Il diritto di famiglia in età repubblicana: la 𝘱𝘢𝘵𝘳𝘪𝘢 𝘱𝘰𝘵𝘦𝘴𝘵𝘢𝘴 e l’istituto dell’adozione

In due passi dell’Heautontimorumenos – il dialogo tra Menedemo e Cremete a proposito del modello educativo adatto a crescere i figli (vv. 53-168) e le esternazioni di Clitifonte contro l’eccessiva severità dei padri (vv. 213-229) – ricorre un tema centrale in tutta l’opera di Terenzio: il contrasto generazionale tra genitori troppo severi e autoritari, da una parte, e figli che vorrebbero invece godere di un maggior grado di libertà e di autodeterminazione, dall’altra. Pur ambientando i propri drammi nel mondo greco, Terenzio si richiama, in scene di questo tipo, al diritto familiare vigente nella Roma del suo tempo. E per meglio comprendere le dinamiche descritte dal poeta, occorre perciò capire quanto fosse ampia l’autorità del capofamiglia romano nei confronti non solo dei propri figli, ma anche di tutti gli altri membri della familia.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868, P. Terenti Afri Comoediae VI (sec. IX), f. 46v. Dialogo fra Menedèmo e Cremete.

La familia, che insieme alla gens costituiva, fin dai tempi più remoti, uno dei pilastri su cui si fondava l’organizzazione sociale di Roma antica, era il nucleo più piccolo, che comprendeva tutti coloro che erano soggetti all’autorità del maschio più anziano (il pater familias), vale a dire la moglie, i figli, i nipoti, le nuore, i beni materiali (terre, animali, case, ecc.) e i servi, che, almeno nei primi secoli dell’Urbe, erano ancora poco numerosi. Lo status familiae era infatti la condizione giuridica propria dei membri di una medesima unità familiare (familia proprio iure) costituita intorno al suo capo.

 Mentre le gentes esprimevano complessivamente l’originaria classe dirigente, le familiae costituivano la base della società stessa. Il termine latino familia derivava probabilmente dall’osco faama, che indicava in un primo tempo l’insieme di tutti i servi o famuli, che costituivano il patrimonio; in seguito, però, il significato della parola si condensò come definizione di gruppo familiare, ovvero l’insieme di tutte le persone residenti nella domus. Ecco allora la presenza di differenze ben marcate tra l’organizzazione familiare in tutte le sue forme e la gens: la familia aveva un capostipite reale, mentre quello dei gentiles era spesso mitico-divino; la parentela familiare, a differenza di quella gentilizia, era stabilita per gradi; il carattere della familia era essenzialmente potestativo, mentre quello della gens era comunitario e solidaristico. Siccome, poi, la familia era considerata un istituto sacro, di essa facevano parte anche i Lares, cioè i numi tutelari della casa, e i Penates, demoni protettori della dispensa e di tutti i membri del gruppo; i riti religiosi erano gestiti e officiati dal pater e riguardavano unicamente gli antenati, mentre il culto gentilizio celebrava non solo gli avi comuni, ma anche le divinità. Quanto al sistema onomastico, il nomen gentilicium preceduto da un praenomen identificava l’appartenenza dell’individuo a una gens, mentre una familia era ben distinta dalle altre dal cognomen portato ed ereditato dai suoi membri.

Lari e scena di sacrificio (dettaglio). Affresco, ante 79 d.C. da un lararium, Pompei (VII.6.38). Napoli, Museo Archeologico Nazionale

Insomma, la familia romana era un’organizzazione di natura patriarcale e verticistica, fondata sul dominio della componente maschile e sull’autorità del capofamiglia, che deteneva nei confronti dei suoi sottoposti una serie di poteri pari a quella di un re. In buona sostanza, solo il pater familias poteva dirsi pienamente un civis Romanus optimo iure, dal momento che non era sottoposto giuridicamente ad alcun altro cittadino libero. In altre parole, il pater era sui iuris (“di proprio diritto”), mentre alieni iuris (“di diritto altrui”) erano i suoi subordinati. Il giurista di epoca severiana (II-III secolo d.C.) Ulpiano riassumeva questa condizione nel modo seguente: Familiam proprio iure dicimus plures personas quae sunt sub unius potestate aut natura («Definiamo “famiglia di diritto proprio” quelle persone che sono soggette per potere o natura a un individuo solo», D. L 16, 195, 2).

L’estensione del potere paterno sui discendenti (maschi e femmine, naturali o adottati) era originariamente illimitata ed è probabile che tale intensità, unitamente a determinate caratteristiche peculiari della familia di età arcaica, dipendesse dalla primordiale inesistenza di un potere statuale: il gruppo familiare, agli albori dell’Urbe, avrebbe tenuto le veci di un potere più ampio, costituendo una struttura di carattere sovrano caratterizzata da una rigida disciplina nei riguardi dei sottoposti al capo.

Una madre che allatta il figlio alla presenza del padre (dettaglio). Rilievo, marmo, 150 d.C. dal sarcofago di M. Cornelio Stazio. Paris, Musée du Louvre.

Il potere del padre sui figli era definito patria potestas e costituiva un potere che, per forza e contenuto, era proprio ed esclusivo del popolo romano, come attesta il giurista Gaio: Fere enim nulli alii sunt homines qui talem in filios suos habent potestatem qualem nos habemus («Non esiste infatti quasi nessun popolo che conceda una potestas sui figli quale è la nostra», Gai. Inst. I 55). La portata di tale autorità cominciava a manifestarsi sin dal momento in cui il filius familias veniva alla luce. Il primo potere che il pater poteva esercitare sul neonato era quello di decidere autonomamente e insindacabilmente se accettarlo come figlio o rifiutarlo ed esporlo (ius exponendi), vale a dire abbandonarlo al proprio destino. Questo potere veniva sancito da un rituale: quando la donna che aveva assistito al parto (parente, serva o levatrice professionista) aveva terminato di lavare il bambino, doveva mostrarlo al capofamiglia e deporlo a terra ai suoi piedi; il padre poteva accettare o rifiutare il neonato, sollevandolo tra le proprie braccia oppure lasciandolo dov’era stato deposto (tollere o suscipere liberos), senza dare spiegazioni a nessuno.

Nel primo caso, il gesto del capofamiglia equivaleva a un tacito riconoscimento del natus come proprio figlio e l’assunzione di ogni responsabilità sulla creatura: la levatrice doveva, quindi, innalzare immediatamente una preghiera alla dea Levana, il nume che presiedeva all’atto di sollevare il bambino e che sanzionava la sua aggregazione nel gruppo familiare. Decorso un periodo di otto giorni per le femmine e di nove per i maschi, nella casa si celebrava il dies lustricus, nel quale il neonato veniva liberato da tutte le impurità derivate dalla gestazione e dal parto e in quel giorno il pater familias conferiva al figlio il praenomen. Quando si trattava di una bambina, la cerimonia era diversa: se il pater intendeva accoglierla come filia, ordinava semplicemente che fosse allattata (alerei ubere).

Un padre che solleva il figlioletto in braccio (dettaglio). Rilievo, marmo, 150 d.C. dal sarcofago di M. Cornelio Stazio. Paris, Musée du Louvre

Nel secondo caso, invece, con una sconcertante e crudele procedura, i piccoli rifiutati venivano esposti in un luogo pubblico, dove morivano di fame e di freddo, quando non erano divorati da animali randagi, a meno che un passante, mosso da tenerezza e compassione, li raccogliesse e riuscisse a salvarli in tempo (Dion. II 152).

Questa sorta di infanticidio legalizzato aveva forse anche la funzione di controllo delle nascite, al fine di ridurre il numero dei possibili destinatari del patrimonio familiare, o forse aveva anche l’obiettivo di estromettere dal novero dei beneficiari in particolare le figlie femmine. Questa pratica non fu sostanzialmente combattuta a livello di regolamentazione giuridica e, del resto, spesso si trattava di abbandono di figli naturali, di frequente operato dalle madri stesse. L’infante esposto, se sano, era solitamente accolto in un altro contesto familiare, dove veniva allevato o come servus, entrando a pieno titolo nel patrimonium del nuovo gruppo, oppure come un cittadino libero, rimanendo formalmente soggetto alla patria potestas del genitore che lo aveva abbandonato (Dig. XL 4, 29).

Sui figli accolti nella familia il padre esercitava un potere così esteso che è difficile enumerarne tutti gli aspetti, ma a riprova del carattere totalizzante della sua potestas erano ben note e riconosciute alcune facoltà significative. Spettava al pater di scegliere il coniuge ai propri discendenti. Indipendentemente dalla loro età, egli esercitava su di loro un potere disciplinare fortissimo, al punto da metterli a morte cum iusta causa. Questa facoltà, riconosciuta come ius vitae ac necis o vitae necisque potestas, era impugnata di regola sui figli maschi, qualora si fossero resi colpevoli di crimini contro la civitas, più in particolare se avessero commesso proditio o perduellio, vale a dire se avessero attentato alle istituzioni (Dion. II 26, 4; Pap. IV 8, 1 = FIRA II 555). Benché questi reati fossero considerati veri e propri crimina, di pertinenza della res publica, quando erano stati commessi da un filius familias, la civitas si ritraeva di fronte al potere paterno. Sulle figlie femmine, invece, lo ius vitae ac necis si esercitava, di norma, nel caso in cui le ragazze avessero perduto la propria pudicitia, ovvero qualora si fossero macchiate di stuprum, un comportamento illecito che nulla aveva a che fare con il reato oggi così definito: stuprum, infatti, a Roma, era qualunque rapporto sessuale intrattenuto da una donna onesta (cioè di condizione libera) al di fuori del matrimonio o del concubinato.

Ragazza che gioca agli astragali. Marmo, 130-150 d.C., Berlin, Antikenmuseum.

Come per l’esposizione, al capofamiglia era riconosciuta piena facoltà di azione nel caso in cui si fosse trovato nella necessità di allontanare, in forme sempre ritualizzate, i membri più deboli del gruppo, quelli che si intendessero “cedere” a un altro gruppo, o quelli che, in qualche modo, si fossero resi invisi al gruppo di provenienza. Un ulteriore potere che il pater familias poteva esercitare sui suoi sottoposti era infatti il diritto di cederli a terzi (ius vendendi), probabilmente per ragioni economiche, ma anche per trasferire un membro del proprio gruppo a un altro di pari rango, talvolta per cementare alleanze politiche tra le familiae, in una situazione formalmente diversa dalla servitù, ma nei fatti identica a questa (causa mancipi). In epoca più arcaica, a quanto sembra, questa facoltà doveva essere esercitata più volte: la patria potestas era così forte che la vendita del figlio non era sufficiente a estinguerlo. Se dopo essere stato ceduto il figlio veniva affrancato dall’acquirente o per qualunque altra ragione usciva dalla sua potestas (per esempio, se il compratore moriva senza eredi), il pater che lo aveva venduto riacquistava la pienezza dei propri poteri sul figlio. Ma le leggi delle XII Tavole stabilirono che si pater filium ter uenum duuit, filius a patre liber esto («Se un padre avrà venduto il figlio per tre volte, il figlio sia sciolto dalla patria potestà», XII Tav. IV 2b). In altre parole, se un padre vendeva un figlio per tre volte, dopo la terza cessione il figlio usciva dalla patria potestas. Nel corso dell’età repubblicana questa norma fu impugnata per creare all’interno dei gruppi familiari nuove possibilità, soprattutto in seno alla nobilitas, per garantire una maggiore autonomia ai maschi adulti. I patres, insomma, realizzavano così tre finte vendite (mancipationes) del filius a un amico compiacente, per ottenere l’uscita del sottoposto dalla propria potestà e renderlo, a sua volta, un pater a tutti gli effetti (Gai. Inst. I 132): il relativo negozio giuridico (emancipatio) consentiva ai giovani di belle speranze e ai più intraprendenti la possibilità di avviare in proprio le loro iniziative economico-sociali, senza doverne poi rendere conto al proprio pater. Questa progressiva emancipazione dei filii in potestate sembra derivare dalla crescente mobilità sociale avutasi fra IV e II secolo a.C., durante l’epoca delle conquiste, dalla creazione di nuove colonie e dalle conseguenti necessità economiche a cui divenne indispensabile ovviare.

Giovane nobile con l’himation. Statua, bronzo, età augustea, da Rodi. New York, Metropolitan Museum of Art.

In altre circostanze, il pater poteva affidare un figlio a un altro capofamiglia (noxae deditio), qualora il sottoposto avesse commesso un illecito lesivo delle sostanze o della persona di quest’ultimo: in questo modo spettava all’offeso o ai suoi familiari comminare la punizione al colpevole, mentre il pater si esimeva da ogni responsabilità (Gai. Inst. IV 75-76; FIRA II 224; Dig. IX 4).

Ai sottoposti al pater familias, discendenti naturali o acquisiti, ma anche alla donna sulla quale il marito esercitasse quel particolare potere che nelle fonti è chiamato manus, il diritto romano riconosceva determinate facoltà: i maschi in potestate e alieni iuris potevano accedere sia a rapporti di diritto privato sia a quelli di diritto pubblico; mentre le donne alieni iuris e quelle nella manus dello sposo o del suocero potevano negoziare rapporti giuridici di natura esclusivamente privata. In ogni caso, al di là dell’età e del sesso, il referente ultimo delle loro azioni rimaneva il pater familias.

Il piccolo Gaio Cesare si aggrappa alla tunica del padre Agrippa (dettaglio). Rilievo, marmo, 9 a.C. dal fregio della processione (lato sud). Roma, Museo dell’Ara Pacis.

Bisogna, inoltre, ricordare che la famiglia rappresentava non solo un insieme di persone, ma anche il complesso dei beni che facevano capo al pater, il “signore assoluto” della domus.La sottoposizione alla patria potestas infatti comportava per i soggetti anche la dipendenza economica al padre, unico titolare e amministratore del patrimonio: era lui che stabiliva l’impiego della ricchezza e assegnava ai filii i beni di cui potevano disporre (peculium). D’altronde, la parentela civile (adgnatio) era in linea maschile e produceva effetti giuridici ai fini della successione intestata, della tutela, della curatela e persino della vendetta. L’insieme degli adgnati, dopo la morte del comune pater familias, costituiva la familia communi iure. Poteva accadere, però, che i coeredi, dopo la scomparsa del capofamiglia, continuassero a conservare indiviso il patrimonio ereditato, pur risultandone ognuno titolare in solidum: questa forma di comunione (consortium ercto non cito), sorta per ragioni di natura economico-politica, perché garantiva la possibilità ai discendenti di rimanere nella classe censitaria (census) del defunto, si sarebbe estinta sul finire del periodo repubblicano.

Secondo Ulpiano, alla familia iure proprio si apparteneva proprio perché sottoposti alla patria potestas natura aut iure, vale a dire o per “diritto naturale” oppure grazie a un atto previsto a questo scopo dal diritto. Nel primo caso (patria potestas natura), il capofamiglia acquisiva la potestà sui nuovi nati ex iustis nuptiis (“da nozze legittime”), e cioè sui figli nati dal proprio matrimonio e quelli nati dai matrimoni dei propri discendenti (ovviamente maschi); nel secondo caso, invece, (patria potestas iure), un atto rituale, sacrale e giuridico, consentiva al pater di crearsi artificialmente una figliazione, secondo una forma legalmente riconosciuta di adozione. L’adozione era “il titolo giuridico” grazie al quale un individuo estraneo entrava a far parte della familia. Secondo le fonti di II-III secolo d.C., l’adoptio comprendeva l’adrogatio e l’adozione in senso stretto.

Ragazzino avvolto nel suo mantello. Bronzetto, I secolo. Parigi, Musée du Louvre.

L’adrogatio era la forma più antica di questo negozio giuridico, si compiva solo fra persone sui iuris e consisteva in una solenne interrogazione (donde il nome, da adrogare, “richiedere”) con cui il pater familias adottante (adrogans) chiedeva a colui che doveva essere adottato (adrogatus) se accettava di entrare nel proprio gruppo familiare. Il rito si celebrava dinanzi ai comitia curiata convocati e presieduti dal pontifex maximus, cui spettava anche il compito di controllare preventivamente l’opportunità dell’atto. La necessità di questo solenne controllo, al tempo stesso politico e religioso, era dovuta al fatto che colui che veniva adottato – essendo, a sua volta, un pater familias – sottoponendosi all’adottante perdeva per sempre la posizione sui iuris ed era ammesso nel nuovo nucleo familiare come filius, portando con sé i propri sottoposti e tutto il patrimonio. Questo cambiamento di status comportava l’estinzione di una familia con i suoi sacra e, perciò, si rendeva necessario il compimento di un rituale solenne di rinuncia al culto avito (detestatio sacrorum), volta a placare i numi che da quel momento non avrebbero più goduto dei dovuti onori e sacrifici. Compiute tutte le cerimonie, il pontifex sanciva il legittimo sorgere di una nuova filiazione, estinguendo il gruppo familiare dell’adrogatus.

L’adoptio in senso stretto, tramite la quale si davano in adozione solo persone alieni iuris, con il passaggio in potestate di un filius familias da un gruppo all’altro, fu introdotta solo in età post-decemvirale, cioè dopo la redazione delle leggi delle XII Tavole. In origine, infatti, il diritto non ammetteva che la patria potestas fosse trasferita da un pater a un altro. L’istituto dell’adoptio, in pratica, fu introdotto grazie all’interpretazione giurisprudenziale, prendendo le mosse dalla riflessione sulla disposizione, secondo la quale il padre che avesse venuto un figlio per tre volte dopo la terza cessione doveva perdere la propria potestà; era, insomma, legato al negozio dell’emancipazione, in quanto occorreva estinguere la patria potestas del padre che voleva far adottare il figlio. La procedura avveniva dinanzi al praetor, dove l’adottante rivendicava l’adottando, che doveva essere presente, come suo figlio, mentre l’ex padre taceva ritirandosi. A questo punto, il magistrato, riconoscendo la validità dell’atto, pronunziava l’addictio, dichiarando l’avvenuta adozione: l’adottato perdeva immediatamente ogni contatto di agnazione e di gentilità con la familia di provenienza per entrare a pieno titolo in quella dell’adottante. Questa formula giuridica, creando un vincolo di discendenza fittizia, equiparava sotto ogni aspetto gli adottati agli eredi naturali dell’adottante; da qui si deduce come questo istituto servisse, sin dalla sua comparsa, a procurare dei discendenti a qualsiasi cittadino romano che non avesse eredi naturali, così da garantirgli la continuità del nome, dei sacra e del patrimonio.

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Bibliografia:

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L. Capogrossi Colognesi, s.v. patria potestas (diritto romano), in EncDir 32 (1982), 242-249.

― , La famiglia romana, la sua storia e la sua storiografia, MEFRA 122 (2010), 147-174.

C. Fayer, La famiglia romana. Aspetti giuridici e antiquari, Parte prima, Roma 1994.

G. Franciosi, Famiglia e persone in Roma antica. Dall’età arcaica al Principato, Torino 1995³.

P. Voci, Studi di diritto romano, II, Padova 1985.

𝐴𝑑𝑒𝑙𝑝ℎ𝑜𝑒: il dramma pedagogico per antonomasia

di L. Cᴀɴꜰᴏʀᴀ, 𝐿’𝑒𝑑𝑢𝑐𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒, in 𝑆𝑡𝑜𝑟𝑖𝑎 𝑑𝑖 𝑅𝑜𝑚𝑎, IV, Torino 1989, 744-746.

 

La commedia che Terenzio fece rappresentare ai ludi funebres in onore di Lucio Emilio Paolo (160 a.C.), “I fratelli” (Adelphoe), tradotta dall’omonima commedia di Menandro, è il dramma pedagogico per antonomasia. Terenzio aveva voluto – com’è noto – un po’ virtuosisticamente innestare, nel tessuto della commedia menandrea presa a base, una scena – quella del ratto della giovane etèra – tratta da una commedia di Difilo. […] A parte la movimentata scena di ratto dell’etèra dalla casa del lenone, resta complessivamente intatta l’ispirazione menandrea di questa serissima commedia. Sin dall’iniziale scontro tra i due anziani fratelli, portatori appunto di due idee pedagogiche antitetiche, si coglie un clima che è quello dell’Atene di Menandro. Demea – il fratello che ha scelto di «vivere in campagna nel continuo risparmio e senza nulla concedersi», e sottopone il figlio a un sistema di vita austero e ritirato – ha non pochi tratti in comune con il protagonista del Dyskolos menandreo: un altro piccolo proprietario che ha scelto anche lui il ritiro nel podere del suo demo e considera la città come sinonimo di perdizione, e vive vessando i figli. Al polo opposto Micione, che non ha figli ma alleva secondo i propri criteri di tolleranza e indulgente apertura l’altro figlio di Demea, a lui affidato, rappresenta l’umanità aperta e tollerante che Menandro vagheggia.

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868 (IX sec.), Adelphoe di P. Terenzio Afro, f. 53r. Eschino rapisce l’etèra.

In che misura questa tensione interna al mondo ateniese ha attinenza anche con la realtà romana, nella quale la traduzione menandrea traspone la vicenda? Certamente ne ha, in quanto anche il mondo romano del tempo della vecchiezza di Catone e della fervida giovinezza di Terenzio è ormai attraversato da un’analoga tensione: l’invasione di commedia attica tradotta ne è un indizio, oltre che un fattore. I signori per i quali – e con l’aiuto dei quali – Terenzio scrive non educano più i loro figlio alla maniera del vecchio Catone e del vecchio Demea. E non sarà casuale che la rappresentazione degli Adelphoe si sia svolta nel contesto delle celebrazioni postume di Emilio Paolo, il consuocero (e quanto da lui diverso) di Marco Porcio Catone. Emilio Paolo, infatti, era colui che, secondo l’attenta descrizione di Plutarco, più di ogni altro romano del suo tempo era stato capace di fondere elementi di tradizionalismo pedagogico cittadino con la maggiore apertura all’educazione greca. […] Naturalmente non ha senso commettere l’errore di prospettiva di considerare il dibattito con cui si aprono gli Adelphoe terenziani, tra Micione e Demea, come la rappresentazione di uno scontro di orientamenti sorto all’interno del mondo romano. Il testo è ricalcato sul testo menandreo. Nondimeno nel lungo monologo di Micione, con cui il dramma si apre, si possono isolare un paio di espressioni che rinviano alla concezione romana della patria potestas: là dove Micione ripensa al proprio comportamento tollerante nei confronti del figlio adottivo e osserva che tutto gli concede, perché il figlio lo abbia caro, e soggiunge: «Gli faccio regali, chiudo un occhio, non credo necessario agire sempre secondo i miei diritti», e poco dopo, nel contrapporre, nonostante tutto, il proprio metodo a quello autoritario e repressivo del fratello, conclude: «Ecco la differenza fra padre e padrone». Espressioni entrambe esplicitamente critiche rispetto all’equiparazione della potestas verso i figli e verso i servi, così autorevolmente sancita dai giuristi: il riferimento alla realtà giuridica romana non potrebbe essere più chiaro. Nelle parole di Micione che contrappongono la vita urbana da lui prediletta e praticata («Io ho preferito questa vita in città, fatta di indulgenza e di tempo libero per coltivare lo spirito») e il modello di vita rustica del fratello Demea («Lui è tutto il contrario, vive in campagna, tira avanti sempre tra le economie e gli stenti»), si è ravvisata una polarità che ricompare anche in altri autori latini. Quanto questa contrapposizione sia pensata da Terenzio in relazione alle tensioni ormai presenti nella società romana, e quanto invece rispecchi una polarità propria del testo menandreo, non è facile da dire.

P. Terenzio Afro

di G.B. CONTE, in Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 2011, pp. 76-84 = ID., E. PIANEZZOLA, Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, pp. 145-157.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868, P. Terenti Afri Comoediae VI (sec. IX), f. 2r. Il ritratto di Terenzio sul frontespizio.

  1. Un commediografo moderno, per un nuovo contesto culturale

 

Terenzio è stato, insieme a Plauto, il commediografo più significativo della letteratura latina. Se è vero che, all’epoca, le commedie del Sarsinate riscossero un consenso di pubblico ben più ampio, va tenuto presente che il teatro terenziano fu espressione degli ideali coltivati dalle nuove élite intellettuali di Roma e che proprio Terenzio, molto più di Plauto, è indispensabile per comprendere la letteratura latina del II secolo a.C. e i suoi sviluppi successivi.

Le pur controverse notizie biografiche antiche, infatti, inseriscono Terenzio al centro di quella che gli storici moderni usano chiamare l’«età degli Scipioni». Il suo debutto teatrale si colloca due anni dopo la battaglia di Pidna (168 a.C.), che segnò la definitiva vittoria sui Macedoni e che costituì un momento cruciale nell’affermazione di Roma in Oriente e nell’evoluzione dei suoi rapporti con la cultura ellenistica. Di qui in avanti, per circa vent’anni, si ebbe un lungo periodo di pace, in cui l’Urbe consolidò la propria posizione di potenza imperiale.

Ricostruzione a disegno della colonna, con fregio e statua, eretta a Delfi nel 167 a.C. da L. Emilio Paolo a seguito della sua vittoria su Perseo di Macedonia a Pidna. Copertina di H. Kähler, 1965.

La data di Pidna, il 168, è uno spartiacque anche da un secondo punto di vista: il trionfo di Lucio Emilio Paolo, che trascinava dietro al suo carro i tesori della corte macedone, fu quasi un simbolo dell’appropriazione di un mondo. In seguito alla vittoria furono deportati a Roma mille ostaggi achei, tra cui intellettuali, come lo storico Polibio: l’uomo che nella sua opera, per la prima volta da parte greca, svilupperà un matura riflessione sulle cause del successo di Roma come potenza egemone. L’appropriazione del mondo greco si sviluppò, dunque, su più livelli distinti: modificazioni nel gusto e nella mentalità, crescita dei consumi di lusso e dei consumi d’arte, interessi per nuovi modelli etici e ideologici (quest’ultimo aspetto prese forza attraverso nuovi modi di relazioni culturali). Un grande clan aristocratico romano, la gens Cornelia Scipiones, diventò un centro di elaborazione di cultura grecizzante, non più passivamente importata o mediata a un livello popolare, ma ricondotta alla più alta dignità teorica. In questo senso fu significativa la presenza presso gli Scipioni del grande filosofo stoico Panezio di Rodi, come dello stesso Polibio; mentre andava diffondendosi, con l’insegnamento di Cratete di Mallo (attivo nell’Urbe dal 168), un nuovo tipo di eloquenza e di dottrina retorica.

Il nuovo indirizzo culturale e ideologico, che trovava il suo centro di propagazione nel circolo degli Scipioni, portò proprio con Terenzio a innovazioni importanti anche nella poesia scenica.

  1. Una biografia incerta e romanzata

Della biografia di Terenzio poco può essere stabilito con certezza. Originario di Cartagine, come attesta anche il suo cognomen (Afer, «Africano»), il poeta sarebbe nato intorno al 185/4 a.C.; tuttavia, il fatto che quest’ultimo sia attestato come l’anno della scomparsa di Plauto rende la notizia sospetta – era usuale nelle biografie antiche sincronizzare le date di nascita e di morte di autori che venivano, in qualche modo, a “succedersi” nell’eccellenza in un determinato genere letterario), e oggi appare più probabile una data di circa dieci anni anteriore. Anche l’aneddoto secondo cui Terenzio avrebbe letto il suo primo lavoro – l’Andria – al grande commediografo Cecilio Stazio, ricevendone incoraggiamento, potrebbe essere costruito apposta per collegare due diverse generazioni letterarie. In ogni caso, a pochi anni dalla conclusione della Seconda guerra punica, il poeta sarebbe giunto a Roma come schiavo di un certo senatore Terenzio Lucano, anche se non è chiaro in quale precisa occasione.

Tutte le fonti antiche sottolineano gli stretti rapporti di Terenzio con Scipione Emiliano e Lelio, che furono sicuramente suoi protettori. E il poeta stesso, in alcune commedie, accenna al sostegno ricevuto da illustri amici (Heautontimorùmenos, v. 23 ss.; Adelphoe, v. 15 ss.). Su questi rapporti correvano all’epoca voci denigratorie di vario tipo, secondo cui i veri autori delle opere terenziane sarebbero stati gli stessi Scipione e Lelio (questo tipo di illazione ha paralleli, com’è noto, anche nella biografia di Shakespeare). È chiaro che queste dicerie vadano inquadrate nel clima della rovente polemica letteraria e politica che caratterizzava quegli anni.

Terenzio sarebbe morto nel 159, o comunque ben prima della Terza guerra punica, nel corso di un viaggio in Grecia intrapreso per scopi culturali. Il dato, se autentico, è interessante, perché questo tipo di viaggio sarebbe ben presto divenuto caratteristico nella formazione dei Romani colti (un episodio del genere è riferito, per esempio, anche a proposito della scomparsa di Virgilio). I dettagli sulle circostanze della morte (Terenzio sarebbe annegato) sono poco credibili e fanno pensare a un voluto accostamento con la morte per annegamento attestata anche per il grande commediografo greco Menandro, suo riconosciuto ispiratore.

Il riferimento principale alla biografia terenziana è la Vita Terentii, contenuta nel De viris illustribus di Svetonio (composta intorno al 100 d.C. e tramandata come introduzione al commento a Terenzio di Elio Donato, del IV secolo d.C.). Svetonio utilizzava ampiamente eruditi di età repubblicana, ma la qualità delle sue informazioni è controversa, dato che molti particolari della vita erano oggetto – fin dai tempi stessi di Terenzio – di voci contrastanti e di polemiche. Il commento di Donato è una delle migliori opere del genere giunte fino ad oggi, e trasmette buone informazioni su questioni di tecnica teatrale e di messa in scena delle commedie.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868, P. Terenti Afri Comoediae VI (sec. IX), f. 3r. Maschere.

  1. Le sei commedie superstiti

Di Terenzio restano sei commedie tramandate per intero, la cui estensione ammonta complessivamente a circa 6.000 versi. La cronologia è attestata con sufficiente precisione dalle didascalie anteposte alle singole opere nei manoscritti medievali, nelle quali è confluita gran parte del lavoro filologico e delle ricerche erudite dei grammatici tardoantichi.

I modelli greci utilizzati da Terenzio, e dichiarati nei prologhi, appartengono tutti alla tradizione della Commedia Nuova greca: Menandro, Difilo e il meno celebre Apollodoro di Caristo (commediografo greco del III sec. a.C.). Gli intrecci terenziani non si discostano dunque da quelli caratteristici del modello ellenico e della palliata tradizionale romana: giovani innamorati, genitori che li contrastano, schiavi indaffarati a soddisfare i desideri dei loro padroncini e, quasi sempre, alla fine, il riconoscimento che risolve la situazione.

Di seguito si offre un breve riassunto della trama di ciascuna delle sei commedie superstiti:

Andria | Modello greco è l’omonima commedia di Menandro, contaminata con la Perinthia dello stesso autore. La ragazza di Andro, da cui il titolo dell’opera, è Glicerio, abbandonata nella fanciullezza e allevata da una cortigiana. Di lei si innamora Pànfilo, già fidanzato con Filùmena, figlia di Cremète. Quest’ultimo, informato della relazione adulterina del genero, va su tutte le furie e manda a monte le nozze del giovane con Filùmena, nonostante i tentativi del padre di Pànfilo di salvare il matrimonio, già da tempo combinato. La situazione si complica per i tentativi piuttosto goffi di Davo, servo del giovane, di aiutare il padroncino. L’intreccio si scioglie con l’agnizione finale: si scopre, infatti, che anche Glicerio è figlia di Cremète, il quale, senza difficoltà, la concede in sposa a Pànfilo al posto di Filùmena.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868, P. Terenti Afri Comoediae VI (sec. IX), f. 10v. Andr. III vv. 459-480. Scena con Lesbia, Glicerio, Miside, Panfilo, Davo e Simone.

Hècyra | Commedia dalla sorte particolarmente travagliata, rielabora un testo dallo stesso titolo (che significa «La suocera») di Apollodoro di Caristo, contaminato con gli Epitrèpontes («L’arbitrato») di Menandro. La trama ruota attorno al personaggio di Sòstrata, madre di Pànfilo e suocera di Filùmena. Sòstrata è un personaggio completamente diverso dalla figura stereotipata della madre gelosa del figlio e ostile alla nuora; anzi, si adopera ad appianare le gravi incomprensioni fra i due promessi sposi. Si scopre, infatti, che Filùmena, prima del matrimonio, è stata messa incinta da uno sconosciuto durante un festino notturno; Pànfilo vorrebbe abbandonarla, ma, alla fine, risulterà che è stato lo stesso giovane a mettere incinta la fidanzata. Conquistato dall’indole dolce e remissiva della moglie, Pànfilo si riconcilia con lei, rinunciando all’amore per la cortigiana Bacchide, la quale si adopra anch’essa per favorire la riconciliazione fra gli sposi.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868, P. Terenti Afri Comoediae VI (sec. IX), f. 68v. Sostrata.

Heautontimorùmenos | Il titolo greco (Terenzio rielabora un’omonima commedia di Menandro) significa «Il punitore di se stesso». Protagonista è il vecchio Menedèmo, che per punirsi di aver spinto suo figlio Clinia ad arruolarsi in Asia, ostacolandone le nozze con una ragazza di umili origini, si è autocondannato a lavorare duramente la terra con le proprie mani fino al ritorno del giovane. Quando questi rientra in patria, il vecchio lo accoglie con un affetto più intenso e maturo; e, dopo una serie di imbrogli e di equivoci, Clinia riesce anche a sposare la ragazza che da tempo amava – nel frattempo, costei si è rivelata essere figlia di Cremète, amico di Menedèmo.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868, P. Terenti Afri Comoediae VI (sec. IX), f. 46v. Dialogo fra Menedèmo e Cremete.

Eunuchus | Rielaborazione di una commedia omonima menandrea, commista di alcune situazioni tratte dal Kòlax («L’adulatore») dello stesso autore greco. L’etera Taide, concubina del soldato Trasone, è, in realtà, innamorata del giovane Fedria. Trasone riporta alla compagna Pànfila, una ragazzina che le era cresciuta accanto come una sorella e successivamente era stata venduta come serva. Il fratello di Fedria, Cherea, innamoratosi di Pànfila, si traveste da eunuco per farsi consegnare in custodia la ragazza. Trasone, geloso di Fedria, vorrebbe riprendere con la forza Pànfila a Taide, ma è costretto a lasciar perdere. Il falso eunuco viene smascherato, ma si scopre che Pànfila era una cittadina ateniese e Cherea può sposarla; Taide, invece, decide di tenersi Fedria come amico del cuore.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868, P. Terenti Afri Comoediae VI (sec. IX), f. 30v. Cherea vestito da eunuco.

Phormio | Modello è l’Epidikazòmenos («Il pretendente») di Apollonio di Caristo. Il parassita Formione, attraverso svariate peripezie, riesce ad aiutare due cugini, Fedria e Antifone, a sposare le ragazze di cui sono rispettivamente innamorati. Anche qui funziona il meccanismo dell’agnizione, perché, verso la fine del dramma, si scopre che Fanio, amata da Antifone, finora creduta orfana, è, in realtà, la figlia illegittima di Cremète, padre di Fedria e zio dello stesso Antifone.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868, P. Terenti Afri Comoediae VI (sec. IX), f. 81r. Dialogo tra Formione e Geta.

Adelphoe | Rielabora la commedia menandrea dallo stesso titolo («I fratelli»), traendo tuttavia una scena dai Synapothnèskontes («Coloro che muoiono insieme») di Difilo. Si mette a confronto due diversi sistemi di educazione: Demea ha allevato con grande rigore il figlio Ctesifone, mentre ha concesso in adozione l’altro figlio, Eschino, al fratello Micione, che lo ha educato nella più grande libertà. Demea considera Eschino uno scapestrato corrotto dal lassismo del fratello, e la sua opinione si rinsalda quando si viene a sapere che il ragazzo ha rapito una fanciulla. Ma, in realtà, Eschino ha commesso il rapimento per conto del fratello, che Demea considera irreprensibile. Dopo varie vicissitudini, tutto si appiana: la commedia, però, ha un finale di difficile interpretazione, dove Demea sembra formulare, quasi con dispetto, più che con sincera convinzione, il proposito di adottare i metodi permissivi – facili, ma pericolosi – del fratello e di mostrarsi, d’ora in poi, condiscendente con tutti.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868, P. Terenti Afri Comoediae VI (sec. IX), f. 52r. Ad. I vv. 49-80; 81-89. Dialogo fra Demea e Micione.

  1. Il declino del teatro popolare e la nascita di un teatro d’élite

La novità del teatro terenziano non si fonda solo su un profondo ripensamento della tecnica teatrale rispetto ai modelli della tradizione, ma – come si è anticipato – si fa portavoce delle istanze culturali provenienti da settori importanti delle élite politiche romane del II secolo, particolarmente influenzate dalla cultura greca e decise a diffondere i propri ideali attraverso un rinnovamento in campo letterario e artistico, anche a prezzo di deludere le aspettative del grande pubblico.

Con Plauto, infatti, il genere comico era stato un ineguagliabile momento di intrattenimento popolare. Poco importa, da questo punto di vista, quanto fosse profondamente raffinata l’arte plautina, con la sua imprevedibile fantasia ritmica e verbale. Di fatto, le commedie di Plauto riuscivano ad avere successo presso il grande pubblico quanto nessun’altra forma di comunicazione letteraria del tempo. Sicuramente Plauto divertiva e appassionava anche chi non fosse per nulla sensibile alle problematiche culturali degli originali menandrei. Sul piano dei contenuti, infatti, il suo teatro non sottoponeva il pubblico a sforzi di apprendimento e di meditazione: tutto era assorbito e bruciato dal fuoco di fila delle invenzioni comiche. Le trame offrivano gli spettatori un convenzionale canovaccio di riferimento, senza che si scavasse troppo nella psicologia dei personaggi in azione.

Anche il teatro di Terenzio accettò l’inquadramento convenzionale e ripetitivo di queste trame, senza produrre alcuno sforzo di originalità. Ma, a differenza di Plauto, l’interesse non era nel gioco verbale da cui scaturiva l’effetto comico; ora l’attenzione era tutta rivolta ai significati, cioè alla sostanza umana messa in gioco dagli intrecci della commedia stessa. Nella sua opera Terenzio si propose quindi il difficile compito di servirsi di un genere tradizionale e fondamentalmente popolare per comunicare sensibilità e interessi nuovi, maturati nell’ambito ristretto di una élite, sociale e culturale insieme. Le gravi difficoltà da lui incontrate nel rapporto con il pubblico (e con alcuni colleghi teatranti) si possono ricondurre a questa tensione innovativa.

Tra le commedie rimaste, una in particolare, l’Hècyra, ebbe una sorte esemplarmente infelice presso il pubblico romano: alla prima rappresentazione, nel 165, gli spettatori le preferirono un’esibizione di funamboli, nonostante la bravura di Ambivio Turpione, l’attore e impresario teatrale di tutte le commedie terenziane); alla seconda, nel 160, tutti se ne andarono, quando – nel bel mezzo della rappresentazione – si sparse la voce che contemporaneamente stava cominciando uno spettacolo di gladiatori; solo alla terza (ancora nel 160) lo spettacolo poté arrivare a conclusione.

Attore con maschera comica. Mosaico, ante 79 d.C. dalla Villa di Cicerone, Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Un teatro di individui, non di maschere | Le vicende delle commedie terenziane sono sintomatiche del declino del teatro popolare latino – che, nell’epoca successiva, sarebbe andato rapidamente accelerando – e del progressivo divaricarsi dei gusti del pubblico di massa e dell’élite colta, nutrita di raffinata cultura greca. In effetti, il teatro di Terenzio mette in scena gli ideali di rinnovamento culturale dell’aristocrazia scipionica; all’autore interessa soprattutto l’approfondimento psicologico dei personaggi e per questo rinuncia all’esuberanza comico-fantastica, che tanto aveva contribuito al successo del teatro plautino. Ma è bene intendersi: spesso Terenzio, più che alla rappresentazione psicologica dell’individuo, sembra interessato a quella di tipi umani: il giovane innamorato, la ragazza a lui teneramente devota, il padre tradizionalista e preoccupato per la felicità del figlio, la prostituta capace di buoni sentimenti e di genuino altruismo.

Per questo motivo alcuni critici moderni, non senza una certa forzatura, hanno potuto accostare il teatro terenziano ai Caratteri di Teofrasto (IV sec. a.C.). Tuttavia, benché tipizzati, anche se non dotati di forte personalità individuale, i personaggi di Terenzio sono spesso anticonvenzionali: la suocera per niente bisbetica, ma anzi pensosa della felicità della nuora, o la prostituta moralmente migliore di tanta gente “perbene” sono i caratteri largamente innovativi rispetto alle aspettative del pubblico. L’approfondimento psicologico comportava una notevole riduzione della comicità, che avrà senz’altro contribuito allo scarso successo dell’autore presso il pubblico di massa: attraverso la rappresentazione di una suocera arcigna e brontolona, o di una cortigiana avida, strappare qualche risata sarebbe sicuramente risultato più facile.

L’humanitas | La palliata latina era sempre stata, per sua natura, ancorata alle situazioni familiari: suoi tipi fissi erano il giovane innamorato e scapestrato e il vecchio padre ingannato. In Terenzio, invece, questi rapporti diventarono veramente autentici legami umani, sentiti con maggiore serietà problematica.

Questo approfondimento rifletteva insieme la sincera adesione al modello di Menandro e la circolazione di ideali “umanistici” di origine ellenica nelle cerchie più evolute della Roma contemporanea. Così si spiega l’introduzione di un concetto chiave come quello di humanitas – influenzato dal greco φιλανθρωπία – che trova la sua espressione più significativa in una famosa battuta dell’Heautontimorùmenos, homo sum: humani nihil a me alienum puto (che è diventata un po’ l’emblema dell’ideale classico dell’humanitas). Questa elaborazione concettuale, ovviamente, non rappresenta un’isolata invenzione di Terenzio, ma è in piena sintonia con la cultura dell’età scipionica. In questo concetto («riconoscere e rispettare l’uomo in ogni uomo», come è formulato da Alfonso Traina) confluiscono vari filoni del pensiero greco, ma tipicamente romana è la sintesi costruttiva e “ottimistica” dell’ideale umanistico, ispirato da pragmatismo attivo.

La consapevole rinuncia alla vis comica | L’elemento che a Giulio Cesare appariva come il difetto principale dell’arte di Terenzio era l’assenza di vis («slancio», «energia») della sua virtus comica. Tale mancanza dipendeva, tuttavia, da una scelta consapevole del poeta e non da una sua presunta incapacità di scrivere commedie improntate al gusto della palliata tradizionale.

Non è certamente casuale che la commedia terenziana di maggior successo presso i suoi contemporanei – l’Eunuchus – sia pure quella in cui meno si affacciassero questi temi psicologici e umanistici. Si trattava, infatti, del più riuscito tentativo da parte dell’autore in direzione della comicità plautina: il dramma mette in scena un romanzesco travestimento (un giovane si finge eunuco per avere in consegna l’amata) e un burlesco personaggio (plautineggiante) del «soldato fanfarone». In ogni caso, la notevole qualità di questo testo dimostra in Terenzio anche delle attitudini puramente comiche e drammaturgiche, che spesso la critica moderna è stata portata a sottovalutare.

Muse e maschere teatrali (dettaglio). Bassorilievo su sarcofago, 200 d.C. ca. Berlin, Altes Museum.

  1. La poetica e il rapporto con i modelli

Sebbene la sua fortuna «scolastica» abbia condizionato la sua immagine letteraria, sarebbe sbagliato pensare a Terenzio come a una sorta di predicatore o di autore educativo, in quanto il suo interesse per i contenuti morali e culturali non andava mai a discapito della tecnica drammaturgica. Al contrario, egli è stato uno dei letterati latini più professionali, più consapevoli degli aspetti tecnici del proprio mestiere. Le sue preferenze per la Commedia Nuova e, in particolare, per Menandro mostrano bene la coesistenza di questi due aspetti: il poeta ateniese gli offriva sia un modello culturale – collegato all’interesse di Terenzio per valori come l’humanitas – sia un modello letterario, vale a dire un raffinato esempio di stile e di tecnica drammatica. Proprio lavorando a fondo sui modelli ellenici, Terenzio trovò modo di esprimere sia la propria impostazione ideale sia la propria vocazione letteraria.

Il rispetto dell’illusione scenica e la rinuncia al metateatro | Le commedie di Menandro erano state – come si è visto – un modello importante anche per Plauto, ma questi non era stato particolarmente aderente a quell’esempio: la verosimiglianza, il cardine della poetica menandrea, non fu per Plauto un valore assoluto. Nella palliata plautina, infatti, il gioco scenico finiva facilmente per diventare fine a se stesso, mettendo in crisi l’aderenza alla realtà dell’intreccio drammatico: è ciò che è stato definito “metateatro” plautino.

Terenzio curò, invece, molto di più la coerenza e l’impermeabilità dell’illusione scenica: lo sviluppo dell’azione non prevedeva mai esiti “metateatrali”. Venivano anche rigorosamente eliminate quelle battute dei personaggi che non avessero diretta motivazione interna allo svolgimento drammatico, ma che si rivolgevano liberamente al pubblico (interrompendo l’illusione scenica e rivelando così, come un commento esterno all’azione, quale fosse il meccanismo drammatico che regolava e costruiva l’invenzione comica). In pratica, la palliata di Terenzio non apriva al suo interno nessuno spazio di autocoscienza. Questi momenti di riflessione venivano tutti concentrati nello spazio del prologo.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868, P. Terenti Afri Comoediae VI (sec. IX), f. 35v. Prologo dell’Heautontimorumenos.

La nuova funzione del prologo | Nella Commedia Nuova il prologo era generalmente concepito come uno spazio espositivo, in cui l’autore dava informazioni preliminari necessarie alla comprensione della trama (non erano illustrati solo gli antefatti dell’azione, ma si anticipava anche una parte dello sviluppo e si accennava allo scioglimento finale: la scena di agnizione o simili colpi di scena). Questo metteva il pubblico in una posizione “panoramica”, più attenta allo sviluppo dell’azione e capace di apprezzare gli effetti di ironia via via impliciti nella situazione scenica (equivoci, errori di prospettiva, ecc.).

L’importanza data al prologo come istituzione letteraria è la principale innovazione tecnica di Terenzio rispetto al teatro plautino. Il poeta rinunciava a usare i prologhi in funzione informativa, anche a costo di qualche oscurità nello svolgimento dell’intreccio, e li adoperava, invece, per esprimere personali prese di posizione in rapporto alla commedia di volta in volta messa in scena: chiariva il rapporto con i modelli greci utilizzati e rispondeva a critiche dei suoi avversari su questioni di poetica. È evidente che questo nuovo tipo di prologo presupponeva un pubblico più colto rispetto a quello delle commedie plautine, un pubblico più attento a problemi di gusto e di tecnica, e senz’altro anche più ristretto e selezionato.

Questo uso dei prologhi rendeva Terenzio avvicinabile a figure come Ennio, Accio e Lucilio, che nella loro pratica letteraria davano sempre più spazio a momenti di riflessione critica e poetica, avvicinandosi così all’ideale alessandrino del «poeta-filologo». Non a caso, Terenzio tendeva a sottolineare il suo distacco dalla “vecchia” generazione di commediografi, che comprendeva i poeti raccolti intorno ai grandi nomi di Plauto e di Cecilio Stazio. Il principale avversario, che Terenzio citava indirettamente nei suoi prologhi, era noto da altre fonti come un poeta comico minore, Luscio di Lanuvio.

Menandro. Busto, copia romana da originale di Cefisodoto il Giovane e Timarco di Prassitele (IV sec. a.C.). Moskow Hermitage.

La contaminatio | Nel prologo dell’Andria Terenzio ribatte all’accusa di contaminare fabulas (v. 16), cioè, a quanto pare, di “rovinare” i suoi modelli greci creando inopportune mescolanze, ibridi di testi diversi (da qui gli studiosi moderni hanno adottato il termine «contaminazione» per indicare, in genere, la tecnica di incrociare modelli letterari diversi in un unico testo). Il poeta sottolinea che anche i tanto venerati Nevio, Plauto, Ennio non fecero diversamente con i loro modelli greci. Così, per esempio, la prima scena dell’Andria è tratta da un’altra commedia di Menandro, la Perinthia, dove tuttavia, a quanto si apprende da Donato, Terenzio avrebbe sostituito a un dialogo tra marito e moglie un dialogo tra padrone e servo. Ben si comprende, dunque, come la contaminatio non fosse un processo di trasposizione meccanica.

A quale idea dell’azione drammatica sia funzionale la contaminatio è spiegato nel prologo dell’Heautontimorùmenos, dove Terenzio contrappone un tipo di commedia «statica» (stataria) a una commedia piena di effetti e con azione assai movimentata (motoria è chiamata nel commento di Donato). Quello che viene rifiutato è, in sostanza, la farsa popolare di tipo plautino, con le sue scene animate da inseguimenti e litigi e i suoi personaggi caricaturali: «Perché non tocchi sempre far la parte del servo che corre, del vecchio arrabbiato, / del vorace scroccone, del sicofante sfrontato, / dell’avido lenone a me che sono anziano» (vv. 37 ss.). È chiaro che Terenzio opponeva a questo stile sanguigno un ideale di arte più riflessiva, più attenta alle sfumature, più verosimile: insomma, un’arte tale da fondare l’azione drammatica sul dialogo, non sul movimento scenico e sul clamore.

Le affermazioni programmatiche di Terenzio sull’uso dei modelli greci (adattamenti, contaminazioni, ecc.) sono per i moderni difficili da riscontrare nella pratica, perché dei suoi originali – per esempio, i testi di Menandro da lui citati come fonte nei prologhi – non sono pervenuti che scarsi e casuali frammenti. Il problema dell’originalità è perciò difficile da analizzare in modo definitivo. Ciò che si riesce a distinguere è che Terenzio si attenne piuttosto fedelmente alle linee degli intrecci menandrei, senza tuttavia mai rinunciare ad approfondire gli interessi che più lo toccavano. Ciò riporta ai contenuti della sua arte, che riguardano i caratteri e i problemi di un’umanità “borghese”.

  1. Lo stile e la lingua: una rivoluzione sottovoce

Nel nuovo contesto dell’età degli Scipioni e nell’ottica di una personale e originale rielaborazione dei modelli greci, è comprensibile che lo stile espressivo di Terenzio (proprio perché l’autore stesso non intese metterlo in primo piano) fosse, in genere, l’aspetto più trascurato dalla critica e dai lettori. La prima superficiale impressione è quella di una piatta uniformità, soprattutto per chi mette a confronto la lingua terenziana con l’indiavolata “officina verbale” di Plauto.

Tuttavia, una considerazione più attenta dello stile può dire molto sulla poetica e sulle intenzioni di Terenzio. I suoi personaggi non si abbandonano a tirate imprevedibili, dense di immagini e di giochi ritmico-verbali, dove si rimescolano parodie letterarie, doppi sensi, metafore e allusioni di ogni tipo; l’impressione è più vicina a quella di una conversazione quotidiana. L’elemento che più distingue Terenzio nel quadro della commedia latina (e del teatro latino, in genere, si potrebbe dire) è la sua costante e controllata preoccupazione per il verosimile (un concetto che aveva preso sempre più importanza nella letteratura e nell’estetica greca di età ellenistica).

Guardando il linguaggio adottato dal poeta alla luce di Plauto, sembra che la materia linguistica sia stata selezionata, perfino addirittura censurata. Acquistano spazio, invece – ed è sintomatico –, le parole astratte, quelle che rendono possibile e interessante l’analisi psicologica dei caratteri. In sei commedie, tutte incentrate su intrighi d’amore, la parola «bacio» (come ha osservato Alfonso Traina) non compare più di due volte in tutto. In Terenzio gli innamorati non si baciano, di regola; e si parla poco, in genere, di corpi, di mangiare, di bere, e naturalmente di sesso; i personaggi non usano scambiarsi crude parole di insulto, né quelle della lingua quotidiana, né quelle reinventate dalla creatività poetica (come accadeva, invece, in Aristofane e in Plauto). Le figure socialmente più basse della palliata – il servo, l’etera, il parassita – sono presenti anche qui, ma non portano in scena la loro particolare carica linguistica.

La restrizione, o la censura, del linguaggio serve, come si è visto, ad assicurare il predominio di certi contenuti. Eppure, ci si può chiedere che effetto facesse questo tipo di linguaggio sul pubblico romano del tempo. È chiaro che, in un certo senso, lo stile medio e pacato di Terenzio fosse più quotidiano di quello plautino, ma ciò non significa assolutamente che Terenzio, per essere verosimile, riproducesse realisticamente la parlata colloquiale dell’epoca. Egli si adeguava, sì, a una lingua in qualche modo reale e realmente parlata, ma si trattava nondimeno di un lessico settoriale, utilizzato dalle classi urbane di buona educazione e cultura. L’effetto doveva essere piuttosto idealizzato rispetto ai gusti del pubblico romano. Il più celebre e citato giudizio critico su Terenzio, dovuto alla penna di Cesare, insisteva appunto su questa tendenza idealizzante del suo stile, definito puri sermonis amator.

La restrizione, o selezione, del lessico aveva, quindi, il suo corrispettivo nella forte riduzione della varietà metrica rispetto a Plauto e ai suoi numeri innumeri: sono, perciò, scarse le parti propriamente liriche, mentre molto contenuta è l’estensione dei cantica (parti cantate o declamate con l’accompagnamento musicale) in rapporto ai diverbia (parti recitative).

Fattucchiera e due donne. Mosaico, ante 79 d.C. Pompei, Villa di Cicerone. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

  1. La fortuna di Terenzio

Non tutte le commedie di Terenzio – si è detto – ebbero successo di fronte all’impaziente pubblico del tempo: sono note, infatti, le vicende della difficile rappresentazione dell’Hècyra. Volcacio Sedigito, poeta del II secolo più volte ricordato per la sua graduatoria poetica (“canone”), poneva Terenzio soltanto al sesto posto, non solo dopo Cecilio Stazio, Plauto e Nevio, ma pure dopo due commediografi minori, Licinio Imbrice e Atilio, che seguirono probabilmente le orme di Plauto.

Eppure, Terenzio continuò a tenere la scena anche dopo la sua scomparsa ed ebbe sempre il favore dei critici più dotti e sensibili, che apprezzarono soprattutto la purezza del suo linguaggio (la lingua urbana dei ceti colti, si è detto), nonché la raffinatezza dello stile. Cicerone, nell’epigramma esametrico riportato nella Vita Terenti, attribuisce al poeta un linguaggio scelto (lecto sermone) insieme a una certa urbanità (come loquens) e a una spiccata dolcezza del dire (omnia dulcia dicens). Cesare, negli esametri più volte citati, che gli sono attribuiti nella stesa Vita svetoniana, pone Terenzio tra i comici sommi e lo definisce, come si è visto, «innamorato della purezza di linguaggio», ma lo giudicò «un Menandro dimezzato» (dimidius Menander), per mancanza di vis comica.

Moderazione dei sentimenti, valori etici apprezzati anche dai cristiani (soprattutto da S. Agostino), purezza di lingua che faceva di Terenzio un modello di stile: queste furono le cause che introdussero ben presto le commedie del poeta nella scuola. E con la scuola vennero i commenti, come quello, più volte ricordato, di Elio Donato.

Nel X secolo Rosvita, monaca del monastero tedesco di Gandersheim, compose sei commedie in prosa rimata modellate sulle commedie terenziane: intrecci di storie edificanti con il cristiano lieto fine del trionfo della virtù.

Il Medioevo, come l’Antichità, dedicò commenti a Terenzio. Dante citava dei versi terenziani, forse mediati da Cicerone. Il Rinascimento rinnovò l’interesse per il suo teatro attraverso volgarizzamenti e adattamenti poetici: perdute sono le traduzioni di alcune commedie fatte dall’Ariosto per il teatro degli Estensi, mentre si conserva la traduzione dell’Andria fornita dal Machiavelli.

Molière fu grande ammiratore e imitatore di Terenzio. E dal Seicento in poi furono molte le traduzioni delle commedie terenziane nelle varie lingue europee.

Una così eccezionale fortuna, dovuta principalmente – come si è visto – ai contenuti «educativi» del suo teatro, ha portato forse la critica moderna a sottolineare troppo in Terenzio una sorta di impegno etico-sociale; rimane comunque indispensabile valutare questa esperienza artistica nel concreto quadro della cultura romana di «età scipionica» e anche, per quanto possibile, in rapporto alla letteratura drammaturgica greca che gli servì da ispirazione.

  1. Bibliografia

Edizioni critiche di R. Kauer, W.M. Lindsay, Oxford 1926 (ed. riveduta, 1958), e di J. Marouxeau, Paris 19674 (I vol.), 19643 (II), 19663 (III), quest’ultima con versione francese; di J. Barsby, Cambridge (Ma.), London 2001, 2 voll., con versione inglese. Tra i vari commenti moderni alle singole commedie il più recente è quello dell’Eunuchus, a cura di J. Barsby, Cambridge 1999. Si ricordano anche Hècyra, a cura di S. Ireland, Warminister 1990; Adelphoe, a cura di R.M. Martin, Cambridge 1976 e A.S. Gratwick, Warminister 1987.

Introduzioni generali: G. Norwood, The Art of Terence, Oxford 1923; H. Haffter, Terenzio e la sua personalità artistica, trad. e aggiornamenti a cura di D. Nardo, Roma 1969; B.A. Taladoire, Térence. Un théâtre de la jeunesse, Paris 1972; W.G. Forehand, Terence, Boston 1985 ; S.M. Goldberg, Understanding Terence, Princeton 1986; R.L. Hunter, The New Comedy of Greece and Rome, Cambridge 1985. Sullo stile vd. soprattutto: A Traina, Vortit barbare. Le traduzioni poetiche da Livio Andronico a Cicerone, Roma 1974(2), p. 167 ss.; Id., Forma e suono: da Plauto a Pascoli, Roma 1977, p. 181 ss. Una bibliografia generale è quella di G. Cupaiolo, Bibliografia terenziana (1470-1983), Napoli 1985.

L’importante commento di Elio Donato è stato edito da P. Wessner, Leipzig 1902-08. Vd., in proposito, L. Holz, Donat et la tradition de l’enseignement grammatical, Paris 1981, pp. 15-36.

Studi sulla fortuna: H. Hagendahl, Latin Fathers and the Classics, Göteborg 1958; G.E. Duckworth, The Nature of Roman Comedy. A Study in Popular Entertainment, Princeton 1952, pp. 396-433; M. Barchiesi, Un tema classico e medievale: Gnatone e Taide, Padova 1963 (su Terenzio nel Medioevo e in Dante).

Per le traduzioni ricordiamo: A. Ronconi, Terenzio, Le Commedie, Firenze 1960; O. Bianco, Terenzio, Commedie, Torino 1993 (rist. 2004); F. Bertini – V. Faggi, Le Commedie, Milano 2006; L. Piazzi, Adelphoe, Heautontimorumenos, Milano 2006; L. Pepe, Andria, Hecyra, Milano 2006. Singole commedie: A. Petrucci, Gli Adelphoe, Roma 19923, e D. Del Corno, I fratelli, Milano 200215; G. Zanetto, Andria, Milano 20012, e M.R. Posani, Andria, Bologna 1990; G. Zanetto, Eunuco, Milano 1999; M. Cavalli, La suocera, Milano 19944; G. Gazzola, Il punitore di se stesso, con intr. di D. Del Corno, Milano 20018; G. Zanetto, Formione, Milano 1991.

Ulteriori studi: C.R. Dodwell, The Vatican Terence and its Model, in Anglo-Saxon Gestures and the Roman Stage, Cambridge 2000, pp. 1-21; C.R. Morey, The Vatican Terence, CPh 26 (1931), pp. 374-385.

  1. Sitografia

Il testo originale delle sei commedie di Terenzio si può leggere nel sito The Latin Library, e, corredato di concordanze, lista delle parole, indici di frequenza, in IntraText. Nel progetto Perseus, il testo delle commedie latine è unito alla traduzione inglese con vocabolario e note al testo. Una traduzione italiana delle commedie si può leggere nel Progetto Ovidio.