A ben vedere, inoltre, questa idea del divenire e del continuo mutare troverà un ulteriore sviluppo nella seconda metà del V secolo, realizzandosi pienamente con il fiorire della tragedia. A tal proposito, basti ricordare che nell’Edipo re di Sofocle si dice: «Non dire felice un uomo mortale prima che abbia varcato il termine della vita senza aver patito dolore». Si tratta di un concetto altresì presente in Erodoto (III 40, 3): «Nessun uomo io conosco che, felice in ogni cosa, non sia poi finito male, sconvolto dalle radici».

La novità del componimento simonideo sta soprattutto nel fatto che il brano non si limita alla polemica fine a sé stessa, ma propone una nuova visione delle cose: siccome non è possibile trovare un uomo perfetto, il poeta dichiara di non aver alcuna intenzione di sprecare il proprio tempo a cercarlo. La nuova società del V secolo rifiuta ormai l’ideale tradizionale dell’ἀρετή, che basava la condizione sociale del singolo in base alla sua stirpe (γένος); il poeta constata che la natura (φύσις) dell’uomo è fragile, momentanea e istantanea. Simonide, dunque, offre un nuovo modello valoriale, relativo all’individuo che dev’essere eticamente “sano” e “integro”, esercitando ed esprimendo la propria volontà senza commettere turpitudini. Questi, del resto, saranno i temi chiave dell’ideologia democratica.

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Riferimenti bibliografici:

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L’eccezionalità della “res publica” romana (Polyb. VI 11, 11-13; 12-14)

di I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca. III. L’Ellenismo e la tarda grecità, Messina-Firenze 2004, 555-559; cfr. Polibio, Storie, vol. III (libri V-VI), eds. D. Musti, M. Mari, J. Thornton, 294-303.

Polibio muove la sua analisi affermando di voler completare un aspetto finora carente nella sua trattazione, per colmare una lacuna che potrebbe attirargli il rimprovero dei lettori o di storiografi forse non troppi competenti, ma pronti a criticare, anche senza fondati motivi, l’operato altrui. L’autore precisa soprattutto che la sua indagine sulle forme della costituzione della res publica romana si riferisce agli immediatamente successivi alla battaglia di Canne (216 a.C.), un momento talmente critico da costituire un’eccellente pietra di paragone per evidenziare la solidità e le capacità di ripresa dei Romani.

Scena di sacrificio (𝑠𝑢𝑜𝑣𝑒𝑡𝑎𝑢𝑟𝑖𝑙𝑖𝑎). Affresco, 𝑎𝑛𝑡𝑒 79 d.C. dall’agro pompeiano, loc. Moregine, edificio B.

[11. 11] Ἦν μὲν δὴ τρία μέρη τὰ κρατοῦντα τῆς πολιτείας, ἅπερ εἶπα πρότερον ἅπαντα· οὕτως δὲ πάντα κατὰ μέρος ἴσως καὶ πρεπόντως συνετέτακτο καὶ διῳκεῖτο διὰ τούτων ὥστε μηδένα ποτ’ ἂν εἰπεῖν δύνασθαι βεβαίως μηδὲ τῶν ἐγχωρίων πότερ’ ἀριστοκρατικὸν τὸ πολίτευμα σύμπαν ἢ δημοκρατικὸν [12] ἢ μοναρχικόν. καὶ τοῦτ’ εἰκὸς ἦν πάσχειν. ὅτε μὲν γὰρ εἰς τὴν τῶν ὑπάτων ἀτενίσαιμεν ἐξουσίαν, τελείως μοναρχικὸν ἐφαίνετ’ εἶναι καὶ βασιλικόν, ὅτε δ’ εἰς τὴν τῆς συγκλήτου, πάλιν ἀριστοκρατικόν· καὶ μὴν εἰ τὴν τῶν πολλῶν ἐξουσίαν θεωροίη τις, [13] ἐδόκει σαφῶς εἶναι δημοκρατικόν. ὧν δ’ ἕκαστον εἶδος μερῶν τῆς πολιτείας ἐπεκράτει, καὶ τότε καὶ νῦν ἔτι πλὴν ὀλίγων τινῶν ταῦτ’ ἐστίν.

[12. 1] Οἱ μὲν γὰρ ὕπατοι πρὸ τοῦ μὲν ἐξάγειν τὰ στρατόπεδα παρόντες ἐν Ῥώμῃ πασῶν εἰσι κύριοι τῶν [2] δημοσίων πράξεων. οἵ τε γὰρ ἄρχοντες οἱ λοιποὶ πάντες ὑποτάττονται καὶ πειθαρχοῦσι τούτοις πλὴν τῶν δημάρχων, εἴς τε τὴν σύγκλητον οὗτοι τὰς [3] πρεσβείας ἄγουσι. πρὸς δὲ τοῖς προειρημένοις οὗτοι τὰ κατεπείγοντα τῶν διαβουλίων ἀναδιδόασιν, οὗτοι τὸν ὅλον χειρισμὸν τῶν δογμάτων ἐπιτελοῦσι. [4] καὶ μὴν ὅσα δεῖ διὰ τοῦ δήμου συντελεῖσθαι τῶν πρὸς τὰς κοινὰς πράξεις ἀνηκόντων, τούτοις καθήκει φροντίζειν καὶ συνάγειν τὰς ἐκκλησίας, τούτοις εἰσφέρειν τὰ δόγματα, τούτοις βραβεύειν τὰ δοκοῦντα [5] τοῖς πλείοσι. καὶ μὴν περὶ πολέμου κατασκευῆς καὶ καθόλου τῆς ἐν ὑπαίθροις οἰκονομίας σχεδὸν αὐτοκράτορα [6] τὴν ἐξουσίαν ἔχουσι. καὶ γὰρ ἐπιτάττειν τοῖς συμμαχικοῖς τὸ δοκοῦν, καὶ τοὺς χιλιάρχους καθιστάναι, καὶ διαγράφειν τοὺς στρατιώτας, καὶ [7] διαλέγειν τοὺς ἐπιτηδείους τούτοις ἔξεστι. πρὸς δὲ τοῖς εἰρημένοις ζημιῶσαι τῶν ὑποταττομένων ἐν τοῖς ὑπαίθροις ὃν ἂν βουληθῶσι κύριοι καθεστᾶσιν. [8] ἐξουσίαν δ’ ἔχουσι καὶ δαπανᾶν τῶν δημοσίων ὅσα προθεῖντο, παρεπομένου ταμίου καὶ πᾶν τὸ προσταχθὲν [9] ἑτοίμως ποιοῦντος. ὥστ’ εἰκότως εἰπεῖν ἄν, ὅτε τις εἰς ταύτην ἀποβλέψειε τὴν μερίδα, διότι μοναρχικὸν ἁπλῶς καὶ βασιλικόν ἐστι τὸ πολίτευμα. [10] εἰ δέ τινα τούτων ἢ τῶν λέγεσθαι μελλόντων λήψεται μετάθεσιν ἢ κατὰ τὸ παρὸν ἢ μετά τινα χρόνον, οὐδὲν ἂν εἴη πρὸς τὴν νῦν ὑφ’ ἡμῶν λεγομένην ἀπόφασιν.

[13. 1] Καὶ μὴν ἡ σύγκλητος πρῶτον μὲν ἔχει τὴν τοῦ ταμιείου κυρίαν. καὶ γὰρ τῆς εἰσόδου πάσης αὕτη [2] κρατεῖ καὶ τῆς ἐξόδου παραπλησίως. οὔτε γὰρ εἰς τὰς κατὰ μέρος χρείας οὐδεμίαν ποιεῖν ἔξοδον οἱ ταμίαι δύνανται χωρὶς τῶν τῆς συγκλήτου δογμάτων [3] πλὴν τὴν εἰς τοὺς ὑπάτους· τῆς τε παρὰ πολὺ τῶν ἄλλων ὁλοσχερεστάτης καὶ μεγίστης δαπάνης, ἣν οἱ τιμηταὶ ποιοῦσιν εἰς τὰς ἐπισκευὰς καὶ κατασκευὰς τῶν δημοσίων κατὰ πενταετηρίδα, ταύτης ἡ σύγκλητός ἐστι κυρία, καὶ διὰ ταύτης γίνεται τὸ [4] συγχώρημα τοῖς τιμηταῖς. ὁμοίως ὅσα τῶν ἀδικημάτων τῶν κατ’ Ἰταλίαν προσδεῖται δημοσίας ἐπισκέψεως, λέγω δ’ οἷον προδοσίας, συνωμοσίας, φαρμακείας, δολοφονίας, τῇ συγκλήτῳ μέλει περὶ τούτων. [5] πρὸς δὲ τούτοις, εἴ τις ἰδιώτης ἢ πόλις τῶν κατὰ τὴν Ἰταλίαν διαλύσεως ἢ (καὶ νὴ Δί’) ἐπιτιμήσεως ἢ βοηθείας ἢ φυλακῆς προσδεῖται, τούτων πάντων ἐπιμελές [6] ἐστι τῇ συγκλήτῳ. καὶ μὴν εἰ τῶν ἐκτὸς Ἰταλίας πρός τινας ἐξαποστέλλειν δέοι πρεσβείαν τιν’ ἢ διαλύσουσάν τινας ἢ παρακαλέσουσαν ἢ καὶ νὴ Δί’ ἐπιτάξουσαν ἢ παραληψομένην ἢ πόλεμον ἐπαγγέλλουσαν. [7] αὕτη ποιεῖται τὴν πρόνοιαν. ὁμοίως δὲ καὶ τῶν παραγενομένων εἰς Ῥώμην πρεσβειῶν ὡς δέον ἐστὶν ἑκάστοις χρῆσθαι καὶ ὡς δέον ἀποκριθῆναι, πάντα ταῦτα χειρίζεται διὰ τῆς συγκλήτου. πρὸς δὲ τὸν [8] δῆμον καθάπαξ οὐδέν ἐστι τῶν προειρημένων. ἐξ ὧν πάλιν ὁπότε τις ἐπιδημήσαι μὴ παρόντος ὑπάτου, [9] τελείως ἀριστοκρατικὴ φαίνεθ’ ἡ πολιτεία. ὃ δὴ καὶ πολλοὶ τῶν Ἑλλήνων, ὁμοίως δὲ καὶ τῶν βασιλέων, πεπεισμένοι τυγχάνουσι, διὰ τὸ τὰ σφῶν πράγματα σχεδὸν πάντα τὴν σύγκλητον κυροῦν.

[14. 1] Ἐκ δὲ τούτων τίς οὐκ ἂν εἰκότως ἐπιζητήσειε ποία καὶ τίς ποτ’ ἐστὶν ἡ τῷ δήμῳ καταλειπομένη [2] μερὶς ἐν τῷ πολιτεύματι, τῆς μὲν συγκλήτου τῶν κατὰ μέρος ὧν εἰρήκαμεν κυρίας ὑπαρχούσης, τὸ δὲ μέγιστον, ὑπ’ αὐτῆς καὶ τῆς εἰσόδου καὶ τῆς ἐξόδου χειριζομένης ἁπάσης, τῶν δὲ στρατηγῶν ὑπάτων πάλιν αὐτοκράτορα μὲν ἐχόντων δύναμιν περὶ τὰς τοῦ πολέμου παρασκευάς, αὐτοκράτορα δὲ τὴν ἐν [3] τοῖς ὑπαίθροις ἐξουσίαν; οὐ μὴν ἀλλὰ καταλείπεται μερὶς καὶ τῷ δήμῳ, καὶ καταλείπεταί γε βαρυτάτη. [4] τιμῆς γάρ ἐστι καὶ τιμωρίας ἐν τῇ πολιτείᾳ μόνος ὁ δῆμος κύριος, οἷς συνέχονται μόνοις καὶ δυναστεῖαι καὶ πολιτεῖαι καὶ συλλήβδην πᾶς ὁ τῶν ἀνθρώπων [5] βίος. παρ’ οἷς γὰρ ἢ μὴ γινώσκεσθαι συμβαίνει τὴν τοιαύτην διαφορὰν ἢ γινωσκομένην χειρίζεσθαι κακῶς, παρὰ τούτοις οὐδὲν οἷόν τε κατὰ λόγον διοικεῖσθαι τῶν ὑφεστώτων· πῶς γὰρ εἰκὸς [6] ἐν ἴσῃ τιμῇ [ὄντων] τῶν ἀγαθῶν τοῖς κακοῖς; κρίνει μὲν οὖν ὁ δῆμος καὶ διαφόρου πολλάκις, ὅταν ἀξιόχρεων ᾖ τὸ τίμημα τῆς ἀδικίας, καὶ μάλιστα τοὺς τὰς ἐπιφανεῖς ἐσχηκότας ἀρχάς. θανάτου δὲ κρίνει [7] μόνος. καὶ γίνεταί τι περὶ ταύτην τὴν χρείαν παρ’ αὐτοῖς ἄξιον ἐπαίνου καὶ μνήμης. τοῖς γὰρ θανάτου κρινομένοις, ἐπὰν καταδικάζωνται, δίδωσι τὴν ἐξουσίαν τὸ παρ’ αὐτοῖς ἔθος ἀπαλλάττεσθαι φανερῶς, κἂν ἔτι μία λείπηται φυλὴ τῶν ἐπικυρουσῶν τὴν κρίσιν ἀψηφοφόρητος, ἑκούσιον ἑαυτοῦ καταγνόντα [8] φυγαδείαν. ἔστι δ’ ἀσφάλεια τοῖς φεύγουσιν ἔν τε τῇ Νεαπολιτῶν καὶ Πραινεστίνων, ἔτι δὲ Τιβουρίνων πόλει, καὶ ταῖς ἄλλαις, πρὸς ἃς ἔχουσιν [9] ὅρκια. καὶ μὴν τὰς ἀρχὰς ὁ δῆμος δίδωσι τοῖς ἀξίοις· ὅπερ ἐστὶ κάλλιστον ἆθλον ἐν πολιτείᾳ καλοκἀγαθίας. [10] ἔχει δὲ τὴν κυρίαν καὶ περὶ τῆς τῶν νόμων δοκιμασίας, καὶ τὸ μέγιστον, ὑπὲρ εἰρήνης [11] οὗτος βουλεύεται καὶ πολέμου. καὶ μὴν περὶ συμμαχίας καὶ διαλύσεως καὶ συνθηκῶν οὗτός ἐστιν ὁ βεβαιῶν ἕκαστα τούτων καὶ κύρια ποιῶν ἢ τοὐναντίον. [12] ὥστε πάλιν ἐκ τούτων εἰκότως ἄν τιν’ εἰπεῖν ὅτι μεγίστην ὁ δῆμος ἔχει μερίδα καὶ δημοκρατικόν ἐστι τὸ πολίτευμα.

C. Cassio Longino. Denario, Roma 63 a.C. 𝐴𝑟. 3,75 gr. Rovescio: 𝐿𝑜𝑛𝑔𝑖𝑛(𝑢𝑠) 𝐼𝐼𝐼𝑉(𝑖𝑟). Cittadino in atto di votare, stante, verso sinistra, mentre ripone una tabella contrassegnata con 𝑈(𝑡𝑖 𝑟𝑜𝑔𝑎𝑠) in una cista.

“Erano dunque tre gli elementi dominanti nella costituzione, che ho tutti citati in precedenza; ogni settore dell’amministrazione in particolare era stato disposto e veniva regolato per mezzo di loro in modo così equo e conveniente che nessuno, nemmeno tra i cittadini stessi, avrebbe potuto dire con sicurezza se questo sistema politico nel suo complesso fosse aristocratico, democratico o monarchico. Ed era naturale che la pensassero così. A fissare lo sguardo sull’autorità dei consoli, infatti, esso ci sarebbe apparso senz’altro monarchico e regale; considerando invece il potere del Senato, aristocratico; se, invece, ci fossimo soffermati su quello del popolo, sarebbe sembrato chiaramente democratico. Ciascuna di queste componenti aveva le sue competenze di governo e, salvo alcune modifiche, sia allora che oggi sono le seguenti.

I consoli, prima di guidare le legioni per una spedizione militare, quando si trovano a Roma esercitano la loro autorità su tutti gli affari pubblici. Infatti, tutti gli altri magistrati, a accezione dei tribuni della plebe, sono subordinati e obbediscono a loro, i quali introducono anche le ambascerie straniere in Senato. Oltre a quanto si è già detto, sono loro a proporre le deliberazioni urgenti e a curare per intero l’attuazione dei decreti. Per di più, tocca a loro provvedere a tutte le questioni concernenti gli affari pubblici, che devono essere trattate con l’intervento del popolo: proporre i decreti, dirigere l’esecuzione delle decisioni dei più. Ancora, hanno un’autorità quasi assoluta nei preparativi di guerra e, in generale, nella condotta sul campo. Hanno infatti facoltà di dare ai contingenti alleati le disposizioni che ritengono opportune, di nominare i tribuni militari, di arruolare i soldati e scegliere quelli idonei. Oltre a quanto si è detto, sul campo hanno l’autorità di infliggere punizioni a chi vogliono, tra i loro subordinati. Sono anche autorizzati a investire, del denaro pubblico, le cifre che stabiliscono: un questore li accompagna ed esegue prontamente ciò che gli è stato ordinato. Perciò, se qualcuno prendesse in considerazione questi aspetti, potrebbe a buon diritto affermare che l’organizzazione politica sia veramente monarchica e regia. E se alcune di queste cose o di quelle che sto per dire subirà qualche cambiamento o nel presente o fra qualche tempo, non smentirebbe quanto affermiamo ora.

Il Senato, da parte sua, esercita la sua autorità in primo luogo sull’erario: esso controlla infatti tutte le entrate e, analogamente, le uscite. I questori, infatti, non possono fare alcuna spesa, per esigenze particolari, senza decreto senatorio, a eccezione degli investimenti destinati ai consoli; sulla spesa di gran lunga più importante e gravosa di tutte – quella che i censori fanno ogni cinque anni per restaurare o costruire opere pubbliche – il Senato esercita il proprio controllo, e da esso viene la concessione ai censori. Nello stesso modo, di tutti i reati commessi in Italia che richiedano un’inchiesta pubblica – mi riferisco, per esempio, a tradimenti, congiure, venefici, omicidi – si occupa il Senato. Inoltre, se un privato, o un’intera città italica, ha bisogno di un arbitrato o magari di una censura, o di soccorso, oppure ancora di sorveglianza, di tutto ciò si occupa sempre il Senato. Per di più, se bisogna inviare un’ambasceria all’estero o per un’opera di pacificazione, o per avanzare richieste, o magare per dare ordini, o per accettare sottomissioni, o per dichiarare guerra, esso vi provvede puntualmente. Allo stesso modo, ancora, è il Senato a stabilire come si debbano trattare tutte le delegazioni che giungono a Roma e quale risposta si debba dare loro. In nessuna di queste faccende interviene il popolo. In conseguenza di ciò, quando qualche straniero soggiorna in città in assenza dei magistrati, la forma di governo può sembrargli compiutamente aristocratica. E di ciò sono convinti anche molti dei Greci e dei re, perché il Senato ha la competenza di quasi tutti i loro affari.

Visto e considerato tutto ciò, è lecito domandarsi quale sia mai la parte lasciata al popolo in questo ordinamento, dal momento che il Senato ha il controllo su tutte le questioni particolari delle quali abbiamo parlato e che – l’aspetto più importante – regolamenta tutte le entrate e le uscite, mentre i consoli, da parte loro, detengono pieni poteri sui preparativi di guerra e autorità assoluta in battaglia. Ebbene, anche al popolo viene lasciata una parte, e assai rilevante. Soltanto il popolo, infatti, in questa costituzione, ha il controllo degli onori e delle pene, le sole cose dalle quali sono tenuti uniti gli imperi, le città e, insomma, la vita della gente! Dove tale distinzione o non è conosciuta o, pur essendo nota, è praticata male, infatti, nessuna questione può essere risolta con criterio: e come potrebbe, visto che i buoni sono considerati alla stregua dei cattivi? Il popolo, dunque, spesso giudica una causa che prevede sanzioni pecuniarie, quando l’ammenda per il reato sia considerevole, e soprattutto giudica coloro che hanno ricoperto cariche importanti. È il solo a deliberare sulle cause capitali. Riguardo a quest’uso, avviene presso di loro una cosa degna di lode e di menzione. A coloro che vengono giudicati in una causa capitale, infatti, appena vengono condannati, il costume vigente presso di loro concede la facoltà di allontanarsi apertamente se resta anche una sola tribù, tra quelle che emanano il giudizio, a non aver ancora votato, condannandosi all’esilio volontario. Gli esuli sono al sicuro nelle città di Napoli, Preneste e Tivoli, e nelle altre con le quali hanno stretto patti giurati. Per di più, il popolo assegna le cariche a chi n’è degno: questa, in un ordinamento politico è la più bella ricompensa per la rettitudine di un uomo! Il popolo esercita la sua autorità anche sull’approvazione delle leggi e il dato più notevole è che sia esso a decidere della pace e della guerra. Per giunta, riguardo a un’alleanza, a un trattato di pace e alla stipula di patti, è il popolo a ratificare e a rendere operante o meno ciascuno di questi atti. Così, ancora, da ciò si potrebbe a buon diritto concludere che il popolo romano detenga un ruolo importantissimo nel sistema politico e che questo sia a tutti gli effetti democratico”.

Scena di lettura del testamento davanti al magistrato. Bassorilievo, marmo, I sec. a.C. da un sarcofago.

L’analisi dell’ordinamento romano operata dallo storico greco coincide con il momento di massima efficienza della res publica, che, uscita poi vincitrice dalla durissima prova delle guerre contro Cartagine, non aveva trovato ostacoli degni di nota alla sua espansione nel bacino orientale del Mediterraneo. Questo stato di cose non solo indusse Polibio a tentare di convincere i propri connazionali a cedere di buon grado alla nuova potenza, ma lo spinse anche ad approfondire lo studio delle istituzioni e delle usanze romane, allo scopo di mettere in luce quei caratteri che, secondo lui, dopo aver facilitato la rapida ascesa dell’Urbe, avrebbero anche garantito la solidità e la lunga durata (non l’eternità e l’immutabilità) della sua egemonia. Questo tipo di indagine non era nuovo presso i Greci: l’esempio più antico e autorevole si trova infatti in Erodoto (Hdt. III 80-83), in un celebre passo nel quale Dario e i suoi compagni, Otane e Megabizo, stroncata la congiura dei Magi, discutono fra loro su quale sia la migliore forma di governo (λόγος τριπολιτικός). Tale analisi, poi ripresa in forma molto più estesa e approfondita nei vasti sistemi filosofici di Platone e di Aristotele, aveva finito con giungere a una schematizzazione teorica, fondata su una duplice tripartizione, che valutava gli aspetti positivi e negativi di ciascun ordinamento statale: monarchia e tirannide, aristocrazia e oligarchia, democrazia e oclocrazia, evidenziandone la dinamica e le cause di mutamento e degenerazione. Dopo aver constatato, attraverso la considerazione dei fatti storici, che ciascuna di questi regimi contenesse in sé, per natura, i germi del proprio cambiamento e della propria distruzione, si era approdati alla convinzione che la costituzione migliore fosse quella mista, che riuniva in sé le caratteristiche più valide delle tre forme positive. Fino a Polibio, il modello ideale era stato identificato nella costituzione degli Spartani stabilita da Licurgo, fondata sull’interazione del potere dei due re (δυαρχία), della γερουσία (consiglio degli anziani) e degli ἔφοροι (guardiani del popolo), che controllavano l’operato dei re. Polibio segue questa stessa linea di ricerca, senza pretesa di originalità, ma affermando di voler chiarire, verificare e completare le conclusioni a cui erano giunti tutti i suoi predecessori con il concreto appoggio della sua diretta esperienza. Infatti, avendo vissuto in un periodo di grandi e rapidi mutamenti politici, la compatta solidità con cui i Romani avevano reagito a momenti estremamente difficili della loro storia, come la sconfitta del Trasimeno o quella, ancor più disastrosa, di Canne, lo aveva convinto a vedere nell’ordinamento quiritario un modello perfetto di costituzione mista, pur ammettendo che anch’essa avrebbe potuto modificarsi nel tempo, essendo soggetta – come ogni fatto umano – all’eterna legge del divenire.

Le osservazioni dello storico megalopolitano sull’assetto politico dei Romani suscitano nel lettore l’impressione che l’autore provasse un’incondizionata ammirazione per questa forma istituzionale, che sembra avere, ai suoi occhi, soltanto caratteristiche positive. Ciò è dovuto probabilmente al fatto che egli ebbe modo di fare le sue valutazioni in un periodo in cui il governo della res publica aveva raggiunto il massimo grado di funzionalità, mentre le questioni che ne avrebbero in seguito determinato la decadenza erano ancora abbastanza lontane e indefinite. Alla mente di Polibio, tesa a una visione universale del divenire storico, le vicende di Roma apparivano del tutto diverse da quelle di altri popoli e civiltà; nessun’altra delle nazioni di cui egli aveva seguito la parabola, dapprima in ascesa e poi sempre più declinante verso l’inevitabile decadenza, aveva avuto la forza di coesione, la disciplina, le capacità di reazione dei Romani, né tantomeno aveva avuto le qualità necessarie per attirare nella propria orbita le altre potenze del mondo antico. Queste peculiarità meritavano un’indagine più approfondita sia per soddisfare l’interesse dello storico, posto per la prima volta di fronte a una realtà nuova, sia per l’utilità dei suoi lettori, fine ultimo del suo lavoro.

Un console (𝑐𝑜𝑛𝑠𝑢𝑙) in tenuta da campagna, con il suo seguito di scribae e lictores. Illustrazione di A. McBride.

Fedele alla concretezza che permea tutta l’opera, Polibio evita considerazioni di carattere puramente teorico e ideologico, calandosi nella realtà dei fatti. In quest’ottica, lo statuto misto di Roma viene presentato come un solido e ben connesso organismo, le cui parti interagiscono attivamente, grazie alle possibilità di intervento e di veto di cui dispongono, pur nel rispetto delle specifiche competenze attribuite a ciascuna, in un sistema di complementarietà saldamente equilibrata. Anziché disquisire in maniera astratta sulle possibilità, sulle caratteristiche e sugli effetti delle varie organizzazioni statali (come, per esempio, aveva fatto Erodoto), o di dar vita all’utopia dello “Stato ideale”, lasciandosi vincere dal fascino della speculazione filosofica, Polibio si cala nel cuore di una realtà empirica senza idealizzarla, presentandola nei suoi meccanismi e nei suoi obiettivi utilitaristici.

Condizione irrinunciabile perché ciascuna delle tre componenti, minuziosamente analizzate nei poteri e nei compiti specifici, possa funzionare nel migliore dei modi in collaborazione con le altre è l’esistenza di un chiaro fine comune, che implichi per tutte uguali responsabilità e uguali vantaggi. Poiché la validità di questi principi si può saggiare soprattutto nelle situazioni più difficili, le guerre puniche costituirono, agli occhi dello storico, un eccellente banco di prova per dimostrare la tenuta dell’ordinamento romano, derivata dalla volontà di tutte le sue componenti di affrontare ogni sacrificio per la sopravvivenza di un organismo in cui sia la collettività sia i singoli cittadini si identificavano con egual convinzione.

Paradossalmente, per un autore come Polibio, deciso a rifiutare con assoluta coerenza qualsiasi forma di teorizzazione distaccata dalla realtà storica, l’utopia dello “Stato perfetto” sembra incarnarsi proprio nel Senatus popolusque Romanus. Forse, finché lo storico visse (scomparve nel 124 o nel 118 a.C.), la stabilità delle istituzioni fu tale da alimentare in lui la certezza di una lunga durata nel tempo; ma già nel 129, la morte violenta e misteriosa del suo fraterno sodale, Publio Cornelio Scipione Emiliano, preannunciava i sintomi di una crisi non solo istituzionale, ma anche politica e morale, che avrebbe corroso dall’interno quell’ordinamento che, fino ad allora, aveva resistito con granitica compattezza a ogni attacco esterno, anche quando, dopo Canne, i suoi cittadini avevano gridato per le strade: Hannibal ad portas!

Callimedonte, tra crostacei e buffoni

Telefane e il suo trattato 𝑆𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑐𝑖𝑡𝑡𝑎̀ sono noti unicamente grazie alla citazione di Ateneo di Naucrati[1]. Il titolo Περὶ τοῦ ἄστεος suggerisce che l’opera apparteneva al filone della letteratura periegetica, e cioè che era una sorta di “guida” di Atene, anche se nulla osta che possa essersi trattato di altro, dato che nel frammento superstite si ha soltanto il riferimento al demo di Diomea, al suo celebre 𝐻𝑒𝑟𝑎𝑘𝑙𝑒𝑖𝑜𝑛 e a un’associazione di “professionisti della risata”. Jacoby (𝐹𝐻𝐺 IV, 507) nel suo commento al passo aveva ipotizzato che l’autore fosse di età imperiale (forse del II secolo?), ma nulla vieta di pensare che possa essere vissuto in epoca precedente[2].

Ippoloco il Macedone nella sua lettera a Linceo ricorda i buffoni attici Mandrogene e Stratone. Ad Atene c’era un gran numero di furbi di questa razza: per esempio, nel tempio di Eracle nel demo di Diomea se ne riuniva una sessantina, e in città erano appunto conosciuti come i “Sessanta” e si diceva: «Questo l’hanno detto i Sessanta», e anche: «Sono stato dai Sessanta». Tra costoro c’erano Callimedonte, detto “l’Aragosta”, e Dinia, e poi Mnasigitone e Menecmo, come afferma Telefane nel suo saggio 𝑆𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑐𝑖𝑡𝑡𝑎̀. Tale divenne la fama del loro umorismo che anche Filippo II di Macedonia, quando ne sentì parlare, mandò loro un talento perché mettessero per iscritto le battute e gliene inviassero.

Pittore Pitone. Un attore di farsa fliacica con canestro. Sul lato A di un cratere a campana a figure rosse, 360-350 a.C. ca. da Paestum. Paris, Musée du Louvre.

Il libro XIV dei 𝐷𝑒𝑖𝑝𝑛𝑜𝑠𝑜𝑓𝑖𝑠𝑡𝑖 dedica i primi capitoli ai cosiddetti γελωτοποιοί («buffoni»)[3]. A questa categoria di epoca tardo-classica ed ellenistica appartenevano anche i πλάνοι («burloni», «illusionisti»; ma anche «impostori»), i quali esercitavano propriamente l’arte di ingannare gli altri. Ateneo, in particolare, ne ricorda soprattutto due: Cefisodoro e Pantaleonte[4]. Del primo parla il commediografo Dionisio di Sinope negli 𝑂𝑚𝑜𝑛𝑖𝑚𝑖 (Ὁμώνυμοι), titolo che tradisce con ogni probabilità una serie equivoci in cui incappavano due personaggi dello stesso nome:

Si dice che ad Atene ci fosse un tal Cefisodoro

detto il Burlone, che dedicava

il suo tempo a quest’attività.

Costui correva veloce in salita,

ma poi faceva la discesa tranquillo, appoggiandosi al suo bastone[5].

Ne parlava anche il comico Nicostrato in un frammento de 𝐼𝑙 𝑆𝑖𝑟𝑜 (Σύρος):

Per Zeus, non male ha fatto Cefisodoro

il Burlone, che si dice abbia messo in una strettoia

dei portatori con fascine in braccio, così che nessuno potesse più passare[6].

Invece, delle trovate di Pantaleonte riferisce Teogneto ne 𝐼𝑙 𝑠𝑒𝑟𝑣𝑜 𝑑𝑒𝑣𝑜𝑡𝑜 (Φιλοδέσποτος):

Questo stesso Pantaleonte si prendeva gioco dei forestieri

e di chi non lo conosceva, e di solito si comportava

come sotto l’effetto di una sbornia, perché per far ridere

s’era inventato un modo tutto suo di parlare[7].

Perfino lo stoico Crisippo di Soli parla di costui nel V libro del suo trattato 𝑆𝑢𝑙 𝑏𝑒𝑛𝑒 𝑒 𝑠𝑢𝑙 𝑝𝑖𝑎𝑐𝑒𝑟𝑒:

Quel burlone di Pantaleonte sul letto di morte si prese gioco di entrambi i figli, uno dopo l’altro, dicendo a ciascuno, separatamente, che solo a lui avrebbe rivelato dove avesse sepolto il suo tesoro; così, quando in seguito si ritrovarono a scavare inutilmente fianco a fianco, quelli si accorsero di essere stati gabbati[8].

Pittore Asteas. Scena di farsa fliacica – tre uomini (Gynmilos, Kosios e Karion) derubano un poveraccio (Kharinos) nella sua stessa casa. Lato A di un calyx-krater, 350-340 a.C. ca., da Sant’Agata dei Goti. Paris, Musée du Louvre.

Nel passo di Telefane, l’accenno agli artisti attici Mandrogene e Stratone, di cui parla il macedone Ippoloco nella sua lettera al comico Linceo di Samo[9], porta il discorso a un’ulteriore digressione sui giullari più in voga nell’Atene di IV secolo e alla menzione di una consorteria, nota come “i Sessanta” (οἱ ξ̄); a quanto pare, doveva trattarsi di un cenacolo di gaudenti, famoso in tutta la Grecia per i suoi spettacoli faceti, che aveva sede presso il santuario di Eracle nel demo di Diomea: questo 𝐻𝑒𝑟𝑎𝑘𝑙𝑒𝑖𝑜𝑛, strettamente connesso al ginnasio di Cinosarge, appena fuori le mura di Atene, ospitava una grande festa in onore del semidio, con processioni, sacrifici e banchetti sacri[10].

Il cenacolo dei “Sessanta” è letteralmente un ℎ𝑎́𝑝𝑎𝑥 𝑙𝑒𝑔𝑜́𝑚𝑒𝑛𝑜𝑛, non ricorrendo in altre fonti. A rigor di termini, Ateneo riporta Telefane solo per i nomi di alcuni membri di questa consorteria, non per l’interesse mostrato da re Filippo per le buffonate. Tuttavia, altrove il Naucratita (Aᴛʜᴇɴ. VI 76, 260d) riferisce che «a quelli che si riunivano ad Atene nel tempio di Eracle di Diomea per parlare di argomenti ridicoli, [Filippo] era solito mandare una quantità adeguata di monetine e ordinava ad alcuni di trascrivere ciò che dicevano e di inviargli il tutto», riprendendo l’aneddoto da Egesandro di Delfi[11]; se anche Telefane accennasse al medesimo fatto rimane oscuro.

In ogni caso, l’aneddoto secondo il quale il sovrano argeade fu disposto a pagare di tasca propria pur di avere una copia scritta delle battute dei “Sessanta” dimostrerebbe che questo cenacolo avesse raggiunto una certa notorietà prima della battaglia di Cheronea, ma non è dato sapere quanto a lungo rimase in attività dopo il 338 a.C.

Ora, la passione di Filippo il Macedone per buffoni e motteggiatori, barzellette e canzoni oscene, nonché per la volgarità, le bisbocce e la dissolutezza è altrimenti ben attestata. A questo proposito, si può ricordare che il suo nemico giurato, l’oratore Demostene, si esprimeva in questi termini: «… e gente evitata da tutti, … attori di pagliacciate e autori di pessime canzoni presentati ai suoi ospiti per allietarli; questi gli piacciono e li tiene intorno a sé»[12].

Pare che lo stesso argomento fosse ampiamente affrontato anche da Teopompo di Chio nelle sue 𝑆𝑡𝑜𝑟𝑖𝑒 𝑓𝑖𝑙𝑖𝑝𝑝𝑖𝑐ℎ𝑒. Nel IX libro, dopo aver descritto il comportamento adulatorio del tessalo Agatocle e della sua abilità nel mettere di buon umore il re, Teopompo commenta dicendo che «il Macedone (𝑠𝑐. Filippo) aveva sempre intorno a sé questo genere di persone, con le quali, per la loro intemperanza nel bere e l’atteggiamento buffonesco, trascorreva di solito la maggior parte del suo tempo; inoltre, le consultava ogniqualvolta dovesse prendere decisioni su fatti della massima importanza»[13].

Nel libro XXVI il Chiota ricorda che «Filippo, sapendo che i Tessali erano dissoluti e vivevano in modo licenzioso, organizzò dei banchetti con la loro partecipazione e fece di tutto per risultare loro simpatico, danzando, gozzovigliando e accettando ogni genere d’indecenza (era triviale già di suo, si ubriacava ogni giorno e godeva di quelle abitudini che tendono a tutto questo; amava inoltre la compagnia delle persone comunemente definite “di spirito”, capaci cioè di dire e fare cose stupide)»[14].

Filippo II. Testa, copia di marmo da originale greco. Copenhagen, Ny Carlsberg Glyptotek.jpg

Quindi, lo stesso autore riferisce alcune notizie sulle sbornie del sovrano macedone e il suo amore smodato per il vino:

Filippo era proprio una testa matta e si buttava a capofitto in mezzo ai pericoli, in parte per indole, in parte per gli effetti del vino: era infatti un grande bevitore e spesso si lanciava in sortite completamente ubriaco[15].

E ancora nel libro LIII, dopo aver narrato i fatti di Cheronea, Teopompo parla dei meticolosi preparativi del banchetto per celebrare quella vittoria così decisiva, e chiosa:

Egli era sempre perfettamente equipaggiato di tutto il necessario per il simposio e per intrattenere la compagnia. Poiché infatti gli piaceva bere ed era d’indole dissoluta, aveva un folto seguito di parassiti, musicanti e persone che lo divertivano con facezie[16].

Pare che, dopo la sua morte, al re macedone fosse stato tributato un culto divino, celebrato sul Cinosarge, come rivela Clemente Alessandrino:

Ora decretano che sul Cinosarge si adori il Macedone di Pella, Filippo figlio di Aminta, quello dalla “clavicola spezzata e storpio da una gamba”, lo stesso cui fu cavato un occhio[17].

Alessandro III il Grande. Tetradramma, Anfipoli 325-323/2 a.C. ca. Ar. 17, 21 g. Recto: testa di Eracle voltata a destra con leontea.

Dei quattro membri del collegio dei “Sessanta” espressamente ricordati da Telefane, soltanto Callimedonte può essere identificato con sicurezza[18]. Si tratta del figlio di Callicrate, originario del demo attico di Collito, che fu politico ateniese di orientamento oligarchico e per le sue posizioni filomacedoni fu costretto all’esilio nel 324.[19] Riparò a Megara e lì insieme a un gruppo di fuoriusciti della stessa fazione avrebbe giurato di tornare ad Atene e abbattere il regime democratico; per questa ragione l’oratore Demostene si fece promotore di una εἰσαγγελία contro di lui per alto tradimento[20]. Postosi al servizio di Antipatro, reggente di Alessandro, allo scoppio della guerra lamiaca nel 323 Callimedonte agì per conto dei Macedoni:

L’oratore Pitea e Callimedonte il Carabo, lasciata Atene, si dichiararono per Antipatro e con gli amici e i messi di quest’ultimo girarono per la Grecia, cercando di impedire che le varie città si ribellassero ai Macedoni e si schierassero a fianco degli Ateniesi[21].

Descritto come un «uomo temerario e odiatore del popolo» (ἁνήρ θρασύς καὶ μισόδημος), nel 322 prese parte alla delegazione macedone alla Cadmea per stipulare la pace con le città greche sconfitte, le quali, accettate le condizioni poste da Antipatro, riaccolsero i propri fuoriusciti[22]. In questo modo anche Callimedonte poté rientrare in patria, dove, grazie all’instaurazione di un regime plutocratico, basato sul censo, in breve tempo divenne un uomo d’affari di successo, ottenendo alcune concessioni minerarie[23]. Il suo ritorno ad Atene, tuttavia, non durò a lungo: infatti, nel 318 un nuovo rivolgimento politico riportò al potere i democratici e Callimedonte fu costretto a riprendere la via dell’esilio; stavolta trovò rifugio a Beroea, nella Grecia settentrionale. Anche lui, come Focione e altri oligarchici, fu raggiunto dal bando di condanna a morte[24]. Dopo questa data non si hanno ulteriori informazioni sul conto di Callimedonte, e perciò si ipotizza che abbia continuato a vivere lontano da Atene[25].

L’interesse per questo personaggio è suscitato dal soprannome con cui era noto presso gli antichi, cioè ὁ Κάραβος (“l’Aragosta”): le sue caratteristiche fisiche e il suo stile di vita lo resero oggetto di scherno da parte dei poeti comici almeno dal 340 a.C. Callimedonte era infatti strabico, un formidabile ghiottone, andava pazzo per la matrice di scrofa bollita, per le anguille e soprattutto per l’aragosta.

Il commediografo Alessi in un frammento dialogato della sua 𝐿’𝑒𝑞𝑢𝑖𝑣𝑎𝑙𝑒𝑛𝑡𝑒 (Ἰσοστάσιον), dove sembra alludere alla consorteria dei “Sessanta”[26], lo elenca proprio con questo soprannome:

(A) Pagata la propria quota, bevevano mirando

solo al ballo e a nient’altro, e avendo nomi

di pesci e cereali. (B) Di pesci?

(A) Sì, Aragosta

e Ghiozzo!

(B) E di cereali?

(A) Semola…[27]

I nomignoli di questi ghiottoni compaiono anche nel 𝐶𝑎𝑚𝑝𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑝𝑎𝑛𝑐𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜 (Παγκρατιαστής) dello stesso autore e lì sono classificati nelle due categorie di “pane” (i cereali) e “companatico” (il pesce), un vero τρεχεδείπνους καταλέγων («catalogo di cacciatori di pranzi»)[28].

Anche Antifane in un frammento de 𝐿𝑎 𝑝𝑒𝑠𝑐𝑎𝑡𝑟𝑖𝑐𝑒 (Ἁλιευομένη) menziona il politico ateniese tra alcuni illustri estimatori di pesce[29].

Pescatore con aragosta (dettaglio dalla scena con Ulisse e le Sirene). Mosaico 260-268 d.C., da Thugga (od. Dougga, Tunisia). Tunis, Musée National du Bardo.

A quanto sembra, uno dei motivi per cui a Callimedonte fu appioppato il soprannome di Κάραβος fu la sua smodata passione per i crostacei, celebrata in maniera ironica da un passo della 𝐷𝑜𝑟𝑐𝑖𝑑𝑒, 𝑜𝑣𝑣𝑒𝑟𝑜 𝑙𝑎 𝑑𝑜𝑛𝑛𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑠𝑐ℎ𝑖𝑜𝑐𝑐𝑎 𝑏𝑎𝑐𝑖 (Δορκίς ἢ Ποππυζούση) di Alessi:

Dai pescivendoli è stato votato,

come dicono, di porre una bronzea statua

di Callimedonte nel mercato del pesce, alle Panatenee,

che tiene nella destra un’aragosta arrostita,

dato che soltanto lui per quelli della loro categoria

è il salvatore, mentre tutti gli altri son la rovina![30]

Da una scena simile, ambientata forse al mercato del pesce, si riferisce anche un breve dialogo tra due interlocutori ignoti, tratto dalla commedia 𝐹𝑒𝑑𝑜𝑛𝑒 𝑜 𝐹𝑒𝑑𝑟𝑖𝑎 (Φαίδων ἢ Φαιδρία), nel quale si mette alla berlina la ὀψοφαγία di Callimedonte, che lo rende una vera furia:

(A) Sarai ispettore del mercato, se gli dèi lo vorranno,

per impedire a Callimedonte – se tieni a me –

d’imperversare tutto il giorno per il mercato del pesce!

(B) Oh, un’azione degna d’un tiranno, altro che ispettore mercatale, ci vorrebbe!

Quello è un attaccabrighe, ma è un benemerito della città![31]

Mentre il primo personaggio auspica l’intervento dell’amico, una volta divenuto funzionario, perché lo protegga dalla voracità di Callimedonte, l’altro ammette che, nonostante un ἀγορανόμος avesse l’incarico di mantenere l’ordine pubblico in piazza, controllare la qualità e il peso delle merci, riscuotere dazi e fare da arbitro nelle contese, contenere un simile ghiottone sarebbe andato al di là dei suoi poteri.  Benché certi dettagli siano dovuti all’inventiva del poeta comico, è probabile che negli anni 330-320 a.C., in un periodo forse di rincari sui prezzi del pesce (?), un decreto pubblico abbia realmente premiato Callimedonte con l’erezione di un monumento bronzeo per i buoni uffici svolti per la cittadinanza. D’altronde, come attestano alcuni reperti epigrafici, questo genere di riconoscimenti era caratteristico della vita pubblica ateniese tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C. e i decreti attuativi che li ratificavano elogiavano le qualità dei beneficiati con formule abbastanza convenzionali, quali εὔχρηστος/πρόθυμος/φίλος/χρήσιμος τῷ δήμῳ/τῇ πόλει (𝐼𝐺 II² 356, 28-29; 584, 21; 498, 19).

Ora, la spiegazione del soprannome ὁ Κάραβος relativamente alla ghiottoneria di Callimedonte non è l’unica. Sempre Alessi in un dialogo dal 𝐶𝑟𝑎𝑡𝑒𝑎, 𝑜𝑣𝑣𝑒𝑟𝑜 𝑙𝑎 𝑓𝑎𝑟𝑚𝑎𝑐𝑖𝑠𝑡𝑎 (Κρατεύα ἢ Φαρμακοπώλη) lo associa allo strabismo del personaggio:

(A) Da tre giorni ho in cura le pupille di Callimedonte!

(B) Le pupille? Intendi dire le sue figliole?

(A) Macché, quelle degli occhi!

Neppure Melampo, il solo che riuscì a sanare

dalla follia le figlie di Preto, sarebbe buono a raddrizzargliele![32]

In questo passo l’equivoco è giocato sul termine κόρη, cioè «ragazza» ma anche «pupilla (degli occhi)». Neppure il mitico indovino e guaritore “dai piedi neri”, Melampo, che guarì le κόραι di Preto dalla pazzia potrebbe fare qualcosa per le “insani κόραι” di Callimedonte. Può darsi che lo strabismo fosse il motivo più probabile del suo nomignolo data la stretta analogia con gli occhi mobili dell’aragosta[33]. Il commediografo Timocle, invece, nello stesso frammento de 𝐼𝑙 𝑡𝑟𝑎𝑓𝑓𝑖𝑐𝑜𝑛𝑒 (Πολυπράγμων) spiega che il soprannome ὁ Κάραβος dipendesse sia dal difetto dello sguardo sia dalla voracità di quell’uomo:

Poi, all’improvviso, Callimedonte

l’Aragosta si fece appresso. Mi fissava –

così almeno mi sembrava – discorrendo con un altro.

Di quel che diceva non capivo una parola, ovviamente!

Eppure, annuivo come un ebete: già, le sue pupille

guardano in direzione opposta a quel che ci si aspetta![34]

Scena di vita marina. Mosaico, ante 79 d.C. dalla Casa del Fauno, Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Come si è accennato, l’oligarca ateniese era appassionato anche di anguilla. Così, in un frammento de 𝐿𝑎 𝑑𝑟𝑜𝑔𝑎𝑡𝑎 𝑑𝑖 𝑚𝑎𝑛𝑑𝑟𝑎𝑔𝑜𝑟𝑎 (Μανδραγοριζομένη) del solito Alessi, un parassita dichiara il proprio amore per i padroni di casa che lo nutrono e lo mantengono:

Se io amo qualche ospite

più di voi, che possa trasformarmi in anguilla,

merce adatta a Callimedonte l’Aragosta[35].

Alla passione per questa specie ittica allude anche il poeta Menandro nella sua commedia giovanile dal titolo 𝐿𝑎 𝑠𝑏𝑟𝑜𝑛𝑧𝑎 (Μέθη), in cui Callimedonte è reso un parente stretto (εἷς τῶν συγγενῶν) delle anguille[36].

In un frammento de 𝐿’𝑢𝑜𝑚𝑜 𝑑𝑒𝑙 𝑃𝑜𝑛𝑡𝑜 (Ποντικός) Alessi mette in ridicolo l’oratore ateniese per una certa predilezione verso la «matrice di scrofa» (μήτρα), pietanza considerata una vera leccornia, soprattutto se servita bollita e condita con aceto e succo di silfio:

Per la patria chiunque è disposto a sacrificarsi,

ma forse Callimedonte l’Aragosta avrebbe preferito morire

per una matrice di scrofa bollita![37]

La ὀψοφαγία del personaggio è l’obiettivo degli strali di Antifane in un passo del 𝐺𝑜𝑟𝑔𝑖𝑡𝑜 (Γοργύθος), nel quale chi parla dichiara di desistere dai propri propositi più a malincuore «di quanto farebbe Callimedonte, se dovesse rinunciare a una testa di glauco»[38]; ma è attaccata anche da Eubulo ne 𝐼 𝑠𝑜𝑝𝑟𝑎𝑣𝑣𝑖𝑠𝑠𝑢𝑡𝑖 (Ἀνασῳζομένοι), in cui si dice che «lui solo tra i mortali / è capace d’ingoiare tranci di pesce a palate da casseruole / bollenti, senza lasciarne traccia»: un’abilità tipica del ghiottone![39]

Infine, la tradizione indiretta da Ateneo conserva alcuni riferimenti comici nei quali Callimedonte da “consumatore di aragosta” si trasforma in “aragosta da consumare”: è il caso di un frammento dialogato de 𝐼𝑙 𝑚𝑒𝑑𝑖𝑐𝑜 (Ἰατρός) di Teofilo, in cui l’eloquenza dell’oratore è giudicata fiacca e scipita come una pietanza ormai raffreddata[40]. Siccome Erodico Crateteo nei suoi 𝐾𝑜𝑚𝑜𝑑𝑜𝑢̀𝑚𝑒𝑛𝑜𝑖 (F 4, 126 Düring) attesta che Agirrio era figlio di Callimedonte, il poeta Filemone nel suo 𝐼𝑙 𝑐𝑜𝑟𝑡𝑒𝑔𝑔𝑖𝑎𝑡𝑜𝑟𝑒 (Μετιών) dice che, quando al ragazzo fu servita un’aragosta, quello salutò suo padre e se lo mangiò[41].

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H. Vᴇʀsɴᴇʟ, 𝑃ℎ𝑖𝑙𝑖𝑝 𝐼𝐼 𝑎𝑛𝑑 𝐾𝑦𝑛𝑜𝑠𝑎𝑟𝑔𝑒𝑠, Mnemosyne 26 (1973), 273-279.

T.B.L. Wᴇʙsᴛᴇʀ, 𝐶ℎ𝑟𝑜𝑛𝑜𝑙𝑜𝑔𝑖𝑐𝑎𝑙 𝑁𝑜𝑡𝑒𝑠 𝑜𝑛 𝑀𝑖𝑑𝑑𝑙𝑒 𝐶𝑜𝑚𝑒𝑑𝑦, CQ 2 (1952), 13-26.


[1] 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 371 F 1, 𝑎𝑝. Aᴛʜᴇɴ. XIV 3, 614d-e, ῾Ιππόλοχος δ᾽ ὁ Μακεδὼν ἐν τῆι Πρὸς Λυγκέα ἐπιστολῆι γελωτοποιῶν μέμνηται Μανδρογένους καὶ Στράτωνος τοῦ ᾽Αττικοῦ. πλῆθος δ᾽ ἦν ᾽Αθήνησι τῆς σοφίας ταύτης· ἐν γοῦν τῶι Διομέων ῾Ηρακλείωι συνελέγοντο ξ̄ ὄντες τὸν ἀριθμόν, καὶ ἐν τῆι πόλει διωνομάζοντο ὡς ‘οἱ ξ̄ τοῦτ’ εἶπον᾽ καὶ ‘ἀπὸ τῶν ξ̄ ἔρχομαι’. ἐν δὲ τούτοις ἦσαν Καλλιμέδων τε ὁ Κάραβος καὶ Δεινίας, ἔτι δὲ Μνασιγείτων καὶ Μέναιχμος, ὥς φησι Τηλεφάνης ἐν τῶι Περὶ τοῦ ἄστεος. τοσαύτη δ᾽ αὐτῶν δόξα τῆς ῥαιθυμίας ἐγένετο, ὡς καὶ Φίλιππον ἀκούσαντα τὸν Μακεδόνα πέμψαι αὐτοῖς τάλαντον, ἵν᾽ ἐγγραφόμενοι τὰ γελοῖα πέμπωσιν αὐτῶι.

[2] Osʙᴏʀɴᴇ, Bʏʀɴᴇ 1994 hanno individuato almeno una dozzina di Ateniesi che portavano il nome di Telefane, vissuti tutti tra il V e il II secolo a.C.

[3] Cfr. Pᴏʟʟ. 𝑂𝑛𝑜𝑚. 6, 123 Dindorf: γελωτοποιός.

[4] Aᴛʜᴇɴ. I 35, 20a, γεγόνασι δὲ καὶ πλάνοι ἔνδοξοι, ὧν Κηφισόδωρος καὶ Πανταλέων.

[5] F 4 Kassel-Austin, 𝑎𝑝. Aᴛʜᴇɴ. XIV 5, 615e-f, Κηφισόδωρόν φασιν ἐπικαλούμενον / Πλάνον τιν’ ἐν Ἀθήναις γενέσθαι, τὴν σχολὴν / εἰς τοῦτο τὸ μέρος τοῦ βίου καταχρώμενον. / τοῦτον ἐντυχόντα πρὸς τὸ σιμὸν ἀνατρέχειν, / ἢ συγκαθεῖναι τηπι τῇ βακτηρίᾳ.

[6] F 25 Kassel-Austin, 𝑎𝑝. Aᴛʜᴇɴ. XIV 5, 615f, Κηφισόδωρον οὐ κακῶς μὰ τὸν Δία / τὸν πλάνον φασὶ στενωπὸν εἰς μέσον στῆσαί τινας / ἀγκαλίδας ἔχοντας, ὥστε μὴ παρελθεῖν μηδένα.

[7] F 2 Kassel-Austin, 𝑎𝑝. Aᴛʜᴇɴ. XIV 5, 616a, ὁ Πανταλέων μὲν αὐτὸς αὐτοὺς τοὺς ξένους / τούς τ’ ἀγνοοῦντας αὐτὸν ἐπλάνα, καὶ σχεδὸν / ἀπεκραιπάλα τὰ πλεῖστα, τοῦ γελάσαι χάριν / ἰδίαν τιν’ αὑτῷ θέμενος ἀδολεσχίαν.

[8] F 7 von Arnim, 𝑆𝑉𝐹 III 199, 𝑎𝑝. Aᴛʜᴇɴ. XIV 5, 616a-b, ὁ δὲ πλάνος Πανταλέων τελευτᾶν μέλλων ἑκάτερον τῶν υἱῶν κατ’ ἰδίαν ἐξηπάτησε, φήσας μόνῳ αὐτῷ λέγειν ὅπου κατωρύχοι τὸ χρυσίον· ὥστε μάτην ὕστερον κοινῇ σκάπτοντας αἰσθέσθαι ἐξηπατημένους.

[9] F 2 Dalby, 𝑎𝑝. Aᴛʜᴇɴ. IV 4, 130c.

[10] Aʀɪsᴛᴏᴘʜ. 𝑅𝑎𝑛. 651; 𝑆𝑐ℎ𝑜𝑙. 𝑎𝑑 𝐴𝑟𝑖𝑠𝑡𝑜𝑝ℎ. 𝑙.𝑐.; Hᴀʀᴘ¹. 𝑠.𝑣. Ἡράκλεια, ἐν Διομείοις Ἡράκλειον; Sᴜɪᴅ. 𝑠.𝑣. ἐν Διομίοις Ἡράκλειον 1179 Adler; 𝐼𝐺 II² 1245; 1247. A proposito dell’ubicazione di questo tempio e della sua relazione con la collina di Cinosarge, vd. Bɪʟʟᴏᴛ 1992, 124-125; cfr. anche Tʀᴀᴠʟᴏs 1980, 340.

[11] F 3, 𝐹𝐻𝐺 IV, 413 Müller, 𝑎𝑝. Aᴛʜᴇɴ. VI 76, 260d, τοῖς Ἀθήνησιν εἰς τὸ Διομέων Ἡράκλειον ἀθροιζομένοις τοῖς τὰ γέλοια λέγουσιν ἀπέστελλεν ἱκανὸν κερμάτιον καὶ προσέτασσέ τισιν ἀναγράφοντας τὰ λεγόμενα ὑπ’ αὐτῶν ἀποστέλλειν πρὸς αὐτόν.

[12] Dᴇᴍᴏsᴛʜ. 𝑂𝑙. II 19, … οὓς ἐνθένδε πάντες ἀπήλαυνον…, μίμους γελοίων καὶ ποιητὰς αἰσχρῶν ᾀσμάτων, ὧν εἰς τοὺς συνόντας ποιοῦσιν εἵνεκα τοῦ γελασθῆναι, τούτους ἀγαπᾷ καὶ περὶ αὑτὸν ἔχει

[13] 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 115 F 81, 𝑎𝑝. Aᴛʜᴇɴ. VI 76, 259f-260a, τοιούτους δ’ εἶχεν ἀεὶ περὶ αὑτὸν ἀνθρώπους ὁ Μακεδών, οἷς διὰ φιλοποσίαν καὶ βωμολοχίαν πλείω χρόνον ὡς τὰ πολλὰ συνδιέτριβε καὶ συνήδρευε περὶ τῶν μεγίστων βουλευόμενος.

[14] 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 115 F 162, 𝑎𝑝. Aᴛʜᴇɴ. VI 76, 260b-c, τοὺς Θεσσαλούς, φησίν, εἰδὼς ὁ Φίλιππος ἀκολάστους ὄντας καὶ περὶ τὸν βίον ἀσελγεῖς συνουσίας αὐτῶν κατεσκεύαζε καὶ πάντα τρόπον ἀρέσκειν αὐτοῖς ἐπειρᾶτο καὶ [γὰρ] ὀρχούμενος καὶ κωμάζων καὶ πᾶσαν ἀκολασίαν ὑπομένων (ἦν δὲ καὶ φύσει βωμολόχος καὶ καθ’ ἑκάστην ἡμέραν μεθυσκόμενος καὶ χαίρων τῶν ἐπιτηδευμάτων τοῖς πρὸς ταῦτα συντείνουσι καὶ τῶν ἀνθρώπων τοῖς εὐφυέσι καλουμένοις καὶ τὰ γέλοια λέγουσι καὶ ποιοῦσι).

[15] 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 115 F 282, 𝑎𝑝. Aᴛʜᴇɴ. X 46, 435b, Φίλιππος ἦν τὰ μὲν φύσει μανικὸς καὶ προπετὴς ἐπὶ τῶν κινδύνων, τὰ δὲ διὰ μέθην· ἦν γὰρ πολυπότης καὶ πολλάκις μεθύων ἐξεβοήθει.

[16] 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 115 F 236, 𝑎𝑝. Aᴛʜᴇɴ. X 46, 435b-c, περιήγετο γὰρ πανταχοῦ τοὺς τοιούτους ὁ Φίλιππος καὶ κατασκευασάμενος ἦν ὄργανα πολλὰ συμποσίου καὶ συνουσίας. ὢν γὰρ φιλοπότης καὶ τὸν τρόπον ἀκόλαστος καὶ βωμολόχους εἶχε περὶ αὑτὸν συχνοὺς καὶ τῶν περὶ τὴν μουσικὴν ὄντων καὶ τῶν τὰ γέλοια λεγόντων.

[17] Cʟᴇᴍ. 𝑃𝑟𝑜𝑡𝑟. IV 54, 5, νῦν μὲν τὸν Μακεδόνα τὸν ἐκ Πέλλης τὸν Ἀμύντου Φίλιππον ἐν Κυνοσάργει νομοθετοῦντες προσκυνεῖν, τὸν “τὴν κλεῖν κατεαγότα καὶ τὸ σκέλος πεπηρωμένον”, ὃς ἐξεκόπη τὸν ὀφθαλμόν. Per una possibile connessione tra Filippo, il Cinosarge e i “Sessanta”, vd. Vᴇʀsɴᴇʟ 1973, 278-279.

[18] Considerate la carriera di quest’uomo politico e la considerazione nutrita da Filippo II per il gruppo dei “Sessanta”, la cronologia per l’attività dell’associazione è confermata nella seconda metà del IV secolo. Tuttavia, stando a un verso degli 𝐴𝑐𝑎𝑟𝑛𝑒𝑠𝑖 di Aristofane (Aʀɪsᴛᴏᴘʜ. 𝐴𝑐ℎ𝑎𝑟𝑛. 605), è molto probabile che l’𝐻𝑒𝑟𝑎𝑘𝑙𝑒𝑖𝑜𝑛 di Diomea sia stato luogo di aggregazione dei γελωτοποιοί già in precedenza, dato che si accenna ai Διομειαλαζόνας («spacconi diomei»). Cfr. Sᴛᴏʀᴇʏ 1995.  

[19] 𝐿𝐺𝑃𝑁 II, 249 n. 7; 𝑃𝐴 8032.

[20] Dɪɴᴀʀ. 1, 94.

[21] Pʟᴜᴛ. 𝐷𝑒𝑚𝑜𝑠𝑡ℎ. 27, 2, Πυθέας μὲν οὖν ὁ ῥήτωρ καὶ Καλλιμέδων ὁ Κάραβος ἐξ Ἀθηνῶν φεύγοντες Ἀντιπάτρῳ προσεγένοντο, καὶ μετὰ τῶν ἐκείνου φίλων καὶ πρέσβεων περιιόντες οὐκ εἴων ἀφίστασθαι τοὺς Ἕλληνας οὐδὲ προσέχειν τοῖς Ἀθηναίοις.

[22] Cfr. Pʟᴜᴛ. 𝑃ℎ𝑜𝑐. 27.

[23] Vd. Dᴀᴠɪᴇs 1971, 279.

[24] Pʟᴜᴛ. 𝑃ℎ𝑜𝑐. 33, 4; 35, 2; 5; [Aᴇsᴄʜ.] 𝐸𝑝. 12, 8.

[25] Vd. Sᴡᴏʙᴏᴅᴀ 1919.

[26] Era di quest’idea Wᴇʙsᴛᴇʀ 1952, 22-23, mentre Aʀɴᴏᴛᴛ 1996, 270, ha espresso alcune riserve in merito.

[27] F 102 Kassel-Austin, 𝑎𝑝. Aᴛʜᴇɴ. IV 12, 134c, [A] ἀπὸ συμβολῶν ἔπινον ὀρχεῖσθαι μόνον / βλέποντες, ἄλλο δ’ οὐδέν, ὄψων ὀνόματ-α / καὶ σιτίων ἔχοντες/ [B] Ὄψων; / [A] Κάραβος / καὶ Κωβιός. / [B] καὶ ‹σιτίων› ; / [A] Σεμίδαλις…

[28] F 173 Kassel-Austin, 𝑎𝑝. Aᴛʜᴇɴ. VI 41, 242c-d.

[29] F 27 Kassel-Austin, 𝑎𝑝. Aᴛʜᴇɴ. VIII 21, 338f.

[30] F 57 Kassel-Austin, 𝑎𝑝. Aᴛʜᴇɴ. III 64, 104d-e, τοῖς ἰχθυοπώλαις ἐστὶ ἐψηφισμένον, / ὥς φασι, χαλκῆν Καλλιμέδοντος εἰκόνα / στῆσαι Παναθηναίοισιν ἐν τοῖς ἰχθύσιν, / ἔχουσαν ὀπτὸν κάραβον ἐν τῇ δεξιᾷ, / ὡς αὐτὸν ὄντ’ αὐτοῖσι τῆς τέχνης μόνον / σωτῆρα, τοὺς ἄλλους δὲ πάντας ζημίαν.

[31] F 249 Kassel-Austin, 𝑎𝑝. Aᴛʜᴇɴ. VIII 24, 340b, [A] ἀγορανομήσεις, ἂν θεοὶ θέλωσι, σύ, / ἵνα Καλλιμέδοντ’ εἰς τοὔψον, εἰ φιλεῖς ἐμέ, / παύσῃς καταιγίζοντα δι’ ὅλης ἡμέρας. / [Β] ἔργον τυράννων, οὐκ ἀγορανόμων λέγεις. / μάχιμος γὰρ ἁνήρ, χρήσιμος δὲ τῇ πόλει. A quanto pare, Alessi canzonava Callimedonte in modo simile anche in un estratto della commedia intitolata 𝐺𝑖𝑢̀ 𝑛𝑒𝑙 𝑝𝑜𝑧𝑧𝑜 (Εἰς τὸ φρέαρ, F 87 Kassel-Austin, 𝑎𝑝. Aᴛʜᴇɴ. VIII 24, 340c).

[32] F 117 Kassel-Austin, 𝑎𝑝. Aᴛʜᴇɴ. VIII 24, 340a, [A] τῷ Καλλιμέδοντι γὰρ θεραπεύω τὰς κόρας / ἤδη τετάρτην ἡμέραν. [Β] ἦσαν κόραι / θυγατέρες αὐτῷ; [Α] τὰς μὲν οὖν τῶν ὀμμάτων, / ἃς οὐδ’ ὁ Μελάμπους, ὃς μόνος τὰς Προιτίδας / ἔπαυσε μαινομένας, καταστήσειεν ἄν. Sempre Alessi lo sbertucciava in un passo non conservato de 𝐼 𝑐𝑜𝑛𝑐𝑜𝑟𝑟𝑒𝑛𝑡𝑖 (Συντρέχοντες, F 218 Kassel-Austin, 𝑎𝑝. Aᴛʜᴇɴ. VIII 24, 340b).

[33] Cfr. Aʀɪsᴛᴏᴛ. 𝐻𝐴 IV 526a, 8-9.

[34] F 29 Kassel-Austin, 𝑎𝑝. Aᴛʜᴇɴ. VIII 24, 339e-f, εἶθ’ ὁ Καλλιμέδων ἄφνω / ὁ Κάραβος προσῆλθεν. ἐμβλέπων δέ μοι, / ὡς γοῦν ἐδόκει, πρὸς ἕτερον ἄνθρωπόν τινα / ἐλάλει. συνιεὶς δ’ οὐδὲν εἰκότως ἐγὼ / ὧν ἔλεγεν ἐπένευον διακενῆς· τῷ δ’ ἄρα / βλέπουσι χωρὶς καὶ δοκοῦσιν αἱ κόραι.

[35] F 149 Kassel-Austin, 𝑎𝑝. Aᴛʜᴇɴ. VIII 24, 340c, εἴ τινας μᾶλλον φιλῶ / ξένους ἑτέρους ὑμῶν, γενοίμην ἔγχελυς, / ἵνα Καλλιμέδων ὁ Κάραβος πρίαιτό με.

[36] F 224, 13-14 Kassel-Austin, 𝑎𝑝. Aᴛʜᴇɴ. VIII 67, 364d.

[37] F 198 Kassel-Austin, 𝑎𝑝. Aᴛʜᴇɴ. III 57, 100c, ὑπὲρ πάτρας μὲν πᾶς τις ἀποθνῄσκειν θέλει, / ὑπὲρ δὲ μήτρας Καλλιμέδων ὁ Κάραβος / ἑφθῆς ἴσως προσεῖτ’ ἂν ἀποθανεῖν.

[38] F 77 Kassel-Austin, 𝑎𝑝. Aᴛʜᴇɴ. VIII 24, 340c, ἢ Καλλιμέδων γλαύκου προοῖτ’ ἂν κρανίον.

[39] F 8 Kassel-Austin, 𝑎𝑝. Aᴛʜᴇɴ. VIII 24, 340d, ὃς μόνος βροτῶν / δύναται καταπιεῖν ἐκ ζεόντων λοπαδίων / ἅθρους τεμαχίτας, ὥστ’ ἐνεῖναι μηδὲ ἕν.

[40] F 4 Kassel-Austin, 𝑎𝑝. Aᴛʜᴇɴ. VIII 24, 340d-e.

[41] F 43 Kassel-Austin, 𝑎𝑝. Aᴛʜᴇɴ. VIII 24, 340e.