ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
di L. Cᴀɴꜰᴏʀᴀ, 𝐿’𝑒𝑑𝑢𝑐𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒, in 𝑆𝑡𝑜𝑟𝑖𝑎 𝑑𝑖 𝑅𝑜𝑚𝑎, IV, Torino 1989, 744-746.
La commedia che Terenzio fece rappresentare ai ludi funebres in onore di Lucio Emilio Paolo (160 a.C.), “I fratelli” (Adelphoe), tradotta dall’omonima commedia di Menandro, è il dramma pedagogico per antonomasia. Terenzio aveva voluto – com’è noto – un po’ virtuosisticamente innestare, nel tessuto della commedia menandrea presa a base, una scena – quella del ratto della giovane etèra – tratta da una commedia di Difilo. […] A parte la movimentata scena di ratto dell’etèra dalla casa del lenone, resta complessivamente intatta l’ispirazione menandrea di questa serissima commedia. Sin dall’iniziale scontro tra i due anziani fratelli, portatori appunto di due idee pedagogiche antitetiche, si coglie un clima che è quello dell’Atene di Menandro. Demea – il fratello che ha scelto di «vivere in campagna nel continuo risparmio e senza nulla concedersi», e sottopone il figlio a un sistema di vita austero e ritirato – ha non pochi tratti in comune con il protagonista del Dyskolos menandreo: un altro piccolo proprietario che ha scelto anche lui il ritiro nel podere del suo demo e considera la città come sinonimo di perdizione, e vive vessando i figli. Al polo opposto Micione, che non ha figli ma alleva secondo i propri criteri di tolleranza e indulgente apertura l’altro figlio di Demea, a lui affidato, rappresenta l’umanità aperta e tollerante che Menandro vagheggia.
In che misura questa tensione interna al mondo ateniese ha attinenza anche con la realtà romana, nella quale la traduzione menandrea traspone la vicenda? Certamente ne ha, in quanto anche il mondo romano del tempo della vecchiezza di Catone e della fervida giovinezza di Terenzio è ormai attraversato da un’analoga tensione: l’invasione di commedia attica tradotta ne è un indizio, oltre che un fattore. I signori per i quali – e con l’aiuto dei quali – Terenzio scrive non educano più i loro figlio alla maniera del vecchio Catone e del vecchio Demea. E non sarà casuale che la rappresentazione degli Adelphoe si sia svolta nel contesto delle celebrazioni postume di Emilio Paolo, il consuocero (e quanto da lui diverso) di Marco Porcio Catone. Emilio Paolo, infatti, era colui che, secondo l’attenta descrizione di Plutarco, più di ogni altro romano del suo tempo era stato capace di fondere elementi di tradizionalismo pedagogico cittadino con la maggiore apertura all’educazione greca. […] Naturalmente non ha senso commettere l’errore di prospettiva di considerare il dibattito con cui si aprono gli Adelphoe terenziani, tra Micione e Demea, come la rappresentazione di uno scontro di orientamenti sorto all’interno del mondo romano. Il testo è ricalcato sul testo menandreo. Nondimeno nel lungo monologo di Micione, con cui il dramma si apre, si possono isolare un paio di espressioni che rinviano alla concezione romana della patria potestas: là dove Micione ripensa al proprio comportamento tollerante nei confronti del figlio adottivo e osserva che tutto gli concede, perché il figlio lo abbia caro, e soggiunge: «Gli faccio regali, chiudo un occhio, non credo necessario agire sempre secondo i miei diritti», e poco dopo, nel contrapporre, nonostante tutto, il proprio metodo a quello autoritario e repressivo del fratello, conclude: «Ecco la differenza fra padre e padrone». Espressioni entrambe esplicitamente critiche rispetto all’equiparazione della potestas verso i figli e verso i servi, così autorevolmente sancita dai giuristi: il riferimento alla realtà giuridica romana non potrebbe essere più chiaro. Nelle parole di Micione che contrappongono la vita urbana da lui prediletta e praticata («Io ho preferito questa vita in città, fatta di indulgenza e di tempo libero per coltivare lo spirito») e il modello di vita rustica del fratello Demea («Lui è tutto il contrario, vive in campagna, tira avanti sempre tra le economie e gli stenti»), si è ravvisata una polarità che ricompare anche in altri autori latini. Quanto questa contrapposizione sia pensata da Terenzio in relazione alle tensioni ormai presenti nella società romana, e quanto invece rispecchi una polarità propria del testo menandreo, non è facile da dire.
di CONTE G.B. – PIANEZZOLA E., Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, pp. 604-617.
Una nuova generazione di poeti
Nel I secolo a.C. una nuova generazione di poeti, in forte rottura con la tradizione romana, impose un rinnovamento del gusto letterario e fondò un’estetica “moderna”, segnando una svolta decisiva nella storia della letteratura latina. Per indicare le tendenze innovatrici di questa “avanguardia” poetica Cicerone coniò la sprezzante definizione di poetae novi (o neòteroi, alla greca), acquistò (pur senza l’originaria connotazione negativa) dalla critica letteraria.
Il fastidio di Cicerone per quelli che tutt’insieme chiamava «poeti moderni» (un Cicerone maturo, lontano ormai dagli esperimenti poetici giovanili di gusto ellenizzante) si manifestò anche in un’altra sua celebre definizione: cantores Euphorionis, dal nome del poeta Euforione di Calcide (III secolo a.C.), celebre per la ricercata densità e la preziosa erudizione dei suoi versi, assunto a emblema della poetica alessandrina (lo divulgò verso la metà del I secolo a.C. il poeta greco Partenio di Nicea, «il profeta della scuola callimachea», condotto a Roma probabilmente da Cinna). Così Cicerone bollava i nuovi protagonisti del panorama letterario, irridendo il loro irriverente rifiuto della tradizione romana, personificata da Ennio.
Alle radici del rinnovamento culturale: l’ellenizzazione della società romana
Il processo di modernizzazione del gusto letterario promosso dai poetae novi non fu che un aspetto del generale fenomeno di ellenizzazione dei costumi che caratterizzò la società romana nell’età tardo-repubblicana. Questa trasformazione dei modi di vita fu la conseguenza più evidente delle grandi conquiste del II secolo a.C., che avevano aperto alla potenza romana lo scenario dell’area orientale del Mediterraneo e messo a contatto l’arcaica società di contadini-soldati con popolazioni abituate a forme di vita più raffinate. L’enorme complesso fenomeno di civilizzazione – che aveva incontrato a Roma la tenace ostilità dei cultori della tradizione, della fazione catoniana – manifestò la sua influenza, com’è ovvio, anche nel campo specificamente letterario.
Si verificò così un lento ma progressivo indebolimento dei valori e delle forme della tradizione (di generi letterari politicamente e moralmente “impegnati”, come l’epica e soprattutto il teatro) e l’emersione di esigenze nuove, dettate dall’affinarsi del gusto e della sensibilità. Di veramente nuovo rispetto alle scelte dei predecessori i poeti neoterici avevano non tanto la predilezione per la letteratura greca più recente (anche gli autori latini più arcaici, infatti, avevano lavorato con tecniche già “alessandrine”), quanto la decisa imitazione degli aspetti eruditi e preziosi che caratterizzavano appunto quella letteratura. I neòteori presero dai poeti ellenistici il gusto per la contaminatio tra i generi, l’interesse per la sperimentazione metrica, la ricerca di un lessico e di uno stile sofisticati e, infine, il carattere decisamente disimpegnato della loro poesia.
I caratteri della poesia neoterica
Preludio della rivoluzione neoterica fu la comparsa, negli ultimi decenni del II secolo a.C. nell’élite colta romana, di una poesia di tono leggero e di dimensioni ridotte, destinata al consumo privato. Il carattere scherzoso di questo tipo di componimenti era implicito nel termine stesso che li designava, nugae («bagatelle», «sciocchezze»), a indicarne appunto la natura disimpegnata, di semplice intrattenimento. Coltivata nella cerchia intellettuale che faceva capo all’aristocratico Q. Lutazio Catulo, questa poesia fu il frutto dell’otium, dello spazio sottratto agli impegni civili e dedicato alla lettura e alla conversazione dotta; la rivendicazione delle esigenze individuali accanto agli obblighi sociali si manifestò anche nell’interesse per i sentimenti privati, come l’amore; e, soprattutto, la ricerca di elaborazione formale (lessico, metrica, impianto compositivo, ecc.) rivela un gusto educato dal contatto con la cultura e la poesia alessandrine.
Nonostante gli elementi di continuità fra la poesia pre-neoterica e quella propriamente neoterica, ben maggiore era la consapevolezza che quest’ultima possedeva, e assai più netto lo scarto che essa introduceva rispetto alla tradizione letteraria latina. L’eleganza spesso manierata, l’artificioso sperimentalismo praticato sui modelli greci dai letterati della cerchia di Lutazio Catulo, lasciarono il posto a un tipo di poesia che dall’otium e ai suoi piaceri non avrebbe concesso solo uno spazio limitato (ritagliato ai margini di un sistema, come deroga occasionale a una condotta di vita incentrata ancora sui doveri del civis), ma li avrebbe collocati al centro dell’esistenza stessa, facendone i valori assoluti, le ragioni esclusive, come sarebbe successo in Catullo.
La poesia neoterica, infatti, segnò il culmine, sul piano letterario, di una tendenza da tempo sensibile nella cultura latina: da una parte, il crescente disinteresse per la vita attiva spesa al servizio della res publica, per i valori venerandi della tradizione, per il ruolo insomma del civis Romanus; dall’altra, il contemporaneo affermarsi del gusto dell’otium, del tempo libero dedicato alle lettere e ai piaceri, alla soddisfazione dei bisogni individuali e privati.
La rivoluzione del gusto letterario fu accompagnata da una più generale rivolta di carattere etico che la sostanziava, mostrando la crisi dei valori del mos maiorum. Il rifiuto della vita impiegata al servizio della comunità, del modello del cittadino-soldato, si riflesse (e insieme se ne alimentò) nel diffondersi dell’Epicureismo, di una filosofia cioè che predicava la rinuncia ai negotia politico-militari per una vita appartata e tranquilla, nell’intima comunione con gli amici.
La convergenza fra i principi dell’Epicureismo e le tendenze dei poeti neoterici è evidente, ma va notata anche una differenza importante: per gli epicurei, il cui fine era l’atarassia (il piacere di vivere senza turbamenti), l’eros era una malattia insidiosa, da fuggire come fonte di angoscia e di dolore (basti pensare al libro IV di Lucrezio), mentre per i neòteroi – soprattutto per Catullo – l’amore era il sentimento centrale della vita, quello che ne costituiva il fulcro e la ragione essenziale. Esso diventava, perciò, anche il tema privilegiato della nuova poesia, e concorreva a dar forma a un nuovo stile di vita, ispirato appunto dal culto dell’eros e delle passioni e dalla dedizione alla poesia che di esse si alimentava.
L’affinità di gusto che accomunava i vari poeti (che non componevano, comunque, un circolo o una scuola, non erano cioè organicamente collegati in un programma complessivo; ma una ragione di vicinanza e di amicizia stava già nella provenienza della maggior parte di loro, dalla Gallia Cisalpina) si tradusse anche in contatti, incontri, discussioni e letture comuni, cioè in un’attività critico-filologica che accompagnava la pratica poetica vera e propria e le faceva da supporto e verifica. Il travaglio della forma, la cura scrupolosa della composizione, il paziente labor limae erano, infatti, i tratti distintivi primari della nuova poetica callimachea (da Callimaco, appunto, il poeta ellenistico preso a modello e assurto a emblema degli ideali di poetica alessandrina).
E siccome proprio Callimaco, a suo tempo, aveva aspramente polemizzato contro gli epigoni dell’epos omerico, irridendo la sciatteria e la prolissità del lungo poema, propugnando invece un nuovo stile poetico, ispirato alla brevitas (il componimento di piccole dimensioni) e dell’ars (il meticoloso lavoro di cesello), così anche i neòteroi, dal canto loro, irridevano gli stanchi imitatori di Ennio, i pomposi cultori dell’epica tradizionale (Volusio, Suffeno e Ortensio), una poesia celebrativa delle glorie patrie, estranea ormai al gusto attuale sia per la trascuratezza formale sia per i contenuti antiquati. Ben altri, invece, furono i generi privilegiati dalla poetica callimachea e ritenuti più adatti all’accurato lavoro di cesello, al labor limae: quelli brevi, come, per esempio, l’epigramma, oppure quelli – come l’epillio, il poema mitologico in miniatura – che davano modo al poeta di fare sfoggio della propria preziosa erudizione (antichi miti di soggetto erotico, vicini perciò alla sensibilità “moderna”) e di attuare raffinate strategie compositive (racconti “a incastro”, narrazioni cucite insieme che si rispecchiavano l’un l’altra).
Inoltre, i principi ispiratori della poetica di scuola callimachea diedero luogo all’elaborazione di un nuovo linguaggio poetico e segnarono, più in generale, una svolta decisiva nella storia del gusto letterario a Roma. Il neoterismo avrebbe costituito, d’ora in poi, come un baluardo di “modernità”, che avrebbe proiettato nel passato la letteratura precedente: insomma, non avrebbero più potuto tener conto degli imperativi del nuovo gusto nemmeno i cultori delle forme più tradizionali.
Una rivoluzione nel gusto e nei versi
Come si è detto, tra i precursori dei neòteroi propriamente detti un posto di rilievo spetta a Q. Lutazio Catulo, uno degli esponenti più cospicui dell’ordo senatorio, console insieme a C. Mario e vincitore con lui dei Cimbri (101 a.C.). Uomo impegnato nella vita pubblica e autore, fra l’altro, di opere storiografiche di carattere memorialistico (come il De consulatu et de rebus gestis suis), Catulo riservò all’otium e alla poesia “nugatoria” uno spazio piuttosto limitato, deroga occasionale a una condotta di vita pienamente incentrata ancora sui doveri del civis.
Così, nel fr. 1 Morel = Buechner, rielaborazione di un epigramma callimacheo sul motivo dell’èros paidikòs (l’«amore per gli adolescenti»), l’amore appare quale semplice pretesto letterario a una dotta variatio sul tema:
Aufugit mi animus; credo, ut solet, ad Theotimum
deuenit. Sic est, perfugium illud habet.
Quid, si non interdixem, ne illunc fugitiuum
mitteret ad se intro, sed magis eiceret?
5 Ibimus quaesitum. Verum, ne ipsi teneamur
formido. Quid ago? Da, Venus, consilium.
Il cuore mi è fuggito; come al solito, credo, da Teonimo
è andato. Già: proprio là ha il suo rifugio.
Che mai accadrebbe, se non gli avessi fatto divieto di dar ricetto
a quel fuggitivo, ma gli avessi imposto di cacciarlo?
5 Andrò a cercarlo. Eppure, ho grande timore di essere
catturato. Che fare? Dammi tu, Venere, un consiglio.
Attorno a Lutazio Catulo si raccolse un gruppo di letterati accomunati dal nuovo gusto per la poesia leggera di intrattenimento. Non si dovrebbe parlare di un vero e proprio “circolo di Lutazio Catulo” – si è troppo insistito, infatti, sul carattere, a detta di alcuni, “democratico”, o almeno antisillano, di questa cerchia di intellettuali diversi tra loro per estrazione sociale e per tendenze politiche –: ma a collegare i vari componenti doveva essere solo una comunanza di gusti e di orientamenti letterari.
Si ricordano almeno Valerio Edituo e Levio. Il primo fu autore, come Catullo, di epigrammi erotici di manierata fattura alessandrina, uno dei quali (fr. 1 Morel = Buechner) rielabora un celebre tema di Saffo, ripreso anche da Catullo nel carmen 51:
Dicere cum conor curam tibi, Pamphila, cordis
quid mi abs te quaeram, verba labris abeunt,
per pectus ‹ … › manat subito mihi sudor:
sic tacitus, subidus, dum pudeo pereo.
Quando io tento, Panfila, di dirti la pena del mio cuore
e quello che desidero da te, le mie labbra restano senza parole
e d’improvviso ‹…› il sudore m’intride il petto:
così muto, avvampante, me ne sto qui, vergognoso, a morire.
Quanto a Levio, si sa che doveva essere vissuto più o meno agli inizi del I secolo a.C. Dei suoi Erotopaegnia (“Scherzi d’amore”) resta circa una cinquantina di versi, dove i miti più famosi della tradizione epica – le storie di Ettore, Elena, Circe, Protesilao e Laodamia – diventano soprattutto temi d’amore, storie appassionate, raccontati con tratti talora di morbida sensualità. Levio era famoso anche per la relativa libertà che si prendeva nel coniare composti strani e nello sperimentare forme metriche inusitate. Al preziosismo alessandrino di Levio vanno riportati i suoi carmina figurata, componimenti in cui la forma e l’ordine dei versi “disegnano” letteralmente l’oggetto di cui si parla nei componimenti (per esempio, una zampogna, oppure un’ala d’uccello, ecc.), veri e propri calligrammi.
Se la prima poesia nugatoria era ancora strettamente dipendente dai modelli ellenistici, Levio elaborò in modo più originale i testi che imitava, sperimentando nuove possibilità espressive. In ciò è giusto considerarlo effettivamente un anello di congiunzione, un precursore più diretto della poesia neoterica vera e propria.
Una figura di spicco, quasi un “caposcuola”, delle nuove tendenze poetiche fu certamente P. Valerio Catone. Originario della Gallia Cisalpina (ne parla Svetonio nel De grammaticis), nacque a Patavium probabilmente agli inizi del I secolo a.C.: venne a Roma, dove visse come grammatico e maestro di poesia fino a una tarda vecchiaia funestata dalla povertà. Lettore e critico temuto di poesia, nonché poeta egli stesso, rinnovò a Roma la grande tradizione dei filologi alessandrini (fu, infatti, accostato a Zenodoto e al pergameno Cratete).
Poeta neoterico, ma anche autore di poemi epico-storici, fu P. Terenzio Varrone Atacino, che continuò la poesia di stampo enniano, componendo un poema storico, il Bellum Sequanicum (sulla campagna di Cesare contro Ariovisto, del 58 a.C.), ma aderì anche al nuovo gusto poetico in un’opera intitolata Leucadia, dal nome della donna amata; i poeti elegiaci l’avrebbero indicata fra i primi esempi di poesia erotica latina. Di Varrone Atacino va, però, soprattutto ricordato il poema epico Argonautae, libera traduzione in esametri latini (o forse, piuttosto, un rifacimento) delle Argonautiche di Apollonio Rodio: Varrone Atacino proseguì così la tradizione dei poeti-traduttori – funzionale all’esigenza di elaborare, sulla scorta dei grandi modelli greci, un nuovo linguaggio poetico latino – e insieme manifestò la preferenza per un tipo di epica che faceva largo spazio all’eros e alle sue complicazioni psicologiche. Ciò avrebbe, certamente, attratto l’interesse dei poeti nuovi. Un frammento superstite del suo poema restituisce uno splendido “notturno” (fr. 8 Morel = 9 Traglia):
Desierant latrare canes urbesque silebant;
omnia noctis erant placida composta quiete.
Avevano smesso di latrare i cani e silenziose erano le città;
ogni cosa giaceva nella placida quiete della notte.
Ma le due figure di maggior rilievo, note soprattutto grazie a Catullo, che fu loro amico, sono state quelle dei due poeti C. Elvio Cinna e C. Licinio Calvo. Cinna era originario di Brixia e partecipò con Catullo al viaggio in Bitinia del 57 a.C. C’è chi lo identifica con il Cinna che avrebbe portato a Roma al proprio seguito il poeta greco Partenio di Nicea, i cui Erotikà pathèmata (“Sofferenze d’amore”), brevi componimenti che raccontavano di infelici amori mitici, riscossero grande successo presso i poetae novi.
Ispirata proprio ai testi di Partenio doveva essere la Zmyrna di Cinna, storia dell’amore incestuoso di una fanciulla per il proprio padre, Cinira. Il poemetto fu salutato dall’amico Catullo come opera di alto valore e destinata a durare nei secoli (c. 95, v. 1 s.): Zmyrna mei Cinnae nonam post denique messem / quam coepta est nonamque edita post hiemem («La Zmyrna del mio Cinna dopo la nona estate da che fu cominciata / e dopo il nono inverno è venuta alla luce»).
La Zmyrna richiese, dunque, nove anni di laboriosissime cure, e per densità di dottrina doveva essere talmente impenetrabile da aver bisogno di un commento esegetico di un grammatico, come informava Svetonio. Eccone un frammento, relativo al momento in cui, dopo la rivelazione dell’incesto voluto dalla figlia presa d’amore per lui, il padre Cinira ha scacciato Zmyrna (o Mirra), che ora vaga in preda al rimorso e alla disperazione (fr. 6 Morel = 12 Traglia; fr. 7 Morel = 13 Traglia):
te matutinus flentem conspexit Eous
et flentem paulo uidit post Hesperus idem.
Piangente ti scorse al mattino Eoo
e poco dopo Espero ancor ti vide piangente.
Licinio Calvo (82-47 a.C.) era di Roma e apparteneva a un’illustre famiglia plebea. Fu oratore famoso, seguace dell’indirizzo atticista, quello che, perseguendo un ideale di nitida, concisa, asciuttezza, contrario all’enfasi e alla prolissità, meglio si conciliava con il gusto neoterico. Di lui restano pochissimi versi (soprattutto di soggetto amoroso), tra i quali il dolente epicedio per la moglie Quintilia. La Io, invece, era un epillio sulla storia dell’eroina amata da Giove e perseguitata da Giunone, che la trasformò in giovenca. Il tema stesso della metamorfosi era molto caro agli alessandrini, poiché soddisfaceva la loro passione per il paradossale e dava modo di cimentarsi in descrizioni che richiedevano grande virtuosismo. Di un verso del poemetto di Calvo (a, uirgo infelix, herbis pasceris amaris [«ah, ragazza sventurata, di erbe amare ti pascerai!»], fr. 9 Morel = 14 Traglia) si sarebbe poi ricordato Virgilio, che lo avrebbe citato ben due volte nella VI egloga, riferendolo a Pasifae, moglie di Minosse innamoratasi di un toro: a, uirgo infelix, quae te dementia cepit! («ah, ragazza sventurata, quale follia ti colse!», v. 47); a, uirgo infelix, tu nunc in montibus erras («ah, ragazza sventurata, tu ora erri sui monti», v. 52).
Catullo, il massimo interprete della nuova poesia
Il nome e la poesia di Catullo sono tradizionalmente associati alla rivoluzione neoterica; ne sono anzi il documento più importante. Rivoluzione del gusto letterario, certo, ma – come si è detto – anche rivolta di carattere etico: mentre, infatti, nell’età di crisi acuta della res publica romana si stavano sgretolando gli antichi valori morali e politici della civitas, l’otium individuale diventava l’alternativa seducente alla vita collettiva, lo spazio in cui dedicarsi alla cultura, alla poesia, alle amicizie, all’amore, insomma, a se stessi e alla propria crescita personale. Il piccolo universo privato, con le sue gioie e i suoi drammi, si identificava con l’orizzonte stesso dell’esistenza, e l’attività letteraria non si rivolgeva più all’epos o alla tragedia – i generi portavoce della civitas e dei suoi valori –, bensì alla lirica, alla poesia individuale, introversa, adatta ad accogliere ed esprimere le piccole vicende della vita personale.
C. Valerio Catullo nacque a Verona, nella Gallia Cisalpina, certamente da famiglia agiata (Cesare stesso fu ospite a casa sua). La data della nascita è incerta: Girolamo, che si rifà a Svetonio, la fissa nell’87 a.C. e trent’anni dopo, nel 57, colloca la morte; ma il poeta era certamente ancora vivo almeno nel 55 a.C. Lo provano, infatti, alcuni suoi accenni ad avvenimenti occorsi in quell’anno. Pertanto, con quella della morte bisogna abbassare anche la data della nascita, cioè grosso modo 84-54 a.C. (sempre che sia vera la notizia della morte a trent’anni), oppure si dovrà supporre che Catullo sia vissuto qualche anno più di quanto attesta Girolamo.
A Roma (non è dato sapere quando vi giunse) Catullo conobbe e frequentò personaggi di spicco dell’ambiente politico e letterario, dal celebre oratore Q. Ortensio Ortalo ai poeti Cinna e Calvo, da L. Manlio Torquato al giurista e futuro console suffectusAlfeno Varo, da Cornelio Nepote a C. Memmio, ed ebbe una relazione amorosa con Clodia (la Lesbia dei suoi versi), quasi certamente la sorella mediana del tribuno P. Clodio Pulcro e moglie di Q. Cecilio Metello Celere, console nel 60. Probabilmente nel 57 a.C. Catullo andò in Bitinia, per un anno, come membro dell’entourage del pro praetor C. Memmio; in occasione di questo viaggio, il poeta visitò la tomba del fratello, morto e sepolto nella Troade (cfr. c. 101).
Le notizie biografiche su Catullo derivano soprattutto dai suoi carmina, ma la materia di cui si sostanzia il Liber è spesso sfuggente e offuscata; sulle relazioni della famiglia del poeta con Cesare fornisce qualche informazione Svetonio in Iul. Caes. 73, dal De vita Caesarum. Che Lesbia fosse uno pseudonimo per Clodia Pulcra molto riporta Cicerone, che ne traccia un fosco ritratto nella Pro Caelio, l’orazione in difesa di M. Celio Rufo, ex amante della donna e da lei più tardi citato in giudizio con l’accusa di veneficio.
Di Catullo si hanno 116 carmi[1], per un totale di quasi 2.300 versi, raccolti in un Liber che si suole suddividere sommariamente in tre sezioni, su base metrica: i carmina 1-60, le cosiddette nugae, ovvero componimenti brevi e di carattere leggero; i carmina 61-68, o carmina docta, cioè testi più lunghi e stilisticamente elaborati; e, infine, i carmina 69-116, che sono sostanzialmente degli epigrammi in distici elegiaci.
È controversa la questione relativa alla composizione della raccolta: se qualche critico attribuisce al poeta stesso la responsabilità dell’ordinamento del Liber, i più tendono giustamente a credere che tale organizzazione, non rispondente a criteri cronologici o di contenuto, ma esclusivamente metrici, sia opera di altri (un criterio, quindi, da filologi!), dopo la scomparsa del poeta. Alcuni carmina, tuttavia, devono essere rimasti esclusi dalle prime edizioni postume, perché si hanno per tradizione indiretta versi attribuiti a Catullo, che non compaiono nei componimenti raccolti nel Liber. Bisognerà quindi supporre che il libellus che il poeta dedica a Cornelio Nepote (c. 1) non corrispondesse esattamente al Liber rimasto, ma ne costituisse solo una parte.
La poesia dei sentimenti privati: i carmi brevi
Al progetto di recupero della dimensione intima, dei sentimenti privati, che caratterizza la rivoluzione neoterica, risponde in modo più evidente quella parte della produzione catulliana che si suole indicare come «carmi brevi», cioè l’insieme dei polimetri e degli epigrammi: l’esiguità dell’estensione rivela già in se stessa la modestia dei contenuti, occasioni e avvenimenti quotidiani, e favorisce insieme il paziente lavoro di cesello, la ricerca della perfezione formale.
Affetti, amicizie, odi, passioni, aspetti minori o minimi dell’esistenza sono l’oggetto della poesia di Catullo: uno scherzoso invito a cena (c. 13), il benvenuto a un amico che torna dalla Hispania, le proteste per un gesto poco urbano o per un dono malizioso ricevuto dal poeta sono solo alcune di queste occasioni.
Dall’occasionalità dei temi risulta un’impressione di immediatezza, di vita riflessa che ha dato luogo, nella storia della critica, a un equivoco tenace, quello di una poesia ingenua e spontanea, e di un poeta “fanciullo” che dà libero sfogo ai propri sentimenti, senza i vincoli della morale e i filtri della cultura. In realtà, la celebrata spontaneità catulliana è la veste che questa poesia si costruisce, ma è un’apparenza ricercata e ottenuta grazie a un ricco patrimonio di doctrina: anche i componimenti che sembrano più occasionali, riflesso immediato della realtà, hanno i loro precedenti letterari (come, spesso, l’epigramma greco, il cui influsso si avverte soprattutto nei carmi in distici). L’aggancio a un preciso spunto occasionale garantisce ai carmi catulliani una freschezza del tutto incomparabile.
Nel complesso impasto stilistico della poesia di Catullo entrano precise risonanze letterarie, che quasi mai hanno valenza puramente esornativa, dissimulate più o meno sapientemente in una parvenza di slancio passionale o di immediatezza giocosa, quasi fossero gesti irriflessi di un’emozione e nulla più. D’altra parte, solide strutture formali costituiscono l’“ordito” su cui si inscrive il gioco apparentemente tutto libero del poeta.
Bisogna, quindi, sottrarsi ai rischi del biografismo (si è creduto, infatti, sulla base dei suoi carmina, di poter fedelmente ricostruire la storia dell’amore con Lesbia) e verificare di volta in volta la genesi complessa di questa poesia intessuta di doctrina: non si tratta, beninteso, di negare la vita vissuta, l’importanza davvero insolita che l’esperienza biografica assume in Catullo, ma di vedere come essa si atteggia secondo movenze letterarie, come si deposita nelle forme della tradizione.
Non si deve dimenticare, poi, che il destinatario di ogni testo (la cui presenza alla mente del poeta non è senza conseguenze dirette e importanti sull’organizzazione formale del carmen stesso) è perlopiù rappresentante di una cerchia raffinata e colta: lui si attende, dunque – gli è anzi “dovuto” –, un prodotto letterario che abbia veste stilistica e fattura formale di livello adeguato.
Lo sfondo della poesia di Catullo, infatti, è costituito dall’ambiente letterario e mondano dell’Urbe, di cui fa parte la cerchia degli amici neoterici, accomunati dagli stessi interessi, da uno stesso linguaggio, da un ideale condiviso di grazia e da una brillantezza di spirito: lepos, uenustas, urbanitas sono i principi che fondano questo codice etico e insieme estetico, che governa comportamenti e rapporti reciproci, ma ispira anche il gusto letterario e artistico.
Sullo sfondo del raffinato ambiente mondano campeggia e risalta la figura di Lesbia, incarnazione della devastante potenza dell’eros, protagonista indiscussa della poesia catulliana. Il suo stesso pseudonimo, che rievoca Saffo, la poetessa di Lesbo, è sufficiente a creare attorno alla donna come un alone idealizzante: oltre alla grazia e alla bellezza non comuni, sono soprattutto intelligenza, cultura, spirito brillante, modi raffinati a farne il fascino e ad alimentare la passione del poeta.
Gioie, sofferenze, tradimenti, abbandoni, rimpianti, speranze, disinganni scandiscono le vicende di questo amore che è vissuto da Catullo come l’esperienza capitale della propria vita, capace di riempirla e darle un senso. All’eros non è più riservato lo spazio marginale che gli accordava la morale tradizionale, quale debolezza giovanile, tollerabile purché non infrangesse certe limitazioni e convenienze soprattutto di ordine sociale, ma esso diventa centro stesso dell’esistenza e valore primario, il solo in grado di risarcire la fugacità della vita umana (celebre l’invito del c. 5: Vivamus, mea Lesbia, atque amemus…).
All’amore e alla vita sentimentale Catullo trasferisce tutto il proprio impegno, sottraendosi ai doveri e agli interessi propri del civis romano: egli resta, quindi, estraneo alla politica e alle vicende della vita pubblica, ai conflitti di potere che lacerano la società tardorepubblicana, limitandosi a esternare un generico sprezzante disgusto per i nuovi protagonisti della scena politica, arroganti e corrotti.
Il rapporto con Lesbia, nato essenzialmente come adulterio, come amore libero e basato sull’eros, nel farsi oggetto esclusivo dell’impegno morale del poeta tende perciò, paradossalmente, a configurarsi nelle aspirazioni di Catullo come un tenace vincolo matrimoniale. Le recriminazioni per il foedus d’amore violato da Lesbia sono un motivo insistente sulla bocca del poeta, che accentua il carattere sacrale del concetto, appellandosi a due valori cardinali dell’ideologia e dell’ordinamento sociale romano: la fides, che garantisce il patto stipulato, vincolando moralmente i contraenti, e la pietas, virtù propria di chi assolve ai suoi doveri nei confronti degli altri, specialmente dei consanguinei, nonché della divinità.
Catullo cerca di fare di quella relazione irregolare un aeternum… sanctae foedus amicitiae (c. 109, v. 6), nobilitandola con la tenerezza degli affetti familiari (pater ut gnatos diligit et generos, c. 72, v. 4), ma l’offesa ripetuta del tradimento produce in lui una dolorosa dissociazione fra la componente sensuale (amare) e quella affettiva (bene uelle): celebre esempio di questo conflitto interiore è il carmen 72, appunto, che analizza con lucida amarezza la scomparsa di ogni stima e affetto per quella donna che continua, ancor più intensamente, ad accendere la passione dell’innamorato (iniuria talis / cogit amare magis, sed bene uelle minus, vv. 7-8). E celeberrimo è il carmen 85, che condensa in un ossimoro (odi et amo) la dolorosa sensazione del poeta stupito di fronte al dissidio che lo lacera.
La speranza sempre frustrata di un amore fedelmente ricambiato si accompagna in Catullo alla consapevolezza di non aver mai mancato al foedus d’amore con Lesbia, alla gratificante certezza della propria innocenza: il carmen 76 – in cui, a suo tempo, qualcuno volle erroneamente vedere la fiducia di una ricompensa nell’aldilà – è l’espressione più nota di questa consolazione della buona coscienza, di una uoluptas del ricordo garantita per il resto dei giorni terreni dalla consapevolezza di aver tenuto fede a un impiego morale. La sola soddisfazione sicura che l’amore per Lesbia gli avrebbe dato.
La poesia dotta di matrice alessandrina: i carmina docta
Lepidus, nouus, expolitus: così, presentando il suo libellus nel carme dedicatorio, Catullo oltre ai caratteri materiali ed esteriori ne definisce indirettamente anche quelli interni, i criteri di una nuova poetica ispirata a brillantezza di spirito e raffinatezza formale. Questa poetica rivela apertamente la sua ascendenza alessandrina, meglio ancora callimachea, soprattutto in quella sorta di “manifesto” del nuovo gusto letterario che è il carmen 95, cioè l’annuncio della pubblicazione del poemetto dell’amico Cinna (vv. 1-2; 7-10):
Zmyrna mei Cinnae nonam post denique messem
quam coepta est nonamque edita post hiemem […]
At Volusi annales Paduam morientur ad ipsam
et laxas scombris saepe dabunt tunicas.
Parua mei mihi sint cordi monimenta ***,
at populus tumido gaudeat Antimacho
La Smirna del mio Cinna dopo nove messi
e nove inverni da che è cominciata vide la luce […]
Gli Annali di Volusio periranno alla foce del Po
e serviranno spesso da tuniche ampie per gli sgombri.
A me stiano a cuore i brevi grandi testi dell’amico;
quanto al popolo, si goda le goffaggini di Antimaco.
Brevità, eleganza e dottrina sono i canoni di un gusto cui Catullo aderisce senza riserve, in polemica contrapposizione alla torrenziale faciloneria degli attardati epigoni di scuola enniana, che entusiasmano il pubblico incompetente. I veri intenditori apprezzeranno, invece, la nuova epica elaborata dai poeti neoterici, l’epillio, il poemetto breve (poche centinaia di versi!), che con le sue stesse dimensioni favorisce il paziente lavoro di rifinitura stilistica, teso a conferire asciuttezza e pregnanza, e che sul piano dei contenuti permette al poeta di far sfoggio della sua preziosa dottrina (si tratta, perlopiù, di vicende mitologiche esotiche e dai risvolti patologicamente passionali).
Dottrina e impegno stilistico, oltre a una maggiore ampiezza dei componimenti, sono particolarmente evidenti nella sezione dei carmi che, per tale motivo, sono noti come docta, in cui il poeta sperimenta anche nuove forme compositive, dando prove di raffinata sapienza strutturale.
L’epillio: le nozze di Peleo e Teti e il lamento di Arianna
Come altri poeti neoterici – Cinna con la sua Zmyrna, Valerio Catone con la sua Dictynna, Calvo con l’Io, Cecilio (un poeta ricordato da Catullo) con la Magna Mater – anche Catullo si cimenta nel nuovo genere dell’epillio: il c. 64 ne costituirà quasi il modello esemplare per la cultura latina a venire. Questo celebre poemetto di 408 esametri narra il mito delle nozze di Peleo e Teti, ma nella vicenda principale contiene – incastonato mediante la tecnica alessandrina dell’èkphrasis e della digressione – un’altra storia, che figura ricamata sulla coperta nuziale, quella dell’abbandono di Arianna a Nasso da parte di Teseo – un motivo che conosce grande diffusione nella letteratura greca e latina: su questo modello, tra l’altro, saranno improntate le Heroides ovidiane.
L’intreccio delle due vicende d’amore, quello infelice di Arianna e quello felice dei due sposi, istituisce fra di esse una serie di relazioni che hanno il proprio nucleo nel tema della fides, la virtù cardinale del mondo etico catulliano, quella fides di cui, nella lontana età degli eroi, gli stessi dèi si facevano garanti e che nella corrotta età presente è violata e vilipesa insieme agli altri valori morali e religiosi. Il canto profetico delle Parche saluta, invece, le nozze di Peleo e Teti, esaltando la reciproca fedeltà degli sposi. Il mito si fa cioè, qui come altrove, proiezione e simbolo delle aspirazioni del poeta, del suo bisogno perennemente inappagato di ancorare un amore tanto precario a un vincolo più saldo, a un foedus duraturo.
Un epillio è anche il c. 63: si ispira alla vicenda del giovane frigio Attis, che, nel delirio religioso, si mutila della sua virilità per farsi sacerdote di Cibele, la grande madre degli dèi. Il culto orgiastico di questa divinità, con musica ossessiva e danze cruente, era stato introdotto a Roma intorno al 205/4 a.C. Una volta libero dall’invasamento, Attis lamenta il folle gesto.
Omaggio ai modelli greci: gli epitalami e la Chioma di Berenice
Epitalami, cioè canti nuziali, sono i carmina 61 e 62. Si tratta di un genere letterario di origine ellenica, praticato dall’epoca di Saffo all’età alessandrina, che Catullo romanizza con l’inserimento di una serie di elementi tipicamente italico-romani, sia per quanto riguarda il rito nuziale sia sul piano etico-sociale. Mentre il carmen 61 fu scritto in occasione delle nozze dei due nobili romani L. Manlio Torquato e Vibia Aurunculeia, il carmen 62 non fu composto per un’occasione reale (anche se in esso non mancano accenti di sensibilità latina, il componimento rivela una più marcata adesione ai caratteri formali del genere).
Nel ciclo dei carmina docta è compreso anche un componimento (c. 66) che è un omaggio al poeta principe dell’alessandrinismo, Callimaco: si tratta della traduzione in versi latini di un’elegia famosa del poeta cirenaico, nota come Chioma di Berenice, che pare occupasse la parte finale del IV libro degli Aitia e che è giunta in forma mutila e frammentaria. In essa Callimaco celebrava in versi la cortigiana escogitazione di Conone, l’astronomo alla corte di Tolemeo III Evergete, re d’Egitto, che aveva identificato una nuova costellazione da lui scoperta con il ricciolo offerto come ex voto dalla regina Berenice per il ritorno del marito dalla guerra, ricciolo successivamente scomparso. Nel tradurre, liberamente, la vicenda del catasterismo (cioè della trasformazione della ciocca in costellazione), Catullo introduce o accentua temi centrali della propria ideologia e particolarmente insistenti nei carmi maggiori: l’esaltazione della fides, della pietas, la condanna dell’adulterio e la celebrazione delle virtù eroiche e dei valori tradizionali (vi si riconduce anche il c. 67, in cui una porta racconta le vicende non proprio edificanti di cui è stata protagonista la singolare famiglia che abita in quella casa).
L’amore e l’archetipo mitico: il carme 68
Particolarmente complesso è il carmen 68 (dall’unità controversa: si discute se questo componimento, trasmesso come unico dai codici, si debba, in realtà, distinguere in due testi e quale sia, in tal caso, la relazione che li lega); esso riassume i temi principali della poetica catulliana, quali l’amicizia e l’amore, l’attività letteraria e la sua connessione con Roma, il dolore per la morte del fratello. Il ricordo dei primi amori, furtivi, con Lesbia sfuma nel mito: la vicenda di Protesilao e Laodamia (unitisi prima che fossero celebrate le nozze e, perciò, puniti con la morte di lui appena sbarcato a Troia) si fa archetipo esemplare della vicenda del poeta e della sua donna, di un coniugium anch’esso imperfetto e precario.
Il carme 68 merita, dunque, una menzione particolare per il suo destino nella storia letteraria latina: il largo spazio concesso al ricordo e alla vita trascorsa, proiettata miticamente, in un componimento che andava ben al di là delle dimensioni dell’epigramma, dovevano farlo apparire come il progenitore della futura elegia soggettiva latina.
Lingua e stile
Quella di Catullo, si è detto, è una cultura letteraria ricca e complessa, in cui accanto all’influsso dominante della letteratura alessandrina, con la sua eleganza talora preziosa, è sensibile anche quello della lirica greca arcaica (dell’intensa affettività di Archiloco e di Saffo). Quanto al linguaggio, esso è il risultato di un’originale combinazione fra il lessico letterario e colto e il sermo familiaris: la lingua e le movenze del parlato vengono assorbiti e filtrati da un gusto aristocratico che li raffina e li impreziosisce, senza però insterilirne le capacità espressive.
Il gusto ricercato non produce un’eleganza esangue, ma lascia spazio, per esempio, alla cruda espressività di certi volgarismi che non vanno intesi come un tratto di lingua autenticamente popolare, ma ricondotti alla snobismo compiaciuto di un’élite colta che ama esibire il turpiloquio accanto all’erudizione più raffinata. Particolarmente frequenti, fra i tratti del sermo familiaris, i diminutivi, che nella loro stessa mollezza fonica e formale (flosculus, labella, turgiduli ocelli, molliculus, pallidulus, tenellulus, ecc.; c. 3; c. 42; c. 8) sembrano rivelare l’adesione a quell’estetica del lepos, della grazia, che accomuna la cerchia degli amici e ne condiziona anche i modi espressivi, oltre a ridefinirne la gerarchia dei valori etici.
Uno stile composito, insomma, e sempre vitale, con un’ampia gamma di modalità espressive che vanno dallo sberleffo irridente, dall’invettiva sferzante e scurrile alle morbidezze del linguaggio amoroso, dalla baldanza giovanile che dilata le immagini in iperboli alla grazia leggera, alla pacata malinconia, agli abbandoni di certi momenti elegiaci, soprattutto nei carmi più tardi.
La vitalità del linguaggio affettivo e l’intensità del pathos non sono assenti nemmeno nei carmina docta: giustamente la critica ha reagito da tempo all’idea di una netta distinzione fra i carmi più brevi, più vivacemente espressivi e dove è dominante la componente affettiva e autobiografica, e i componimenti maggiori, dove più evidenti sono la dottrina e l’elaborazione stilistica. Ma se la distinzione non va troppo marcata, non va tuttavia nemmeno annullata: vari elementi, come per esempio la selezione di un lessico generalmente più ricercato e la presenza di stilemi e movenze del poesia “alta”, della tradizione enniana (come gli arcaismi, i composti, le clausole allitteranti, ecc.), concorrono a dare ai camina docta un carattere più spiccatamente letterario.
***
Note:
[1] Più esattamente i carmina sono 113, ma la loro numerazione sale a 116, perché 3 carmi priapei (cc. 18, 19, 20) furono inseriti nel Liber (contro l’autorità dei manoscritti) dal Mureto, grande umanista del Cinquecento francese, e ne fecero parte fino a quando, nell’Ottocento, il Lachmann li escluse dal testo catulliano; eppure, la numerazione dei singoli carmi non subì sostanziali aggiustamenti. I tre carmina possono essere letti fra i Priapea dell’Appendix Vergiliana.
in BIONDI I., Storia e antologia della letteratura greca. Vol. 3 – L’Ellenismo e la tarda grecità, Messina-Firenze 2004, 628-636 [con blbliog. aggiornata].
La vita
La figura di Luciano di Samosata si distingue nettamente nel panorama culturale del II secolo, per la brillante personalità, per la vivacità dell’ingegno e per la vastità di interessi, che lo spinsero a una pluralità di ricerche sconosciuta ad altri esponenti della neosofistica. Con questo movimento culturale, inoltre, Luciano ebbe un rapporto assai critico: dapprima seguace entusiasta, se ne allontanò poi in maniera altrettanto decisa, per affrontare una nuova serie di esperienze culturali, nelle quali non mancò di mettere in luce il proprio carattere polemico e il suo stile arguto e mordace.
Luciano nacque intorno al 120 a Samosata, capitale della Commagene di Siria, figlio di una famiglia piuttosto modesta. Come narrò egli stesso in un’opera autobiografia, il Sogno, quando fu cresciuto abbastanza da dover pensare al proprio avvenire, i suoi genitori, ritenendo che i propri mezzi finanziari non fossero sufficienti per permettere al ragazzo di affrontare studi lunghi e costosi, pensarono di avviarlo all’arte del marmorario, mandandolo alla bottega di uno zio, che già esercitava questo mestiere. Tuttavia, l’apprendistato di Luciano durò assai poco, perché lo zio, infuriato con l’inesperto nipote che gli aveva rovinato un costoso blocco di marmo, lo cacciò in malo modo, con una solenne bastonata. Pesto e disperato, Luciano si addormentò; allora, in sogno, gli apparvero la Statuaria e l’Eloquenza, prospettando i vantaggi che ciascuna di loro avrebbe potuto offrirgli, se egli avesse scelto di dedicare a lei la propria esistenza. L’episodio, che è un’evidente trasposizione della storia di Eracle al bivio, narrata all’inizio del II libro dei Memorabili di Senofonte, segnò la vita di Luciano. Il giovane, infatti, abbracciando la carriera dell’eloquenza, si dedicò allo studio della lingua e della letteratura greca, delle quali acquisì ben presto grande padronanza, imparando con facilità il dialetto attico del periodo classico. Egli, dunque, intraprese la carriera del retore itinerante, che lo portò in varie città dell’Asia Minore, in Gallia e in Italia. A Roma Luciano ebbe modo di conoscere il filosofo Nigrino, che svolse un ruolo abbastanza importante nella sua vita. Trasferitosi per un certo periodo ad Atene, verso il 160 circa, sembra che i suoi interessi filosofici abbiano preso il sopravvento su quelli retorici e che lo abbiano avviato a studi ben più profondi e meditati. Si trattò, invero, di una parentesi piuttosto breve, perché, non molto tempo dopo, Luciano si dedicò di nuovo alla passione di sempre, i viaggi: in questo periodo, infatti, egli fu anche ad Antiochia, dove conobbe personalmente l’AugustusLucio Vero. Dal 165 in poi ritornò ancora ad Atene, che considerava la sua patria di adozione e se ne allontanò soltanto per ricoprire la prestigiosa carica di archistator praefecti Aegypti («segretario del prefetto d’Egitto»), conferitagli, nonostante la proprie origini orientali, grazie a influenti amicizie. Nel 175, però, si dimise dall’incarico – probabilmente per motivi politici, oppure forse per il suo temperamento irrequieto –, ritornando ad Atene. Da quel momento in poi, la sua vita pubblica non conobbe più avvenimenti di rilievo. Secondo le fonti antiche, la morte lo raggiunse non molto tempo dopo, verso la fine del principato di Marco Aurelio, intorno al 180 circa. A questo anno, infatti, risalgono i suoi ultimi scritti di cui si abbia notizia, l’Alessandro e il trattato in forma epistolare Come si deve scrivere la storia. Il lessico Suda, che fornisce di Luciano un giudizio assolutamente negativo, proclamandolo «erede del fuoco di Satana», narra che egli morì tragicamente, sbranato da una muta di cani, «perché fu nemico rabbioso della verità». La notizia, naturalmente, è da considerarsi leggendaria. La produzione letteraria di Luciano, infatti, tutta in prosa, è pervenuta in un corpus di ottanta scritti, alcuni dei quali spuri. La loro cronologia rappresenta per gli studiosi un problema assai complesso, che non sarà affrontato in questa sede; ci si limiterà, invece, per maggiore chiarezza, a suddividere le opere lucianee secondo il genere e i contenuti.
Gli scritti retorici
Al periodo in cui Luciano esercitò la professione di retore itinerante appartengono proemi e declamazioni (μελέται, «esercizi» retorici di vario argomento), fra i quali assume particolare importanza per il suo carattere autobiografico il già citato Sogno; a quest’opera si aggiunge l’Apologia, anch’essa di contenuto autobiografico, che Luciano compose negli anni della maturità, quando era cancelliere in Egitto, per difendersi dall’accusa di brama di onori – comportamento assolutamente inaccettabile in un filosofo cinico, quale egli stesso si professava. Interessante, come esempio di esercitazione retorica tesa a illustrare la potenza della sua dialettica, secondo la migliore tradizione dell’insegnamento sofistico, è il Tirannicida, in cui il protagonista commette un omicidio premeditato, eliminando il figlio di un tiranno. Straziato per il dolore, il padre, a sua volta, si toglie la vita e l’assassinio del ragazzo, nel discorso pronunciato in tribunale per difendersi, sostiene di aver diritto a riconoscimenti e onori per aver liberato la città da quel regime. Allo stesso genere appartiene il Diseredato, storia di un medico che guarisce il proprio padre da un attacco di follia: il genitore, però, rinsavito, disereda il figlio, perché costui rifiuta di prestare le proprie cure alla matrigna, anche lei vittima di un accesso di pazzia.
Nello stesso gruppo di opere si possono annoverare l’Elogio della mosca e il Tribunale delle vocali. Quest’ultima, in particolare, è una querela esposta dal signor Sigma contro il signor Tau per appropriazione indebita e usurpazione di diritti, di fronte alla giuria delle vocali, perché negli autori attici il Tau ha abusivamente occupato il posto di Sigma nella grafia delle parole. In un altro scritto dal titolo significativo, Sei un Prometeo nei discorsi, l’autore, di fronte all’ammirazione entusiasta, ma un po’ eccessiva, di un suo allievo, ridimensiona obiettivamente le proprie capacità, sottolineando come i contenuti delle proprie opere non propongano alcunché di nuovo, ma il loro valore risieda soltanto nella consumata tecnica formale dell’esposizione.
Un cenno meritano anche le sue προλαλιαὶ o διαλέξεις, le «chiacchierate», che precedevano l’ἐπίδειξις, la «recitazione» vera e propria, e che miravano a suscitare la benevola attenzione del pubblico con il loro tono conversevole e garbato. In tutti questi scritti compaiono già gli elementi tipici dell’arte di Luciano: l’opposizione dialettica di opinioni opposte, la tendenza a un’ironia fine e sagace, lo stile chiaro e gradevole, caratterizzato da osservazioni spiritose e da un vivace umorismo, che spesso scaturisce dalla parodia di situazioni o personaggi, oltre che da un’ottima capacità di sfruttare il linguaggio a fini comici.
Scritti di polemica filosofica e religiosa
In uno dei numerosi scritti lucianei che contengono accenni autobiografici, il Due volte accusato, l’autore presenta se stesso in veste di imputato in un processo che gli è stato intentato dalla Retorica e dal Dialogo platonico. La prima lo accusa di averla abbandonata, mentre il secondo lo considera reo di aver distrutto la serietà e la profondità dei suoi contenuti, contaminandoli con la comicità e con la satira; nella sua difesa, Luciano ammette di aver abbandonato, verso i quarant’anni, la Retorica, che ormai «non aveva più la dignità di donna onesta, come ai tempi di Demostene, ma andava in giro truccata come una prostituta, tutta coperta di belletti». Per questo motivo egli aveva optato per la filosofia; ma seguendo l’impulso indagatore del suo animo inquieto, desideroso di novità e spiccatamente critico, non aveva potuto fare a meno di notare come anch’essa fosse cambiata rispetto al tempo antico. Perciò, egli aveva deciso di approfondire la propria analisi, per scoprire le ragioni di quel peggioramento, servendosi a questo scopo di quell’illustre strumento di dottrina che era stato il dialogo platonico, non senza averlo opportunamente modificato per adattarlo alle proprie esigenze (Due volte accusato, 30-32).
In effetti, in quel periodo della sua vita, Luciano si dedicò alla ricerca speculativa; il risultato fu una serie di scritti dal tono amaramente satirico contro la degenerazione del pensiero filosofico e della figura del saggio, ricchi di un umorismo pungente e dissacratore, che richiama alla memoria la commedia antica. Particolarmente significativa appare, da questo punto di vista, una irriverente e spassosa parodia del Simposio di Platone, contenuta in un dialogo lucianeo con lo stesso titolo. Licino, persona seria e colta (in cui l’autore adombra se stesso), si reca dall’amico Aristeneto per prendere parte a un banchetto offerto per festeggiare le nozze della figlia: purtroppo, però, il padrone di casa ha avuto la malaugurata idea di invitare anche i rappresentanti di tutte le maggiori scuole filosofiche, nell’intento di conferire un tono intellettuale alla lieta occasione. Invece, l’unico risultato che riesce a ottenere è che il banchetto si trasformi in un’indegna gazzarra, durante la quale uno dei cinici, che era riuscito a imbucarsi alla festa senza essere stato invitato, approfitta della confusione per riempirsi la capace bisaccia di ghiotte vivande.
Lo stesso tono umoristico e sarcastico nei confronti della degenerazione della filosofia caratterizza anche altri scritti di Luciano: nei Fuggitivi, ad esempio, i nuovi filosofi sono allegoricamente rappresentati come schiavi fuggiaschi (i pensatori “moderni” che si sono sottratti all’autorità dell’antica dottrina), acciuffati dai loro padroni e sottoposti a meritata punizione. Nelle Vite all’incanto, si immagina che Zeus metta all’asta, per venderli al miglior offerente, i fondatori delle principali scuole filosofiche – l’epicurea, la scettica, la peripatetica, la pitagorica –, ognuno dei quali ha preteso di indicare le direttive su cui gli uomini dovrebbero basare la propria esistenza. Il piacevole umorismo che caratterizza l’operetta scaturisce dal realismo con cui l’autore ha saputo ricostruire il clima di una vera vendita all’asta, con il banditore che magnifica i pregi della sua merce, il pubblico che osserva, chiacchiera, commenta, e i potenziali compratori che vogliono essere bene informati e controllare di persona, prima di fare la propria offerta.
Nel Pescatore, seguito dell’opera precedente, il protagonista, Parresiade («Colui che non ha peli sulla lingua») – che poi è l’autore stesso –, si trova coinvolto in una pericolosa situazione: infatti, Zeus ha concesso a tutti gli intellettuali, le cui vite sono state messe all’incanto, di ritornare un giorno tra i vivi per vendicarsi di colui che li ha così crudelmente scherniti. Parresiade, però, tiene una convincente apologia davanti alla Filosofia, dimostrando che quelli da lui perseguitati non sono stati che dei disonesti ciarlatani, colpevoli di aver avvilito a scopo di lucro l’insegnamento degli antichi maestri. In questo modo, Parresiade-Luciano è assolto e può dedicarsi al difficile compito di pescare (di qui il titolo del dialogo) i veri filosofi con la lenza e con l’amo, dall’alto dell’Acropoli di Atene, scartando senza pietà le creature spinose e repellenti che di tanto in tanto abboccano. In questo modo, il dialogo, che era stato con Platone lo strumento per eccellenza del discorso filosofico, con Luciano diviene l’arma prediletta per ridicolizzare gli avversari, criticando, insieme alle varie tendenze culturali, anche le più diffuse credenze religiose.
Il tono derisorio nei confronti dei filosofastri raggiunge il vertice dell’asprezza in un opuscolo redatto in forma epistolare, la Morte di Peregrino. Costui era un filosofo cinico assai noto a cui si attribuiva anche una certa simpatia per il Cristianesimo e Luciano lo aveva conosciuto quando, di ritorno dall’Oriente, era giunto ad Atene. Nel 165 il filosofo aveva deciso di dimostrare la sua radicale protesta contro il malcostume dei tempi suoi con uno spettacolare suicidio, in occasione dei Giochi olimpici, buttandosi nel fuoco in pubblico. Ma Luciano vide nel gesto di quell’uomo soltanto una manifestazione di fanatismo per lui intollerabile e non esitò a esprimere tutta la propria disapprovazione, accomunando nella sua durissima critica anche la “superstizione” dei cristiani, che andava diffondendosi sempre più ampiamente.
Va, però, aggiunto che la lingua tagliente, ma imparziale, dello scrittore siro non risparmiò nemmeno la divinità suprema del pantheon pagano: in tre dialoghi, Zeus confutato, Zeus tragedo e il Concilio degli dèi, il signore dell’Olimpo si trova coinvolto in situazioni nelle quali la sua autorità appare messa gravemente in dubbio, senza che egli riesca a difenderla degnamente.
In contrasto con la satira pungente e distruttiva delle opere appena citate, si possono ricordare tre scritti lucianei dal tono meno aspramente polemico e, per certi aspetti, più costruttivo. Il primo, il Nigrino, espone in forma dialogica un incontro dell’autore con il filosofo neoplatonico, il quale si sforza di convertire Luciano alla sua dottrina, convincendolo a dedicarsi alla vita speculativa. A questo scopo, egli magnifica l’antica cultura e la nobiltà intellettuale di Atene, contrapponendola alla rozzezza dei Romani e alla loro indifferenza per le cose dello spirito. Il tono dell’opera è piuttosto violento e retorico e ciò induce a considerarla con un certo spirito critico; tuttavia, occorre riconoscerle almeno la sincerità con cui essa esprime il bisogno di trovare un rifugio nella cultura del passato e nel profondo senso civico e morale che l’animava, per sfuggire alle brutture del presente. Tale intento risulta chiaro anche dal Demonatte, biografia dell’omonimo filosofo cinico, che Luciano conobbe ad Atene e di cui ammirò la semplice e schietta onestà di vita e di pensiero. Altrettanto sereno e pacato è il tono dell’Ermotimo, un dialogo in cui il principale interlocutore è l’autore medesimo che, sotto lo pseudonimo di Licino, dimostra la vanità di ogni ricerca filosofica, fondandosi sui principi dello scetticismo e facendoli propri.
Dialoghi
Nel periodo della maturità, il dialogo rimase quasi esclusivamente il mezzo espressivo usato dallo scrittore siro, che se ne servì per comporre le sue opere più note e più meritatamente famose: le raccolte che comprendono i ventisei Dialoghi degli dèi, i quindici Dialoghi marini, gli altrettanti Dialoghi delle cortigiane e i trenta Dialoghi dei morti.
I primi due gruppi, caratterizzati da un tono umoristico di grande freschezza e vivacità, oltre che da uno stile esemplare per agilità, chiarezza e arguzia di linguaggio, rappresentano scene che hanno come protagonisti gli dèi dell’Olimpo e del mare, colti in umanissimi episodi della loro vita quotidiana, in un’ottica che, a iniziare da Callimaco, rimase tipica del periodo ellenistico e degli anni a esso successivi. Basterà citare, come significativo esempio, la scena famosissima del pomo della Discordia, rivissuta attraverso il racconto di due divinità marine, Panope e Galene, testimoni oculari dell’evento:
Teti e Peleo si erano già ritirati nel talamo accompagnati da Anfitrite e da Poseidone, quando Eris, in quel momento, di nascosto a tutti – poté farlo facilmente, perché alcuni bevevano, altri applaudivano, altri ancora erano intenti ad ascoltare Apollo che suonava la cetra e le Muse che cantavano –, gettò nella sala del banchetto un pomo bellissimo, tutto d’oro, o Galene! E sopra c’era scritto: “Mi prenda la bella”. Ed esso, rotolando, nemmeno a farlo apposta, si fermò dove se ne stavano a mensa Hera, Afrodite e Atena. Dopo che Hermes lo ebbe raccolto ed ebbe letto la scritta, noi Nereidi ammutolimmo. Infatti, che dovevamo fare, in presenza di quelle lì? Esse, invece, se lo contendevano e ciascuna pretendeva che il pomo toccasse a lei; e se Zeus non le avesse divise, la cosa sarebbe arrivata anche alle mani. Ma egli disse: “Non sarò certo io a decidere su quest’affare – eppure quelle pretendevano che fosse lui a giudicare –, andate sull’Ida dal figlio di Priamo, il quale ama la bellezza e sa distinguere il più bello e non sbaglierà certo il verdetto”[1].
Come è ben noto, il giudizio di Paride, che assegnò il pomo ad Afrodite, scatenò il decennale conflitto di Troia, la guerra più famosa di sempre; ma qui, niente lascia supporre la fatali conseguenze del gesto di Eris. L’attenzione dell’autore è tutta presa dall’atmosfera festosa del banchetto nunziale, con musica, canti e laute bevute (poco importa se chi suona è Apollo e se le voci sono quelle immortali delle Muse), e, subito dopo, dall’improvviso scintillio del pomo, che suscita la meraviglia di Panope (la «Tuttocchi»), che racconta l’episodio. Dopo la lettura delle parole incise sull’aureo frutto, nessuna delle Nereidi osa fiatare; non che si sentano meno belle delle altre, ma sono presenti «quelle lì», la sposa e due figlie di Zeus, tutt’e tre con un bel caratterino, visto che per poco non si azzuffano come donnette qualunque. E nemmeno il loro legittimo marito e padre, per quanto fulminante e altitonante, osa esprimere un giudizio che metterebbe a serio repentaglio la tranquillità familiare; preferisce scaricare la propria responsabilità sulle ignari spalle di un comune mortale, con piena indifferenza per ciò che accadrà.
Nei Dialoghi delle cortigiane lo spunto satirico è meno evidente: lo scrittore descrive quel particolare mondo femminile senza troppi moralismi, con uno stile e un gusto che richiama i toni della Commedia Nea, alla quale Luciano si è evidentemente ispirato, ma senza raggiungere l’approfondimento psicologico che caratterizza i personaggi di Menandro.
Nei Dialoghi dei morti, invece, la satira moraleggiante torna a essere uno degli aspetti più frequenti e approfonditi. Oggetto dell’attenzione dell’autore sono, nella maggior parte dei casi, i falsi miti dell’esistenza umana: la ricchezza, il potere, la fama, la bellezza. Il personaggio-chiave è rappresentato dal filosofo cinico Menippo di Gadara, che porta con sé anche nell’Ade il suo spirito critico e dissacratore, dal quale non si salva niente e nessuno, né Mida né Creso con tutto il loro oro, né Sardanapalo con il fasto della sua regalità. Nireo, l’eroe più bello dopo Achille fra quelli che militarono a Troia, è ormai uguale a Tersite e non c’è più alcuna differenza tra il suo teschio e quello dell’uomo più brutto di tutto l’esercito acheo. E davvero sciocchi furono tutti quelli che, per Elena, presero parte al celeberrimo conflitto, senza riflettere che, entro breve tempo, del fulgido splendore della bellissima donna non sarebbero rimaste che poche ossa nude, uguali a tutte le altre, nello squallido nulla che è l’ultimo traguardo di ogni umana grandezza.
Opere di contenuto vario
Alla fase più tarda della vita e dell’attività di Luciano appartengono alcune opere di contenuto vario e meno facilmente ascrivibili a un genere preciso, anche se per stile e temi non si discostano molto dalla precedente produzione. Fra queste si possono ricordare i Saturnali, in cui lo scrittore medita amaramente sulle ingiustizie che avvelenano il mondo, prendendo spunto dalla solennità romana dei Saturnalia, in occasione della quale, per rievocare la mitica età dell’oro sotto il regno di Saturno (il greco Kronos), venivano momentaneamente abolite tutte le differenze sociali ed erano i padroni a servire i propri schiavi.
Nell’Apologia, un opuscolo di carattere giudiziario e autobiografico prima ricordato, Luciano, che era stato molto duro nei confronti di chi accettava incarichi da lui considerati umilianti, anche se ben remunerati, in ricche case romane, tenta di giustificare la propria posizione di funzionario imperiale, mettendo in risalto la differenza fra un dipendente pubblico e chi, invece, si mette al servizio di un privato. Interessante è anche il breve trattato Come si deve scrivere la storia, redatto in forma epistolare e posteriore alla spedizione di Marco Aurelio contro i Parti, condotta nel 180. Prendendo spunto dalle adulatorie esagerazioni con cui gli storici contemporanei narravano le gesta degli imperatori, Luciano esprime una critica molto negativa nei confronti di questo stravolgimento della funzione della Storia e nella seconda parte dello scritto elenca alcune indicazioni per evitare simili errori, desumendole dalle opere degli storiografi ellenistici e, in particolare, da Polibio.
La Storia vera
Nel corpus degli scritti di Luciano è compresa anche un’opera in due libri, intitolata Storia vera. Nell’introduzione, l’autore informa di averla composta per il diletto e il riposo mentale del lettore, prendendo spunto, con una buona dose di ironia, dalle fantasiose storie di poeti e storici a partire da Omero per giungere a Ctesia di Cnido, il medico di Artaserse (metà V sec. a.C.) e ad Antonio Diogene, un romanziere del I secolo, finendo poi con Iambulo, autore di racconti fantastici, collocabile forse nel III sec. a.C. Tuttavia, prima di iniziare il suo racconto, Luciano avverte che l’unica cosa vera della sua storia è che non c’è niente di vero e che, perciò, «è assolutamente necessario che i lettori non ci credano per nulla».
La narrazione, in prima persona, comincia nel momento in cui il protagonista-scrittore, per curiosità e per puro spirito di avventura, raccolti cinquanta compagni e noleggiata una nave, parte dalle Colonne d’Eracle per esplorare il misterioso Oceano Occidentale. Dopo ottanta giorni, i naviganti approdano a un’isola sconosciuta; in una selva trovano una colonna di bronzo con un’iscrizione in greco, che li informa che quello è il termine ultimo a cui giunsero Eracle e Dioniso. La presenza del dio è tuttora ben visibile nella straordinaria natura dell’isola, in cui scorre un fiume di vino e prospera una strana vigna, le cui piante hanno un solido tronco ben piantato in terra, ma a partire da una certa altezza si sviluppano in bellissimi corpi femminili, dalle cui dita nascono tralci e che hanno in testa, invece di capelli, viticci, pampini e grappoli. Esse accolgono festosamente Luciano e i suoi compagni, ma la loro cordialità cela un’insidia mortale; infatti, i marinai che le abbracciano non possono più staccarsi e divengono viti anch’essi, mettendo radici e tralci.
Partiti da quella terra infausta, i viaggiatori vengono sorpresi da una burrasca e, travolti da un violentissimo turbine di vento, sono sollevati in aria con tutta la nave. Dopo una navigazione “aerea” durata sette giorni e sette notti, essi approdano sulla Luna. Mentre stanno esplorando la grande sfera luminosa, vengono sorpresi e arrestati da guerrieri lunari, gli Ippoghipi, che cavalcano immensi uccelli rapaci, una sola delle cui penne è più lunga di un albero di nave. Condotti dal re, Endimione, che un tempo era stato un uomo e che era tato trasportato lassù perché Selene si era innamorata di lui, ricevono benevola accoglienza. Anzi, il sovrano chiede l’aiuto di Luciano e dei suoi compagni nella guerra che sta conducendo contro gli Elioti, gli abitanti del Sole. Lo scontro è terribile e sanguinoso; l’esercito avversario è comandato da Fetonte, che ha ai suoi ordini gli Aeroconopi (le «Zanzare aeree») e gli Ippomirmeci, enormi formiche alate, a cui si affiancano i mostruosi Nefelocentauri, metà uomini giganteschi e metà cavalli alati. Essi sono alleati del re solare, ma, per fortuna, giungono in ritardo, altrimenti, i Seleniti non avrebbero mai potuto vincere la battaglia.
Stipulata la pace, Luciano e i suoi amici si trattengono per un certo tempo sulla Luna, imparando a conoscere lo strano popolo che vi abita; non esistono donne, non si muore, ma ci si trasforma in aria, ci si ciba esclusivamente del fumo di rane arrostite sui carboni, bevendo rugiada liquefatta. I vestiti sono fatti di fili sottilissimi di rame, di cui vi è grande abbondanza e che vengono filati come lana; quando un Selenita si soffia il naso, dalle narici gli esce miele, mentre se suda, espelle latte. Dalle cipolle essi ricavano un olio profumatissimo e dalle viti ricavano l’acqua, prodotta da grappoli i cui acini sono grossi chicchi di grandine. Ma la cosa più strana è che i Seleniti possono riporre nel proprio ventre tutto ciò che vogliono, perché esso è come una bisaccia che si può aprire e chiudere a volontà; e poiché l’interno è foderato di una morbida e calda pelliccia, vi tengono dentro i neonati per ripararli dal freddo, dopo averli dati alla luce dal polpaccio di una gamba. Possono anche estrarsi gli occhi e rimetterseli a piacere; così i ricchi ne hanno molte paia, di vario colore, mentre i poveri non ne possiedono che un solo paio fra i componenti della famiglia e devono servirsene a turno.
Partiti dalla Luna e ripresa la navigazione celeste, Luciano e compagni incontrano, a metà strada fra il cielo e il mare, la città di Lychnopolis, abitata non da uomini ma da lucerne (λύχνοι); dopo una breve sosta, possono finalmente toccare di nuovo la superficie del mare e proseguire il viaggio. Dopo qualche giorno, la nave si imbatte in un numeroso branco di cetacei e balene; e la più grande di esse, un vero mostro marino, spalancate le fauci, si lancia verso l’imbarcazione e la inghiotte tutta intera. Trasferiti di colpo nell’immenso ventre dell’animale, Luciano e i suoi compagni vi scoprono una fitta selva popolata da uccelli marini; inoltratisi nel bosco, trovano un tempietto dedicato a Poseidone, presso il quale scorgono alcune tombe, contrassegnate ciascuna da una colonnina. In lontananza, poi, vedono una fattoria dal cui tetto si alza un filo di fumo e da cui giunge alle loro orecchie il latrato di un cane.
Messisi in cammino, incontrano di lì un vecchio e un giovanotto, che coltivano un orto pieno di verdure e di fiori, irrigato da una limpida sorgente che zampilla lì vicino. Ospitalmente accolti, vengono a sapere che il vecchio, di nome Scintaro, e suo figlio Cinira, originari di Cipro, inghiottiti anch’essi dalla balena, vivono nel suo ventre ormai da ventisette anni, nutrendosi di pesci e dei vegetali che vi coltivano. Inoltre, la selva fornisce loro piante di vite che danno un ottimo vino e la possibilità di cacciare gli uccelli che vi si rifugiano. L’unico pericolo è rappresentato dal fatto che in essa si annidano popoli selvaggi e inospitali, ma essi hanno imparato a difendersi e a tenerli lontani, perché costoro non conoscono l’uso delle armi e si servono solo di lische di pesce. Luciano e i suoi amici offrono allora aiuto al vecchio; così, sbarazzatisi una volta per sempre degli incomodi vicini, trascorrono un anno e otto mesi di vita comoda e pacifica nel ventre della balena. Durante questo periodo, hanno la possibilità di assistere, ben nascosti dietro gli enormi denti della balena, a uno scontro fra giganti che navigano su isole spinte a remi. Con la narrazione della battaglia fra isole termina il primo libro della Storia vera.
Il secondo libro riprende con il progetto di Luciano di abbandonare il ventre del cetaceo, perché lui e i suoi compagni si sentono ormai stanchi di quella vita monotona e sedentaria. Così, il vecchio Scintaro e il figlio decidono di seguirli; perciò, dopo aver trasportato la nave fino alla gola del mostro, essi danno fuoco alla selva, uccidendo la balena. Una volta ripreso il mare, però, vengono sorpresi dal gelido Borea, il vento del Nord, che trasforma le acque intorno a loro in un gigantesco lastrone di ghiaccio. I marinai, allora, sono costretti a scavarsi una caverna e a soggiornarvi fino al ritorno di una temperatura più mite, nutrendosi di pesce congelato. Quando, alla fine, i ghiacci si sciolgono, gli avventurosi viaggiatori giungono in un oceano di latte, da cui sorge un’isola di formaggio. Dopo avervi fatto una breve sosta, che offre loro un gradevole cambiamento di dieta, riescono a raggiungere un mare azzurrissimo, di acqua limpida e salata: è il mare dei Sugheropodi, delle strane creature in tutto e per tutto simili agli uomini, tranne che per i piedi di sughero, che permettono loro di correre velocemente sul pelo dell’acqua, senza mai affondare.
Oltrepassate le isole Sugherie, i naviganti giungono in vista di una terra sconosciuta, dalle cui coste si leva una brezza carica di dolcissimi profumi, come quelli che Erodoto aveva narrato che esalassero dall’Arabia Felice. Si tratta dell’Isola dei Beati, dove vivono le ombre dei giusti; essa è immersa in un’eterna primavera, allietata dal canto melodioso degli uccelli e dagli aromi di piante e di fiori meravigliosi. Invitato con i suoi compagni a banchetto, Luciano ha la possibilità di conoscere tutti i grandi personaggi del mito e della storia: poeti, filosofi, statisti, musici, eroi che vivono là in perfetta armonia, conversando, componendo e suonando musica, danzando, cantando e assistendo a giochi. Ma proprio mentre si stanno celebrando le Thanatasie – le festività più solenne per i Beati – organizzate da Achille e Teseo, si sparge l’allarmante voce che gli abitanti del Soggiorno degli Empi, elusa la sorveglianza dei loro custodi, stanno per assalire l’Isola felice, guidati dai più crudeli tiranni, fra i quali si distinguono Falaride d’Agrigento e l’egizio Busiride. Infatti, di lì a poco, ha luogo lo scontro: i Beati hanno la meglio, grazie soprattutto alla presenza di Achille, ma anche Socrate si dimostra un combattente davvero intrepido.
Dopo questi fatti, un altro avvenimento, di ben diversa natura, sopraggiunge a turbare la quieta vita dell’Isola: Cinira, il figlio del vecchio Scintaro, giovane bello e aitante, si innamora, ricambiato, di Elena e decide di rapirla. Ma il progetto viene scoperto e Luciano e i compagni vengono cacciati; quando stanno per salpare, Odisseo, di nascosto a Penelope, consegna a Luciano una lettera per Calipso, perché l’isola della ninfa, figlia di Atlante, si trova sulla rotta che essi dovranno percorrere. Ma prima di giungervi, i naviganti approdano al Soggiorno degli Empi, in cui echeggiano continuamente grida e gemiti di dolore; la terra non produce che rovi ed è attraversata da tre fiumi, uno di fango, uno di sangue e uno di fuoco, assolutamente invalicabile. Abbandonato in fretta quel luogo terribile e inospitale, i viaggiatori giungono all’isola dei Sogni, coperta di distese di papaveri e mandragore, dalla quale provengono tutti i sogni che allietano o rattristano il riposo dei mortali. Di là fanno rotta per l’isola di Calipso. La ninfa li accoglie ospitalmente e, letta l’epistola di Odisseo, scoppia in lacrime, commossa profondamente dal ricordo dell’eroe. Luciano, allora, conforta la ninfa e la rassicura, parlandole dell’affetto che Odisseo nutre ancora per lei; certamente sarebbe già venuto a trovarla, se Penelope non lo tenesse sotto stretto controllo.
Dopo aver lasciato l’isola, Luciano e i suoi vengono assaliti dai Colocintopirati, che navigano su enormi zucche svuotate e seccate, servendosi delle foglie delle zucche stesse come vele e dei semi come proiettili; e si troverebbero a malpartito, se non intervenissero, sui loro gusci di noce, i Carionauti, acerrimi nemici dei Colocintopirati: infatti, mentre gli equipaggi avversari si scontrano, Luciano e amici ne approfittano per svignarsela senza dare nell’occhio. Scampati alla battaglia, dopo altre mirabolanti avventure, essi incontrano le terre dei selvaggi Bucefali e quelle abitate dalle terribili Onoskelee: queste sono donne bellissime, che hanno, però, al posto delle gambe, zampe d’asino abilmente nascoste da lunghe vesti; inoltre, si nutrono di carne umana, attirando i viaggiatori con le loro lusinghe per poi ucciderli e divorarli. Allontanatisi in fretta, i naviganti arrivano in vista del continente australe, che sta agli antipodi del mondo conosciuto. Ringraziati gli dèi per aver finalmente raggiunto la meta, essi si accingono a sbarcare; ma ecco scatenarsi una violenta tempesta, che fracassa la nave e li costringe a salvarsi a nuoto, con le sole armi e qualche suppellettile. A questo punto, il racconto si chiude e Luciano si accomiata dai suoi lettori, promettendo di narrare in altri libri le nuove avventure.
Opera di puro divertimento, la Storia vera non conosce limiti di spazio né di tempo, proprio come la fantasia del suo autore. La terra, il mare, il cielo, il mondo dei vivi e quello dei morti e perfino il ventre di un cetaceo mostruoso fanno da sfondo alle mirabolanti avventure del protagonista, sempre in moto, ma senza una meta precisa. Benché si affrontino tempeste e battaglie, si incontrino dèi e giganti, Seleniti marsupiali e donne-viti, in uno scenario di fenomeni naturali non meno strabilianti, il senso del drammatico o del pauroso sono completamente assenti, così come manca del tutto il tema della magia. Perfino i luoghi più strani e la dimensione ultraterrestre non appaiono altro che come un vario e inconsueto spettacolo, offerto agli occhi di un viaggiatore-narratore, che si compiace di raccontare, con un divertimento che prevale sullo stupore.
Al genere delle storie incredibili appartiene un altro romanzo, contenuto nel corpus lucianeo, ma considerato spurio; esso è intitolato Lucio o l’asino ed è scritto, invece che in attico, nel greco della koiné. Vi si narrano le avventure del giovane Lucio, il quale appassionato di magia, spia, con l’aiuto di un’ancella, una famosa maga che si sta trasformando in uccello, grazie a un unguento miracoloso di cui si cosparge il corpo. Dopo che la metamorfosi si è compiuta, la maga vola via; e Lucio, desideroso di imitarla, si spalma a sua volta di unguento: ma nella fretta, sbaglia contenitore e viene così mutato in asino, riuscendo a riacquistare l’aspetto umano soltanto dopo molte peripezie.
Secondo Fozio, patriarca di Costantinopoli (IX sec.), esisteva anche un’altra opera che trattava lo stesso argomento, le Metamorfosi di Lucio di Patrai, di cui però non si sa nulla; invece, lo spunto narrativo della trasformazione di Lucio in asino è stato sviluppato nei Metamorphoseon libri XI dello scrittore madaurese Apuleio (125 c.-post 170 c.). Allo stato attuale delle conoscenze, non è possibile stabilire con chiarezza i rapporti fra le due opere greche e quelli di entrambe con il romanzo di Apuleio, che si differenzia dalle prime per la maggiore ampiezza, per la ricchezza degli episodi collaterali e soprattutto per il contenuto, caratterizzato da evidenti riferimenti al culto misterico di Iside.
Pensiero, stile e fortuna di Luciano
Sebbene Luciano non abbia mai raggiunto una grande profondità speculativa e non possa essere considerato un pensatore originale, egli rimane tuttavia una delle personalità più significative del suo tempo. A lui è dovuta la creazione di un nuovo genere di dialogo, che ha saputo unire in modo singolarmente piacevole i contenuti del pensiero filosofico all’umorismo della commedia ed è servito a denunciare, con intelligente arguzia, molti degli aspetti negativi della vita e della cultura del tempo, a un pubblico certamente assai vasto. La dissacrante ironia dell’autore non ha risparmiato nessuna manifestazione della debolezza umana, ma ha stigmatizzato soprattutto le mistificazioni dei falsi maestri e dei falsi filosofi, nel tentativo di limitare il diffondersi di un dogmatismo che la sua mente razionale non poteva accettare e che lo ha portato ad accomunare nella sua critica anche qualunque forma di religione (Cristianesimo compreso). Infatti, pur dimostrando simpatia per gli epicurei e per i cinici, Luciano non ha mai accettato completamente il pensiero di nessuna scuola, fedele a uno scetticismo di fondo che scaturiva naturalmente dal suo ingegno mobile e vario. Incline per indole a un’ironia beffarda e corrosiva, questo intellettuale siro ha avuto, tuttavia, il suo più grande limite nel non saper proporre soluzioni alternative, limitandosi a distruggere senza creare: ma, ciononostante, è difficile sottrarsi al fascino di questo spirito arguto e versatile, ricco di capacità di osservazione e di espressione, dotato di un’eccezionale sensibilità linguistica e di una altrettanto straordinaria cultura, che lo ha portato a spaziare con felice eclettismo e con gusto sempre sicuro da Omero a Esiodo, da Euripide ad Aristofane, da Erodoto a Tucidide e a Platone, che gli offrì lo spunto formale per i suoi dialoghi.
La fortuna di Luciano fra i suoi contemporanei non fu grandissima; soltanto in epoca bizantina egli fu riscoperto da Fozio, che lo apprezzò per il suo stile e per il suo atteggiamento critico nei confronti di vari aspetti del mondo pagano. A partire dal XV secolo, Luciano fu ammirato e tradotto anche in Italia, quando le sue opere fornirono suggestioni a poeti come il Boiardo e ispirarono la pittura, attraverso l’arte di Botticelli e Mantegna. Soprattutto la Storia vera ha avuto grande importanza nella cultura europea, in vari periodi e a diversi livelli, perché a essa si rifecero Rabelais, Swift e Voltaire; e sia Le avventure del Barone di Münchhausen di Gottfried Bürger sia le ben note Avventure di Pinocchio sono in buona misura debitrici alla sua geniale e sbrigliata fantasia.
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1. Il Mithra ellenistico nella Commagene
La Commagene
Cominciamo la nostra ricerca sulla diffusione del culto di Mithra soffermandoci innanzitutto sulla Commagene, antica Provincia siriaca del regno seleucide. La Commagene, situata tra la Cilicia e l’Eufrate, ai piedi del Tauro, con capitale Samosata, venne integrata nell’Impero seleucide. Il nome Commagene è un adattamento greco del mesopotamico Kummuh. Questa regione ha una lunga tradizione culturale: la Commagene si trovava infatti ai confini tra l’Iran, la Mesopotamia, il paese degli Hurriti e quello degli Ittiti. Nel 162 a.C. il governatore della provincia, Tolomeo, si pone a capo di una rivolta e trasforma la Provincia in un regno indipendente. Nella Provincia della Commagene, che rappresentava un trait d’union tra il mondo iranico e il mondo anatolico, negli ultimi decenni sono state fatte importanti scoperte relative al culto di Mithra. Vanno innanzitutto ricordati i numerosi sovrani che portano il nome teoforo Mitridate. Nel regno del Bosforo il re Mitridate fu designato dall’imperatore Claudio, nel 41 a.C., come successore di Tolomeo. Nel regno dei Parti troviamo Mitridate I Filelleno dal 171 al 138 a.C. e Mitridate VI il Grande dal 123 all’86 a.C., colui che conquistò l’Armenia e istituì rapporti diplomatici con Roma nel 92[1].
Nella Commagene il culto di Mithra divenne un culto regale nel corso dei secoli precedenti alla nostra era. La documentazione è vasta[2]. Dörner descrive una serie di scoperte: statue, rilievi, iscrizioni. In esse ritroviamo l’incontro tra le tradizioni greche e quelle iraniche, in particolare in alcune iscrizioni e statue in cui figurano quattro nomi divini, quelli di Apollo, Mithra, Helios ed Hermes.
Sembra certo che l’iscrizione (OGIS 383 = IGLSyr 1 1 = CIMRM 32) di Nemrut Dağı (in cui compaiono le quattro divinità appena nominate) fu fatta incidere da Antioco I, re della Commagene dal 69 al 38 a.C. Un bassorilievo ci mostra il dio Mithra che stringe la destra del re in segno di alleanza e di protezione. Dörner ha ritrovato ad Arsameia del Ninfeo, sul fianco meridionale di Eski-Kale, i resti di un santuario. Per alcuni si tratterebbe addirittura di un antico mitreo, il più antico tra tutti quelli conosciuti, cosa che ci ricondurrebbe ai misteri di Mithra celebrati nella Commagene nel I secolo a.C. Non lontano dai resti individuati da Dörner sorge un monumento eretto da Antioco I a gloria di suo padre Mitridate I, sul quale troviamo una allusione a Mithra. Bisogna però ricordare che Dörner stesso, così come numerosi altri studiosi, non accoglie l’ipotesi del mitreo.
Queste testimonianze del I secolo a.C. documentano soltanto il culto di Mithra come culto regale: non si tratta della celebrazione dei misteri. Significativa è la rappresentazione delle immagini in cui Mithra compare di fronte al sovrano. Si vedano la statua della dexiosis (il darsi la mano destra) tra Mithra e Antioco I di Commagene a Nemrut Dağı (tav. VI) e quella di Mitridate Callinico nello hierothesion di Arsameia del Ninfeo (tav. V), «Études mithraiques», 1978. Siamo nel I secolo a.C.[3] Queste scoperte ci hanno fatto conoscere il culto regale di Mithra nella Commagene. Si tratta del culto organizzato da re Mitridate I Callinico e da suo figlio Antioco I. I documenti sono di due tipi, dal momento che abbiamo le iscrizioni su stele e quelle su rocce:
La stele di Adiyaman (SEG 26,1623 = ZPE 20 [1976], 213), che ci mostra una vera e propria riforma cultuale compiuta da Mitridate I Callinico, che si pone miticamente come discendente della dinastia persiana e di quella macedone, perfettamente nello spirito dell’ellenismo.
La stele di Samostata (OGIS 404 = IGLSyr 1 52, Add. IGLSyr II, p. 381 = SEG 7, 47): questa iscrizione, realizzata da re Antioco, figlio di Mitridate I Callinico, presenta Antioco come re divino e afferma che il sovrano ha fatto erigere le statue di Zeus-Oromasdes, di Apollo-Mithra-Helios-Hermes e di Artagnes-Eracle-Ares.
Dall’altra parte abbiamo alcuni monumenti cultuali, gli hierothesia, di cui dovremo parlare più a lungo.
Queste recenti e importanti scoperte gettano nuova luce sul culto del Mithra ellenistico. R. Turcan riassume così la situazione:
Nell’Asia minore dei diadochi le dinastie di origine iranica (alcune delle quali rivendicavano una eredità achemenide) favorirono le prime contaminazioni greco-orientali che stavano aprendo la strada dell’Occidente a un mitraismo ellenizzato. Il nome teoforo Mitridate o Mitradate, assunto dai re del Ponto, d’Armenia e della Commagene, attesta che essi veneravano in Mithra il garante divino della loro autorità. Le monete di Mitridate I, re dei Parti (171-138), portano sul rovescio una figura d’arciere paragonabile all’Apollo delle tetradracme seleucidi; nell’Impero ellenizzato degli Arsacidi lo si identificava con Mithra[4].
La testimonianza di Plutarco
a) La Cilicia
Nel 67 a.C. Pompeo inaugura contro i pirati che infestavano il Mediterraneo un’azione destinata a mettere fine alle loro scorrerie contro i rifornimenti di grano, inviando squadre militari in diversi settori, ma riservando a sé la Cilicia, noto covo dei pirati. La campagna ha successo: dopo tre mesi regna la calma. La Cilicia, situata nella parte sudorientale dell’Anatolia, è l’antico territorio di Kizzuwatna del periodo ittita. Dopo la fine dell’Impero ittita cade nelle mani degli Assiri, in seguito dei Cimmeri. Sotto la dominazione persiana è unita alla satrapia di Cappadocia. Alessandro la occupa entrandovi da settentrione. La Cilicia è fiancheggiata a oriente dalla catena del Tauro, luogo montagnoso e poco abitato, che rappresentava il covo ideale per i pirati, i quali da oriente, attraverso la pianura e il corso dei fiumi, avevano facile accesso al mare.
b) La notizia di Plutarco
Nella Vita di Pompeo di Plutarco incontriamo un breve accenno al mitraismo. Ecco alcuni passi del ventitreesimo capitolo:
La potenza dei pirati che nacque in Cilicia ebbe un’origine tanto più pericolosa quanto meno era nota all’inizio. I servizi che resero a Mitridate durante la sua guerra contro i Romani ne aumentarono la forza e l’audacia … Facevano anche sacrifici barbari che erano in uso a Olimpia e celebravano misteri segreti, tra cui quelli di Mithres, conservatisi fino ai nostri giorni, che avevano fatto conoscere per primi.
Che cosa si può dedurre da questa notizia di Plutarco? Seguiamo la storia degli studi. In Les mystères de Mithra[5], Fr. Cumont afferma:
Se si presta fede a Plutarco … i Romani sarebbero stati iniziati ai suoi misteri dai pirati di Cilicia vinti da Pompeo nel 67 a.C. Questa informazione non ha nulla di inverosimile: sappiamo, per esempio, che la comunità ebraica stabilitasi trans Tiberim era composta in gran parte dai discendenti dei prigionieri che lo stesso Pompeo aveva portato con sé dopo la presa di Gerusalemme (63 a.C.). Grazie a questa particolare circostanza è dunque possibile che a partire dalla fine della Repubblica il dio persiano abbia trovato alcuni fedeli nella variegata plebe della capitale. Ma confondendosi nella folla delle confraternite che praticavano riti stranieri, il piccolo gruppo dei suoi adoratori non attirava l’attenzione. Lo yazata partecipava così al disprezzo di cui erano oggetto gli Asiatici che lo veneravano. L’azione dei suoi seguaci sulla massa della popolazione era praticamente nulla, tanto quanto quella delle comunità buddhiste nell’Europa moderna.
Cumont, dunque, accetta il fatto che i pirati di Cilicia abbiano introdotto, nel 67 a.C., i misteri di Mithra a Roma e ipotizza che il culto sia stato sostanzialmente ignorato a Roma nelle sue prime fasi di sviluppo. Ernest Will adotta, per interpretare questo testo, un approccio più sfumato[6]. Egli distingue due problemi: la data di formazione dei misteri e il luogo in cui si realizza questo evento. Per quanto riguarda la cronologia, Will utilizza anch’egli Plutarco, che allude all’esistenza del culto in Cilicia all’inizio del I secolo a.C., ma cita anche la testimonianza del poeta latino Stazio (Publio Papinio Stazio), nato a Napoli verso il 46 d.C., che attorno al 65 comincia a scrivere un poema epico, La Tebaide, portato a termine nel 90 circa. In questo poema Stazio descrive l’immagine della tauroctonia (Theb. I 719-720), dimostrando la penetrazione del culto a Roma alla metà del I secolo della nostra era. Questa indicazione, afferma Will, corrisponde alla realtà, dal momento che è appunto sotto i Flavi, tra il 70 e il 100 d.C., che i ritrovamenti archeologici dimostrano la diffusione del culto. Questo dato, accostato alla testimonianza di Stazio, attesta dunque la diffusione del culto di Mithra a Roma alla fine del I secolo. Will utilizza il testo di Plutarco, che ci fa risalire all’inizio del I secolo a.C., come testimonianza del lungo periodo di incubazione durante il quale ebbero luogo la guerra di Armenia di Nerone e la guerra giudaica, guerre che implicarono numerosi spostamenti di truppe da Roma all’Asia. Il secondo problema è quello della nascita dei misteri, che, afferma Will, presuppone una regione e un’epoca in cui gli elementi persiani erano ancora vivi:
L’Asia minore e soprattutto la sua pane orientale apparivano, alla fine dell’epoca ellenistica, particolarmente propizie. Basti ricordare, a questo proposito, i tentativi dei reucci della Commagene della stessa epoca (I secolo a.C.) di assicurare il proprio potere e il proprio prestigio richiamandosi sia alla Grecia che alla Persia: essi si fecero raffigurare faccia a faccia con Mithra. Centocinquant’anni dopo, l’ora della Persia era passata e l’Iran dei Pani non suscitava più nei Romani paura o ammirazione profonda. La verosimiglianza è dunque più favorevole al testo di Plutarco. Ma anche lo studio dell’iconografia – che è l’unica altra nostra risorsa – fornisce argomenti che vanno nella stessa direzione[7].
Will guarda dunque con molto favore alla testimonianza di Plutarco sulla presenza dei misteri di Mithra in Cilicia all’inizio del I secolo a.C., a condizione che si pensi alla Cilicia orientale, che ai suoi occhi si rivela come «la probabile culla del culto misterico», soprattutto per via delle scoperte archeologiche, delle monete, di un’iscrizione di Anazarba e della presenza dei Magi in questa regione.
E.D. Francis[8] osserva che alcuni studiosi hanno ricavato dalla notizia di Plutarco l’idea che il mitraismo avrebbe raggiunto Roma proprio grazie all’operazione militare di Pompeo. Ma in realtà Plutarco non fornisce la data dell’arrivo a Roma di questi misteri. E parla del rito utilizzando il generico termine teletai. Inoltre, afferma Francis, non è certo che Pompeo abbia portato con sé a Roma i pirati, se teniamo conto di una nota di Servio alle Georgiche di Virgilio, che afferma: Pompeius enim victis piratis Cilicibus partim ibidem in Graecia, partim in Calabria agros dedit.
Per comprendere appieno il testo di Plutarco, afferma Francis, bisogna tenere presente che con il termine teletai Plutarco intende riferirsi non alle origini dei misteri, bensì a un contesto del tutto tradizionale. Francis pensa che le teletai (riti, cerimonie di iniziazione) siano da interpretare come una sorta di patto di protezione: avremmo così un’allusione all’adozione da parte dei pirati di una religion of robbers, un culto di banditi che, nella versione romana, diverrà poi un culto di soldati. Questo culto di banditi si sarebbe fondato sopra un patto di fratellanza, posto sotto la protezione di Mithra. E si può ipotizzare che questi banditi stringessero il loro patto nel profondo delle grotte. Le cerimonie del patto dei banditi sarebbero evidentemente riservate agli uomini: le donne ne sono escluse. Il culto mitraico dei pirati sarebbe stato, dunque, segnato dal rispetto di un patto stretto per combattere in vista della vittoria. Quando Roma adotterà i misteri di Mithra, questi riti di iniziazione si modificheranno profondamente.
Dopo aver analizzato la notizia di Plutarco, Vermaseren[9] si rivolge allo storico Appiano, il quale ci informa, nel II secolo d.C., che furono i sopravvissuti dell’esercito sconfitto del re Mitridate Eupatore a iniziare i pirati ai misteri. Mitridate VI Eupatore, re del Ponto (111-63 a.C.), nell’88 ordinò il massacro di tutti i Romani d’Asia. Nel 66 fu definitivamente sconfitto da Pompeo sull’Eufrate. Mitridate, come indica chiaramente il suo nome, era un fedele di Mithra. Come i suoi predecessori, aveva accolto nel suo esercito soldati provenienti da ogni parte dell’Asia.
In Cilicia, la montuosa patria dei pirati, esistono diversi monumenti dedicati a Mithra. Ad Anazarba è stato scoperto recentemente un altare dedicato a Mithra da un certo M. Aurelio, sacerdote e padre di Zeus-Helios-Mithra. Il dio era venerato anche a Tarso, la capitale, come provano alcune monete dell’imperatore Gordiano III che portano l’effigie dell’uccisore del toro[10].
I pirati, ai quali a volte si erano uniti personaggi importanti, veneravano Mithra nella loro comunità. Soltanto gli uomini erano ammessi al culto. È dunque probabile che, dopo la loro disfatta, i pirati abbiano portato Mithra in Italia quando Pompeo ve li trasferì[11].
Secondo Vermaseren, a Roma non abbiamo alcun monumento relativo a Mithra prima della fine del I secolo d.C. Soltanto alla fine del I secolo della nostra era Mithra comincia la sua marcia trionfale nell’Impero romano[12].
Questo primo paragrafo ci ha consentito di porre in modo chiaro il problema del Mithra ellenistico. All’inizio del secolo Cumont scriveva: «Si può affermare in generale che Mithra è sempre rimasto escluso dal mondo ellenistico». Oggi questa affermazione va presa con molta cautela, in particolare dopo le importanti scoperte della Commagene. Dobbiamo spingere più a fondo le nostre indagini e chiederci soprattutto se i documenti archeologici ed epigrafici della Commagene ci forniscono elementi capaci di documentare il passaggio dal culto regale di quella regione al culto misterico dell’Impero romano.
Incontriamo il termine hierothesion in diverse iscrizioni, come quelle di Karakush e di Arsameia sull’Eufrate. Il vocabolo ha un significato del tutto particolare nella Commagene. È presente anche a Nemrut Dağı, sulla terrazza in cima alla montagna. Lo studio di H. Waldmann ci permette di chiarire diversi aspetti: il termine serve soltanto a designare un santuario funebre, un santuario regale in cui si rende un culto dinastico oppure un culto ai sovrani defunti e divinizzati[13].
Lo hierothesion di Nemrut Dağı
A Nemrut Dağı avremmo così un santuario che celebra i sovrani defunti della dinastia. Mitridate I Callinico è il primo re di una nuova dinastia che fa riferimento da una parte a Dario il Grande e dall’altra ad Alessandro Magno. Due sono le serie di divinità: Mithra-Apollo e Helios-Hermes. Si tratta di una riforma cultuale di carattere sincretistico.
Waldmann pubblica il testo greco ricostruito e la traduzione tedesca del nomos, cioè dell’ordinanza cultuale promulgata da Antioco I[14]. Eccone alcuni dei passi principali. «Il grande re Antioco, dio, il Giusto, Epifanio, amico dei Romani e dei Greci, figlio del re Mitridate Callinico e della regina Laodicea, dea … ». Il sovrano nomina gli dèi ai quali consacra il suo regno: «Così, come vedi, ho eretto a questi dèi immagini davvero degne: quella di Zeus Oromasdes, quelle di Apollo-Mithra-Helios-Hermes, quelle di Artagnes, Eracle, Ares… ». Alla riga 123 comincia il nomos, la legge. Il re designa un sacerdote incaricato del culto degli dèi e degli antenati divinizzati. Il giorno dell’apoteosi degli dèi e del sovrano, costui deve vestirsi con abiti sacerdotali persiani; dovrà fare offerte di incenso e di piante aromatiche e deporre sugli altari cibi e brocche di vino. Tutti gli alimenti saranno distribuiti tra i presenti. Tutti gli ieroduli consacrati al servizio degli dèi non saranno mai ridotti in schiavitù. I villaggi consacrati a questi dèi non saranno mai proprietà di nessuno. A tutti coloro che si conformeranno piamente alle decisioni del re saranno propizi gli dèi di Macedonia, di Persia e della Commagene.
Abbiamo una lunga iscrizione in cui Antioco afferma che questo hierothesion è stato creato da suo padre, Mitridate Callinico, per gli dèi e perché vi sia deposto il suo bel corpo, passato in vita di vittoria in vittoria. Descrive poi la città di Arsameia, costruita su due collinette simili al petto di una ninfa che esce dal fiume Ninfeo. Poi ritroviamo i soliti elementi: la fondazione di un culto in onore degli dèi e dei sovrani defunti, gli incarichi dei sacerdoti, degli ieroduli e dei fedeli.
Un’altra lastra di pietra, spezzata ma che ha potuto essere ricostruita, porta al recto la dexiosis di Antioco con Mithra, al verso un’iscrizione votiva di Antioco in onore di Mithra-Helios e Apollo-Hermes. Un sacerdote è incaricato di questo culto divino. Comunque, afferma Waldmann, non si tratta di un culto misterico. n culto viene celebrato all’aria aperta, con la folla dei fedeli che partecipa al pasto rituale. Non siamo in presenza di un culto iniziatico, ma di un culto mitraico di carattere regale e pubblico. La presenza di una grotta scavata nella roccia ha fatto pensare a un mitreo, ma in realtà essa era semplicemente la camera funeraria del sovrano. Si veda la lunga discussione in Waldmann, Die kommagenischen Kultreformen, nella seconda parte del volume, Die Hierothesia[15]. Waldmann propone infine un’altra osservazione importante. L’iconografia ci mostra che Mitridate I Callinico non ha soltanto parlato di belle immagini degli dèi, ma le ha anche realizzate. Lo studioso si chiede se questo culto regale della Commagene, nel quale Mithra assume un ruolo di primo piano, non sia all’origine del culto mitraico che si diffonderà nei secoli seguenti. Waldmann non risponde positivamente, a causa della mancanza di prove. Ma la questione è di un certo rilievo.
Il culto regale della Commagene e Mithra
Ciò che stupisce in questo culto, afferma J. Gagé[16], è l’associazione tra sovrano e dio: il re si assicura l’uguaglianza con gli dèi, come dimostra la dexiosis. Ciò che stupisce ulteriormente è l’equivalenza affermata tra i nomi iranici e i nomi greci delle principali divinità: Zeus = Oromasdes, Eracle = Artagnes, Helios = Hermes, Mithra = Apollo. Abbiamo qui una doppia tetrade, che si ricollega ad Ares = Eracle-Artagnes. Gagé[17] sottolinea il fatto che Mithra, «il più prossimo al re tra questi dèi, è detto anche Apollo e in fondo non è realmente diverso da Helios-Hermes». C’è una tendenza al sincretismo delle entità divine. Jonas impiega il termine «teocrasia» per definire la tendenza al sincretismo nei nomi divini.
Il culto. Secondo Gagé, al sincretismo delle entità divine corrispondono le norme prescrittive di origine persiana imposte agli osservanti del culto. L’esame archeologico del monumento di Nemrut Dağı mostra il fascio di rami (baresman) nella casa di Mithra. Si tratta del rituale mazdeo del culto del fuoco. Il sacerdote deve vestire l’abito persiano per gli atti di culto da celebrare in occasione delle feste. I sacerdoti godono di diversi privilegi. Nella celebrazione del sacrificio abbiamo offerte e vittime animali e infine la condivisione del pasto sacro.
Le motivazioni psicologiche e morali. Il documento regale di fondazione del culto del sovrano insiste sulla purezza morale dei suoi protagonisti. Il re è portatore dell’eusebeia, la pietà religiosa, che è una virtù regale. La perennità del culto viene enunciata con enfasi. Alcuni autori hanno persino ritenuto che si trattasse di una continuazione dello zervanismo, con il culto di Zervan-Aion.
Quello che manca, però, è l’iniziazione di tipo misterico. Su questo punto Dörrie, Gagé e Waldmann sono d’accordo. Non si tratta di un culto misterico, bensì di un culto regale, un culto dei sovrani. I sacerdoti sono Magi. Ne era convinto Cumont, che collocava nella Cappadocia i Magi e li identificava con questi sacerdoti della Commagene.
Gagé, invece, non è di questa opinione: non si tratta di Magi, ma di sacerdoti nazionali, regali, ben contenti di conservare le loro rendite e i loro privilegi all’ombra di una dinastia nazionale. Questi sacerdoti erano tuttavia molto vicini ai Magi e il culto di Mithra sviluppò alcune delle dottrine che saranno riprese nei misteri mitraici successivi. L’astrologia, in ogni caso, era già presente in questo culto.
3. La dexiosis mitraica
L’esame della documentazione archeologica della Commagene ci mostra una serie di immagini in cui il sovrano stringe la mano destra a una divinità, in particolare al dio Mithra[18].
La dexiosis della Commagene secondo Waldmann
Gli autori hanno interpretato in modo differente questa scena, che nella Commagene troviamo molto diffusa. Per alcuni si tratta di un gesto di saluto del sovrano e del dio. Ma, si chiede Waldmann, chi saluta e chi viene salutato? È il dio che saluta il re o è il re che accoglie il dio? Dörrie pensa, invece, che questa dexiosis sia da mettere in relazione all’astrologia: gli dèi si avvicinano (come le stelle, come i pianeti) e salutano il sovrano, la stella regale. Waldmann ritiene di trovare la spiegazione nelle righe 61-63 di Nemrut Dağı. «L’antichissima dignità degli dèi l’ho presa come compagna di una giovane fortuna». Antioco tratta dunque gli dèi in modo attivo, associandoli alla propria sorte. È lui ad avere l’iniziativa. Va persino più lontano: esso era una dignità arcaica a un elemento nuovo, come risulta dalle righe 24-27: «Quando ho ripreso la sovranità paterna ho stabilito il regno, sottomesso al mio trono sulla base della mia pietà, come residenza comune di tutti gli dèi». Waldmann insiste piuttosto su un altro fatto. Non è Antioco ad aver introdotto il culto, bensì Mitridate I Callinico, suo padre. È costui, quindi, che ha accolto nel suo regno, come residenti ufficiali, le divinità di Persia e di Macedonia. Non si tratta, per il sovrano, di prendere il posto degli dèi, ma di portarli nel suo regno. Waldmann ritiene, interpretando le iscrizioni delle stele, che il re della Commagene distingua due nature divine (Gottum), quella degli dèi e la propria: rivendica per sé una virtù, l’eusebeia; utilizza per sé il termine dikaios, ponendosi così nell’ambito della giustizia; sottolinea il fatto che nell’esercizio delle sue funzioni ha sempre fatto la volontà degli dèi; evita accuratamente ogni possibile confusione tra gli dèi e se stesso; nei documenti iconografici della dexiosis non si pone mai nella condizione di poter essere identificato con gli dèi, ma si presenta come il re divino; pone i propri santuari sotto la protezione degli dèi e non sotto la propria protezione, per quanto divina. Per Waldmann in questi casi non abbiamo a che fare con una apoteosi: la dexiosis non è una divinizzazione del sovrano. Il re è divino e si mostra come tale al suo popolo. In quanto re divino, nella sua epifania divina, instaura nel suo regno un nuovo culto. Questo culto è reso agli dèi di Grecia e di Persia, ma con una predilezione per la teologia astrale, dal momento che le divinità astrali assumono un ruolo assai importante. In tale culto il ruolo di Mithra è centrale. Fondamentale, in ogni caso, è l’elemento della dexiosis tra il re e la divinità, tra il re e Mithra[19].
Dextrarum junctio: la dexiosis
Disponiamo di una ragguardevole sintesi della nostra documentazione sulla dexiosis grazie a uno studio di M. Le Glay, La dexiosis dans les mystères de Mithra[20]. L’autore ha analizzato la documentazione di numerosi monumenti antichi, greci e cristiani. La dextrarum junctio è stata interpretata in modi differenti: come simbolo della fides o come il gesto degli sposi che si uniscono in matrimonio. Oggi sappiamo che questo gesto non appartiene né al rituale né alla simbologia del matrimonio, ma è divenuto, nel mondo cristiano, signum concordiae.
Nell’iconografia mitraica abbiamo soprattutto due episodi raffigurati sui bassorilievi cultuali collocati intorno alla scena della tauroctonia:
La scena dell’alleanza tra Mithra e il Sole: Mithra e il Sole si danno la mano destra, di solito al di sopra di un altare, «e questo conferisce al loro gesto un valore particolarmente sacro»[21]. «E questa dextrarum junctio è rappresentata con particolare frequenza tra il pannello che mostra il Sole inginocchiato ai piedi di Mithra e quello che ricorda il pasto sacro dei due personaggi»[22].
La scena dell’apoteosi: «Quando Mithra prende posto sul carro del Sole che deve condurlo fino al soggiorno celeste degli dèi, il Sole gli tende la sua destra, che il giovane dio stringe, a sua volta, con la mano destra. Questa seconda dexiosis non ha evidentemente lo stesso significato della prima».
I due episodi occupano un posto particolare nel mito e nella liturgia mitraici. Ciascuno di essi conclude una diversa serie iconografica: la serie breve termina con l’alleanza; la serie lunga con l’apoteosi e il banchetto, che seguono logicamente la scena dell’alleanza.
Per comprendere la dexiosis:
L’importanza del giuramento nelle società antiche. Dumézil e Boyancé hanno sottolineato l’importanza della fides, della devotio e del giuramento nella società romana.
La pax deorum in Occidente, la sottomissione e l’assoggettamento degli uomini agli dèi è uno degli aspetti fondamentali di questa realtà.
Il giuramento assume in tutte le religioni misteriche e iniziatiche un ruolo particolare: nel culto dionisiaco, nei culti alessandrini, l’Isismo e l’Osirismo.
Nel culto di Mithra il giuramento è proprio al centro del «gesto» divino e del rito di iniziazione dei fedeli. Questo giuramento solenne, di cui parla Tertulliano, è un sacramentum. «Colui che partecipa al mistero imita i gesti di Mithra, che tendendo la destra secondo l’uso persiano conclude il patto e ratifica il proprio giuramento».
La mano destra detiene la potenza ed esprime la volontà. In Oriente, a Roma, nella Bibbia, la destra è simbolo di potenza e di supremazia. In Siria la simbologia della mano è il segno della presenza di Dio. Da qui l’importanza della mano per gli dèi del tuono: è la mano a reggere il fulmine. Le mani votive ritrovate in Siria rimandano al culto di Giove Dolicheno. La mano divina dispensa potenza.
La mano è presente nella simbologia semitica, frigia, greca, romana e cristiana. Come in Oriente, la simbologia della potenza della mano destra si ritrova anche a Roma: potenza, protezione, benedizione. La mano destra è segno di impegno. A Roma la mano è associata alla dea Fides. P. Boyancé ha criticato una interpretazione esclusivamente giuridica di Fides, per segnalare alcuni suoi aspetti morali, sociali e religiosi[23]. Giove è Dius Fidius, e Fides, onnipresente a Roma, risulta una sorta di complemento di Dius Fidius. Nel rito della mano velata Le Glay vede un’esigenza di purezza assoluta e di rispetto della potenza divina. Le Glay si chiede se, in definitiva, Fides non sia proprio la dea dell’impegno.
Dextrarum junctio: è il gesto che lega le potenze. La fides crea un legame, testimonia l’impegno. Boyancé ha indicato la stretta relazione tra le destre allacciate e la fides.
Così, la stretta di due mani destre evocata da tanti testi e raffigurata su tanti rovesci di moneta va compresa in tutti i casi come il segno, la testimonianza di un impegno volontario e reciproco. O meglio, essa stessa crea il legame.
Molti sono gli esempi di impegno di questo genere: impegno frutto dell’accordo che risulta da un trattato tra un vincitore e un vinto; impegno di alleanza e concordia che può risultare da un trattato; impegno di accoglienza, di ospitalità; accordo di fedeltà e di omaggio; impegno suggellato da un giuramento.
Che conclusioni trame?, si chiede Le Glay.
Che la mano destra, essendo insieme quella della potenza e quella dell’impegno, con la dexiosis crea tra gli uomini legami di ogni tipo, certamente di natura giuridica e morale, ma di essenza profondamente religiosa; legami che generalmente implicano una protezione volontaria e leale da una parte e una sottomissione volontaria e leale dall’altra[24].
Così trasposta all’ambito religioso, la dexiosis risulta ancora più importante.
La dexiosis nel mitraismo
a) Il parallelo dei culti orientali
La dexiosis, segno di alleanza e di impegno. Le Glay propone la descrizione di diversi documenti. Innanzitutto la stele degli dèi palmireni trovata a Roma: Aglibol, dio lunare che indossa un’uniforme militare romana, stringe la mano al dio Malakbel, dio della fertilità, in costume palmireno. Questo gesto si ritrova a Palmira e ad Apamea: Le Glay vede qui un riferimento alla fecondità, ma anche alla salvezza, con un dio che rinasce ogni anno. Sull’altare del Campidoglio, sulle quattro facce, sono visibili le quattro fasi del sole: crescita, apogeo, declino, rinascita.
La dexiosis, gesto di introduzione: questo è il significato della scena nel culto dionisiaco. Le Glay descrive e analizza le immagini di un altare funerario di epoca imperiale. Dioniso riporta dall’Acheronte sua madre Semele e la conduce in cielo.
E la dextrarum junctio di Dioniso e di Semele mi pare dunque, sulla stele funeraria dei Musei Vaticani, evocare in realtà l’introduzione nell’aldilà beato, promesso ai misti, come normale conseguenza del loro impegno[25].
b) La dexiosis mitraica
La dexiosis, segno di alleanza e di impegno. Mithra, il dio tauroctono, sconfigge le forze del male. Il Sole porta rinascita e salvezza. La dexiosis sta dunque a significare l’alleanza, l’impegno, il patto. Siamo nel contesto della fecondità. Il pasto sacro è segno dell’alleanza in vista della fecondità. La dexiosis nell’apoteosi di Mithra. Mithra sale e prende posto nel carro del Sole. È l’apoteosi, che prefigura l’accoglimento dell’iniziato. Con la dexiosis il Pater accoglie il nuovo iniziato, che stringe a sua volta la mano agli altri.
La dexiosis, unione di due mani destre che detengono la potenza ed esprimono la volontà, da un lato suggella l’impegno definitivo del miste con la divinità, creando con il dio e tra i misti un legame fraterno e indissolubile garantito dal giuramento, e dall’altro costituisce in fin dei conti un pegno certo di salvezza[26].
In sintesi, la dexiosis ha il valore di un giuramento con doppio impegno: dexiosis come impegno di tacere sul segreto della rivelazione e come impegno di fedeltà al contratto. È l’ingresso del miste nella milizia del dio Mithra, simbolo e garante del contratto. Il sacramentum, il giuramento, è di capitale importanza. Segno del giuramento e della fedeltà è il tatuaggio sacro, la sphragis, realizzato per mezzo di aghi acuminati. Una volta che il giuramento è prestato e l’impegno suggellato, il miste riceve la rivelazione. «Al miste il Pater dirà (i discorsi sacri)». Con questi riti si costituisce la comunità fraterna (syndexis, di quelli che si danno la mano) del mitreo, la comunità di coloro che sono salvati. Attorno alla dexiosis si svolgono così tre cerimonie liturgiche mitraiche.
In conclusione, Le Glay si domanda: «Si può constatare, nel passaggio dal rituale vedico al rituale dell’epoca imperiale romana, un arricchimento del significato e del valore della dexiosis?»[27]. E risponde:
È difficile da dire. Ciò che sembra certo è che in epoca romana la dexiosis finisce per essere molto più che il gesto del giuramento. E che con il suo triplice significato di gesto di introduzione, di alleanza e di fratellanza, avente sia valore di impegno, di patto concluso con la divinità da un lato e con i misti dall’altro, e di garanzia del segreto, condizione primaria e fondamentale della vita comunitaria fraterna, di cui ha significato la Inductio, essa si trova al cuore delle relazioni che governano principalmente la natura stessa e la vita delle religioni misteriche. E, a quanto sembra, del mitraismo in particolare, dato il posto senza eguali che essa occupa nei misteri di Mithra. Innanzitutto per le relazioni che crea con la divinità, relazioni di natura complessa (di sottomissione, di omaggio, di alleanza e di mutua fiducia), sicché in questo modo l’impegno e il patto culminano nell’unione mistica dell’apoteosi. In seguito, nei rapporti di carattere giuridico e morale di segreto e di fratellanza[28].
E infine Le Glay pone una questione molto pertinente:
Non starebbe forse in questo duplice soddisfacimento delle preoccupazioni e delle esigenze dei Romani, la cui formazione li portava a una attenzione particolare agli aspetti giuridici e le cui aspirazioni li orientavano al misticismo, una delle ragioni profonde del successo di cui godette in Occidente la religione di Mithra negli ambienti romani e romanizzati?[29]
4. Conclusioni
La nostra ricerca ci ha consentito, dunque, di mettere insieme una certa quantità di informazioni. Nel mondo ellenistico il dio Mithra non è sconosciuto. Le indicazioni di Plutarco su un culto mitraico di carattere iniziatico in Cilicia, nell’ambiente dei pirati, a partire dalle scoperte nella Commagene non risultano più massi erratici. Nella stessa epoca e in regioni molto vicine si parla egualmente di Mithra. Plutarco ci porta in Cilicia; le scoperte archeologiche ci portano nella Commagene. Sono scoperte importanti, poiché troviamo un culto di Mithra, culto pubblico, culto regale, con un sacerdozio e un rituale.
Questo culto pubblico ·e regale d’Asia minore fa riferimento a riti persiani, mazdei, a un sacerdozio che fa pensare ai Magi, dunque ai Medi, a divinità iraniche ma anche a divinità greche. L’ellenismo si manifesta, dunque, in modo netto. Mithra occupa un posto importante in questo culto regale, culto che, del resto, fa appello all’astrologia, che è presente ovunque, così come sarà presente nei misteri diffusi in Occidente. Esiste un luogo di culto, ma non sembra che si tratti di un mitreo, dal momento che i riti vengono celebrati all’aria aperta. n santuario si chiama hierothesion, un termine che sembra indicare piuttosto un culto regale di carattere funerario, un culto dei sovrani. La vasta documentazione iconografica ed epigrafica scoperta nella Commagene attirerà ancora, certamente, l’attenzione degli studiosi.
Accanto alle questioni legate al culto, alle corrispondenze geografiche e cronologiche, agli elementi del rituale, ci pare rilevante la questione della dexiosis mitraica. Troviamo la dexiosis nella liturgia mitraica e nell’iconografia dei misteri di Mithra: il Sole e Mithra che si danno la destra. Nella Commagene troviamo una dexiosis del tutto simile: il sovrano-dio dà la destra a Mithra, che è anche Helios.
Le scoperte della Commagene, il rituale e l’iconografia della dexiosis sembrano dare nuovo slancio a questo ambito degli studi mitraici. In una nota pubblicata alla fine del suo articolo, Le Glay segnala una serie di pubblicazioni recenti su questi aspetti, in particolare quelle di Gonda sul dio Mitra vedico e sul significato della mano destra nel rituale vedico. Egli affronta anche il problema della dexiosis nella Commagene, senza tuttavia prendere personalmente posizione.
Nelle scoperte della Commagene non abbiamo forse l’anello mancante che collega il dio Mitra dell’India, il dio Mithra iranico e il dio Mithra dei misteri dell’Impero romano? n fatto di porre la questione è forse già una risposta. Lo studio dei documenti della Commagene ci ha consentito di notare l’importanza dell’ellenizzazione del culto di Mithra. Nei documenti nella Commagene dell’India avevamo visto il dio sovrano Mìthra del mondo indoiranico. Un dio sovrano che ritroviamo in Iran, dove il suo culto si conforma all’evoluzione della religione iranica. Siamo in effetti in presenza di una iranizzazione del culto, nella quale assumono evidentemente un ruolo capitale i Magi e lo zervanismo. Forse non bisogna trascurare l’importanza dei Männerbünde, i gruppi guerrieri specificamente iranici. Nella Commagene ci troviamo di fronte a una terza tappa del culto di Mithra: la sua ellenizzazione.
In questa tappa il culto di Mìthra rimane un culto ufficiale. Diventa un culto regale, un culto dei sovrani. In questo culto troviamo tuttavia alcuni elementi religiosi, come la dexiosis, che saranno importanti nella quarta e ultima tappa del culto di Mithra: i misteri mitraici o la romanizzazione di Mithra.
***
Note:
* Le cult de Mithra en Commagène, in J. RIES, Le culte de Mithra en Orient et en Occident, coll. « Information et Enseignement » 10, Centre d’Histoire des Religions, Louvain-la-Neuve 1979, pp. 115-126.
[2] F.K. DÖRNER, Mithras in Kommagene, in J. DUCHESNE-GUILLEMIN (éd.), Études mithriaques. Actes du 2me Congrès international, Téhéran, du 1er au 8 septembre 1975, «Acta Iranica» 17, Édition Bibliothèque Pahlavi, Téhéran-Liège 1978, pp. 123-134; J. DUCHESNE-GUILLEMIN, Iran and Greece in Commagene, in J. DUCHESNE-GUILLEMIN (éd.), Études mithriaques…, cit., pp. 187-200.
[3] Cfr. H. WALDMANN, Die kommagenischen Kultreformen…, cit., e F. DÖRNER, Arsameia am Nymphaios. Die Ausgrabungen im Hierothesion des Mithradates Kallinikos, von 1953-1956, coll. «lstanbuler Forschungen» 23, Verlag Gebr. Mann, Berlin 1963.
[4] R. TURCAN, Mithra et le mithriacisme, PUF, Paris 1968, pp. 106-107.
[5] F. CUMONT, Les mystères de Mithra, Lamertin, Bruxelles 1899, 19133, pp. 35-36
[6] E. WILL, Origine et nature du mithriacisme, in J. DUCHESNE-GUILLEMIN (éd.), Études mithriaques…, cit., pp. 527-536.
[18] Cfr. H. WALDMANN, Die kommagenischen Kultreformen…, cit., tav. VIII, stele di Selik; tav. XXI, terrazza di Nemrut Dağı, la dexiosis re-Eracle; tav. XXII, la dexiosis re-Zeus e re-Mithra; tav. XXXI, Mitridate-Eracle.
FR.K. DÖRNER, Arsameia am Flusse Nymphaios. Eine neue kommagenische Kultstätte, «Bibliotheca Orientalis», 9, 1952, pp. 93ss.
H. DÖRRIE, Der Königskult des Antiochos von Kommagene im Lichte neuer Inschriften-Funde, Vandenhoeck &. Ruprecht, Göttingen 1964.
R. MERKELBACH, Der kommagenische Königskult, in ID., Mithras, Hain, Königstein/ Ts. 1984, pp. 50-73 [tr. it. Mitra, coll. «Nuova Atlantide», ECIG, Genova 19982]. Cfr. anche Bildteil, pp. 261-395. Vasta documentazione mitraica commentata dall’autore.
TH. REINACH, La dynastie de Commagène, «Revue des études grecques», 3, 1890, pp. 362-380.
B. YAMAN, Nemrut Dagi, Commagena, Minyatür, lstanbul s.d. (edizione francese). Bella documentazione a colori. 126 pp.
di F. FERRARI, La porta dei canti. Storia e antologia della lirica greca, Bologna 2000, pp. 318-320; cfr. ID. et al., Bibliothèke. Storia della letteratura, antologia e autori della lingua greca. Per il Liceo classico. Con espansione online – vol.1. Ionia ed età arcaica, Bologna 2012, pp. 725-726.
Del celeberrimo carme, imitato anche dal giovane Leopardi nella Canzone all’Italia, tutto si discute: dall’autenticità all’occasione, dal genere poetico all’ideologia. Difficilmente esso sarà stato cantato sul luogo del glorioso evento: lo esclude lo stesso ἐν Θερμοπύλαις iniziale in luogo di un ἐνθάδε, «qui», o simili. Ma neppure trova serio appoggio nel testo la fortunata ipotesi di Wilamowitz (1913, 140 n. 3), che, facendo pausa dopo ἀνδρῶν ἀγαθῶν (v. 6), anziché dopo χρόνος in fine di v. 5 (così da connettere il genitivo ἀνδρῶν a ἐντάφιον del v. 4), interpretava il brano come parte di un lamento funebre (θρῆνος) dedicato ad altri morti, nel quale pertanto il valore dei caduti alle Termopili, e in particolare di Leonida, sarebbe stato introdotto come motivo consolatorio. Più coerente con l’articolazione sintattica del brano sembra piuttosto l’ipotesi di C.M. Bowra (CPh 28, 1933, 277-281), che lo riferiva ai morti delle Termopili, celebrati tuttavia presso un recinto sacro situato altrove, verisimilmente a Sparta, in occasione di pubbliche onoranze commemorative. Entro tale contesto di esecuzione ben si comprenderebbe l’accento posto sul ricordo (μνᾶστις) e sul carattere di «encomio» anziché di «cordoglio funebre» (γόος) assunto dalla celebrazione. E l’insistenza sulla sacralità dei caduti (la tomba assume funzione di altare; la gloria dell’Ellade attende al culto del loro recinto) sembra sottintendere un processo di eroizzazione, altrimenti ben attestato in relazione ai caduti delle guerre persiane.
Non poco ha sconcertato anche lo stile, in cui sono state ravvisate anticipazioni della retorica sofistica: non altro anzi che «una esercitazione retorica (lo stile “gorgiano” vi trionfa goffamente)» sarebbe il brano per B. Marzullo; ma pur se sconcertano varie singolarità, la studiata serie di antitesi ai vv. 2 s., piuttosto che presupporre le isocolie e i paradossi gorgiani, sembra rispecchiare la predilezione della poesia arcaica per cola nominali paratatticamente allineati. E quanto alla dimensione effettivamente stereotipa assunta dall’ἀρετή nell’elogio di Leonida, di per sé sorprendente in un poeta teso altrove alla conquista di un’etica relativistica basata proprio sulla ridefinizione del concetto di ἀρετή (cfr. frr. 522; 541; 542; 579 PMG), anche tale tratto andrà correlato alla specifica occasione e alle istanze dei committenti.
Con tutto ciò, sembra difficile negare che la fama del carme è largamente sproporzionata ai suoi pregi: il disegno nitido e fermo delle opposizioni iniziali si stempera nell’enfasi di maniera del susseguente elogio.
vv. 1-3: Τῶν ἐν Θερμοπύλαις θανόντων… ἔπαινος: «Dei morti alle Termopili gloriosa (è) quella sorte (ἁ τύχα = ἡ τύχη), bello (καλός, sulla linea di Tirteo 10, 1) quel destino e altare quella tomba e piuttosto che lamenti (vi è) ricordo (μνᾶστις = μνῆστις) e il compianto (si è fatto) elogio». – Θερμοπύλαις: le Termopili, il passo tra il monte Callidromo e il golfo Maliaco, attraverso il quale si entrava nella Grecia centrale. – πότμος: il «destino di morte», come talora in Omero, cfr. ad es. Iliade XVI 857 = XXII 363, Odissea XIV 274. – βωμὸς δ’ ὁ τάφος: Leopardi, nella canzone All’Italia riprende l’espressione parafrasando: «la vostra tomba è un’ara». La tomba sarà venerata come un altare in seguito alla eroizzazione dei morti: cfr. Eschilo, Coefore 106 αἰδουμένη σοι βωμὸν ὣς τύμβον πατρός [sono parole del coro delle vergini portatrici di libagioni] «onorando come un altare la tomba di tuo padre». – πρὸ γόων: è correzione di Eichstädt [1797] per il tràdito προγόνων; in questo caso πρό indica preferenza. – ὁ δ᾽ οἶκτος ἔπαινος: «il compianto (è) un elogio»; il concetto diventerà un topos dei λόγοι ἐπιτάφιοι: cfr. Platone, Menesseno 246a-248d, Iperide, Epitafio 42 οὐ γὰρ θρήνων ἄξια πεπόνθασι, ἀλλ᾽ ἐπαίνων μεγάλων πεποιήκασι «infatti non hanno subito una sorte degna di lamenti, quanto piuttosto hanno compiuto imprese degne di grandi elogi».
vv. 4-5: ἐντάφιον δέ … χρόνος: «Infatti, (δέ, con funzione esplicativa) tale sudario (ἐντάφιον, agg. neutro sostantivato) né la muffa né il tempo che tutto doma (lo) oscureranno». – τοιοῦτον: cioè intessuto di gloria, ricordo, elogio. – εὐρώς: l’uso metaforico, come segno di disfacimento e usura, anche in Teognide 452 s. «né mai si attacca alla mia pelle scuro verderame né muffa (εὐρώς), ma serba inalterata la purezza del suo fiore». – πανδαμάτωρ: epiteto omerico del sonno, cfr. Iliade XXIV 5 e Odissea IX 373: qualifica il tempo anche in Bacchilide 13, 205 s. ὅ τε πανδαμάτωρ χρόνος.
vv. 6-9: ἀνδρῶν ἀγαθῶν … ἀέναόν τε κλέος: «Questo recinto sacro di uomini valorosi ha scelto come custode (οἰκέταν [= -την], propr. lo schiavo addetto alla cura della casa) la gloria dell’Ellade, e ne è testimone anche Leonida, re di Sparta, che ha lasciato grande fregio di virtù e fama perenne». – ὅδε σηκός: l’ὅδε deittico segnala la concreta presenza del σηκός nel momento dell’esecuzione: si deve trattare di un santuario edificato non alle Termopili, ma altrove; Pausania III 14, 1 ricorda un tempietto spartano dedicato a Leonida. – μαρτυρεῖ δὲ καὶ Λεωνίδας: «che cosa testimoni Leonida in particolare – osserva Marzullo – non sapremmo dire: il richiamo, con ogni sua articolazione, appare generico e convenzionale»: forse l’accento batte sul contrasto Ellade/Sparta, nel senso che il valore di Leonida si pone come vanto non solo di Sparta ma di tutta la Grecia.
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