Una trilogia didascalica dedicata all’Amore

L’Ars amatoria è un poemetto didascalico diviso in tre libri, scritto e pubblicato da Publio Ovidio Nasone negli ultimi anni dell’era pagana. I primi due libri sono rivolti agli uomini e trattano, rispettivamente, le tecniche della seduzione (libro I) e le tecniche per mantenere legata a sé la donna amata (libro II); il libro III tratta gli stessi argomenti, rivolgendosi però alle donne. Si possono notare elementi di continuità con il De rerum natura di Lucrezio e con le Georgiche di Virgilio, che appartengono entrambi al genere didascalico; uno dei tratti comuni è l’introduzione di frequenti excursus, anche mitologici. Ben più rilevanti sono tuttavia gli elementi di discontinuità: il più evidente consiste nell’uso, al posto dell’esametro, del distico elegiaco, mutuato dalla poesia d’amore. Una decisa novità è anche costituita dal fatto che il libro III è presentato come esplicitamente destinato alle lettrici, mentre di solito la poesia didascalica (come quasi tutta la letteratura antica) presuppone lettori di sesso maschile. L’opera, inoltre, costituisce una sorta di parodia di un manuale “tecnico”: l’Ars amatoria, ovvero «La tecnica dell’amore», come si nota fin dal titolo, parte dal presupposto che l’amore non sia folle passione, come generalmente viene rappresentato dai poeti e dai filosofi, ma sia appunto una «tecnica» (ars), della quale chiunque può apprendere razionalmente i fondamenti. Insomma, già nel titolo l’pera rivela l’intento giocoso di gareggiare con la scienza retorica, l’ars dicendi. Di questa imita i procedimenti fin dal libro I, dove all’inventio («raccolta dei materiali») con cui si iniziano i trattati retorici corrisponde la caccia alle belle donne.

Scena erotica. Mosaico, I sec. d.C. da Centocelle. Berlin, Kunsthistorisches Museum.

L’Ars amandi riscosse grande fortuna e consacrò Ovidio come poeta della mondanità brillante della capitale, decretandogli grande successo, ma anche esponendolo al risentimento del princeps. Infatti, proprio la leggerezza della materia (altro elemento di novità rispetto alla tradizione del genere didascalico) fu motivo di fastidio e scandalo per Ottaviano Augusto e fu proprio l’Ars amatoria che fornì probabilmente uno dei capi d’accusa necessari a comminare a Ovidio la relegatio. La disinibita precettistica erotica, beffardamente aggressiva verso la morale tradizionalista, certo non si conformava all’ideologia augustea restauratrice dei prisci mores.

All’esaltazione dei valori tradizionali dell’agricola-miles-cives romano Ovidio contrappone una didascalica erotica incentrata sull’etica disinvolta del «bel mondo» cittadino, e lo fa in modo provocatorio. Per esempio, egli rovescia con chiaro intento parodico le lodi dell’Italia parens frugum delle Georgiche virgiliane nella celebrazione della Penisola come culla di formosas… puellas (Ars I 155).

A ogni modo, occorre notare che, rispetto agli Amores, l’Ars amatoria è meno in contrasto con il mos maiorum, in quanto il poeta chiarisce preliminarmente che le donne di cui parlerà non sono le matronae, ossia le donne sposate o destinate a divenire madri di famiglia.

Donna che si pettina con specchio. Affresco, ante 79 d.C. da Stabiae. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

I Medicamina faciei feminae [I cosmetici per il volto della donna] e i Remedia amoris [I rimedi contro l’amore] costituiscono due “appendici” dell’Ars amatoria; queste tre opere, pubblicate tutte nello stesso periodo, e composte tutte in distici elegiaci, rappresentano una vera e propria trilogia di poesia erotico-didascalica. In particolare, i Medicamina, di cui è giunto un centinaio di versi, sviluppano il tema dell’importanza per le donne dell’uso del trucco e dei belletti come armi di seduzione. Rovesciando un tópos ben consolidato nella cultura antica, che tende sempre a valutare positivamente il passato, il poeta afferma qui la superiorità di ciò che è “artificiale”, “artefatto” e “moderno” (culta placent) rispetto a ciò che è “naturale”, “genuino” e “antico”. Sfugge, tuttavia, la reale efficacia dei cosmetici proposti, ma pare che il libretto fosse il risultato di un’approfondita ricerca e l’autore stesso lo considerava «un libro piccolo di formato, ma grande per l’impegno» (Ars III 206).

Nei Remedia, che constano di circa 800 versi, si insegna, invece, agli uomini a liberarsi da un amore, quando questo diventa sofferenza – come spiega l’autore confrontando la propria poesia erotica alla lancia di Achille, arma che poteva ora ferire ora guarire. L’opera appare più un completamento che un rovesciamento dell’Ars amatoria, il cui scopo è quello di impartire precetti per vivere l’amore come esperienza gratificante, esercitando un saldo controllo razionale della passione.

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L’Alcesti di Euripide

L’Alcesti (Ἄλκηστις) è il più antico dramma che di Euripide ci sia pervenuto, pur appartenendo già alla maturità del poeta (438 a.C.). Nella tetralogia di cui faceva parte – insieme con Cretesi, Alcmeone a Psofide e Telefo – e che ottenne il secondo premio, occupava il quarto posto: una anomalia, quella di porre in luogo del dramma satiresco una tragedia sia pure a lieto fine, che non dovette essere isolata nella produzione euripidea.

Pittore di Laodamia. Il commiato di Alcesti. Pittura vascolare da una λουτροφόρος apula a figure rosse, c. 350-325 a.C. Basel, Antikenmuseum.

La storia di Admeto e di Alcesti deriva con ogni probabilità da un’antica leggenda, comune presso molti popoli, secondo la quale il demone della Morte (Θάνατος), venuto a portar via il giovane uomo, si dichiara disposto a lasciarlo vivere, a patto che si trovasse chi lo avrebbe sostituito; il giovane allora supplicava il padre e la madre di morire al suo posto, ma ne otteneva un secco rifiuto. Soltanto la sua amata era disposta al sublime sacrificio, ma la sua abnegazione era compensata, perché ella veniva sottratta alla morte e restituita all’amato. Prima di Euripide la leggenda aveva già subito una rielaborazione mitico-religiosa, con personaggi e avvenimenti ben precisi nelle Eoie di Esiodo, in cui si narra che Apollo, punito dal padre Zeus per aver sterminato con le frecce i Ciclopi, fu condannato a servire per un anno, come mandriano, in casa di un mortale, Admeto, re di Fere in Tessaglia. Dopo qualche tempo Admeto sposò Alcesti, una delle figlie di Pelia, re di Iolco, ma nel giorno delle nozze dimenticò di sacrificare ad Artemide. La dea, infuriata, riempì di serpenti la camera da letto di Admeto; Apollo, che in casa del re era stato trattato con ogni riguardo, placò l’ira della sorella e ottenne, inoltre, per Admeto uno straordinario privilegio: una volta giunto per lui il giorno del trapasso, egli avrebbe potuto continuare a vivere, se avesse trovato un altro mortale disposto a morire al posto suo. Quando il momento arrivò, però, soltanto Alcesti fu disposta ad accettare il sacrificio e a scendere nell’Ade al posto del marito; Persefone, commossa da tanta fedeltà, le concesse il ritorno fra i vivi. Il racconto esiodeo era stato utilizzato da Frinico, con una sola variante: al personaggio di Persefone era stato sostituito quello di Eracle, antico compagno d’armi di Admeto nella spedizione argonautica, che, impietosito dall’eroismo di Alcesti e dallo straziante dolore dell’amico, era sceso nell’Ade e aveva rapito l’anima della donna al regno dei morti. Euripide, dunque, riprese questa versione del dramma, inserendovi un’ulteriore modifica: Eracle, invece di scendere nella casa di Ade, lottava contro il demone della Morte, Thánatos, e riusciva a strappargli la preda, riconducendola da Admeto.

Al principio del dramma, ambientato a Fere in Tessaglia, Alcesti si è ormai dichiarata pronta a morire al posto dell’amato sposo, mentre neppure gli anziani suoceri hanno voluto dare la propria vita in cambio di quella del figlio. Ora che è arrivato il momento supremo, interviene Thánatos a reclamare la sua vittima, e Apollo, che ha rievocato gli antefatti, si allontana. Il coro, formato da vecchi cittadini di Fere, entra nell’orchestra in preda all’ansia per la sorte di Alcesti e viene informato da un’ancella che all’interno della casa la donna si sta congedando dalla famiglia e dai servi. Entrano in scena i due coniugi: Alcesti, sostenuta dal marito è in preda a una visione in cui le sembra che lo stesso Caronte (il traghettatore dei morti) la chiami per l’ultimo viaggio (vv. 244-279). Adornata come a festa, ella prende commiato da tutti, soprattutto dai figli e dal letto nuziale; rimasta poi sola col marito, lo supplica, in nome del sacrificio che sta facendo per lui, di non risposarsi e non dare ai figli una matrigna, che potrebbe addirittura odiarli, se dalle seconde nozze ne nascessero altri. Il re, profondamente angosciato, dopo aver recitato il κομμός («lamento funebre»), promette solennemente alla moglie che non si risposerà, anzi, che si farà forgiare da un artista un’immagine di Alcesti che terrà sempre con sé, per avere l’illusione di avere ancora la sposa al proprio fianco; poi, lo sfinimento assale definitivamente la donna, che viene portata via esanime dal demone, lasciando la reggia e la città immerse nel lutto.

Alcesti e Admeto. Affresco pompeiano, ante 79, dalla Casa del Poeta Tragico. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Intanto Eracle, in viaggio verso la Tracia, dove su ordine di Euristeo dovrà sottrarre le cavalle di re Diomede, giunge a Fere e si reca a palazzo per chiedere ospitalità; Admeto, pur immerso nel dolore, non può venire meno ai doveri di ospite e di amico e accoglie l’eroe nella sua casa senza rivelargli che cosa sia accaduto alla sposa. Mentre Eracle si rifocilla, mangiando e bevendo gagliardamente, Admeto riceve la visita di suo padre Ferete, venuto a piangere la nuora. Il colloquio fra padre e figlio degenera ben presto in un violento alterco, nel quale Admeto rimprovera l’egoismo del vecchio, che non ha voluto sacrificarsi per il proprio figlio, costringendolo ad accettare la dipartita dell’amata sposa; Ferete, dal canto suo, ribatte a tutte le accuse ritorcendole sul figlio. Mentre i due si separano pieni di livore reciproco, tutti i personaggi e gli stessi coreuti si apprestano a condurre le esequie di Alcesti, ecco irrompere in scena Eracle, sazio di cibo e di vino: non appena rinsavisce e si rende conto del grave lutto che ha colpito l’amico, egli si vergogna del proprio comportamento e, deciso a ricambiarne l’ospitalità, parte alla volta dell’Ade per strappare l’ombra di Alcesti alle grinfie di Thánatos. Di ritorno dal funerale, Admeto si abbandona alla più cupa disperazione: solo ora elabora il significato della sciagura che gli è capitata con la perdita della sposa e lamenta la solitudine in cui è stato precipitato. Solo ora sembra rendersi conto che la vita per lui non ha più senso.

Nell’esodo del dramma ritorna Eracle, accompagnato da una donna velata, che dice di aver avuto come premio in una gara di lotta. Siccome si accinge a un viaggio lungo e difficile, prega Admeto di volerla ospitare nella reggia fino al suo ritorno. Admeto in un primo tempo rifiuta; poi, cedendo all’insistenza dell’eroe, solleva il velo: la donna si rivela essere Alcesti, restituita alla vita, sottratta a Thánatos. Così, mentre Eracle riparte per le sue avventure, i due sposi rientrano a palazzo, di nuovo uniti.

Ercole conduce Alcesti dall’Ade. Rilievo (particolare), marmo, II secolo, da un sarcofago raffigurante le fatiche dell’eroe. Velletri, Museo Civico.

Tragedia dai contorni quanto mai sfuggenti e passibile di interpretazioni contraddittorie, l’Alcesti è stata additata da Platone (Simposio, 179-180) come un fulgido esempio di dedizione e di φιλία da parte della protagonista, a dimostrazione di come solo chi ama è disposto a sacrificare la vita per la persona amata; con la precisazione che «non solo gli uomini, ma anche le donne». Proprio questa precisazione del filosofo può essere d’aiuto per un’interpretazione del personaggio di Alcesti in chiave meno “romantica”, ma più consona alla mentalità greca, secondo la quale il dramma fu scritto. Il sacrificio della propria vita per uno scopo alto e nobile, che lasci dietro di sé ammirazione, lode e ricordo, è considerato di solito una prerogativa maschile, un atto di ἁρετή eroica, purificato da qualunque sentimento soggettivo, e che non ha altro fine se non la fama che ne deriva. Al tempo di Euripide era convinzione comune che la vera ἁρετή fosse negata alle donne, ma l’insistenza con cui il poeta sottolinea il gesto di Alcesti avrebbe procurato fama eterna a lei e alle donne in genere, dimostrando che l’autore era di opinione diversa, e che vedeva nel suo personaggio più il limpido coraggio dell’eroina che la tenerezza dell’innamorata[1].

Complementare alla φιλία è la virtù dell’ospitalità, peculiare di Admeto e delle persone a lui più vicine: sotto il segno dell’ospitalità si apre il dramma, nel congedo di Apollo dalla dimora che lo ha accolto per un anno, e alla fine della vicenda l’ospitalità concessa a Eracle sarà elemento risolutivo.

Indissolubilmente legato a questi vi è il tema della gloria, che costituisce movente fondamentale dell’azione per i personaggi (ad esclusione di Ferete): nel κλέος, rivendicato in primo luogo dalla protagonista, si può individuare quel prestigio che deriva dal riconoscimento sociale della virtù, che costituisce un surrogato dell’immortalità e un compenso postumo, dopo la riduzione dell’individuo al nulla.

Ercole riconduce l’ombra di Alcesti dagli Inferi. Affresco, IV secolo, dalle Catacombe di Via Latina a Roma.

Un altro punto focale del dramma è la domanda che il poeta pone con chiarezza, anche se indirettamente: è giusto che Admeto accetti il sacrificio della sposa e che poi rinfacci a suo padre un eccessivo attaccamento alla vita? Euripide non risolve il quesito, ma lo evidenzia nell’accesa discussione fra padre e figlio, che si svolge secondo lo schema dei δισσοὶ λόγοι di stampo sofistico, e che ribalta completamente l’idea tradizionale del rapporto fra padre e figlio. Nel mondo greco esso era caratterizzato dall’assoluta dipendenza reale e psicologica del secondo rispetto al primo. Eppure, mentre per l’Admeto euripideo appare ovvio che un padre debba sacrificarsi per il figlio, per affetto e perché è vecchio, Ferete sposta l’obiettivo dal dovere al volere e soprattutto sull’attaccamento alla vita, che è più forte di qualunque altro sentimento, indipendentemente dall’età; ed è proprio in nome di questo istinto irrazionale e potentissimo che Admeto ha permesso che Alcesti morisse al posto suo. Perché ora dovrebbe scaricare su altri il proprio senso di colpa, accusandoli di ciò di cui egli stesso è responsabile?

Un ulteriore centro di interesse è rappresentato dal personaggio di Eracle, descritto da Euripide ora con caratteristiche comico-farsesche, ora con tratti di nobiltà eroica. Sulla figura di questo eroe, il più popolare fra quelli greci, esisteva una duplice tradizione, che da un lato lo presentava come un singolare modello di ἁρετή volta al bene degli uomini (in quest’ottica, per esempio, lo consideravano le scuole filosofiche dei Cinici e degli Stoici); dall’altro, lo deformava comicamente, fino a farne la caricatura di un omaccione tutto muscoli ma con poco cervello, con appetiti sfrenati e giganteschi come la sua persona. Questa interpretazione parodistica di Eracle, iniziata verso gli ultimi anni del VI secolo a.C. da Epicarmo, che secondo Aristotele (Poet. V 5), dev’essere considerato l’inventore della commedia, sfruttava elementi ancora più antichi e divenne poi abbastanza comune – come attesta chiaramente Aristofane negli Uccelli (414) e nelle Rane (405). La posizione di Euripide appare così cronologicamente intermedia fra Epicarmo e il poeta comico ateniese, visto che l’Alcesti è del 438.

In questa “strana” tragedia, ha centralità drammatica soprattutto il problema della morte, destino comune degli uomini, che viene evidenziato proprio da quell’unicum “miracoloso” costituito dalla resurrezione della protagonista. Il confronto con la morte ha effetto rivelatore del carattere delle persone, consentendo di verificare la consistenza dei legami famigliari e sociali: coloro che sembrano φίλοι, o che tali si rivelavano a parole, di fronte alla morte dimostrano la loro vera natura di esseri tenacemente attaccati alla propria ψυχή a scapito di quella altrui, anche a costo di perpetuare un’esistenza ingloriosa (un destino che accomuna Admeto e Ferete, nella grettezza del loro scontro verbale).

Joseph-Boniface Franque, Eracle recupera l’anima di Alcesti dall’oltretomba. Olio su tela, 1806.

Nel delirio di Alcesti davanti al terribile «demone alato», emerge l’aspetto ambivalente dell’aldilà, che da una parte sottrae le gioie della vita, oscurando la luce del sole, ma dall’altra prospetta una insensibilità liberatoria dal dolore (οὐδέν ἐσθ᾽ ὁ κατθανών «chi muore non è più nulla», osserva Alcesti al v. 380), che colloca il defunto in una condizione privilegiata rispetto ai suoi cari, costretti a perpetuare un πόθος («struggimento di desiderio») destinato a rimanere inappagato.

Per loro rimane l’insipida consolazione – che è anche un “dovere” – di perpetuare il ricordo degli estinti o, tutt’al più, la «fredda gioia» di abbracciare simulacri che restituiscono vane parvenze. «Il motivo centrale della tragedia – secondo le parole di C.M.J. Sicking – è il carattere limitato di ogni potere umano: l’uomo non vincerà mai la morte, sacrificarsi per un altro non ha dunque senso». Il dono divino offerto a un essere umano di «sfuggire al κύριον ἧμαρ sostituendo un altro al suo posto si rivela fallimentare: la vita di chi resta dopo aver accettato il sacrificio dei propri φίλοι è pura esistenza biologica, ἀβίωτον χρόνον (vv. 242-3)» (S. Barbantani).

Jean-François Pierre Peyron, La morte di Alcesti. Olio su tela, 1785. Paris, Musée du Louvre

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[1] Rappresentazioni del mito di Alcesti sono rare, nonostante l’interesse per la storia promosso dall’omonima tragedia di Euripide (andata in scena nel 438 a.C.). All’interno del palazzo reale di Fere in Tessaglia, suggerito dalle due colonne che sorreggono il frontone, Alcesti è seduta sul letto nuziale. È il momento traumatico del commiato. A sinistra è il marito Admeto, stante e drappeggiato nell’himátion, che porta una mano alla fronte in segno di tristezza. La sovrapposizione con il dramma euripideo si ferma qui; i personaggi vicini non sono i suoceri di Alcesti. A destra è la vecchia nutrice: il suo sguardo è abbassato, mentre con la mano si sorregge il mento in segno di dolore. Dietro di lei il pedagogo, vecchio e canuto, si appoggia a un bastone. Al centro, Alcesti – l’unica figura di cui sia indicato il nome (Ἄλκηστις) – sta salutando per l’ultima volta i figli. In disparte, ad arricchire il quadro, sono due serve: l’una porta sulla spalla un cesto di vimini, l’altra ha un nastro e un ventaglio.

Vivere è amare (Catull. Carm. V)

Catullo invita Lesbia a sfidare le convenzioni sociali imposte e codificate dal mos maiorum in nome di un ideale nuovo che identifica la vita pienamente vissuta con l’amore. Il carmen 5 esprime la gioia febbrile di una passione divorante, la sensazione di vivere un’esperienza unica e totalizzante accanto a una donna diversa da tutte le altre. Questo sentimento per la puella è presentato come felice e appagante, senza le ombre della gelosia e della separazione. Sul tema convenzionale proprio della poesia erotica dell’invito a identificare vita e amore (vivamus… atque amemus), s’innesta un’ombra più fatale e ineludibile, il pensiero angoscioso della fine di ogni cosa e della notte eterna che inevitabilmente segue la breve luce dell’esistenza; l’incombere da lontano di tale prospettiva ha il risultato di rendere ancor più urgente e intensa l’esortazione alla vita e all’amore: infatti, per esorcizzare questo timore, il poeta ripropone con maggior vigore il tema iniziale, moltiplicando freneticamente i baci, quasi nel tentativo di prolungare l’amore oltre le coordinate spazio-temporali, o meglio di cristallizzare la felicità presente sottraendola al divenire.

Vivamus, mea Lesbia, atque amemus,

rumoresque senum severiorum

omnes unius aestimemus assis!

Soles occidere et redire possunt:

nobis cum semel occidit brevis lux,

nox est perpetua una dormienda.

Da mi basia mille deinde centum,

dein mille altera, dein secunda centum,

deinde usque altera mille, deinde centum.

Dein, cum milia multa fecerimus,

conturbabimus illa, ne sciamus,

aut ne quis malus invidere possit,

cum tantum sciat esse basiorum.

Scena di bacio tra Polifemo e Galatea. Affresco, ante 79, dalla Casa dei Capitelli Colorati, Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Viviamo, mia Lesbia, e amiamo,

e i commenti dei vecchi bacchettoni,

stimiamoli tutti quanti un vile soldo!

Il Sole può anche tramontare e risorgere:

a noi, una volta spentasi la nostra breve luce,

non resta che dormire una notte eterna.

Dammi mille baci, e poi cento,

e poi altri mille, e altri cento,

e poi ancora mille e ancora cento.

Poi, dopo averne totalizzati molte migliaia, ne

scombineremo i conti, per non sapere quanti

sono o perché qualche invidioso non ci faccia

il malocchio, sapendo l’esatto importo dei baci.

Scena erotica con bacio fra un uomo e una donna (CIL IV 3494, nolo cum Myrtale). Affresco (particolare), ante 79, dalla caupona di Salvio, Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

La struttura del v. 1, che reca al centro il nome di Lesbia (compare qui, per la prima volta, lo pseudonimo dell’amata) ed è incorniciato dai congiuntivi esortativi, dichiara con enfasi l’identità di vivere (nel senso pregnante di «vivere pienamente, godendosi la vita») e amare. Contro il perentorio invito di Catullo niente possono le critiche malevole dei senes severiores: l’allitterazione sillabica e l’insistenza sui suoni r e s (percepiti come sgradevoli dagli antichi) concorrono a dare rilievo fonosimbolico ai rumores: queste «critiche» sono liquidate al v. 3 con una vivace espressione della lingua d’uso, assis aestimare (l’asse era una moneta di poco valore), sottolineata dall’antitesi sprezzante omnes unius.

Il motivo della caducità dell’esistenza umana, in opposizione all’eterno ciclo della natura, è ripreso dal poeta greco Mimnermo ed è sviluppato da Catullo attraverso un raffinato sistema di antitesi nei vv. 4-6. I cardini di questa opposizione, soles (metonimia per dies) e nox, sono collocati in posizione enfatica a inizio verso; occidere, riferito al Sole, è ripreso in poliptoto da occidit, riferito alla breve giornata dell’uomo (v. 5): si mette in evidenza la contrapposizione tra il tempo circolare della natura (occidere et redire) e quello lineare e breve dell’uomo (brevis lux).

Il catalogo dei baci si sviluppa per tre versi (vv. 7-9): la ripetizione delle cifre (mille… centum), introdotte dall’anafora deinde… dein, la collocazione di centum alla fine dei tre versi successivi conferiscono all’elenco un ritmo ossessivo. Al v. 10, cum… fecerimus tira le somme dell’elenco segnando il passaggio al motivo conclusivo dell’invidia dei maligni, che possono gettare il malocchio sulla coppia degli amanti felici. L’invito del poeta innamorato alla puella è quello di esorcizzare la morte e il male proprio con l’amore.

Infine, è interessante notare che la parola basium, probabilmente di origine celtica, fu introdotta nella lingua letteraria proprio da Catullo e, con il tempo, avrebbe soppiantato il corrispondente latino osculum, perpetuandosi nelle lingue romanze.

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Il 𝑆𝑖𝑚𝑝𝑜𝑠𝑖𝑜 di Platone

cfr. Platone, Simposio, introd. di V. DI BENEDETTO, trad. di F. FERRARI, Milano 1997, 67-73.

Il Simposio, composto da Platone intorno al 380 a.C., verso i cinquant’anni, si apre con una scena in cui ad Apollodoro, che ha incontrato Glaucone (fratello del filosofo) e altri amici, viene richiesto di raccontare dell’incontro svoltosi in casa di Agatone, in occasione della vittoria di questo poeta negli agoni tragici delle Lenee del 416. Apollodoro dichiara di poter esaudire la richiesta dell’amico, in quanto ha udito il racconto di quella riunione da un certo Aristodemo, un ammiratore di Socrate, che vi aveva preso parte personalmente insieme al maestro. Aristodemo aveva infatti incontrato Socrate per via, mentre questi si stava recando da Agatone e il maestro lo aveva persuaso a seguirlo laggiù. L’esordio dell’opera, costruito letteralmente “a incastro”, ha l’andamento di un grande racconto che riguarda il passato recente, ma considerato già mitico dall’autore; la drammatizzazione degli incontri tra amici è caratteristico di diversi dialoghi platonici.

Pittore di Castelgiorgio. Dialogo fra due giovani. Pittura vascolare dal tondo di una κύλιξ attica a figure rosse, 500-480 a.C. ca. Palermo, Museo Archeologico Regionale.

Dopo la cena, Pausania, il retore, propone a tutti di bere con moderazione, evitando ogni eccesso dopo le bevute del giorno prima, durante i festeggiamenti di Agatone. Allora Erissimaco, il medico, suggerisce di trascorrere la serata tessendo a turno le lodi di Amore: Socrate, che aveva raggiunto l’incontro appena in tempo, e gli altri convitati approvano (Symp. 176a-178a). Il primo a parlare è il giovane Fedro, amasio (ἐρόμενος) di Erissimaco e appassionato della retorica sofistica: egli sostiene che Amore è il più antico fra gli dèi e ha elargito agli uomini i più splendidi favori, in quanto l’innamorato (ἐραστής) desidera distinguersi agli occhi dell’amato (ἐρόμενος). Così il dio instilla coraggio e spirito di sacrifico, come dimostrano i casi di Alcesti per Admeto e di Achille per Patroclo (Symp. 178a-180b). Tutto l’intervento di Fedro si muove secondo le linee degli encomi tradizionali, facendo assiduamente ricorso a exempla mitici e sottolineando il tema dell’utilità del dio, specialmente dal punto di vista sociale, comunitario.

Secondo a parlare è Pausania, per il quale non esiste un unico Amore, ma ve ne sono due, così come due sono le Afroditi corrispondenti, una celeste (Οὐράνια) e un’altra volgare (Πάνδημος). Qualsiasi umana azione di per sé non è buona né cattiva, ma merita lode solo se è compiuta con intenzioni oneste. L’Amore è caduto in discredito per l’uso volgare che molti ne fanno, mirando solo al corpo della persona amata. In alcune regioni della Grecia le relazioni omoerotiche sono consentite, in altre condannate. Il costume ateniese invece è ambiguo, in quanto l’amante viene incoraggiato, seppure, al contempo, ostacolato nei suoi tentativi di conquista, e l’amato viene biasimato nel momento in cui cede alle richieste dell’amante. Questa ambiguità è dovuta al desiderio di distinguere fra l’amante che ricerca e desidera soltanto il corpo e l’amante che invece aspira all’anima in vista di un rapporto duraturo. Solo se l’intenzione è onesta sia nell’amante che nell’amato, il comportamento omosessuale risulta lecito (Symp. 180c-185c). L’intervento del retore è tutto giocato su una serie di distinzioni che ruotano attorno alla fondamentale opposizione fra amore buono e amore cattivo, nonché fra orientamento eterosessuale e omosessuale: di quest’ultimo Pausania è fervente apologeta, come mostra nei fatti la relazione con Agatone. Che l’ἔρος sia precipuamente omoerotico (esclusivamente tra persone di sesso maschile) e che la donna si collochi in una posizione di manifesta marginalità è presentato nel Simposio, come dato ovvio e aproblematico.

Pittore Pistosseno. Afrodite sul cigno. Pittura vascolare dal tondo di una κύλιξ attica a figure rosse su sfondo bianco, 460 a.C. ca. dalla Tomba F43 di Camiro (Rodi)

La teorizzazione più esplicita della superiorità dell’amore omosessuale (tra maschi) rispetto a quello eterosessuale – di quello omosessuale tra donne non se ne parla nemmeno – è appunto esposta proprio da Pausania; nella sua distinzione tra due diversi Amore e due diverse Afroditi, l’amore proprio della Πάνδημος è sia omosessuale che eterosessuale, mentre quello della Οὐράνια è specificamente omosessuale. Quest’ultimo è rapporto esclusivo tra uomini e ciò si basa sull’assunto che i maschi siano più forti e più intelligenti (nel senso che possiedono più νοῦν, «pensiero», «intelletto») dell’altro sesso: e chi ama un ragazzo attende l’età in cui incomincia a svilupparsi il suo νοῦν. Quindi, la distinzione tra i due tipi di Amore è fatta non solo sulla base della specializzazione omosessuale maschile dell’amore di Afrodite Οὐράνια, ma anche sulla base di una qualità diversa di amore, nel senso che chi ama di un amore volgare mira alla mera soddisfazione immediata di un impulso, mentre l’altro tipo di amore si propone una comunanza di vita, d’intenti e di ideali. Coerentemente al suo modo di argomentare, è il fatto che, ancor prima che si incominci la discussione, proprio Pausania non solo ha proposto di congedare la flautista (che, tra l’altro, era di condizioni servili), ma ha pure suggerito agli amici di invitarla ad andare a suonare alle donne della casa di Agatone. L’assunto fondamentale del discorso di Pausania per ciò che concerne una posizione di emarginazione della donna è fatto proprio da tutti gli altri partecipanti del convito e appare come un dato assolutamente ovvio, che non viene nemmeno posto in discussione. Ciò, insomma, nel Simposio non è nulla di nuovo; la grossa novità dell’opera, piuttosto, rispetto alla vita reale è l’invito a imparare a contenere i propri impulsi sessuali.

Ora sarebbe la volta di Aristofane, il poeta comico, che però è improvvisamente assalito dal singhiozzo. Interviene allora Erissimaco, che dottamente gli illustra il modo per liberarsene (Symp. 185c-e). In attesa che l’amico plachi il singhiozzo che lo tormenta, il suo posto è preso dallo stesso medico, che svolge la propria tesi partendo dall’osservazione che due tipi di Amore si manifestano in tutti i fenomeni naturali. In particolare – spiega –, nella pratica medica occorre compiacere ciò che nel corpo è sano e combattere ciò che è malato, facendo sì che i contrari (caldo/freddo, secco/umido) si attraggano reciprocamente, secondo una temperata armonia, così come nella musica l’artista deve produrre accordo fra l’acuto e il grave, suscitando amore e consenso fra di essi. Anche nella sfera meteorologica la condizione ottimale è raggiunta allorché vengono conciliate le opposte tendenze climatiche. Infine, nel campo della mantica e in ogni altra relazione tra uomini e dèi, instaurare armonia e comunicazione fra le due dimensioni significa favorire le inclinazioni amorose che nell’uomo tendono al lecito e alla verecondia; per converso, l’empietà scaturisce dal mancato assecondamento dell’amore continente (Symp. 185e-188e).

Pittore Epitteto. Scena di corteggiamento omoerotico. Pittura vascolare da una κύλιξ attica a figure rosse, 520 a.C. ca. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

È caratteristico dell’orientamento mentale di Erissimaco il proporre una trattazione dell’eros al di là della sua connotazione specifica, in un tentativo sistematico di correlare sfere diverse dell’attività umana e dei fenomeni naturali muovendo dalla teoria dei contrari, che risaliva alla scienza ionica della natura del VI e del V secolo. È probabile che Platone «componesse questo discorso per ridicolizzare la tendenza di alcuni scienziati a formulare leggi eccessivamente generali che governerebbero i fenomeni dell’universo. Gli scrittori di medicina talvolta criticano queste generalizzazioni (p. es., Hp. vet. med. 13-16; vict. II 39), ma nondimeno talvolta vi fanno ricorso (p. es., Hp. vict. I 3-10; cfr. flat. 1-5). Nella misura in cui Erissimaco rompe con una trattazione dell’ἔρος come aspetto della sessualità umana, il suo discorso può essere considerato come un’anticipazione della trattazione offerta da Diotima dell’ἔρος in quanto viaggio a tentoni alla ricerca del Bene assoluto; ma il suo dualismo, che attribuisce un ἔρος positivamente cattivo all’ordine della natura, è estraneo alle speculazioni metafisiche di Diotima» (Dover).

Riavutosi dal singhiozzo, Aristofane prende finalmente la parola, ricostruendo una singolare storia dell’umanità: in origine gli esseri umani avevano quattro mani e quattro gambe, e due apparati genitali; e i generi erano tre, quello maschile, quello femminile e l’androgino. Questi esseri erano creature superbe e tentarono di dare la scalata al cielo per assalire gli dèi e spodestarli. Allora, per indebolirli e ricondurli all’ordine, Zeus li divise ciascuno in due metà, come le sogliole. Perciò, da quel momento ciascun essere umano cerca la propria “metà” perduta, e precisamente a questa ricerca dell’intero si dà nome di “amore” (Symp. 189a-193d).

Il discorso del commediografo riecheggia burlescamente e, ricorrendo a immagini che trovano talora riscontro nelle sue stesse commedie, le teorie dell’origine e il progresso del genere umano tanto in voga nel V secolo (cfr. Aesch. Prom. 436 ss.; Mosch. F 6 Nauck2; Emped. B 57-62 Diels-Kranz; Plat. Prot. 320c ss.). Ma la specificità dell’intervento di Aristofane sta soprattutto nel mettere la relazione erotica fra due esseri umani come fine in sé piuttosto che come mezzo o momento in vista di uno scopo diverso e superiore.

Dopo un intermezzo scherzoso fra Socrate e Agatone, interrotto da Fedro, Agatone stesso dichiara che Amore è il più beato, il più bello e il più giovane fra gli dèi. Da quando egli è nato, è cessata ogni discordia fra gli immortali. Amore è tenero, giusto, temperante, sapiente e ingenera negli uomini consimili virtù (Symp. 193d-197e). L’esposizione del giovane tragico procede per agglutinazioni successive e si espande in una fuga di determinazioni articolate secondo le norme della retorica gorgiana. Più che un contributo filosofico, il suo discorso si profila – anche intenzionalmente: «Sia dedicato da me al dio questo discorso, ben temperato, per quanto stia in me, a tratti di scherzo (παιδιά) a tratti di serietà misurata» – come un’efflorescenza di immagini eleganti, impreziosite dalla disposizione dei membri sintattici, che arieggiano le sequenze della lirica dei cori e delle monodie tragiche.

Pittore Duride. Giovanetto con leprotto in grembo. Pittura vascolare da una κύλιξ a figure rosse, 500-460 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.

Segue un ἔλεγχος, una confutazione ironica, attraverso cui Socrate costringe Agatone ad ammettere di «non aver capito niente di ciò che ha detto prima». Allora il maestro si accinge a riferire il discorso che avrebbe udito un giorno da Diotima, una sacerdotessa di Mantinea, che lo ammaestrò nelle cose d’amore. Amore – disse la donna – non è né bello né brutto, né buono né cattivo, né immortale né mortale, ma è intermedio fra questi opposti. Egli è nato da Povertà (Πενία) e da Espediente (Πόρος): pertanto, è povero ma ricco d’ingegno e di risorse. Chi ama ciò che è bello desidera che esso gli appartenga per sempre. Tutti gli esseri umani sono fecondi e aspirano a riprodursi. Il bello stimola, quindi, la generazione, il brutto la inibisce. Attraverso la generazione i mortali conseguono una forma di immortalità: dunque, amore è aspirazione a unirsi e a riprodursi. E la generazione si realizza non solo nella sfera del corpo e dei sensi, ma anche in quella dell’anima, dove pensieri e conoscenze vengono continuamente rinnovati. Gli esseri fertili nel corpo generano figli in carne e ossa, quelli fertili nell’anima generano conoscenza, arte e leggi. Dall’amore per la bellezza di un corpo l’amante passa a desiderare la bellezza che si manifesta in tutti i corpi belli, e poi in tutte le istituzioni e in tutte le scienze, finché non raggiungerà la contemplazione del Bello assoluto, immutabile e imperituro (Symp. 198a-212c). Il discorso della sacerdotessa – in realtà, di Platone, anche se non si può negare con certezza l’esistenza storica di Diotima – presuppone la teoria delle idee, in quanto (attraverso un processo di graduale astrazione, e in parte utilizzando il linguaggio proprio delle iniziazioni misteriche) esso tende a configurare un καλόν che sfugge a qualsiasi determinazione concreta e si identifica con il bene in sé.

Non appena Socrate termina il suo intervento, alla porta si sente bussare e fa il suo ingresso tumultuoso Alcibiade ubriaco fradicio. Dopo un battibecco scintillante di humour con Socrate e il padrone di casa, Alcibiade dichiara di voler tessere le lodi non già di Amore ma del proprio maestro e amante Socrate. Questi potrebbe essere paragonato nell’aspetto (naso camuso e occhi sporgenti) a un satiro o a un sileno; ma le sue parole producono un effetto prodigioso. Quand’era adolescente, Alcibiade cercò di sedurlo, ma Socrate resistette a qualsiasi assalto. Nella campagna militare di Potidea, il maestro aveva dimostrato un’incredibile resistenza ai disagi e un grande coraggio durante la ritirata ateniese: nessuno è simile a Socrate (Symp. 212c-222b).

Busto di Socrate. Marmo, copia romana da originale greco del IV secolo a.C. dalla Villa dei Quintilii sulla Via Appia. Città del Vaticano, Musei Vaticani – Museo Pio Clementino.

Nella forma di encomio, Alcibiade offre un magistrale ritratto della figura del maestro, e dell’effetto quasi incantatorio che le sue parole sono solite produrre in chi lo ascolta. Poiché al tempo della composizione del dialogo Alcibiade era naturalmente ricordato come traditore di Atene, e la fama di Socrate risultava oscurata dall’esser stato maestro di un simile discepolo, è significativo che Platone faccia dire ad Alcibiade di non aver seguito gli insegnamenti socratici, trascurando se stesso per inseguire il successo e gli onori politici.

Un’altra folla di comasti gaudenti fa irruzione in casa di Agatone. Allora, alcuni convitati se ne vanno. Restano solo il padrone di casa, Aristofane e Socrate, che trascorrono il resto della notte conversando. Alla fine, tutti si addormentano, tranne il maestro, che si reca prima al Liceo e soltanto a notte inoltrata torna a casa a riposarsi (Symp. 222c-223d).

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Il galateo del simposio (Anacr. 𝑃𝑀𝐺 356)

L’inarrestabile ascesa sociale e politica delle nuove classi mercantili – che per tutto il VI secolo a.C. fu il primo problema, e tra i più diffusi motivi di riflessione poetica, delle aristocrazie elleniche – lambiva naturalmente anche i simposi, i principali luoghi di ritrovo, di svago e di elaborazione culturale dei γένη e delle ἑταιρεῖαι cittadine, modificandone aspetto e costumi, contaminandone “dal basso” consolidate tradizioni. Contro l’involgarirsi dei simposi dell’età delle tirannidi, le bevute tracie o scitiche di vino schietto, l’ebbrezza condotta sino alla sfrenatezza più incontrollata e finanche alla rissa, si espressero Senofane (F 1 Gentili-Prato) e a più riprese anche Anacreonte, nel F 2 West2 («Non mi è gradito chi tracanna vino sempre dappresso a un boccale pieno e narra le odiose contese e la guerra fonte di lacrime, bensì chiunque gli splendenti doni sia delle Muse sia pur di Afrodite consociando, volga la mente alla gioia che ispira amore») e nelle due strofette di dimetri ionici per lo più anaclomeni (detti anche “anacreontici”), che Ateneo (Deipnosophistae X 427a, 475c) – per indicare il rapporto di 1/3 e 2/3 tra vino e acqua nella mescita, e un particolare tipo di “coppa” – citava, verosimilmente da un solo componimento, attingendo al terzo libro dell’edizione alessandrina (F 33 Gentili; PMG 356):

È difficile dire se Ateneo cominciasse la sua citazione dal primo verso del carme e se le due strofette fossero adiacenti o a una certa distanza l’una dall’altra. Univoco, in ogni caso, parrebbe il messaggio: persino una bevuta in cui non si chiuda mai la bocca (v. 2, ἄμυστιν, vocabolo dal valore avverbiale: «d’un fiato»), un vero e proprio «tracannare» (v. 3, προπίω, cong. aor. di προπίνειν), che abbia come obiettivo uno stato di bacchica eccitazione (v. 6, ἀνὰ δηὖτε βασσαρήσω: è il verbo delle Βασσαρίδες, cioè le Baccanti che indossavano la βασσάρα, la rituale «pelle di volpe») – e forse la continuazione (v. 6, δηὖτε) di quello stato, già acquisito nel corso di una meno morigerata festa pubblica – può tuttavia avvenire nel rispetto degli strumenti (v. 2, la κελέβη, una grossa coppa) e delle proporzioni (vv. 3-5) della mescita, e soprattutto senza scomposte violenze (v. 5, ἀνυβρίστως), senza frastuono (v. 8, πάταγος) o grida di guerra (ἀλαλητός): tutto ciò, insomma, che rientrava nel «modo di bere» (v. 9, πόσις) tipico degli Sciti e dei Traci, cui Anacreonte contrappone – «a simposio» (παρ’ οἴνῳ) – i «nobili canti» (vv. 10-11, καλοῖς / ὑποπίνοντες ἐν ὕμνοις) deòòa tradizione ellenica, inframmezzati da lenti e misurati sorsi di vino. Al contrario, se al v. 5 si legge ἂν ὑβριστιῶς, le due strofette di Anacreonte costituirebbero una sorta di sceneggiata “coppia agonale”, in cui al proclama del simposiasta “cattivo”, che affermerebbe di volersi ubriacare senza freni, seguirebbe, per bocca del simposiasta “buono”, il richiamo alla moderazione e alla nobile eleganza del corretto comportamento.

Pittore di Antifonte. Un ragazzo (Λύσις καλός) riempie una coppa di vino da un grosso cratere. Pittura vascolare da una κύλιξ attica a figure rosse, c. 490-480 a.C. Atene, Museo dell’Arte Cicladica.