Cornelio Gallo e gli inizi dell’elegia latina

Di Cornelio Gallo, menzionato da Quintiliano nel “canone” dei poeti elegiaci insieme a Tibullo, Properzio e Ovidio (Quint. X 1, 93, durior Gallus), è giunta quasi soltanto la fama. Comunque, si sa che la sua vicenda non solo biografica ma anche letteraria costituì un collegamento fra l’età di Cesare e quella di Augusto, fra chi visse il dramma delle guerre civili e chi sperimentò la pax Augusta. Se dagli antichi Gallo fu ritenuto il fondatore dell’elegia latina, ciò è verosimilmente dovuto proprio al suo ruolo di mediatore tra la poesia neoterica e l’affermarsi di un nuovo gusto.

C. Cornelio Gallo. Testa, marmo bianco, c. 30 a.C. dall’Egitto. Cleveland Museum of Art.

Nato intorno al 69 a.C. in un non meglio identificato Forum Iulii (Hier. Chron. Abr. 1990), Gallo proveniva da una famiglia modesta (Suet. Aug. 66, 1). Giunto a Roma in giovane età, ricevette una formazione letteraria, frequentando le lezioni degli stessi maestri di Virgilio e Vario Rufo. Già amico del cesariano Asinio Pollione (Cic. Fam. 32, 5), dopo la battaglia di Filippi (ott. 42), Gallo aiutò Virgilio a conservare le proprietà fondiarie nel mantovano al tempo delle distribuzioni ai veterani (Verg. Ecl. X). Durante la guerra civile contro Antonio, fautore di Ottaviano (Prob. Verg. Ecl. praef.,p. 328, 2 Hagen), Gallo progredì al rango equestre e si distinse nelle operazioni intorno ad Alessandria in qualità di praefectus fabrorum (DCass. LI 9). Dopo la battaglia di Azio, nel 30, egli divenne il primo praefectus Aegypti et Alexandriae: tuttavia, la gestione troppo autonoma e spregiudicata di questo incarico (pare che avesse persino battuto moneta!) e, come attesta un’iscrizione proveniente da File (AE 1992, 1725; cfr. DCass. LII 23), l’appropriazione di titoli e clausole trionfali propri dell’ordine senatorio, gli attirarono le accuse del venerando consesso e lo fecero cadere in disgrazia presso Ottaviano. Condannato all’esilio, Gallo si sarebbe tolto la vita intorno al 27/6 (Suet. Aug. 66, 2; Ovid. Tr. II 446).

Dedica trilingue votiva agli dei patriei e al Nilus di C. Cornelio Gallo, praefectus Alexandriae et Aegypti (AE 1992, 1725). Iscrizione su blocco, pietra locale, da Philae (Aegyptus). Cairo, Egyptian Museum. C(aius) Cornelius Cn(aei) f(ilius) Gallus [eq]ues Romanus pos‹t=I› rege[s] / a Caesare d{e}ivi f(ilio) devictos praefect[us Ale]xandr‹i=E›ae et Aegypti primus defectioni[s] / Thebaidis intra dies XV quibus hostem v[icit II] acie Victor V urbium expugnator Bore[se]/os Copti Ceramices Diospoleos Meg[ales Op]hieu ducibus earum defectionum interc[e]/ptis exercitu ultra Nili catarhacte[n trad]ucto in quem locum neque populo / Romano neque regibus Aegypti ar[ma s]unt prolata Thebaide communi omn[i]/um regum formidine subact[a] leg[atis re]gis Aethiopum ad Philas auditis eoq[ue] / rege in tutelam recepto tyranno Tr[iacontas]choen[i] inde Aethiopiae constituto di{e}[s] / Patri{e}is et N{e}il[o Adiut]ori d(onum) d(edit) // Γ]άϊος Κορνήλιος Γναίου υἱὸς Γάλλ[ος ἱππεὺ]ς Ῥωμαίων μετὰ τὴν κατάλυσιν τῶν / ἐν Αἰγύπτωι βασιλέων πρῶτος ὑπὸ Καίσ[αρος ἐπὶ] τῆς Αἰγύπτου κατασταθείς τὴν Θηβαΐδα [ἀ]/ποστᾶσαν ἐν πεντεκαίδεκα ἡμέραις δὶς [ἐν παρ]ατάξει κατὰ κράτος νικήσας σὺν τῶι τοὺς ἡ/γεμόνας τῶν ἀντιταξαμένων ἑλεῖν πέν[τε τε πό]λεις τὰς μὲν ἐξ ἐφόδου τὰς δὲ ἐκ πολιορκί[ας] / καταλαβόμενος Βορῆσιν Κόπτον Κεραμική[ν Διόσπ]ολιν μεγάλην Ὀφιῆον καὶ σὺν τῆι στρατιᾶι ὑ/περάρας τὸν καταράκτην ἀβάτου στρατία[ις τῆς χώρ]ας πρὸ αὐτοῦ γενομένης καὶ σύμπασαν τὴ[ν] / Θηβαΐδα μὴ ὑποταγεῖσαν τοῖς βασιλεῦσιν [ὑποτάξ]ας δεξάμενός τε πρέσβεις Αἰθιόπων ἐν Φί/λαις καὶ προξενίαν παρὰ τοῦ βασιλέως λ[αβών τύ]ραννόν τε τῆς Τριακοντασχοίνου τοπαρχία[ς] / μιᾶς ἐν Αἰθιοπίαι καταστήσας θεοῖς πατ[ρῴοις Ν]είλῳ συνλήπτορι χαριστήρια.

Gallo fu intimo amico di Virgilio, che gli dedicò l’ecloga X, componimento nel quale si racconta del suo disperato amore per una donna, chiamata Licoride, e dell’adesione esclusiva di Gallo al genere della poesia erotica; rappresentato in preda a indicibili sofferenze a causa dei sentimenti non corrisposti, Gallo dichiara la propria impossibilità di dedicarsi al genere bucolico, motivandola con il fatto che (v. 69) omnia vicit Amor et nos cedamus Amori («Amore vince tutto e noi cediamo ad Amore»). Assai importante, in rapporto al ruolo giocato da Gallo nello sviluppo dell’elegia d’amore latina, fu l’amicizia con Partenio di Nicea, il poeta greco che, trasferitosi a Roma intorno al 73, aveva contribuito alla divulgazione della lirica ellenistica presso i neòteroi. A Gallo Partenio dedicò i suoi Ἐρωτικὰ παθήματα («Le sofferenze d’amore»), un’opera in prosa che raccoglieva storie mitiche di amori infelici, una sorta di repertorio a cui attingere per la composizione di versi. Accanto alla figura di Partenio, per la lirica di Gallo fu di notevole importanza anche la poesia, di carattere mitico ed erudito, di Euforione di Calcide, poeta ellenico del III secolo a.C., che Cicerone aveva considerato il “cattivo maestro” dei poetae novi, definiti sprezzantemente cantores Euphorionis in quanto cultori di una poesia difficile e oscura (Cic. Tusc. III 45).

Dell’opera poetica di Gallo, quattro libri di elegie pubblicati sotto il titolo emblematico di Amores, resta solo un frammento di circa dieci versi, che è stato restituito grazie a un fortuito ritrovamento papiraceo effettuato nel 1979 nel deserto egiziano. Sull’interpretazione di questi versi non c’è, in realtà, un parere unanime da parte degli studiosi. Per quanto frammentari, essi sembrano comunque contenere alcuni motivi fondamentali della successiva elegia augustea. Gallo sembra porre al centro della propria esperienza esistenziale e lirica la donna amata, cantata con il nome di Licoride (uno pseudonimo sotto cui si celava probabilmente la nota attrice di mimo Volumnia Cytheris). Il poeta dichiara di trovarsi in una condizione di asservimento (servitium amoris) nei confronti della donna (domina) e utilizza anche il termine nequitia. I successivi poeti elegiaci usavano tale nome alludendo a quella condizione d’indolenza e depravazione, ai margini della morale tradizionale, nella quale si trovavano a causa della propria domina e della quale sembravano a tratti compiacersi. Per quello che è possibile ricostruire dall’opera di Gallo è ragionevole pensare che egli sia stato il primo a riprendere elementi autobiografici tipici della poesia catulliana, proiettando l’esperienza amorosa personale su un piano mitologico, per nobilitarla e sublimarla. In questo senso, la lirica di Gallo può aver effettivamente costituito l’anello di congiunzione tra l’esperienza neoterica e l’elegia augustea. Del resto, che Gallo fosse un punto di riferimento per gli altri poeti elegiaci è testimoniato dal fatto che quei pochi versi che sono pervenuti siano più volte riecheggiati nei testi di Properzio (2, 34, 91-92) e di Ovidio (Am. III 9, 63-64).

Cairo, Egyptian Museum. P. Qaṣr Ibrîm 78-3-11/1 (LI/2) (c. 50-25 a.C.). Gaio Cornelio Gallo, Frammenti dagli Amores.
Edizione JRS 69 (1979), 125-155 e traduzione di A. De Simone: «(a) . . . tristi a causa della tua riprovevole condotta, o Licoride. (b) . . . i miei destini, o Cesare, mi diventeranno dolci, nel momento in cui tu sarai la parte più grande della storia di Roma e io leggerò che i santuari di innumerevoli divinità dopo il tuo ritorno sono divenuti più ricchi grazie ai tuoi trofei. (c) . . . finalmente le Muse hanno composto poesie che io possa declamare perché degne della mia signora. . . . lo stesso a te, non io, o Visco, . . . ho da temere, una volta che tu, giudice, ti sia mitigato. (d) . . . Siria . . .».

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Riferimenti bibliografici:

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G. Zecchini, Il primo frammento di Cornelio Gallo e la problematica partica nella poesia augustea, Aegyptus 60 (1980), 138-148.

Nicandro di Colofone

di I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca. III. L’Ellenismo e la tarda grecità, Firenze 2004, 42.

I dati biografici e, soprattutto, cronologici relativi a Nicandro, nato a Claros presso Colofone, luogo celebre per il culto di Apollo e per un famoso santuario del dio, appaiono piuttosto confusi già nelle fonti antiche. Alcuni lo considerarono infatti contemporaneo di Teocrito, altri lo assegnarono alla generazione successiva e altri ancora lo vollero coetaneo di Attalo III Filometore, che regnò su Pergamo dal 138 al 133 a.C. Tale incertezza sembra essere stata causata dall’esistenza di un altro Nicandro, storico e antiquario, forse antenato di questo autore, contemporaneo e amico di Teocrito, vissuto al tempo di Attalo I (241-197 a.C.) e ricordato come poeta epico in un’iscrizione delfica (Syll.³ 452). Al più giovane Nicandro, figlio di Dameo (quello più antico è figlio di Anassagora), sono attribuiti due poemi didascalici, uno intitolato Θηριακά (Rimedi contro i veleni animali) e l’altro Ἀλεξιφάρμακα (Antidoti, o Contravveleni)[1]. Il primo (958 versi), dedicato a un certo Ermesianatte, amico del poeta, si apre con alcune notizie generali sull’origine dei veleni, che sarebbero nati dal sangue dei Titani; poi, si descrive ogni specie animale letale, spiegando gli effetti dei loro sieri; quindi, si prendono in considerazione i rimedi più comuni contro i veleni animali, mescolando in modo abbastanza generico nozioni scientifiche e credenze popolari. Successivamente, il poeta dedica un’ampia trattazione al veleno dei serpenti, indicando i periodi dell’anno in cui essi sono più pericolosi e ritenendo le femmine più micidiali dei maschi. Segue un’ultima parte, dedicata ai rimedi contro le punture dei ragni e degli scorpioni. L’Ἀλεξιφάρμακα (630 versi), invece, descrive i vari tipi di pozione velenifera, i miasmi tossici e gli eventuali antidoti. Secondo le fonti antiche, il materiale di questi trattati proverrebbe dalle opere di due autori didascalici: Numenio, discepolo del medico Dieucle di Eraclea, vissuto verso la metà del III secolo a.C., e un tale Apollodoro, la cui attività risale agli inizi dello stesso secolo.

 

Paris, Bibliothèque nationale de France. Supplément grec 247 (metà X sec.), Νικάνδρου Ἀλεξιφάρμακα, f. 48r. Un pastore nel bosco.

 

In ogni caso, la fortuna dei Θηριακά e degli Ἀλεξιφάρμακα nel mondo antico fu notevole: il successo dei due poemetti si dové alla loro utilità per il vasto pubblico, alla perfezione dei versi (Nicandro era uno dei più fedeli assertori della perfezione armonica dell’esametro callimacheo), e a un’abile e innovativa manipolazione del linguaggio. Nicandro, infatti, aveva abilmente inserito nel verso dell’epica i termini zoologici e tossicologici più oscuri: di conseguenza, gli hapax legomena di queste opere divennero il terreno di caccia ideale per i grammatici antichi e tardi. Leggere questi testi è tuttavia esteticamente frustrante per i moderni: Nicandro ha accolto con indifferenza l’uniformità compilativa dei suoi modelli, intensificandola nei suoi trattati in versi: negli Ἀλεξιφάρμακα, dunque, si passano in rassegna le caratteristiche di ciascun veleno, la sintomatologia dei loro effetti, i possibili antidoti; nei Θηριακά si forniscono accurate descrizioni dei segni identificativi dei serpenti e dei sintomi del loro morso. Le digressioni perdono il loro effetto di animare la trattazione e mantengono una funzione eminentemente tecnica (per esempio, quella di segnare il passaggio da un capitolo all’altro).

 

Paris, Bibliothèque nationale de France. Supplément grec 247 (metà X sec.), Νικάνδρου θηριακά, f. 6r. Una vipera maschio; una vipera femmina che attacca un uomo.

 

Altri poemi didascalici a cui è associato il nome di Nicandro, alcuni dei quali sono noti solo da frammenti o dal loro titolo, mostrano chiaramente l’ambizione di creare un’enciclopedia in versi: i due libri di Γεωργικά sulla coltivazione dei campi e sul giardinaggio[2]; i Μελισσουργικά, sull’apicultura; gli Ὀφιακά, una monografia sui serpenti e una raccolta di figure mitiche morse da questi rettili. A queste opere si aggiungono altri due titoli: Περὶ χρηστηρίων πάντων (Sulle medicine utili) e Ἰάσεων συναγωγή (Una raccolta di terapie). Ci sono alcuni indizi di due ulteriori testi che dovevano trattare rispettivamente di cinegetica e di mineralogia. Un’altra opera perduta dello stesso Nicandro, i Προγνωστικά, sarebbe, secondo la Suda, una parafrasi in esametri dell’omonimo trattato pseudo-ippocratico.

 

Antonio del Pollaiolo, Apollo e Dafne. Olio su tavola, 1470. London, National Gallery.

 

Fra le opere non pervenute di Nicandro, però, non si può non ricordare il poema mitologico, intitolato Ἑτεροιούμενα (Metamorfosi), dedicato, secondo una consuetudine iniziata dagli Aἴτια callimachei, a leggende di eroi ed eroine trasformati dagli dèi in piante o animali. I pochissimi versi sopravvissuti di quelli che dovevano essere quattro o cinque libri di poesia non potrebbero bastare a darci un’idea dell’argomento, se non avessimo i riassunti dei miti, contenuti in un’opera di Partenio e nel compendio realizzato da Antonino Liberale, forse liberto di Antonino Pio. Non è certo che quest’opera abbia influenzato le Metamorfosi ovidiane.

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Per un aggiornamento bibliografico, si vd. il sito A Hellenistic Bibliography [sites.google.com].

 

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Note:

[1] Ciononostante, Cameron (1995) attribuisce entrambi i poemi didascalici al Nicandro più vecchio e segue, perciò (se si dà credito alle vitae Arati), l’antica opinione che il poeta di Soli e questo autore fossero contemporanei.

[2] Il retore Ateneo di Naucrati, vissuto al tempo di Commodo, ci ha conservato circa cento versi di questo poema didascalico sull’agricoltura, che, secondo Quintiliano (Inst. X 1, 56), avrebbe fornito numerosi spunti all’omonima opera di Virgilio; ma si tratta di un’affermazione tutta da dimostrare, dato che non sembra che nessuno dei frammenti superstiti, che trattano della coltivazione delle rose e di altre piante da fiore, sia mai stato utilizzato da Virgilio.

C. Valerio Catullo

di CONTE G.B. – PIANEZZOLA E., Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, pp. 604-617.

Una nuova generazione di poeti

Nel I secolo a.C. una nuova generazione di poeti, in forte rottura con la tradizione romana, impose un rinnovamento del gusto letterario e fondò un’estetica “moderna”, segnando una svolta decisiva nella storia della letteratura latina. Per indicare le tendenze innovatrici di questa “avanguardia” poetica Cicerone coniò la sprezzante definizione di poetae novi (o neòteroi, alla greca), acquistò (pur senza l’originaria connotazione negativa) dalla critica letteraria.

Il fastidio di Cicerone per quelli che tutt’insieme chiamava «poeti moderni» (un Cicerone maturo, lontano ormai dagli esperimenti poetici giovanili di gusto ellenizzante) si manifestò anche in un’altra sua celebre definizione: cantores Euphorionis, dal nome del poeta Euforione di Calcide (III secolo a.C.), celebre per la ricercata densità e la preziosa erudizione dei suoi versi, assunto a emblema della poetica alessandrina (lo divulgò verso la metà del I secolo a.C. il poeta greco Partenio di Nicea, «il profeta della scuola callimachea», condotto a Roma probabilmente da Cinna). Così Cicerone bollava i nuovi protagonisti del panorama letterario, irridendo il loro irriverente rifiuto della tradizione romana, personificata da Ennio.

Poeta nelle vesti di Orfeo (dettaglio). Statua, terracotta, 350-300 a.C. ca. da Taranto.

 

Alle radici del rinnovamento culturale: l’ellenizzazione della società romana

Il processo di modernizzazione del gusto letterario promosso dai poetae novi non fu che un aspetto del generale fenomeno di ellenizzazione dei costumi che caratterizzò la società romana nell’età tardo-repubblicana. Questa trasformazione dei modi di vita fu la conseguenza più evidente delle grandi conquiste del II secolo a.C., che avevano aperto alla potenza romana lo scenario dell’area orientale del Mediterraneo e messo a contatto l’arcaica società di contadini-soldati con popolazioni abituate a forme di vita più raffinate. L’enorme complesso fenomeno di civilizzazione – che aveva incontrato a Roma la tenace ostilità dei cultori della tradizione, della fazione catoniana – manifestò la sua influenza, com’è ovvio, anche nel campo specificamente letterario.

Si verificò così un lento ma progressivo indebolimento dei valori e delle forme della tradizione (di generi letterari politicamente e moralmente “impegnati”, come l’epica e soprattutto il teatro) e l’emersione di esigenze nuove, dettate dall’affinarsi del gusto e della sensibilità. Di veramente nuovo rispetto alle scelte dei predecessori i poeti neoterici avevano non tanto la predilezione per la letteratura greca più recente (anche gli autori latini più arcaici, infatti, avevano lavorato con tecniche già “alessandrine”), quanto la decisa imitazione degli aspetti eruditi e preziosi che caratterizzavano appunto quella letteratura. I neòteori presero dai poeti ellenistici il gusto per la contaminatio tra i generi, l’interesse per la sperimentazione metrica, la ricerca di un lessico e di uno stile sofisticati e, infine, il carattere decisamente disimpegnato della loro poesia.

Muse e letterati (part.). Rilievo, marmo, metà III sec. d.C. da sarcofago asiatico. Roma, Museo Nazionale.

 

I caratteri della poesia neoterica

Preludio della rivoluzione neoterica fu la comparsa, negli ultimi decenni del II secolo a.C. nell’élite colta romana, di una poesia di tono leggero e di dimensioni ridotte, destinata al consumo privato. Il carattere scherzoso di questo tipo di componimenti era implicito nel termine stesso che li designava, nugae («bagatelle», «sciocchezze»), a indicarne appunto la natura disimpegnata, di semplice intrattenimento. Coltivata nella cerchia intellettuale che faceva capo all’aristocratico Q. Lutazio Catulo, questa poesia fu il frutto dell’otium, dello spazio sottratto agli impegni civili e dedicato alla lettura e alla conversazione dotta; la rivendicazione delle esigenze individuali accanto agli obblighi sociali si manifestò anche nell’interesse per i sentimenti privati, come l’amore; e, soprattutto, la ricerca di elaborazione formale (lessico, metrica, impianto compositivo, ecc.) rivela un gusto educato dal contatto con la cultura e la poesia alessandrine.

Nonostante gli elementi di continuità fra la poesia pre-neoterica e quella propriamente neoterica, ben maggiore era la consapevolezza che quest’ultima possedeva, e assai più netto lo scarto che essa introduceva rispetto alla tradizione letteraria latina. L’eleganza spesso manierata, l’artificioso sperimentalismo praticato sui modelli greci dai letterati della cerchia di Lutazio Catulo, lasciarono il posto a un tipo di poesia che dall’otium e ai suoi piaceri non avrebbe concesso solo uno spazio limitato (ritagliato ai margini di un sistema, come deroga occasionale a una condotta di vita incentrata ancora sui doveri del civis), ma li avrebbe collocati al centro dell’esistenza stessa, facendone i valori assoluti, le ragioni esclusive, come sarebbe successo in Catullo.

La poesia neoterica, infatti, segnò il culmine, sul piano letterario, di una tendenza da tempo sensibile nella cultura latina: da una parte, il crescente disinteresse per la vita attiva spesa al servizio della res publica, per i valori venerandi della tradizione, per il ruolo insomma del civis Romanus; dall’altra, il contemporaneo affermarsi del gusto dell’otium, del tempo libero dedicato alle lettere e ai piaceri, alla soddisfazione dei bisogni individuali e privati.

La rivoluzione del gusto letterario fu accompagnata da una più generale rivolta di carattere etico che la sostanziava, mostrando la crisi dei valori del mos maiorum. Il rifiuto della vita impiegata al servizio della comunità, del modello del cittadino-soldato, si riflesse (e insieme se ne alimentò) nel diffondersi dell’Epicureismo, di una filosofia cioè che predicava la rinuncia ai negotia politico-militari per una vita appartata e tranquilla, nell’intima comunione con gli amici.

La convergenza fra i principi dell’Epicureismo e le tendenze dei poeti neoterici è evidente, ma va notata anche una differenza importante: per gli epicurei, il cui fine era l’atarassia (il piacere di vivere senza turbamenti), l’eros era una malattia insidiosa, da fuggire come fonte di angoscia e di dolore (basti pensare al libro IV di Lucrezio), mentre per i neòteroi – soprattutto per Catullo – l’amore era il sentimento centrale della vita, quello che ne costituiva il fulcro e la ragione essenziale. Esso diventava, perciò, anche il tema privilegiato della nuova poesia, e concorreva a dar forma a un nuovo stile di vita, ispirato appunto dal culto dell’eros e delle passioni e dalla dedizione alla poesia che di esse si alimentava.

L’affinità di gusto che accomunava i vari poeti (che non componevano, comunque, un circolo o una scuola, non erano cioè organicamente collegati in un programma complessivo; ma una ragione di vicinanza e di amicizia stava già nella provenienza della maggior parte di loro, dalla Gallia Cisalpina) si tradusse anche in contatti, incontri, discussioni e letture comuni, cioè in un’attività critico-filologica che accompagnava la pratica poetica vera e propria e le faceva da supporto e verifica. Il travaglio della forma, la cura scrupolosa della composizione, il paziente labor limae erano, infatti, i tratti distintivi primari della nuova poetica callimachea (da Callimaco, appunto, il poeta ellenistico preso a modello e assurto a emblema degli ideali di poetica alessandrina).

E siccome proprio Callimaco, a suo tempo, aveva aspramente polemizzato contro gli epigoni dell’epos omerico, irridendo la sciatteria e la prolissità del lungo poema, propugnando invece un nuovo stile poetico, ispirato alla brevitas (il componimento di piccole dimensioni) e dell’ars (il meticoloso lavoro di cesello), così anche i neòteroi, dal canto loro, irridevano gli stanchi imitatori di Ennio, i pomposi cultori dell’epica tradizionale (Volusio, Suffeno e Ortensio), una poesia celebrativa delle glorie patrie, estranea ormai al gusto attuale sia per la trascuratezza formale sia per i contenuti antiquati. Ben altri, invece, furono i generi privilegiati dalla poetica callimachea e ritenuti più adatti all’accurato lavoro di cesello, al labor limae: quelli brevi, come, per esempio, l’epigramma, oppure quelli – come l’epillio, il poema mitologico in miniatura – che davano modo al poeta di fare sfoggio della propria preziosa erudizione (antichi miti di soggetto erotico, vicini perciò alla sensibilità “moderna”) e di attuare raffinate strategie compositive (racconti “a incastro”, narrazioni cucite insieme che si rispecchiavano l’un l’altra).

Inoltre, i principi ispiratori della poetica di scuola callimachea diedero luogo all’elaborazione di un nuovo linguaggio poetico e segnarono, più in generale, una svolta decisiva nella storia del gusto letterario a Roma. Il neoterismo avrebbe costituito, d’ora in poi, come un baluardo di “modernità”, che avrebbe proiettato nel passato la letteratura precedente: insomma, non avrebbero più potuto tener conto degli imperativi del nuovo gusto nemmeno i cultori delle forme più tradizionali.

Lawrence Alma-Tadema, Il poeta preferito. Olio su tela, 1888.

 

Una rivoluzione nel gusto e nei versi

Come si è detto, tra i precursori dei neòteroi propriamente detti un posto di rilievo spetta a Q. Lutazio Catulo, uno degli esponenti più cospicui dell’ordo senatorio, console insieme a C. Mario e vincitore con lui dei Cimbri (101 a.C.). Uomo impegnato nella vita pubblica e autore, fra l’altro, di opere storiografiche di carattere memorialistico (come il De consulatu et de rebus gestis suis), Catulo riservò all’otium e alla poesia “nugatoria” uno spazio piuttosto limitato, deroga occasionale a una condotta di vita pienamente incentrata ancora sui doveri del civis.

Così, nel fr. 1 Morel = Buechner, rielaborazione di un epigramma callimacheo sul motivo dell’èros paidikòs (l’«amore per gli adolescenti»), l’amore appare quale semplice pretesto letterario a una dotta variatio sul tema:

 

Aufugit mi animus; credo, ut solet, ad Theotimum

deuenit. Sic est, perfugium illud habet.

Quid, si non interdixem, ne illunc fugitiuum

mitteret ad se intro, sed magis eiceret?

5 Ibimus quaesitum. Verum, ne ipsi teneamur

formido. Quid ago? Da, Venus, consilium.

 

Il cuore mi è fuggito; come al solito, credo, da Teonimo

è andato. Già: proprio là ha il suo rifugio.

Che mai accadrebbe, se non gli avessi fatto divieto di dar ricetto

a quel fuggitivo, ma gli avessi imposto di cacciarlo?

5 Andrò a cercarlo. Eppure, ho grande timore di essere

catturato. Che fare? Dammi tu, Venere, un consiglio.

 

Attorno a Lutazio Catulo si raccolse un gruppo di letterati accomunati dal nuovo gusto per la poesia leggera di intrattenimento. Non si dovrebbe parlare di un vero e proprio “circolo di Lutazio Catulo” – si è troppo insistito, infatti, sul carattere, a detta di alcuni, “democratico”, o almeno antisillano, di questa cerchia di intellettuali diversi tra loro per estrazione sociale e per tendenze politiche –: ma a collegare i vari componenti doveva essere solo una comunanza di gusti e di orientamenti letterari.

Venere. Statua, marmo, I sec. d.C. ca. da Arlés. Paris, Musée du Louvre.

 

Si ricordano almeno Valerio Edituo e Levio. Il primo fu autore, come Catullo, di epigrammi erotici di manierata fattura alessandrina, uno dei quali (fr. 1 Morel = Buechner) rielabora un celebre tema di Saffo, ripreso anche da Catullo nel carmen 51:

 

Dicere cum conor curam tibi, Pamphila, cordis

quid mi abs te quaeram, verba labris abeunt,

per pectus ‹ … › manat subito mihi sudor:

sic tacitus, subidus, dum pudeo pereo.

 

Quando io tento, Panfila, di dirti la pena del mio cuore

e quello che desidero da te, le mie labbra restano senza parole

e d’improvviso ‹…› il sudore m’intride il petto:

così muto, avvampante, me ne sto qui, vergognoso, a morire.

 

Quanto a Levio, si sa che doveva essere vissuto più o meno agli inizi del I secolo a.C. Dei suoi Erotopaegnia (“Scherzi d’amore”) resta circa una cinquantina di versi, dove i miti più famosi della tradizione epica – le storie di Ettore, Elena, Circe, Protesilao e Laodamia – diventano soprattutto temi d’amore, storie appassionate, raccontati con tratti talora di morbida sensualità. Levio era famoso anche per la relativa libertà che si prendeva nel coniare composti strani e nello sperimentare forme metriche inusitate. Al preziosismo alessandrino di Levio vanno riportati i suoi carmina figurata, componimenti in cui la forma e l’ordine dei versi “disegnano” letteralmente l’oggetto di cui si parla nei componimenti (per esempio, una zampogna, oppure un’ala d’uccello, ecc.), veri e propri calligrammi.

Se la prima poesia nugatoria era ancora strettamente dipendente dai modelli ellenistici, Levio elaborò in modo più originale i testi che imitava, sperimentando nuove possibilità espressive. In ciò è giusto considerarlo effettivamente un anello di congiunzione, un precursore più diretto della poesia neoterica vera e propria.

Scena conviviale. Affresco, I secolo a.C. dalla Casa degli Amanti (IX 12, 6-8), Pompei.

 

Una figura di spicco, quasi un “caposcuola”, delle nuove tendenze poetiche fu certamente P. Valerio Catone. Originario della Gallia Cisalpina (ne parla Svetonio nel De grammaticis), nacque a Patavium probabilmente agli inizi del I secolo a.C.: venne a Roma, dove visse come grammatico e maestro di poesia fino a una tarda vecchiaia funestata dalla povertà. Lettore e critico temuto di poesia, nonché poeta egli stesso, rinnovò a Roma la grande tradizione dei filologi alessandrini (fu, infatti, accostato a Zenodoto e al pergameno Cratete).

Poeta neoterico, ma anche autore di poemi epico-storici, fu P. Terenzio Varrone Atacino, che continuò la poesia di stampo enniano, componendo un poema storico, il Bellum Sequanicum (sulla campagna di Cesare contro Ariovisto, del 58 a.C.), ma aderì anche al nuovo gusto poetico in un’opera intitolata Leucadia, dal nome della donna amata; i poeti elegiaci l’avrebbero indicata fra i primi esempi di poesia erotica latina. Di Varrone Atacino va, però, soprattutto ricordato il poema epico Argonautae, libera traduzione in esametri latini (o forse, piuttosto, un rifacimento) delle Argonautiche di Apollonio Rodio: Varrone Atacino proseguì così la tradizione dei poeti-traduttori – funzionale all’esigenza di elaborare, sulla scorta dei grandi modelli greci, un nuovo linguaggio poetico latino – e insieme manifestò la preferenza per un tipo di epica che faceva largo spazio all’eros e alle sue complicazioni psicologiche. Ciò avrebbe, certamente, attratto l’interesse dei poeti nuovi. Un frammento superstite del suo poema restituisce uno splendido “notturno” (fr. 8 Morel = 9 Traglia):

 

Desierant latrare canes urbesque silebant;

omnia noctis erant placida composta quiete.

 

Avevano smesso di latrare i cani e silenziose erano le città;

ogni cosa giaceva nella placida quiete della notte.

 

Selene e Endimione. Affresco, I sec. a.C. dalla Casa dei Dioscuri (Pompei). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

Ma le due figure di maggior rilievo, note soprattutto grazie a Catullo, che fu loro amico, sono state quelle dei due poeti C. Elvio Cinna e C. Licinio Calvo. Cinna era originario di Brixia e partecipò con Catullo al viaggio in Bitinia del 57 a.C. C’è chi lo identifica con il Cinna che avrebbe portato a Roma al proprio seguito il poeta greco Partenio di Nicea, i cui Erotikà pathèmata (“Sofferenze d’amore”), brevi componimenti che raccontavano di infelici amori mitici, riscossero grande successo presso i poetae novi.

Ispirata proprio ai testi di Partenio doveva essere la Zmyrna di Cinna, storia dell’amore incestuoso di una fanciulla per il proprio padre, Cinira. Il poemetto fu salutato dall’amico Catullo come opera di alto valore e destinata a durare nei secoli (c. 95, v. 1 s.): Zmyrna mei Cinnae nonam post denique messem / quam coepta est nonamque edita post hiemem («La Zmyrna del mio Cinna dopo la nona estate da che fu cominciata / e dopo il nono inverno è venuta alla luce»).

La Zmyrna richiese, dunque, nove anni di laboriosissime cure, e per densità di dottrina doveva essere talmente impenetrabile da aver bisogno di un commento esegetico di un grammatico, come informava Svetonio. Eccone un frammento, relativo al momento in cui, dopo la rivelazione dell’incesto voluto dalla figlia presa d’amore per lui, il padre Cinira ha scacciato Zmyrna (o Mirra), che ora vaga in preda al rimorso e alla disperazione (fr. 6 Morel = 12 Traglia; fr. 7 Morel = 13 Traglia):

 

te matutinus flentem conspexit Eous

et flentem paulo uidit post Hesperus idem.

 

Piangente ti scorse al mattino Eoo

e poco dopo Espero ancor ti vide piangente.

Scena erotica. Affresco parietale, ante 79 d.C., dalla Casa del Ristorante. Pompei, Parco Archeologico.

Licinio Calvo (82-47 a.C.) era di Roma e apparteneva a un’illustre famiglia plebea. Fu oratore famoso, seguace dell’indirizzo atticista, quello che, perseguendo un ideale di nitida, concisa, asciuttezza, contrario all’enfasi e alla prolissità, meglio si conciliava con il gusto neoterico. Di lui restano pochissimi versi (soprattutto di soggetto amoroso), tra i quali il dolente epicedio per la moglie Quintilia. La Io, invece, era un epillio sulla storia dell’eroina amata da Giove e perseguitata da Giunone, che la trasformò in giovenca. Il tema stesso della metamorfosi era molto caro agli alessandrini, poiché soddisfaceva la loro passione per il paradossale e dava modo di cimentarsi in descrizioni che richiedevano grande virtuosismo. Di un verso del poemetto di Calvo (a, uirgo infelix, herbis pasceris amaris [«ah, ragazza sventurata, di erbe amare ti pascerai!»], fr. 9 Morel = 14 Traglia) si sarebbe poi ricordato Virgilio, che lo avrebbe citato ben due volte nella VI egloga, riferendolo a Pasifae, moglie di Minosse innamoratasi di un toro: a, uirgo infelix, quae te dementia cepit! («ah, ragazza sventurata, quale follia ti colse!», v. 47); a, uirgo infelix, tu nunc in montibus erras («ah, ragazza sventurata, tu ora erri sui monti», v. 52).

 

Catullo, il massimo interprete della nuova poesia

Il nome e la poesia di Catullo sono tradizionalmente associati alla rivoluzione neoterica; ne sono anzi il documento più importante. Rivoluzione del gusto letterario, certo, ma – come si è detto – anche rivolta di carattere etico: mentre, infatti, nell’età di crisi acuta della res publica romana si stavano sgretolando gli antichi valori morali e politici della civitas, l’otium individuale diventava l’alternativa seducente alla vita collettiva, lo spazio in cui dedicarsi alla cultura, alla poesia, alle amicizie, all’amore, insomma, a se stessi e alla propria crescita personale. Il piccolo universo privato, con le sue gioie e i suoi drammi, si identificava con l’orizzonte stesso dell’esistenza, e l’attività letteraria non si rivolgeva più all’epos o alla tragedia – i generi portavoce della civitas e dei suoi valori –, bensì alla lirica, alla poesia individuale, introversa, adatta ad accogliere ed esprimere le piccole vicende della vita personale.

C. Valerio Catullo (forse). Frammento di decorazione parietale, affresco, fine I sec. a.C.- inizi I sec. d.C. da Sirmione. Sirmione, Antiquarium.

C. Valerio Catullo nacque a Verona, nella Gallia Cisalpina, certamente da famiglia agiata (Cesare stesso fu ospite a casa sua). La data della nascita è incerta: Girolamo, che si rifà a Svetonio, la fissa nell’87 a.C. e trent’anni dopo, nel 57, colloca la morte; ma il poeta era certamente ancora vivo almeno nel 55 a.C. Lo provano, infatti, alcuni suoi accenni ad avvenimenti occorsi in quell’anno. Pertanto, con quella della morte bisogna abbassare anche la data della nascita, cioè grosso modo 84-54 a.C. (sempre che sia vera la notizia della morte a trent’anni), oppure si dovrà supporre che Catullo sia vissuto qualche anno più di quanto attesta Girolamo.

A Roma (non è dato sapere quando vi giunse) Catullo conobbe e frequentò personaggi di spicco dell’ambiente politico e letterario, dal celebre oratore Q. Ortensio Ortalo ai poeti Cinna e Calvo, da L. Manlio Torquato al giurista e futuro console suffectus Alfeno Varo, da Cornelio Nepote a C. Memmio, ed ebbe una relazione amorosa con Clodia (la Lesbia dei suoi versi), quasi certamente la sorella mediana del tribuno P. Clodio Pulcro e moglie di Q. Cecilio Metello Celere, console nel 60. Probabilmente nel 57 a.C. Catullo andò in Bitinia, per un anno, come membro dell’entourage del pro praetor C. Memmio; in occasione di questo viaggio, il poeta visitò la tomba del fratello, morto e sepolto nella Troade (cfr. c. 101).

Le notizie biografiche su Catullo derivano soprattutto dai suoi carmina, ma la materia di cui si sostanzia il Liber è spesso sfuggente e offuscata; sulle relazioni della famiglia del poeta con Cesare fornisce qualche informazione Svetonio in Iul. Caes. 73, dal De vita Caesarum. Che Lesbia fosse uno pseudonimo per Clodia Pulcra molto riporta Cicerone, che ne traccia un fosco ritratto nella Pro Caelio, l’orazione in difesa di M. Celio Rufo, ex amante della donna e da lei più tardi citato in giudizio con l’accusa di veneficio.

Di Catullo si hanno 116 carmi[1], per un totale di quasi 2.300 versi, raccolti in un Liber che si suole suddividere sommariamente in tre sezioni, su base metrica: i carmina 1-60, le cosiddette nugae, ovvero componimenti brevi e di carattere leggero; i carmina 61-68, o carmina docta, cioè testi più lunghi e stilisticamente elaborati; e, infine, i carmina 69-116, che sono sostanzialmente degli epigrammi in distici elegiaci.

È controversa la questione relativa alla composizione della raccolta: se qualche critico attribuisce al poeta stesso la responsabilità dell’ordinamento del Liber, i più tendono giustamente a credere che tale organizzazione, non rispondente a criteri cronologici o di contenuto, ma esclusivamente metrici, sia opera di altri (un criterio, quindi, da filologi!), dopo la scomparsa del poeta. Alcuni carmina, tuttavia, devono essere rimasti esclusi dalle prime edizioni postume, perché si hanno per tradizione indiretta versi attribuiti a Catullo, che non compaiono nei componimenti raccolti nel Liber. Bisognerà quindi supporre che il libellus che il poeta dedica a Cornelio Nepote (c. 1) non corrispondesse esattamente al Liber rimasto, ma ne costituisse solo una parte.

 

Poeta con stilus e tabula cerata. Mosaico, II-III sec. d.C. Trier, Rheinisches Landesmuseum.

 

La poesia dei sentimenti privati: i carmi brevi

Al progetto di recupero della dimensione intima, dei sentimenti privati, che caratterizza la rivoluzione neoterica, risponde in modo più evidente quella parte della produzione catulliana che si suole indicare come «carmi brevi», cioè l’insieme dei polimetri e degli epigrammi: l’esiguità dell’estensione rivela già in se stessa la modestia dei contenuti, occasioni e avvenimenti quotidiani, e favorisce insieme il paziente lavoro di cesello, la ricerca della perfezione formale.

Affetti, amicizie, odi, passioni, aspetti minori o minimi dell’esistenza sono l’oggetto della poesia di Catullo: uno scherzoso invito a cena (c. 13), il benvenuto a un amico che torna dalla Hispania, le proteste per un gesto poco urbano o per un dono malizioso ricevuto dal poeta sono solo alcune di queste occasioni.

Dall’occasionalità dei temi risulta un’impressione di immediatezza, di vita riflessa che ha dato luogo, nella storia della critica, a un equivoco tenace, quello di una poesia ingenua e spontanea, e di un poeta “fanciullo” che dà libero sfogo ai propri sentimenti, senza i vincoli della morale e i filtri della cultura. In realtà, la celebrata spontaneità catulliana è la veste che questa poesia si costruisce, ma è un’apparenza ricercata e ottenuta grazie a un ricco patrimonio di doctrina: anche i componimenti che sembrano più occasionali, riflesso immediato della realtà, hanno i loro precedenti letterari (come, spesso, l’epigramma greco, il cui influsso si avverte soprattutto nei carmi in distici). L’aggancio a un preciso spunto occasionale garantisce ai carmi catulliani una freschezza del tutto incomparabile.

Nel complesso impasto stilistico della poesia di Catullo entrano precise risonanze letterarie, che quasi mai hanno valenza puramente esornativa, dissimulate più o meno sapientemente in una parvenza di slancio passionale o di immediatezza giocosa, quasi fossero gesti irriflessi di un’emozione e nulla più. D’altra parte, solide strutture formali costituiscono l’“ordito” su cui si inscrive il gioco apparentemente tutto libero del poeta.

Bisogna, quindi, sottrarsi ai rischi del biografismo (si è creduto, infatti, sulla base dei suoi carmina, di poter fedelmente ricostruire la storia dell’amore con Lesbia) e verificare di volta in volta la genesi complessa di questa poesia intessuta di doctrina: non si tratta, beninteso, di negare la vita vissuta, l’importanza davvero insolita che l’esperienza biografica assume in Catullo, ma di vedere come essa si atteggia secondo movenze letterarie, come si deposita nelle forme della tradizione.

Non si deve dimenticare, poi, che il destinatario di ogni testo (la cui presenza alla mente del poeta non è senza conseguenze dirette e importanti sull’organizzazione formale del carmen stesso) è perlopiù rappresentante di una cerchia raffinata e colta: lui si attende, dunque – gli è anzi “dovuto” –, un prodotto letterario che abbia veste stilistica e fattura formale di livello adeguato.

Lo sfondo della poesia di Catullo, infatti, è costituito dall’ambiente letterario e mondano dell’Urbe, di cui fa parte la cerchia degli amici neoterici, accomunati dagli stessi interessi, da uno stesso linguaggio, da un ideale condiviso di grazia e da una brillantezza di spirito: lepos, uenustas, urbanitas sono i principi che fondano questo codice etico e insieme estetico, che governa comportamenti e rapporti reciproci, ma ispira anche il gusto letterario e artistico.

Edward Poynter, Lesbia e il suo passero. Olio su tela, 1907.

Sullo sfondo del raffinato ambiente mondano campeggia e risalta la figura di Lesbia, incarnazione della devastante potenza dell’eros, protagonista indiscussa della poesia catulliana. Il suo stesso pseudonimo, che rievoca Saffo, la poetessa di Lesbo, è sufficiente a creare attorno alla donna come un alone idealizzante: oltre alla grazia e alla bellezza non comuni, sono soprattutto intelligenza, cultura, spirito brillante, modi raffinati a farne il fascino e ad alimentare la passione del poeta.

Gioie, sofferenze, tradimenti, abbandoni, rimpianti, speranze, disinganni scandiscono le vicende di questo amore che è vissuto da Catullo come l’esperienza capitale della propria vita, capace di riempirla e darle un senso. All’eros non è più riservato lo spazio marginale che gli accordava la morale tradizionale, quale debolezza giovanile, tollerabile purché non infrangesse certe limitazioni e convenienze soprattutto di ordine sociale, ma esso diventa centro stesso dell’esistenza e valore primario, il solo in grado di risarcire la fugacità della vita umana (celebre l’invito del c. 5: Vivamus, mea Lesbia, atque amemus…).

All’amore e alla vita sentimentale Catullo trasferisce tutto il proprio impegno, sottraendosi ai doveri e agli interessi propri del civis romano: egli resta, quindi, estraneo alla politica e alle vicende della vita pubblica, ai conflitti di potere che lacerano la società tardorepubblicana, limitandosi a esternare un generico sprezzante disgusto per i nuovi protagonisti della scena politica, arroganti e corrotti.

Il rapporto con Lesbia, nato essenzialmente come adulterio, come amore libero e basato sull’eros, nel farsi oggetto esclusivo dell’impegno morale del poeta tende perciò, paradossalmente, a configurarsi nelle aspirazioni di Catullo come un tenace vincolo matrimoniale. Le recriminazioni per il foedus d’amore violato da Lesbia sono un motivo insistente sulla bocca del poeta, che accentua il carattere sacrale del concetto, appellandosi a due valori cardinali dell’ideologia e dell’ordinamento sociale romano: la fides, che garantisce il patto stipulato, vincolando moralmente i contraenti, e la pietas, virtù propria di chi assolve ai suoi doveri nei confronti degli altri, specialmente dei consanguinei, nonché della divinità.

Catullo cerca di fare di quella relazione irregolare un aeternum… sanctae foedus amicitiae (c. 109, v. 6), nobilitandola con la tenerezza degli affetti familiari (pater ut gnatos diligit et generos, c. 72, v. 4), ma l’offesa ripetuta del tradimento produce in lui una dolorosa dissociazione fra la componente sensuale (amare) e quella affettiva (bene uelle): celebre esempio di questo conflitto interiore è il carmen 72, appunto, che analizza con lucida amarezza la scomparsa di ogni stima e affetto per quella donna che continua, ancor più intensamente, ad accendere la passione dell’innamorato (iniuria talis / cogit amare magis, sed bene uelle minus, vv. 7-8). E celeberrimo è il carmen 85, che condensa in un ossimoro (odi et amo) la dolorosa sensazione del poeta stupito di fronte al dissidio che lo lacera.

La speranza sempre frustrata di un amore fedelmente ricambiato si accompagna in Catullo alla consapevolezza di non aver mai mancato al foedus d’amore con Lesbia, alla gratificante certezza della propria innocenza: il carmen 76 – in cui, a suo tempo, qualcuno volle erroneamente vedere la fiducia di una ricompensa nell’aldilà – è l’espressione più nota di questa consolazione della buona coscienza, di una uoluptas del ricordo garantita per il resto dei giorni terreni dalla consapevolezza di aver tenuto fede a un impiego morale. La sola soddisfazione sicura che l’amore per Lesbia gli avrebbe dato.

Venere, un’ancella e Amore. Affresco, post 29 a.C. Cubiculum B. Casa della Farnesina, Roma, P.zzo Massimo alle Terme.

 

La poesia dotta di matrice alessandrina: i carmina docta

Lepidus, nouus, expolitus: così, presentando il suo libellus nel carme dedicatorio, Catullo oltre ai caratteri materiali ed esteriori ne definisce indirettamente anche quelli interni, i criteri di una nuova poetica ispirata a brillantezza di spirito e raffinatezza formale. Questa poetica rivela apertamente la sua ascendenza alessandrina, meglio ancora callimachea, soprattutto in quella sorta di “manifesto” del nuovo gusto letterario che è il carmen 95, cioè l’annuncio della pubblicazione del poemetto dell’amico Cinna (vv. 1-2; 7-10):

 

Zmyrna mei Cinnae nonam post denique messem

quam coepta est nonamque edita post hiemem […]

At Volusi annales Paduam morientur ad ipsam

et laxas scombris saepe dabunt tunicas.

Parua mei mihi sint cordi monimenta ***,

at populus tumido gaudeat Antimacho

 

La Smirna del mio Cinna dopo nove messi

e nove inverni da che è cominciata vide la luce […]

Gli Annali di Volusio periranno alla foce del Po

e serviranno spesso da tuniche ampie per gli sgombri.

A me stiano a cuore i brevi grandi testi dell’amico;

quanto al popolo, si goda le goffaggini di Antimaco.

 

Brevità, eleganza e dottrina sono i canoni di un gusto cui Catullo aderisce senza riserve, in polemica contrapposizione alla torrenziale faciloneria degli attardati epigoni di scuola enniana, che entusiasmano il pubblico incompetente. I veri intenditori apprezzeranno, invece, la nuova epica elaborata dai poeti neoterici, l’epillio, il poemetto breve (poche centinaia di versi!), che con le sue stesse dimensioni favorisce il paziente lavoro di rifinitura stilistica, teso a conferire asciuttezza e pregnanza, e che sul piano dei contenuti permette al poeta di far sfoggio della sua preziosa dottrina (si tratta, perlopiù, di vicende mitologiche esotiche e dai risvolti patologicamente passionali).

Dottrina e impegno stilistico, oltre a una maggiore ampiezza dei componimenti, sono particolarmente evidenti nella sezione dei carmi che, per tale motivo, sono noti come docta, in cui il poeta sperimenta anche nuove forme compositive, dando prove di raffinata sapienza strutturale.

Amore e Psiche. Affresco pompeiano, dalla Casa di Terenzio Neo. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

L’epillio: le nozze di Peleo e Teti e il lamento di Arianna

Come altri poeti neoterici – Cinna con la sua Zmyrna, Valerio Catone con la sua Dictynna, Calvo con l’Io, Cecilio (un poeta ricordato da Catullo) con la Magna Mater – anche Catullo si cimenta nel nuovo genere dell’epillio: il c. 64 ne costituirà quasi il modello esemplare per la cultura latina a venire. Questo celebre poemetto di 408 esametri narra il mito delle nozze di Peleo e Teti, ma nella vicenda principale contiene – incastonato mediante la tecnica alessandrina dell’èkphrasis e della digressione – un’altra storia, che figura ricamata sulla coperta nuziale, quella dell’abbandono di Arianna a Nasso da parte di Teseo – un motivo che conosce grande diffusione nella letteratura greca e latina: su questo modello, tra l’altro, saranno improntate le Heroides ovidiane.

L’intreccio delle due vicende d’amore, quello infelice di Arianna e quello felice dei due sposi, istituisce fra di esse una serie di relazioni che hanno il proprio nucleo nel tema della fides, la virtù cardinale del mondo etico catulliano, quella fides di cui, nella lontana età degli eroi, gli stessi dèi si facevano garanti e che nella corrotta età presente è violata e vilipesa insieme agli altri valori morali e religiosi. Il canto profetico delle Parche saluta, invece, le nozze di Peleo e Teti, esaltando la reciproca fedeltà degli sposi. Il mito si fa cioè, qui come altrove, proiezione e simbolo delle aspirazioni del poeta, del suo bisogno perennemente inappagato di ancorare un amore tanto precario a un vincolo più saldo, a un foedus duraturo.

Un epillio è anche il c. 63: si ispira alla vicenda del giovane frigio Attis, che, nel delirio religioso, si mutila della sua virilità per farsi sacerdote di Cibele, la grande madre degli dèi. Il culto orgiastico di questa divinità, con musica ossessiva e danze cruente, era stato introdotto a Roma intorno al 205/4 a.C. Una volta libero dall’invasamento, Attis lamenta il folle gesto.

Bacco e Arianna. Affresco, ante 79 d.C, Casa dei Braccialetti d’Oro, Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

Omaggio ai modelli greci: gli epitalami e la Chioma di Berenice

Epitalami, cioè canti nuziali, sono i carmina 61 e 62. Si tratta di un genere letterario di origine ellenica, praticato dall’epoca di Saffo all’età alessandrina, che Catullo romanizza con l’inserimento di una serie di elementi tipicamente italico-romani, sia per quanto riguarda il rito nuziale sia sul piano etico-sociale. Mentre il carmen 61 fu scritto in occasione delle nozze dei due nobili romani L. Manlio Torquato e Vibia Aurunculeia, il carmen 62 non fu composto per un’occasione reale (anche se in esso non mancano accenti di sensibilità latina, il componimento rivela una più marcata adesione ai caratteri formali del genere).

Nel ciclo dei carmina docta è compreso anche un componimento (c. 66) che è un omaggio al poeta principe dell’alessandrinismo, Callimaco: si tratta della traduzione in versi latini di un’elegia famosa del poeta cirenaico, nota come Chioma di Berenice, che pare occupasse la parte finale del IV libro degli Aitia e che è giunta in forma mutila e frammentaria. In essa Callimaco celebrava in versi la cortigiana escogitazione di Conone, l’astronomo alla corte di Tolemeo III Evergete, re d’Egitto, che aveva identificato una nuova costellazione da lui scoperta con il ricciolo offerto come ex voto dalla regina Berenice per il ritorno del marito dalla guerra, ricciolo successivamente scomparso. Nel tradurre, liberamente, la vicenda del catasterismo (cioè della trasformazione della ciocca in costellazione), Catullo introduce o accentua temi centrali della propria ideologia e particolarmente insistenti nei carmi maggiori: l’esaltazione della fides, della pietas, la condanna dell’adulterio e la celebrazione delle virtù eroiche e dei valori tradizionali (vi si riconduce anche il c. 67, in cui una porta racconta le vicende non proprio edificanti di cui è stata protagonista la singolare famiglia che abita in quella casa).

Ambrogio Borghi, La regina Berenice (o Chioma di Berenice) – dettaglio. Statua, marmo, 1878. Monza, Musei Civici.

 

L’amore e l’archetipo mitico: il carme 68

Particolarmente complesso è il carmen 68 (dall’unità controversa: si discute se questo componimento, trasmesso come unico dai codici, si debba, in realtà, distinguere in due testi e quale sia, in tal caso, la relazione che li lega); esso riassume i temi principali della poetica catulliana, quali l’amicizia e l’amore, l’attività letteraria e la sua connessione con Roma, il dolore per la morte del fratello. Il ricordo dei primi amori, furtivi, con Lesbia sfuma nel mito: la vicenda di Protesilao e Laodamia (unitisi prima che fossero celebrate le nozze e, perciò, puniti con la morte di lui appena sbarcato a Troia) si fa archetipo esemplare della vicenda del poeta e della sua donna, di un coniugium anch’esso imperfetto e precario.

Il carme 68 merita, dunque, una menzione particolare per il suo destino nella storia letteraria latina: il largo spazio concesso al ricordo e alla vita trascorsa, proiettata miticamente, in un componimento che andava ben al di là delle dimensioni dell’epigramma, dovevano farlo apparire come il progenitore della futura elegia soggettiva latina.

Donna seduta con kithara. Probabilmente si tratta di un ritratto della regina Berenice II, mentre si esercita al canto. Affresco, 50-40 a.C. ca. dalla Villa di P. Fannius Synistor, Boscoreale.

 

Lingua e stile

Quella di Catullo, si è detto, è una cultura letteraria ricca e complessa, in cui accanto all’influsso dominante della letteratura alessandrina, con la sua eleganza talora preziosa, è sensibile anche quello della lirica greca arcaica (dell’intensa affettività di Archiloco e di Saffo). Quanto al linguaggio, esso è il risultato di un’originale combinazione fra il lessico letterario e colto e il sermo familiaris: la lingua e le movenze del parlato vengono assorbiti e filtrati da un gusto aristocratico che li raffina e li impreziosisce, senza però insterilirne le capacità espressive.

Il gusto ricercato non produce un’eleganza esangue, ma lascia spazio, per esempio, alla cruda espressività di certi volgarismi che non vanno intesi come un tratto di lingua autenticamente popolare, ma ricondotti alla snobismo compiaciuto di un’élite colta che ama esibire il turpiloquio accanto all’erudizione più raffinata. Particolarmente frequenti, fra i tratti del sermo familiaris, i diminutivi, che nella loro stessa mollezza fonica e formale (flosculus, labella, turgiduli ocelli, molliculus, pallidulus, tenellulus, ecc.; c. 3; c. 42; c. 8) sembrano rivelare l’adesione a quell’estetica del lepos, della grazia, che accomuna la cerchia degli amici e ne condiziona anche i modi espressivi, oltre a ridefinirne la gerarchia dei valori etici.

Uno stile composito, insomma, e sempre vitale, con un’ampia gamma di modalità espressive che vanno dallo sberleffo irridente, dall’invettiva sferzante e scurrile alle morbidezze del linguaggio amoroso, dalla baldanza giovanile che dilata le immagini in iperboli alla grazia leggera, alla pacata malinconia, agli abbandoni di certi momenti elegiaci, soprattutto nei carmi più tardi.

La vitalità del linguaggio affettivo e l’intensità del pathos non sono assenti nemmeno nei carmina docta: giustamente la critica ha reagito da tempo all’idea di una netta distinzione fra i carmi più brevi, più vivacemente espressivi e dove è dominante la componente affettiva e autobiografica, e i componimenti maggiori, dove più evidenti sono la dottrina e l’elaborazione stilistica. Ma se la distinzione non va troppo marcata, non va tuttavia nemmeno annullata: vari elementi, come per esempio la selezione di un lessico generalmente più ricercato e la presenza di stilemi e movenze del poesia “alta”, della tradizione enniana (come gli arcaismi, i composti, le clausole allitteranti, ecc.), concorrono a dare ai camina docta un carattere più spiccatamente letterario.

***

Note:

[1] Più esattamente i carmina sono 113, ma la loro numerazione sale a 116, perché 3 carmi priapei (cc. 18, 19, 20) furono inseriti nel Liber (contro l’autorità dei manoscritti) dal Mureto, grande umanista del Cinquecento francese, e ne fecero parte fino a quando, nell’Ottocento, il Lachmann li escluse dal testo catulliano; eppure, la numerazione dei singoli carmi non subì sostanziali aggiustamenti. I tre carmina possono essere letti fra i Priapea dell’Appendix Vergiliana.

Pseudo-Apollodoro

di M. CAVALLI, L’autore, l’epoca, il testo della Biblioteca, in APOLLODORO, Biblioteca, Milano 2011, XIII-XVIII.

L’identità dell’autore della Biblioteca resta enigmatica. Il nome Apollodoro ricorre per la prima volta nell’opera di Fozio, il patriarca-scrittore del IX secolo d.C., che riunì riassunti ed estratti di 279 opere da lui lette nella raccolta intitolata anch’essa Biblioteca, o Myriobiblos. Sia Fozio che le note dei copisti sui suoi manoscritti identificano dunque l’autore della Biblioteca in Apollodoro il Grammatico; gli scoliasti, poi, riportano anche la sua appartenenza geografica, ateniese: e l’unico scrittore di questo nome a noi noto è, appunto, il grammatico ateniese Apollodoro, attivo ad Alessandria e poi a Pergamo intorno alla metà del II secolo a.C., del quale purtroppo nulla ci è stato tramandato. Sappiamo, però, che tra le sue opere esistevano quattro libri di Cronache in versi, dedicati alla sistemazione cronologica di tutto il periodo compreso fra la guerra di Troia (datata al 1184/3 a.C.) e il 120/19 a.C.; e soprattutto l’importante trattato Sugli dèi in ventiquattro libri, ampia compilazione mitologica, che tentava di dare ordine a tutta la materia tradizionale del mito nelle sue connessioni con il culto, le feste, la poesia, il pensiero filosofico stesso. Ma l’identificazione dell’autore della Biblioteca con il grammatico ateniese risulta impossibile, già sulla scorta dei pochi frammenti di Apollodoro in nostro possesso e delle allusioni alla natura delle sue opere e del suo pensiero presenti in altri autori. Il trattato Sugli dèi, infatti, si fondava su una forte impronta razionalistica, con la quale Apollodoro intendeva svincolarsi dal leggendario, per risolvere, invece, scientificamente i problemi inerenti alla divinità e al mito, soprattutto attraverso l’uso dell’indagine etimologica: e il principale assunto della sua opera consisteva nell’identificazione delle divinità con forze naturali oppure con famosi personaggi dell’antichità, morti da tempo e ritenuti dèi.

Vincenzo Foppa, Fanciullo che legge Cicerone. Affresco, 1464, dal Banco Mediceo di Milano. London, Wallace Collection.

Proprio il razionalismo di Apollodoro ha indotto a considerare impossibile la tradizionale attribuzione della Biblioteca: già nel 1873 C. Robert, nella sua dissertazione De Apollodori Bibliotheca, negava che un’opera così ingenua e anonima, lontana da ogni tentativo critico sul materiale del mito e qualsiasi volontà di elaborazione formale e stilistica, si potesse ascrivere al rigoroso e scettico grammatico ateniese, alcuni frammenti del cui lavoro, inoltre, rivelano particolari mitici in decisa contraddizione con passi presenti nella Biblioteca. Ma c’è di più. Nella Biblioteca compare un riferimento a Castore, autore di studi storici, contemporaneo di Cicerone: e questo dato sposta la composizione dell’opera almeno alla metà del I secolo a.C., periodo che resta fisso dunque, per la Biblioteca, almeno quale terminus post quem, e nega definitivamente la sua attribuzione ad Apollodoro di Atene. Il problema dell’individuazione del suo autore – che viene comunque chiamato, per comodità, Apollodoro o pseudo-Apollodoro – è reso ancor più arduo non solo dalla totale assenza all’interno dell’opera di riferimenti cronologici o di allusioni a fatti storici e contemporanei, ma anche dall’assoluto silenzio sull’esistenza di Roma e delle leggende relative alla sua fondazione. Così, per esempio, pur raccontando ampiamente lo stanziamento degli eroi reduci da Troia in diverse aree del Mediterraneo, come pure la fuga di Enea con il vecchio padre Anchise sulle spalle, niente Apollodoro riporta sull’arrivo dell’eroe nel Lazio e sulle vicende che stanno alla base della tradizione romana. Poteva Apollodoro non conoscere l’esistenza di Roma? È difficile crederlo, a meno di non ipotizzare che scrivesse in un luogo e in un’epoca in cui la fama di Roma ancora non si fosse diffusa: forse, dunque, in un remoto paese ai confini del mondo greco, e certo non dopo Augusto. Oppure, come suggeriscono alcuni critici, si dovrebbe piuttosto pensare a un silenzio deliberato a Roma e alle sue leggende, per qualche motivo – ideologico? politico? didattico? – che a noi rimane assolutamente oscuro. In ogni caso, una datazione della Biblioteca intorno alla metà del I secolo a.C. (l’unica che potrebbe in certo modo giustificare il silenzio su Roma) presenta nuove difficoltà, dato che l’opera non viene mai menzionata da alcun autore precedente a Fozio (IX secolo d.C.), e che lo stile e alcune abitudini verbali del suo autore sembrano semmai collocarla tra il I e il III secolo d.C. Ma più probabilmente l’assenza dei riferimenti a Roma nella Biblioteca trova spiegazione nella natura stessa dell’opera, lavoro di compilazione mitografica non originale, e basato più sulla semplice trascrizione e riduzione di originali precedenti, che non sulla loro rielaborazione critica. In questo modo – ipotizzando cioè per la Biblioteca una fonte mitografica antecedente le fortune di Roma imperiale (quindi, senz’altro anteriore al I secolo a.C.), che non citasse dunque il mondo romano perché d’importanza ancora provinciale – il silenzio su Roma trova giustificazione nella volontà di seguire pedissequamente il modello, senza intervenire sulla sua traccia con innovazioni determinate da condizioni storiche e culturali diverse.

Pittore Duride. Scuola di scrittura su tavoletta con stilo. Dettaglio dal lato B di una kylix attica a figure rosse, inizi V sec. Berlin, Staatliche Museen.

L’identità e l’epoca dello pseudo-Apollodoro restano, in ogni caso, impossibili da determinare: per quanto alcuni critici siano concordi, per ragioni stilistiche, nel collocare la sua opera intorno al I-II secolo d.C., gli unici dati certi in nostro possesso lasciano aperto tutto l’enorme periodo tra la metà del I secolo a.C. e gli inizi del IX secolo d.C. Il nome stesso “Apollodoro”, presente sia in Fozio che nei manoscritti della Biblioteca, si presta a differenti possibilità di interpretazione. Forse un errore o un falso dei copisti; forse un inganno dell’autore, nel tentativo di far vivere anche la sua modesta opera nella gloria dell’insigne grammatico ateniese; o forse, invece, semplicemente un caso di omonimia, data la natura piuttosto comune del nome “Apollodoro”. Più difficile risulta interpretare questa tradizionale attribuzione come volontà di indicare, nel testo della Biblioteca a noi pervenuto, il riassunto o la riduzione di un originale di Apollodoro: fra i titoli del grammatico ateniese tramandati da più fonti come sicuramente autentici, infatti, questo non compare; ed è impossibile, del resto, che la Biblioteca costituisca una riduzione del trattato Sugli dèi, la cui natura filologico-grammaticale sembra decisamente altra rispetto alla struttura solo compilativa dell’opera apocrifa. Ma certo le ricerche mitologiche di Apollodoro – e quindi soprattutto il Perì theòn – costituirono una delle principali fonti per la successiva trattatistica mitografica: ed è appunto nell’ambito di tale genere, sviluppatosi in diversi filoni dai rigorosi studi storici, letterari ed etimologici degli eruditi alessandrini, che va collocata la Biblioteca, unico esempio di una certa ampiezza e complessità, peraltro, che sia giunto fino a noi. Isolata è, infatti, la struttura sistematica di questa raccolta, che attua il tentativo di esaurire tutta la materia mitologica greca, collegando in una stretta sequenzialità genealogica e cronologica i racconti relativi alle diverse aree geografiche e alle diverse tradizioni.

Processione con immagini di divinità. Rilievo, marmo, III sec. d.C. Roma, S. Lorenzo fuori le Mura.

Più comune, invece, il tipo di raccolta monotematica, che si organizza cioè nella volontà di riunire in una collezione miti separati, ma del medesimo argomento. Sotto il nome di Eratostene – ma si tratta certamente di un riassunto d’epoca posteriore al III secolo a.C. – sono stati tramandati i Catasterismi (“Trasformazioni in stelle”), opera che raccoglie le più importanti leggende collegate con l’origine delle costellazioni; di Antonino Liberale, attivo fra il II e il III secolo d.C., ci sono giunte, invece, le Metamorfosi, collezione sui miti relativi alla trasformazione di esseri umani in animali e piante, che ricalca probabilmente la perduta raccolta di Nicandro, l’autore del II secolo a.C. che costituisce la principale fonte delle Metamorfosi di Ovidio. Risale poi al I secolo a.C. l’unica opera superstite di Partenio di Nicea, I patimenti d’amore, che riunisce trentasei storie d’amore a conclusione tragica, e che costituì una sorta di repertorio mitologico-erotico per l’elegia amorosa romana. In lingua latina possediamo poi altre due importanti opere, le Favole e l’Astronomia poetica, giunte a noi sotto il nome di Igino, ma certamente non ascrivibili al bibliotecario della Biblioteca di Apollo al Palatino, attivo sotto Augusto: raccolte lacunose e spesso maldestre, esse sembrano semmai da collocare in epoca antoniniana, e la loro rilevanza deriva soprattutto dall’averci tramandato leggende altrimenti sconosciute, tra le quali gli argomenti delle opere perdute dei tragici.

Elemento comune a questi esempi di compilazione mitografica posteriori al III secolo è la natura libresca del materiale mitico raccolto, che deriva, come si è detto, da ricerche e opere di autori precedenti, e non da un lavoro “sul campo” che riporti le diverse tradizioni orali. È Apollodoro stesso a dichiarare le sue fonti: Omero, Esiodo, i tragici e Apollonio Rodio sono le autorità letterarie che sorreggono l’intera struttura della Biblioteca, e proprio dal confronto tra le opere e l’utilizzo fattone da Apollodoro emerge con evidenza la fedeltà e la serietà che impronta tale rielaborazione. Si può dunque presumere che vengano riportate con altrettanto rigore anche le testimonianze tratte da autori per noi ormai perduti, e di cui la Biblioteca costituisce una delle poche fonti; e, in generale, l’assenza di una posizione critica autonoma di Apollodoro, che lo porta ad accettare anche interpretazioni e tradizioni mitologiche contrastanti senza mai impostare una loro conciliazione, sembra garantire l’autenticità e la concretezza dei suoi riferimenti agli autori precedenti. Fra questi, Ferecide di Atene è certamente il più importante, e alla sua autorità Apollodoro si affida con devota costanza: nativo di Lero, ma vissuto ad Atene nella prima metà del V secolo a.C., scrisse un ampio trattato in dieci libri in cui le tradizioni epiche e mitologiche venivano organizzate probabilmente secondo un criterio cronologico e genealogico simile a quello della Biblioteca. Anche Acusilao di Argo, attivo in epoca immediatamente anteriore alle guerre persiane e autore di una Cosmogonia e di un trattato in tre libri dal titolo Genealogie, viene citato con notevole frequenza da Apollodoro, che ci offre in questo modo la possibilità di conoscere alcuni fondamenti della più antica mitografia, per noi totalmente perduta. Ma numerosi altri autori – poeti o eruditi –, di cui nulla possediamo, vengono ripresi da Apollodoro; i più significativi sono il cosiddetto “autore della Tebaide”, poema epico del Ciclo; Pisandro di Rodi, poeta epico attivo probabilmente a cavallo tra il VII e il VI secolo a.C., autore di un famoso poema dedicato a Eracle; Paniassi, della prima metà del V secolo a.C., zio di Erodoto, autore di un poema in quattordici libri dedicato a Eracle, e di una composizione in versi elegiaci dedicata agli avvenimenti della migrazione ionica; Erodoro, storico attivo intorno al 500 a.C., autore di due importanti raccolte di leggende su Eracle e sugli Argonauti; Asclepiade di Tragilo, allievo di Isocrate e attivo nel tardo IV secolo a.C., autore di una raccolta intitolata Tragodoumena, cioè “Cose rappresentate nelle tragedie”, in cui gli argomenti tragici venivano integrati da varianti della stessa leggenda.

Ganimede con berretto frigio. Testa, marmo, copia di età severiana da originale greco di IV sec. a.C. Roma, Domus Augustana.

A differenza delle altre raccolte mitografiche pervenute, dunque, la Biblioteca si organizza non sulla giustapposizione di leggende tra loro slegate, ma in un progetto complesso di raccordi genealogici e cronologici, che ha l’ambizione di esaurire e di dipanare l’intera tradizione greca dalle origini del mondo fino al ritorno degli eroi dopo la guerra di Troia. Robert Wagner ha individuato con estremo rigore il piano di lavoro di Apollodoro, premettendo alla sua edizione della Biblioteca un ampio sommario della materia, diviso in sedici capitoli che corrispondono agli itinerari mitici seguiti dall’autore: Teogonia; la famiglia di Deucalione; la famiglia di Inaco; la famiglia di Agenore (Europa); la famiglia di Agenore (Cadmo); la famiglia di Pelasgo; la famiglia di Atlante; la famiglia di Asopo; i re di Atene; Teseo; la famiglia di Pelope; precedenti della guerra di Troia; materia dell’Iliade; avvenimenti della guerra di Troia non trattati da Omero; i “ritorni” degli eroi; le peregrinazioni di Odisseo. Ma il testo della Biblioteca a noi pervenuto non è integrale. Tutti i manoscritti esistenti si interrompono nel corso delle avventure di Teseo, segno evidente del loro essere tutti copia di un unico manoscritto più antico, forse rovinato dal tempo o comunque già mancante di un’ampia parte dell’opera. Nel 1885, però, Robert Wagner scoprì nella Biblioteca Vaticana di Roma un manoscritto della fine del XIV secolo contenente un’epitome della Biblioteca, redatta quando l’opera poteva essere letta ancora integralmente, e che riportava quindi anche il riassunto della parte per noi perduta. Due anni dopo, nel Monastero di Mar Sabba a Gerusalemme vennero scoperti i frammenti di una seconda epitome della Biblioteca, contenuti nel cosiddetto Codex Sabbaiticus, e il cui testo si discosta in taluni punti da quello dell’epitome Vaticana. A giudizio di Wagner quest’ultima potrebbe essere opera del commentatore bizantino Giovanni Tzetze (XII secolo), che nei suoi lavori impiegò ampiamente citazioni tratte dalla Biblioteca, le quali spesso si accordano con il testo dell’epitome Vaticana e discordano invece da quello della Sabbaitica: e, del resto, il manoscritto contenente l’epitome Vaticana racchiude anche parte del commento di Tzetze a Licofrone.

A Robert Wagner si deve la magistrale edizione della Biblioteca pubblicata a Leipzig nel 1894 (edizione Teubner), più volte ristampata, che contiene anche il testo delle due epitomi, Vaticana e Sabbaitica. […]