Callimaco: il poeta degli Epigrammi

da G. ZANETTO, P. FERRARI (eds.), Callimaco. Epigrammi, Milano 1992, 13-18.

Esisteva certamente nell’antichità un’edizione completa degli Epigrammi di Callimaco: lo provano le citazioni di grammatici ed eruditi, che appunto fanno riferimento a un liber epigrammatico. Ma ben presto gli epigrammi del poeta entrarono a far parte di sillogi e antologie, che circolavano con successo in tutto il mondo ellenistico[1]. Fra esse ebbe particolare rilievo la raccolta curata all’inizio del I secolo a.C. da Meleagro di Gadara e intitolata Corona: comprendeva poesie di tutti i maestri di questo genere, dall’età arcaica fino a Meleagro stesso, e Callimaco vi figurava in maniera cospicua. La Corona meleagrea, via via integrata dai necessari aggiornamenti, sopravvisse nei secoli fino all’età bizantina, quando Costantino Cefala – intorno al 900 – la utilizzò come base della sua antologia, poi confluita nella nostra Anthologia Palatina.

Lawrence Alma-Tadema, Il poeta preferito. Olio su tela, 1888.

Di Callimaco, dunque, possediamo gli epigrammi trascelti da Meleagro: la nostra conoscenza della sua arte epigrammatica passa inevitabilmente attraverso il filtro di un giudizio altrui[2], anche se possiamo essere certi che il curatore della Corona – epigrammista di grande talento e di gusto sicuro – abbia scelto bene. È singolare prerogativa degli Epigrammi e degli Inni callimachei l’essere sopravvissuti in quanto legati a opere anche di altri poeti. Nella produzione di Callimaco assistiamo a questo curioso contrappasso: le opere «maggiori», quelle in cui più si esprimeva la rivoluzione letteraria dell’autore e a cui Callimaco più affidava il proprio successo poetico – le elegie degli Aitia e il poemetto Ecale – sono andate perdute, e sono oggi solo sommariamente ricostruibili attraverso un pulviscolo di frammenti; mentre rimangono i lavori del Callimaco «minore». A essi, e soprattutto agli Epigrammi, dobbiamo ricorrere per ricostruire la figura di un poeta la cui importanza nella storia della cultura è certo straordinaria, ma che da sempre divide gli interpreti. Nell’antichità egli conobbe stroncature impietose, fu additato a modello negativo di un’arte fredda e cerebrale, refrattaria al calore del sentimento. E anche fra i lettori moderni non mancano i detrattori. Ma sempre si ha l’impressione che il giudizio sul poeta sia in qualche modo inquinato da un pregiudizio di fondo, quasi gli si rimproverasse – inconsapevolmente – di aver suggellato la fine dell’età classica e della sua letteratura.

Chi fu, dunque, Callimaco? Negli Epigrammi il poeta parla direttamente di sé. non solo entro i termini di quella querelle letteraria che si riverbera anche nelle altre opere (soprattutto nel prologo degli Aitia), ma in una prospettiva più spigliatamente autobiografica. Il poeta esprime dei giudizi che ci dànno indicazioni preziose non solo sui suoi convincimenti letterari, ma anche sulla sua personalità. Gli epigrammi 22 e 39 sono rispettivamente l’autoepitafio del poeta e l’epitafio per il padre Batto:

Βαττιάδεω παρὰ σῆμα φέρεις πόδας εὖ μὲν ἀοιδὴν

   εἰδότος, εὖ δ’ οἴνῳ καίρια συγγελάσαι.

Passi accanto alla tomba del figlio di Batto, bravo

nel canto, bravo a bere vino e a scherzare.

(Ep. 22 = AP. VII 415)

Ὅστις ἐμὸν παρὰ σῆμα φέρεις πόδα, Καλλιμάχου με

   ἴσθι Κυρηναίου παῖδά τε καὶ γενέτην.

εἰδείης δ’ ἄμφω κεν· ὁ μέν κοτε πατρίδος ὅπλων

   ἦρξεν, ὁ δ’ ἤεισεν κρέσσονα βασκανίης.

οὐ νέμεσις· Μοῦσαι γάρ, ὅσους ἴδον ὄμματι παῖδας

   μὴ λοξῷ, πολιοὺς οὐκ ἀπέθεντο φίλους.

Tu che passi accanto alla mia tomba, sappi

che sono figlio e padre di un Callimaco di Cirene.

Entrambi famosi: il primo comandò l’esercito

della patria, l’altro fu un poeta più forte dell’invidia.

Niente di strano: se le Muse hanno protetto uno da piccolo,

gli rimangono amiche anche quand’è incanutito.

(Ep. 39 = AP.  VII 525)

Sono due componimenti che vanno letti in coppia: era infatti tradizione, nelle tombe di famiglia, incidere sui due lati di una stessa stele due diverse iscrizioni funebri; con un espediente letterario molto abile Callimaco utilizza questa convenzione per comporre una sorta di dittico, animato da una serie di rimandi, in cui talvolta ciò che è taciuto è più significativo di ciò che è detto[3]. Parlando di sé, il poeta si definisce «bravo nel canto, bravo a bere vino e a scherzare»: affiora in queste parole il vezzo, assolutamente tradizionale, di considerare la propria attività poetica come qualcosa di marginale; ma, nel complesso, la definizione colpisce nel segno. Non nel senso che Callimaco fosse davvero così, ma nel senso che così avrebbe voluto essere, lui che era tanto lontano dall’ispirazione larga e immediata di un poeta-soldato.

Pittore di Orfeo. Un trace (dettaglio). Pittura vascolare da un cratere a colonne a figure rosse, 440 a.C. c. da Gela. Berlin, Antikensammlung.

Del resto, è tipico di un letterato, quando accetta di ritrarsi, offrire una rappresentazione di sé che corrisponda alla propria immagine fantastica, e che spesso contraddice la realtà. Il menestrello spensierato ritratto nell’Ep. 22 è un po’ il Robert Jordan di Callimaco! Il protagonista di Per chi suona la campana, nelle riflessioni notturne che precedono il giorno dell’azione, si compiace di ricordare il nonno, grande soldato e grande comandante di cavalleria nella guerra civile americana; il ricordo del nonno, rappresentato come termine positivo di riferimento, si intreccia con quello del padre, il cobarde fallito. Robert Jordan ama pensare, applicando una sorta di aristocratismo genetico, che il coraggio e il valore si trasmettano di nonno in nipote, con il salto di una generazione: «È un gran peccato che ci sia un tale salto di tempo fra due uomini come noi». Il personaggio è immagine dell’autore: Hemingway cercò per tutta la vita di neutralizzare il fantasma del padre, il cobarde sottomesso e suicida; ma il suo vitalismo convulso approdò a un colpo di fucile liberatorio.

Anche Callimaco, nell’Ep. 39, traccia un parallelo ideale fra sé e il nonno, che aveva portato il suo stesso nome: il padre Batto – che formalmente parla dalla stele – si annulla, attribuendosi come unico merito quello di rappresentare l’anello di congiunzione fra il grande condottiero e il grande poeta. Ma poeta-soldato Callimaco assolutamente non fu. C’è una distanza siderale fra lui e un Archiloco: non solo perché Callimaco trascorse tutta la sua vita ad Alessandria, in un’operosità divisa fra la produzione letteraria e la frenetica attività erudita, ma anche perché gli mancò affatto l’umiltà dell’uomo d’azione, quella curiosità ingenua che spinge a far la prova di persona, fatta di orgoglio e di valore fisico, la forma più elementare ma forse più autentica del coraggio. Callimaco ebbe invece in somma misura il coraggio intellettuale. L’Ellenismo gli impose la riduzione della letteratura ad attività erudita, escludendola dal respiro della comunicazione politica. Egli l’accettò impavido: seppe donare un nuovo prestigio e un nuovo valore alla produzione letteraria, intesa ora come sfida estrema di intelligenza e di gusto, da affrontare con dedizione totale, con il bando di ogni compromesso e di ogni mediocrità. Dovette però pagare un prezzo: dovette accettare che ogni suo pensiero fosse rivolto alla poesia, e che per converso l’intero suo immaginario poetico si risolvesse nei termini di una religione dell’arte.

Caserma con soldati e processione. Mosaico, I sec. a.C. ca. dal «Mosaico con scena nilotica». Palestrina, Museo Archeologico Nazionale.

Callimaco anticipò Moravia: credette solo nella letteratura. Fu il primo, e forse il più grande, degli intellettuali moderni: fu l’«inventore» – in una proiezione psicologica e biografica prima ancora che ideale – della figura stessa dell’intellettuale. Dello scholar ebbe il rigore metodico e l’impegno scientifico, ma anche la passionalità introversa e stagnante, la propensione al rancore, alla rivalità di scuola e di clan. La stessa polemica letteraria, che assorbe tanta parte dell’affetto negli Epigrammi, non assume la maniera delle parabasi aristofanee: quel che in Aristofane è la consapevolezza sanguigna del ruolo sociale e politico diventa in Callimaco l’eco di una rivalità professionale. L’Ep. 45 (AP. IX 566) propone un siparietto fra un poeta virtuoso e uno sconfitto:

Μικρή τις, Διόνυσε, καλὰ πρήσσοντι ποιητῇ

   ῥῆσις· ὁ μὲν Νικῶ φησὶ τὸ μακρότατον·

ᾧ δὲ σὺ μὴ πνεύσῃς ἐνδέξιος, ἤν τις ἔρηται

   Πῶς ἔβαλες; φησί· Σκληρὰ τὰ γιγνόμενα.

τῷ μερμηρίξαντι τὰ μὴ ἔνδικα τοῦτο γένοιτο

   τοὖπος· ἐμοὶ δ’, ὦναξ, ἡ βραχυσυλλαβίη.

È di poche parole il poeta che fa bene, o Dioniso:

la più lunga che dice è «vittoria!».

Quell’altro, quello che tu non ispiri, se uno gli chiede:

«Com’è andata?», risponde: «Maledetta scalogna!».

Ma questo lo dica pure chi pensa cose brutte;

io, signore, preferisco esprimermi a sillabe.

Il contesto è lasciato indeterminato – certo un agone poetico, l’equivalente di un moderno premio letterario – e l’elemento di assoluta evidenza è il compiacimento per il successo: la vittoria coinvolge il vincitore sul piano personale, ma segna nel contempo il trionfo della sua poetica, quindi della sua «scuola». L’implicita irrisione dello sconfitto, ritratto mentre maledice la sfortuna, è assolutamente conforme alla mentalità greca (che fin da Omero conosce la risata sardonica e maligna sopra il nemico vinto!), ma esprime anche la nuova consapevolezza del letterato, in corsa per un’affermazione di sé che trascende il significato stesso del suo ruolo.

Statua di Dioniso. Marmo, copia romana da un originale greco del 325 a.C. ca., dalla Campania. London, British Museum.

Nelle Rane di Aristofane Dioniso scende nell’oltretomba per riportare in vita un poeta capace di riscattare la scena tragica ateniese dalla mediocrità cui l’ha condannata la morte quasi contemporanea di Euripide e di Sofocle (Eschilo è scomparso da tempo). Nell’agone che occupa la seconda metà della commedia, Eschilo ed Euripide si affrontano – sotto l’arbitrato di Dioniso – per stabilire chi dei due è il miglior tragediografo in assoluto, e quindi il più degno di risurrezione; alla fine, il dio del teatro decide di riportare in vita Eschilo, giudicandolo il poeta più sapiente, anche se non ha difficoltà ad ammettere che Euripide gli dà le emozioni estetiche più travolgenti. Anche Callimaco, com’è naturale, giudica la tradizione poetica del passato; ma il suo metro di valutazione prescinde ormai affatto dal valore di «verità» contenuto nell’opera letteraria, per privilegiare la dimensione del gusto, ossia proprio quella categoria che il Dioniso aristofanesco finisce per scoraggiare. Nell’Ep. 43 (AP. IX 507; Achill. comm. Arat. 78, 28 Maas) il riconoscimento dell’arte minuta e sapiente di Arato si accompagna a un’implicita difesa della propria poetica e si appoggia a un’esaltazione di Esiodo, anteposto addirittura al grande padre Omero:

Ἡσιόδου τό τ’ ἄεισμα καὶ ὁ τρόπος· οὐ τὸν ἀοιδῶν

   ἔσχατον, ἀλλ’ ὀκνέω μὴ τὸ μελιχρότατον

τῶν ἐπέων ὁ Σολεὺς ἀπεμάξατο. χαίρετε, λεπταὶ

   ῥήσιες, Ἀρήτου σύμβολον ἀγρυπνίης.

Il tema e lo stile sono quelli di Esiodo: non è l’ultimo

dei poeti, ma direi che l’amico di Soli

ha raccolto il meglio della poesia epica. Benvenuta,

arte sottile, notturna fatica di Arato!

Callimaco non poteva certo non apprezzare il prestigio formale del linguaggio omerico né poteva ignorare il ruolo svolto dai poemi omerici nella trasmissione della cultura greca: ma nel confronto fra i due maestri della poesia epica, Esiodo finisce per diventare il simbolo del clan letterario cui il poeta appartiene e per essere quindi privilegiato.

La notizia di una rivalità irriducibile fra Callimaco e il suo allievo Apollonio è probabilmente un’invenzione o almeno un’amplificazione di biografi più tardi. Ma come spesso avviene per le tradizioni biografiche concernenti i poeti greci, viene la tentazione di crederci! Una lotta al coltello fra i due poeti per la carica di arci-bibliotecario ad Alessandria equivarrebbe, in termini odierni, alla competizione di due romanzieri per il Nobel della Letteratura: ossia per un riconoscimento cui ogni letterato protesta di essere indifferente, e che pure è in cima ai pensieri di tutti. Certo, nell’Ep. 44 Callimaco augura all’amico Teeteto di godere di una lunga gloria presso i posteri, invitandolo a rinunciare di buon grado alla notorietà e al successo immediati. Ma il tono sembra consolatorio; e comunque l’agonalità della πόλις ellenica è ancora troppo vicina nel tempo per non infiammare il cuore anche dei poeti, oltre che dei dinasti.

Statua di Apollo. Marmo, copia romana del II secolo d.C. da un originale ellenistico, da Cirene. London, British Museum.

Callimaco apparitene sempre, infatti, per molti versi al mondo della πόλις. Non – come si è visto – nel senso che egli creda ancora all’impegno civile della poesia; ma certo nel segno di un orgoglio d’appartenenza, che non è in contraddizione con l’orizzonte ormai cosmopolita della cultura ellenistica. Aveva sangue dorico nelle vene, poiché Cirene era un’antica colonia di Thera: e i Dori erano, fra i Greci, quelli più legati al proprio passato, più calati nel mito eugenetico della città e della schiatta. Molti epigrammi, soprattutto funebri, hanno il senso di un ritorno ideale ai luoghi dell’infanzia. L’Ep. 31 muove dalla disgrazia che ha sconvolto una delle famiglie più in vista di Cirene, e si chiude con l’immagine suggestiva della città che si stringe attorno alle bare dei due ragazzi scomparsi, dunque della comunità che si riconosce affettivamente nei due nobili giovanetti. E l’Ep. 38, pure un epitimbio, è un divertente dialogo con un altro cireneo, Carida: qui la patria lontana è evocata con un diverso registro, fatto di allusioni e ammiccamenti, in parte incomprensibili per il lettore moderno. D’altra parte, proprio lo studio dei reperti archeologici ed epigrafici di Cirene ha consentito, negli ultimi decenni del Novecento, di ricostruire con più precisione la discendenza del poeta, rampollo di una famiglia che vantava come capostipite lo stesso Batto, il capo dei “padri pellegrini” cirenei; e ha altresì permesso di riconoscere tutta una serie di riferimenti alla realtà della città contenuti negli Epigrammi e nelle altre opere callimachee.

In che forma, concretamente, si estrinsecasse il rapporto d’amore di Callimaco per Cirene, presente con tanto calore nell’opera poetica, è assolutamente oscuro. Periodici ritorni sembrano in contraddizione con l’immagine che abbiamo di un intellettuale ormai calato nella dimensione sociale e culturale della metropoli alessandrina. Quel che è certo è che Callimaco conserva l’abitudine classica di connettere ogni persona con la sua patria, come fondendo insieme il πολίτης e la πόλις. Negli epigrammi funebri la puntigliosa indicazione della città d’origine non ha solo la funzione del dato anagrafico, ma acquista anche il senso di un gesto d’attenzione, di un’estrema carezza.

In sostanza, la rivoluzione culturale ellenistica non sottrae i poeti dalla prima generazione all’eredità classica, almeno nella dimensione affettiva. E fra le opere di Callimaco, forse proprio gli Epigrammi offrono la testimonianza più convincente. È il caso dell’Ep. 15, l’epitimbio che il poeta compose per l’amico Eraclito di Alicarnasso:

Εἶπέ τις, Ἡράκλειτε, τεὸν μόρον, ἐς δέ με δάκρυ

   ἤγαγεν· ἐμνήσθην δ’, ὁσσάκις ἀμφότεροι

ἥλιον ἐν λέσχῃ κατεδύσαμεν. ἀλλὰ σὺ μέν που,

   ξεῖν’ Ἁλικαρνησεῦ, τετράπαλαι σποδιή·

αἱ δὲ τεαὶ ζώουσιν ἀηδόνες, ᾗσιν ὁ πάντων

   ἁρπακτὴς Ἀίδης οὐκ ἐπὶ χεῖρα βαλεῖ.

Uno mi ha detto che sei morto, Eraclito, e ho pianto:

ho ricordato quante volte, chiacchierando, vedemmo

insieme tramontare il sole. Amico di Alicarnasso, ora

tu non sei che polvere, chissà dove e da quanto tempo,

ma continuano a vivere i tuoi versi: su di essi Ade,

il ladrone spietato, non potrà allungare la mano.

Un’elegia struggente, questa, divisa fra il dolore della separazione irrimediabile e il conforto della memoria. La perfezione formale di questi versi è squisitamente ellenistica; ma il loro fascino – cui non rimasero insensibili, fra gli altri, Callimaco e Foscolo – è in larga misura connesso con la rete di sentimenti che li innerva e che sono assolutamente classici: un pianissimo lene e diffuso, bilanciato però in qualche misura dalla fede nella φιλία e nell’arte. Basta quest’esempio – fra i molti presenti negli Epigrammi – di poesia composta e commossa per togliere a Callimaco la scomoda definizione di freddo versificatore e per far capire come la sua arte si alimenti ancora della riflessione greca sulla vita e sull’uomo.


[1] Sulla base di una notizia fornita da Aristarco (schol. Il. XI 101), si pensa che Posidippo ed Edilo avessero curato un’edizione comune dei loro epigrammi intitolata Σωρός. Inoltre, sono stati ritrovati ostraka e papiri con resti di raccolte epigrammatiche pre-meleagree.

[2] Come spesso avviene in questi casi, il successo della silloge di Meleagro fece sì che gli epigrammi non compresi nella raccolta venissero presto dimenticati. In effetti, le citazioni antiche riguardano quasi sempre componimenti compresi nella Corona.

[3] Secondo alcuni interpreti, i due epigrammi avrebbero avuto originariamente la funzione di chiudere il liber epigrammatico di Callimaco, fornendo insieme la mossa di congedo e una sorta di autoritratto dell’autore.

Un libriccino per Cornelio (Catull. Carm. I)

di CONTE G.B. – PIANEZZOLA E., Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, pp. 620-622.

Con questo carme Catullo dedicò allo storico Cornelio Nepote una raccolta di poesie costituita esclusivamente da componimenti brevi in metri vari, che potevano coincidere in tutto o (assai più verosimilmente) in parte con gli attuali carmina 2-60 della raccolta pervenuta. Gesto cortese di omaggio tra amici letterati, questo testo ha la funzione programmatica di presentare i principi dell’estetica neoterica, che improntano il libellus donato a Cornelio. E nell’affermare il lepos, il labor limae e la doctrina come canoni della nuova poetica, il piccolo carme di Catullo ne offre al tempo stesso un esempio autorevole.

 

Metro: endecasillabi faleci.

 

 

Cui dono lepidum nouum libellum

arido modo pumice expolitum?[1]

Corneli, tibi; namque tu solebas

meas esse aliquid putare nugas[2],

5   iam tum cum ausus es unus Italorum

omne aeuum tribus explicare cartis,

doctis, Iuppiter, et laboriosis[3].

quare habe tibi quidquid hoc libelli[4]

qualecumque: quod, ‹o› patrona uirgo[5],

10 plus uno maneat perenne saeclo[6].

 

A chi dedicare il nuovo elegante libretto

or ora levigato dall’arida pomice?

Cornelio, a te: e, infatti, tu eri solito

ritenere che le mie sciocchezze valessero qualcosa,

5   mentre già osavi, unico tra gli Italici,

svolgere la storia universale in tre volumi,

dotti, per Giove, e per giunta sudati!

Perciò, prenditi il mio libretto che è quel che è,

qualsiasi sia il suo valore: o vergine signora,

10 che possa esso durare più di una generazione.

 

Oxford, Bodleian Library. Ms. Canonicianus Class. Lat. 30 (XIV sec.), f. 1r. Il Carmen 1 di Catullo con iniziale miniata e annotazioni.

 

Il libretto, terminato da pochissimo (vv. 1-2), viene inviato a un amico che ha già mostrato da tempo di saper apprezzare le nugae del poeta (vv. 3-4) e che è a propria volta esperto di fatiche letterarie, seppure di tutt’altro genere (vv. 5-7). Proprio i vv. 5-7 sviluppano ciascuno un aspetto dell’opera di Cornelio Nepote: l’originalità (v. 5), il tema e l’estensione (v. 6), il carattere erudito e l’impegno dell’autore (v. 7). Dopo il riferimento elogiativo all’opera dell’amico, i vv. 8-10 ribadiscono il gesto della dedica attraverso una rete di riprese formali: la ripetizione di libellus (vv. 8 e 1) e del pronome tibi (vv. 8 e 3); il motivo del deprezzamento giocoso delle nugae (vv. 8-9 e 4).

I versi centrali sull’opera di Nepote (vv. 5-7) sono incorniciati dal doppio gesto di dedica accompagnato da dichiarazioni di modestia: così si realizza un effetto di composizione ad anello sul tema della dedica all’amico e dell’ostentato deprezzamento del dono, mentre la parte centrale si sofferma per contrasto sull’impegnativa opera dell’erudito (un contrasto che non impedisce a Catullo di mettere in rilievo i caratteri di doctrina e di labor dei Chronica di Nepote, caratteri ben radicati nella poetica dei neòteroi). Gli ultimi due versi presentano un cambio di destinatario e un forte rovesciamento nell’atteggiamento assunto dal poeta: il v. 9 passa dal gesto di modestia (qualecumque, «qualsiasi sia il valore» del libellus) all’invocazione alla Musa (patrona uirgo) e introduce così la preghiera, formulata nell’ultimo verso, dell’immortalità della raccolta stessa.

 

Al di là del gesto cortese verso l’amico, il componimento ha la funzione di far da proemio all’intera raccolta, che difficilmente sarà stata estesa a tutta la prima parte del Liber pervenuto (cc. 1-60, le cosiddette nugae; vi sono ipotesi che la riducono, per esempio, ai soli cc. 1-14). Al di là del tono colloquiale e dell’impressione di (calcolata) spontaneità, l’incipit del libellus per Cornelio si propone al lettore come una dichiarazione programmatica sulle scelte estetiche adottate dall’autore.

Il v. 1 mette a fuoco l’oggetto del dono: non un liber ma un libellus («libretto, piccolo libro»). Il diminutivo, posto in rilievo a livello fonico dall’omoteleuto (nome e aggettivi hanno cioè identica terminazione), ha valore vezzeggiativo-affettivo: il libretto è grazioso, editorialmente curato; al tempo stesso, in rapporto al destinatario, il diminutivo è (apparentemente) deprezzativo: un piccolo libro di nugae, niente a che vedere con la poderosa opera storica di Cornelio Nepote.

Quanto ai due aggettivi nouus e lepidus, essi si riferiscono all’aspetto formale, curato e invitante, del prodotto librario finito, ma non solo. Lepidus annuncia una raccolta di carmi brevi improntati al lepos (lett. «grazia, eleganza»), termine da cui l’aggettivo deriva e canone dell’estetica neoterica. Lepos, lepidus designano il fascino di una vivacità colta e mai volgare, di un umorismo che, anche se mordace, non travalica mai i limiti dell’urbanità e del buon gusto. Nouus è il libellus appena edito anche e soprattutto per gli elementi di innovazione che la poesia neoterica introduce nella tradizione latina.

Il gesto di levigare gli orli del volume con la pomice, eliminando ogni imperfezione e asperità (v. 2), richiama uno dei cardini della nuova estetica: il labor limae. L’eleganza, il lepos, è frutto di un’attenta cura dei dettagli, di un lavoro assiduo di correzioni e rifiniture: dietro un’apparenza di spontaneità e leggerezza, la poesia del disimpegno nasconde un ossessivo, raffinatissimo lavorio formale.

La poesia è lusus («gioco»); l’atto del comporre è ludere («giocare, scherzare»). Le nugae, perciò, costituiscono, per tradizione, la prima parte del Liber catulliano (anche se il poeta impiega soltanto qui questo termine: altrove, invece, ricorre a ineptiae, come nel c. 14b). Le poesie donate a Cornelio sono presentate così quali nugae, con dovuta, educata espressione di modestia e in contrasto con i Chronica dell’amico, un’impresa titanica (due parole lunghe, di quattro e cinque sillabe, chiudono i vv. 5 e 7, insistendo sull’idea dell’immane fatica compiuta dallo storico!). Sull’opposizione tra le due opere, gesto cortese di omaggio al destinatario, si innesta però una serie di corrispondenze: la nouitas (v. 1) del libellus è ripresa al v. 5 dall’orgogliosa affermazione del primato letterari di Cornelio Nepote (ausus es unus Italorum); il conoscimento del labor e della doctrina al v. 7 richiama, pur nella distanza tra le due opere, principi fondamentali dell’estetica neoterica. La doctrina, infatti, è requisito primario per fare poesia: dotte sono le Muse ispiratrici (definite nel c. 65 v. 2 doctae uirgines), e dotte e raffinate sono le figure femminili amate dai neòteroi (come la ragazza innamorata di Cecilio, c. 35). La necessità di possedere un grande bagaglio di conoscenze e poi di raggiungere un’estrema levigatezza e nitore formale fanno della poesia un impegno lungo e faticoso.

Citarista. Affresco, I sec. d.C. forse da Boscoreale. Württemberg, Landesmuseum.

L’invocazione alla Musa, che segna un repentino cambio di destinatario in (apparente) contrasto con le dichiarazioni dei versi precedenti, ha un modello illustre nell’appello di Callimaco alle Cariti (o Grazie, qui equiparate alle Muse), perché concedano alla sua opera di durare nel tempo: «Siate adesso propizie, e sulle elegie mie sfregate le mani lucide d’olii, affinché mi durino lunga stagione» (Àitia, fr. 1, 7, vv. 14 ss. Pf., trad. G.B. D’Alessio). Il simbolismo dell’oggetto libro accomuna i due testi.

Un altro precedente importante per il carmen è il proemio della Corona di Meleagro (un’antologia di epigrammi di vari autori raccolti dal poeta greco Meleagro sul finire del II secolo a.C., ben nota ai poetae novi), dove è la Musa stessa a portare il libro al dedicatario Diocle: «Musa diletta, per chi questi frutti canori tu rechi? Chi tessé questo serto di poeti? Fu Meleagro: l’autore compose lo splendido omaggio a ricordo dell’illustre Diocle» (Anthologia Palatina IV 1, vv. 1-4, trad. A. Pontani).

 

Il rotolo di papiro (uolumen, da uoluo, «avvolgere, arrotolare») era costituito da più fogli (cartae) incollati uno di seguito all’altro. Gli orli superiore e inferiore del uolumen (frontes) erano lisciati con la pietra pomice; a essi erano poi fissate due asticelle (gli umbilici), le cui estremità (cornua) sporgevano dal rotolo ed erano colorate di rosso nelle edizioni più ricercate; attorno a queste asticelle si arrotolava il volume, che era alla fine chiuso in un involucro di pergamena con attaccato un cartellino recante il titolo dell’opera e il nome dell’autore.

***

Note:

[1] vv. 1-2. Cuiexpolitum? «A chi dedicare il nuovo elegante libretto or ora levigato dall’arida pomice?». dono: l’uso del modo indicativo anziché del congiuntivo è comune nelle domande deliberative, in cui chi parla si interroga sul da farsi: per esempio, quid ago? («Che fare?»); quid respondemus? («Che rispondere?»). Dono indica sia il gesto concreto di donare il nuovo elegante libretto sia quello di dedicarlo all’amico. pumice: comunemente maschile, qui pumex è femminile. expolitum: il verbo polio e i composti expolio e perpolio indicano anche l’atto di limare.

[2] vv. 3-4. Cornelinugas. Corneli. Cornelio Nepote (90-30 a.C.), storico ed erudito, era originario come Catullo della Gallia Cisalpina e a lui legato – a quanto risulta dai versi che il poeta gli dedica – da un’amicizia di lunga data, basata su comuni interessi letterari. nugas: «scherzi poetici». esse aliquid: espressione colloquiale che significa «avere un qualche valore».

[3] vv. 5-7. iamlaboriosis. unus Italorum: Cornelio è il primo fra gli scrittori in lingua latina a comporre una storia universale, intitolata Chronica, in tre libri (andata perduta). omne… cartis: «svolgere la storia universale (omne aeuum) in tre volumi»; carta, propriamente il «foglio di papiro», indica per metonimia l’intero rotolo; explicare ha in sé l’idea dello svolgere tematicamente, cronologicamente e anche concretamente, srotolando i volumina. Iuppiter: «per Giove!», è esclamazione della lingua parlata. laboriosis: l’aggettivo significa qui «duro, difficile, che richiede fatica»; è un’accezione rara del termine, che come significato principale ha «laborioso, diligente».

[4] v. 8. quarelibelli. quare: la congiunzione conclusiva è colloquiale, comune in poesia epigrammatica, satirica ed elegiaca. habe tibi: «prenditi», formula tecnica del linguaggio giuridico; infatti, siccome fin dall’inizio si dice che Cornelio abbia apprezzato la nuova poesia dell’amico, il poeta ora “estingue il suo debito” di riconoscenza “cedendogli in proprietà” il suo libellus appena uscito dall’officina del librarius. quicquid hoc libelli = hunc libellum (libelli è genitivo partitivo) è espressione di modestia, che deprezza almeno in apparenza l’oggetto del dono e anticipa qualecumque del verso seguente.

[5] v. 9. qualecumque uirgo. qualecumque (sotto. est): «qualunque sia il suo valore»; l’aggettivo indefinito è collegato per enjambement al verso precedente (anzi, è l’unico enjambement del carme, dove altrimenti l’unità metrica del singolo verso coincide con l’unità di senso). patrona uirgo: è una delle Muse, definite da Catullo anche doctae uirgines (c. 65, v. 2).

[6] v. 10. plussaeclo. «possa durare più di una generazione»; saeclum è forma sincopata di saeculum, «generazione» (sempre in questo senso in Catullo).

Lesbia, il passerotto e Catullo (Catull. Carm. II)

di CONTE G.B. – PIANEZZOLA E., Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, pp. 651-653.

Il poeta osserva o ricorda i giochi del passer e della donna amata e li schizza in pochi versi. La composizione slitta dalla descrizione vivace a un livello più intimo di riflessione: Lesbia trova in questo modo un qualche sollievo al tormento d’amore, mentre Catullo sa che le proprie graues curae non possono placarsi neppure per poco tramite un passatempo così lieve.

 

Passer, deliciae meae puellae,

quicum ludere, quem in sinu tenere,

cui primum digitum dare adpetenti

et acris solet incitare morsus,

5   cum desiderio meo nitenti

carum nescio quid libet iocari

et solaciolum sui doloris,

credo, ut tum grauis adquiescat ardor,

tecum ludere sicut ipsa possem

10 et tristis animi leuare curas!

 

Passero, gioia della mia ragazza,

che gioca con te, che ti tiene in grembo,

a te che balzelli porge la punta del dito,

ed è solita provocare le tue dure beccate,

5   quando al mio fulgido desiderio

piace fare un non so che caro gioco,

e un piccolo sollievo al suo dolore,

io credo, perché allora si plachi il tormento della passione:

potessi anch’io giocare, come lei, con te,

10 e alleviare i tristi affanni del cuore!

 

Edward Poynter, Lesbia e il suo passero. Olio su tela, 1907.

Dietro l’impressione di immediatezza espressiva, il carme mostra una struttura calibrata: l’esclamazione conclusiva, dove tecum (v. 9) si ricollega a Passer (v. 1), chiudendo circolarmente la composizione, si innesta su un lungo e ininterrotto periodo, sviluppato per otto versi divisi in due gruppi di quattro.

I vv. 1-4, infatti, presentano il passer e la sua stretta relazione con la puella: all’apostrofe (v. 1) segue la descrizione dei giochi in una serie di tre proposizioni relative di ampiezza crescente (tricolon ascendente), messa in rilievo dall’anafora del pronome variato dal poliptoto (quicum…, quem…, cui…, vv. 2-3), a sua volta seguita da una quarta frase relativa più sciolta, con pronome sottinteso (v. 4). Nei vv. 5-8 il lieve bozzetto digrada verso un tono più intimo e personale: l’accento si sposta dall’uccellino (vv. 1-4) alla donna (vv. 5-8). Al v. 6 iocari riprende ludere del v. 2: un elemento di circolarità che chiude la scena del gioco, in opposizione al ludere impossibile del v. 9. Dal gioco si passa nei vv. 7-8 alla sua funzione di sollievo dalle curae d’amore; entra in scena esplicitamente il punto di vista del poeta con credo (v. 8), che attribuisce alle schermaglie leggere fra la donna e il passer un significato profondo: la puella con quel passatempo cerca di lenire la sua pena d’amore (dolor, grauisardor).

Così, la sezione centrale su Lesbia fa da tramite tra i momenti leggeri del passer e le tristis curae dell’uomo: il poeta conclude con una nota di rimpianto per una dimensione della passione più superficiale, più facile da controllare e placare, come è appunto quella di Lesbia, mentre il suo tormento d’amore non è riconducibile a un gioco leggero, reale o letterario.

Il legame affettivo della puella con il passer è sottolineato con evidenza al v. 1 attraverso il triplice omoteleuto deliciae meae puellae. Il diminutivo solaciolum (v. 7) appartiene alla lingua d’uso e ricorre soltanto qui nel latino classico: l’uso dei diminutivi, del resto, è un tratto tipico della poesia neoterica. Qui il diminutivo affettivo connota sia il rapporto di intimità fra passer e padroncina sia lo sguardo affettuoso e deliziato del poeta che ritrae la scena.

Il sentimento di Lesbia è designato al v. 7 con dolor, termine generico, impiegato da Catullo in contesto erotico soltanto in questo passo, dove è specificato al verso seguente da grauis… ardor, che invece appartiene proprio al lessico erotico: ardor, infatti, da ardeo («bruciare») rimanda alla tradizionale metafora della fiamma d’amore (in particolare, Catullo predilige il verbo uror, «bruciare»). Anche il termine curae (v. 10), con cui il poeta definisce il proprio sentimento, è proprio del lessico erotico.

Giardino con fontana e passero fra le fronde (dettaglio). Affresco, 14-37 d.C. c. dalla Casa del Bracciale d’oro, Insula occidentalis 42, Pompei.

Al v. 5 la puella è indicata con la metonimia desiderium (secondo un uso corrispondente a quello del greco πόθος), che appartiene alla lingua degli affetti. Cicerone, per esempio, chiama così la moglie Terenzia: mea lux, meum desiderium, ad fam. XIV 2, 2. Ma desiderium si utilizza, in genere, per designare «la persona di cui si sente la mancanza»: nella scelta di questo termine, così come nell’uso del generico dolor (v. 7), si è voluta riconoscere la spia di un distacco forzato dei due amanti.

In base a questi riferimenti lessicali, dunque, il carme è stato collocato in un momento di separazione degli amanti, messi a dura prova dalla lontananza: sembra, però, preferibile non ricostruire in base a pochi e generici indizi una tappa altrimenti sconosciuta del “romanzo” d’amore catulliano. Nel carmen 2, infatti, il poeta si limita a osservare con quanta facilità e aggraziata compostezza Lesbia trovi distrazione e sollievo dalla passione – che per lui, invece, è un tormento incessante.

Alcuni interpreti, però, si spingono oltre e individuano uno scarto ironico tra il sentimento profondo che anima il poeta e il più superficiale coinvolgimento della donna. Al distacco fisico si sommerebbe, dunque, una diversità di sentire, un distacco spirituale: ma i presunti segnali dell’ironia (carum nescium quid, credo, solacium) risultano troppo velati (si è troppo lontani dai toni con cui Catullo esprime delusione e distacco da Lesbia). Anzi, l’autocontrollo mostrato dalla ragazza, condito con la leggerezza e la grazia della situazione, non fa che accrescere agli occhi del poeta il fascino irresistibile dell’amata.

Apprezzato dagli antichi come animale da compagnia, il passer non è il comune passerotto, ma il cosiddetto “passero solitario”, dal canto melodioso e più facile da addomesticare. Poiché il passero era animale caro ad Afrodite/Venere (nel fr. 1 Voigt di Saffo, la famosa preghiera alla dea, il cocchio con cui ella scende sulla Terra è appunto trainato da questi uccellini), è stato ipotizzato che si trattasse di un dono da innamorati e, in questo caso, di Catullo a Lesbia.

 

La morte del passerotto (Catull. Carm. III)

di A. BALESTRA et al., In partes tres. v. 1. Dalle origini all’età di Cesare, Bologna 2016, pp. 338-340.

Questo carme si presenta come un epicedio, ovvero come un lamento funebre per la morte del passer di Lesbia, animaletto cui la puella era sinceramente affezionata. Pur seguendo lo schema tipico degli epigrammi funebri ellenistici, tra i quali figurano già epicedi per animali domestici, Catullo introduce alcuni elementi di novità, a partire dall’effetto di ironia, determinato dalla sproporzione tra l’effettiva entità dell’evento rievocato e il registro per lo più altisonante e solenne adottato nel corso del componimento (non mancano, però, significative inserzioni dalla lingua d’uso). L’effetto finale è quello di una velata parodia dei lamenti funebri; ancora una volta, campeggia la figura di Lesbia, rappresentata in un atteggiamento quasi materno nei confronti del passer, la cui morte provoca in lei tristezza e pianto.

 

Lugete, o Veneres Cupidinesque[1]

et quantum est hominum uenustiorum!

passer mortuus est meae puellae,

passer, deliciae meae puellae,

5   quem plus illa oculis suis amabat[2];

nam mellitus erat, suamque norat

ipsa tam bene quam puella matrem,

nec sese a gremio illius mouebat,

sed circumsiliens modo huc modo illuc

10 ad solam dominam usque pipiabat.

qui nunc it per iter tenebricosum[3]

illuc unde negant redire quemquam.

at uobis male sit, malae tenebrae

Orci[4], quae omnia bella deuoratis;

15 tam bellum mihi passerem abstulistis.

o factum male! o miselle passer!

tua nunc opera meae puellae

flendo turgiduli rubent ocelli.

 

Piangete Veneri e voi Amorini,

e quanti sono disposti all’amore.

è morto il passero della mia ragazza,

il passero, gioia della mia ragazza,

5   che lei amava più dei propri occhi,

perché era dolce come il miele e la riconosceva

così come una bimbetta la propria mamma;

mai che si scostasse dal suo grembo

e, saltellando intorno qua e là,

10 cinguettava sempre, solo rivolto alla sua padrona.

Ora, procede per una strada oscura,

là donde si dice che nessuno torni.

Maledizione a voi, maledette tenebre infernali,

che inghiottite ogni cosa graziosa!

15 un passerotto così carino voi me lo avete rapito.

Che brutta azione! Che passerotto infelice!

Ora, per colpa tua, gonfi di pianto, sono arrossati

gli occhi soavi della mia ragazza.

Fanciulla con passero. Statua, marmo, IV-III sec. a.C.

 

L’epicedio per il passer. | Il componimento, come si è detto, presenta lo schema tipico dei lamenti funebri: si apre con un invito al lutto (vv. 1-2), prosegue con l’identificazione del defunto (v. 3) e l’elogio delle sue virtù (vv. 4-10), presenta quindi la comploratio, ovvero il compianto per la sorte del passero (vv. 11-12), a cui fa seguito la maledizione rivolta alle divinità dell’oltretomba (vv. 13-15) e la commossa partecipazione alla sofferenza dei sopravvissuti (vv. 16-18). Componimenti che piangono la morte di un animale domestico sono ampiamente presenti nella poesia ellenistica: in particolare, nel VII libro dell’Anthologia Palatina si trova un’intera sezione di epigrammi dedicati a tale argomento (189-216).

L’originalità di Catullo. | Tuttavia, in questo componimento il tema è affrontato in una chiave originale: sotto il velo dell’ironia, che si origina dalla sproporzione tra l’evento cantato, ovvero la morte del passerotto, e i toni elegiaci e patetici cui il poeta fa ricorso, traspare la figura di Lesbia, la puella amata. Grazie anche a una serie di artifici retorici, è lei la presenza dominante e la vera protagonista della lirica, sebbene di lei si parli espressamente solo nella chiusa. Quello che in apparenza poteva sembrare un carmen di morte di un animaletto domestico, in linea con una tradizione già ben consolidata nella poesia ellenistica, si rivela dunque un canto d’amore per Lesbia: ai vv. 3-4 la ripetizione enfatica dell’espressione passer… meae puellae («il passero… della mia ragazza») sembra già anticipare che il tema principale del carme non è tanto la morte del passerotto, quanto l’effetto di questo evento sulla donna amata. L’espressione meae puellae ritorna per la terza volta nella chiusa del testo (v. 17), dove la sorte dell’animale risulta chiaramente relegata in secondo piano e a dominare è l’immagine degli occhi della puella gonfi di lacrime e arrossati dal pianto.

Come in molti dei suoi componimenti più riusciti, anche in questo Catullo è stato in grado di dare uno sviluppo originale a un tema non nuovo, trasformando il lamento funebre per un animaletto domestico in un’occasione per rappresentare il proprio universo affettivo con accenti del tutto personali.

***

Note:

[1] Veneres allude forse alla molteplicità degli aspetti e dei caratteri di Venere, oppure all’insieme delle divinità femminili che formavano il corteo della dea. Cupidinesque, invece, designa gli Amorini, che nella poesia ellenistica facevano parte del seguito di Afrodite. La medesima espressione Veneres Cupidinesque ricorre anche nel c. 13, là dove il poeta intende sottolineare il pregio estremo dell’unguentum che si appresta a donare all’amico Fabullo, e a tale scopo dichiara di averlo ricevuto come regalo proprio dalle divinità dell’amore per tramite della sua puella.

[2] Questa espressione è certamente iperbolica, tipica della lingua d’uso: è qui utilizzata per esprimere la profondità dell’affetto che legava Lesbia al suo passerotto.

[3] Secondo una credenza popolare, anche gli animali scendevano nel regno dei morti. Qui, però, l’espressione ha un’intonazione ironica.

[4] Orcus è uno dei nomi con cui era invocato Plutone; qui indica per metonimia gli Inferi, di cui il dio era il sovrano.

C. Valerio Catullo

di CONTE G.B. – PIANEZZOLA E., Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, pp. 604-617.

Una nuova generazione di poeti

Nel I secolo a.C. una nuova generazione di poeti, in forte rottura con la tradizione romana, impose un rinnovamento del gusto letterario e fondò un’estetica “moderna”, segnando una svolta decisiva nella storia della letteratura latina. Per indicare le tendenze innovatrici di questa “avanguardia” poetica Cicerone coniò la sprezzante definizione di poetae novi (o neòteroi, alla greca), acquistò (pur senza l’originaria connotazione negativa) dalla critica letteraria.

Il fastidio di Cicerone per quelli che tutt’insieme chiamava «poeti moderni» (un Cicerone maturo, lontano ormai dagli esperimenti poetici giovanili di gusto ellenizzante) si manifestò anche in un’altra sua celebre definizione: cantores Euphorionis, dal nome del poeta Euforione di Calcide (III secolo a.C.), celebre per la ricercata densità e la preziosa erudizione dei suoi versi, assunto a emblema della poetica alessandrina (lo divulgò verso la metà del I secolo a.C. il poeta greco Partenio di Nicea, «il profeta della scuola callimachea», condotto a Roma probabilmente da Cinna). Così Cicerone bollava i nuovi protagonisti del panorama letterario, irridendo il loro irriverente rifiuto della tradizione romana, personificata da Ennio.

Poeta nelle vesti di Orfeo (dettaglio). Statua, terracotta, 350-300 a.C. ca. da Taranto.

 

Alle radici del rinnovamento culturale: l’ellenizzazione della società romana

Il processo di modernizzazione del gusto letterario promosso dai poetae novi non fu che un aspetto del generale fenomeno di ellenizzazione dei costumi che caratterizzò la società romana nell’età tardo-repubblicana. Questa trasformazione dei modi di vita fu la conseguenza più evidente delle grandi conquiste del II secolo a.C., che avevano aperto alla potenza romana lo scenario dell’area orientale del Mediterraneo e messo a contatto l’arcaica società di contadini-soldati con popolazioni abituate a forme di vita più raffinate. L’enorme complesso fenomeno di civilizzazione – che aveva incontrato a Roma la tenace ostilità dei cultori della tradizione, della fazione catoniana – manifestò la sua influenza, com’è ovvio, anche nel campo specificamente letterario.

Si verificò così un lento ma progressivo indebolimento dei valori e delle forme della tradizione (di generi letterari politicamente e moralmente “impegnati”, come l’epica e soprattutto il teatro) e l’emersione di esigenze nuove, dettate dall’affinarsi del gusto e della sensibilità. Di veramente nuovo rispetto alle scelte dei predecessori i poeti neoterici avevano non tanto la predilezione per la letteratura greca più recente (anche gli autori latini più arcaici, infatti, avevano lavorato con tecniche già “alessandrine”), quanto la decisa imitazione degli aspetti eruditi e preziosi che caratterizzavano appunto quella letteratura. I neòteori presero dai poeti ellenistici il gusto per la contaminatio tra i generi, l’interesse per la sperimentazione metrica, la ricerca di un lessico e di uno stile sofisticati e, infine, il carattere decisamente disimpegnato della loro poesia.

Muse e letterati (part.). Rilievo, marmo, metà III sec. d.C. da sarcofago asiatico. Roma, Museo Nazionale.

 

I caratteri della poesia neoterica

Preludio della rivoluzione neoterica fu la comparsa, negli ultimi decenni del II secolo a.C. nell’élite colta romana, di una poesia di tono leggero e di dimensioni ridotte, destinata al consumo privato. Il carattere scherzoso di questo tipo di componimenti era implicito nel termine stesso che li designava, nugae («bagatelle», «sciocchezze»), a indicarne appunto la natura disimpegnata, di semplice intrattenimento. Coltivata nella cerchia intellettuale che faceva capo all’aristocratico Q. Lutazio Catulo, questa poesia fu il frutto dell’otium, dello spazio sottratto agli impegni civili e dedicato alla lettura e alla conversazione dotta; la rivendicazione delle esigenze individuali accanto agli obblighi sociali si manifestò anche nell’interesse per i sentimenti privati, come l’amore; e, soprattutto, la ricerca di elaborazione formale (lessico, metrica, impianto compositivo, ecc.) rivela un gusto educato dal contatto con la cultura e la poesia alessandrine.

Nonostante gli elementi di continuità fra la poesia pre-neoterica e quella propriamente neoterica, ben maggiore era la consapevolezza che quest’ultima possedeva, e assai più netto lo scarto che essa introduceva rispetto alla tradizione letteraria latina. L’eleganza spesso manierata, l’artificioso sperimentalismo praticato sui modelli greci dai letterati della cerchia di Lutazio Catulo, lasciarono il posto a un tipo di poesia che dall’otium e ai suoi piaceri non avrebbe concesso solo uno spazio limitato (ritagliato ai margini di un sistema, come deroga occasionale a una condotta di vita incentrata ancora sui doveri del civis), ma li avrebbe collocati al centro dell’esistenza stessa, facendone i valori assoluti, le ragioni esclusive, come sarebbe successo in Catullo.

La poesia neoterica, infatti, segnò il culmine, sul piano letterario, di una tendenza da tempo sensibile nella cultura latina: da una parte, il crescente disinteresse per la vita attiva spesa al servizio della res publica, per i valori venerandi della tradizione, per il ruolo insomma del civis Romanus; dall’altra, il contemporaneo affermarsi del gusto dell’otium, del tempo libero dedicato alle lettere e ai piaceri, alla soddisfazione dei bisogni individuali e privati.

La rivoluzione del gusto letterario fu accompagnata da una più generale rivolta di carattere etico che la sostanziava, mostrando la crisi dei valori del mos maiorum. Il rifiuto della vita impiegata al servizio della comunità, del modello del cittadino-soldato, si riflesse (e insieme se ne alimentò) nel diffondersi dell’Epicureismo, di una filosofia cioè che predicava la rinuncia ai negotia politico-militari per una vita appartata e tranquilla, nell’intima comunione con gli amici.

La convergenza fra i principi dell’Epicureismo e le tendenze dei poeti neoterici è evidente, ma va notata anche una differenza importante: per gli epicurei, il cui fine era l’atarassia (il piacere di vivere senza turbamenti), l’eros era una malattia insidiosa, da fuggire come fonte di angoscia e di dolore (basti pensare al libro IV di Lucrezio), mentre per i neòteroi – soprattutto per Catullo – l’amore era il sentimento centrale della vita, quello che ne costituiva il fulcro e la ragione essenziale. Esso diventava, perciò, anche il tema privilegiato della nuova poesia, e concorreva a dar forma a un nuovo stile di vita, ispirato appunto dal culto dell’eros e delle passioni e dalla dedizione alla poesia che di esse si alimentava.

L’affinità di gusto che accomunava i vari poeti (che non componevano, comunque, un circolo o una scuola, non erano cioè organicamente collegati in un programma complessivo; ma una ragione di vicinanza e di amicizia stava già nella provenienza della maggior parte di loro, dalla Gallia Cisalpina) si tradusse anche in contatti, incontri, discussioni e letture comuni, cioè in un’attività critico-filologica che accompagnava la pratica poetica vera e propria e le faceva da supporto e verifica. Il travaglio della forma, la cura scrupolosa della composizione, il paziente labor limae erano, infatti, i tratti distintivi primari della nuova poetica callimachea (da Callimaco, appunto, il poeta ellenistico preso a modello e assurto a emblema degli ideali di poetica alessandrina).

E siccome proprio Callimaco, a suo tempo, aveva aspramente polemizzato contro gli epigoni dell’epos omerico, irridendo la sciatteria e la prolissità del lungo poema, propugnando invece un nuovo stile poetico, ispirato alla brevitas (il componimento di piccole dimensioni) e dell’ars (il meticoloso lavoro di cesello), così anche i neòteroi, dal canto loro, irridevano gli stanchi imitatori di Ennio, i pomposi cultori dell’epica tradizionale (Volusio, Suffeno e Ortensio), una poesia celebrativa delle glorie patrie, estranea ormai al gusto attuale sia per la trascuratezza formale sia per i contenuti antiquati. Ben altri, invece, furono i generi privilegiati dalla poetica callimachea e ritenuti più adatti all’accurato lavoro di cesello, al labor limae: quelli brevi, come, per esempio, l’epigramma, oppure quelli – come l’epillio, il poema mitologico in miniatura – che davano modo al poeta di fare sfoggio della propria preziosa erudizione (antichi miti di soggetto erotico, vicini perciò alla sensibilità “moderna”) e di attuare raffinate strategie compositive (racconti “a incastro”, narrazioni cucite insieme che si rispecchiavano l’un l’altra).

Inoltre, i principi ispiratori della poetica di scuola callimachea diedero luogo all’elaborazione di un nuovo linguaggio poetico e segnarono, più in generale, una svolta decisiva nella storia del gusto letterario a Roma. Il neoterismo avrebbe costituito, d’ora in poi, come un baluardo di “modernità”, che avrebbe proiettato nel passato la letteratura precedente: insomma, non avrebbero più potuto tener conto degli imperativi del nuovo gusto nemmeno i cultori delle forme più tradizionali.

Lawrence Alma-Tadema, Il poeta preferito. Olio su tela, 1888.

 

Una rivoluzione nel gusto e nei versi

Come si è detto, tra i precursori dei neòteroi propriamente detti un posto di rilievo spetta a Q. Lutazio Catulo, uno degli esponenti più cospicui dell’ordo senatorio, console insieme a C. Mario e vincitore con lui dei Cimbri (101 a.C.). Uomo impegnato nella vita pubblica e autore, fra l’altro, di opere storiografiche di carattere memorialistico (come il De consulatu et de rebus gestis suis), Catulo riservò all’otium e alla poesia “nugatoria” uno spazio piuttosto limitato, deroga occasionale a una condotta di vita pienamente incentrata ancora sui doveri del civis.

Così, nel fr. 1 Morel = Buechner, rielaborazione di un epigramma callimacheo sul motivo dell’èros paidikòs (l’«amore per gli adolescenti»), l’amore appare quale semplice pretesto letterario a una dotta variatio sul tema:

 

Aufugit mi animus; credo, ut solet, ad Theotimum

deuenit. Sic est, perfugium illud habet.

Quid, si non interdixem, ne illunc fugitiuum

mitteret ad se intro, sed magis eiceret?

5 Ibimus quaesitum. Verum, ne ipsi teneamur

formido. Quid ago? Da, Venus, consilium.

 

Il cuore mi è fuggito; come al solito, credo, da Teonimo

è andato. Già: proprio là ha il suo rifugio.

Che mai accadrebbe, se non gli avessi fatto divieto di dar ricetto

a quel fuggitivo, ma gli avessi imposto di cacciarlo?

5 Andrò a cercarlo. Eppure, ho grande timore di essere

catturato. Che fare? Dammi tu, Venere, un consiglio.

 

Attorno a Lutazio Catulo si raccolse un gruppo di letterati accomunati dal nuovo gusto per la poesia leggera di intrattenimento. Non si dovrebbe parlare di un vero e proprio “circolo di Lutazio Catulo” – si è troppo insistito, infatti, sul carattere, a detta di alcuni, “democratico”, o almeno antisillano, di questa cerchia di intellettuali diversi tra loro per estrazione sociale e per tendenze politiche –: ma a collegare i vari componenti doveva essere solo una comunanza di gusti e di orientamenti letterari.

Venere. Statua, marmo, I sec. d.C. ca. da Arlés. Paris, Musée du Louvre.

 

Si ricordano almeno Valerio Edituo e Levio. Il primo fu autore, come Catullo, di epigrammi erotici di manierata fattura alessandrina, uno dei quali (fr. 1 Morel = Buechner) rielabora un celebre tema di Saffo, ripreso anche da Catullo nel carmen 51:

 

Dicere cum conor curam tibi, Pamphila, cordis

quid mi abs te quaeram, verba labris abeunt,

per pectus ‹ … › manat subito mihi sudor:

sic tacitus, subidus, dum pudeo pereo.

 

Quando io tento, Panfila, di dirti la pena del mio cuore

e quello che desidero da te, le mie labbra restano senza parole

e d’improvviso ‹…› il sudore m’intride il petto:

così muto, avvampante, me ne sto qui, vergognoso, a morire.

 

Quanto a Levio, si sa che doveva essere vissuto più o meno agli inizi del I secolo a.C. Dei suoi Erotopaegnia (“Scherzi d’amore”) resta circa una cinquantina di versi, dove i miti più famosi della tradizione epica – le storie di Ettore, Elena, Circe, Protesilao e Laodamia – diventano soprattutto temi d’amore, storie appassionate, raccontati con tratti talora di morbida sensualità. Levio era famoso anche per la relativa libertà che si prendeva nel coniare composti strani e nello sperimentare forme metriche inusitate. Al preziosismo alessandrino di Levio vanno riportati i suoi carmina figurata, componimenti in cui la forma e l’ordine dei versi “disegnano” letteralmente l’oggetto di cui si parla nei componimenti (per esempio, una zampogna, oppure un’ala d’uccello, ecc.), veri e propri calligrammi.

Se la prima poesia nugatoria era ancora strettamente dipendente dai modelli ellenistici, Levio elaborò in modo più originale i testi che imitava, sperimentando nuove possibilità espressive. In ciò è giusto considerarlo effettivamente un anello di congiunzione, un precursore più diretto della poesia neoterica vera e propria.

Scena conviviale. Affresco, I secolo a.C. dalla Casa degli Amanti (IX 12, 6-8), Pompei.

 

Una figura di spicco, quasi un “caposcuola”, delle nuove tendenze poetiche fu certamente P. Valerio Catone. Originario della Gallia Cisalpina (ne parla Svetonio nel De grammaticis), nacque a Patavium probabilmente agli inizi del I secolo a.C.: venne a Roma, dove visse come grammatico e maestro di poesia fino a una tarda vecchiaia funestata dalla povertà. Lettore e critico temuto di poesia, nonché poeta egli stesso, rinnovò a Roma la grande tradizione dei filologi alessandrini (fu, infatti, accostato a Zenodoto e al pergameno Cratete).

Poeta neoterico, ma anche autore di poemi epico-storici, fu P. Terenzio Varrone Atacino, che continuò la poesia di stampo enniano, componendo un poema storico, il Bellum Sequanicum (sulla campagna di Cesare contro Ariovisto, del 58 a.C.), ma aderì anche al nuovo gusto poetico in un’opera intitolata Leucadia, dal nome della donna amata; i poeti elegiaci l’avrebbero indicata fra i primi esempi di poesia erotica latina. Di Varrone Atacino va, però, soprattutto ricordato il poema epico Argonautae, libera traduzione in esametri latini (o forse, piuttosto, un rifacimento) delle Argonautiche di Apollonio Rodio: Varrone Atacino proseguì così la tradizione dei poeti-traduttori – funzionale all’esigenza di elaborare, sulla scorta dei grandi modelli greci, un nuovo linguaggio poetico latino – e insieme manifestò la preferenza per un tipo di epica che faceva largo spazio all’eros e alle sue complicazioni psicologiche. Ciò avrebbe, certamente, attratto l’interesse dei poeti nuovi. Un frammento superstite del suo poema restituisce uno splendido “notturno” (fr. 8 Morel = 9 Traglia):

 

Desierant latrare canes urbesque silebant;

omnia noctis erant placida composta quiete.

 

Avevano smesso di latrare i cani e silenziose erano le città;

ogni cosa giaceva nella placida quiete della notte.

 

Selene e Endimione. Affresco, I sec. a.C. dalla Casa dei Dioscuri (Pompei). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

Ma le due figure di maggior rilievo, note soprattutto grazie a Catullo, che fu loro amico, sono state quelle dei due poeti C. Elvio Cinna e C. Licinio Calvo. Cinna era originario di Brixia e partecipò con Catullo al viaggio in Bitinia del 57 a.C. C’è chi lo identifica con il Cinna che avrebbe portato a Roma al proprio seguito il poeta greco Partenio di Nicea, i cui Erotikà pathèmata (“Sofferenze d’amore”), brevi componimenti che raccontavano di infelici amori mitici, riscossero grande successo presso i poetae novi.

Ispirata proprio ai testi di Partenio doveva essere la Zmyrna di Cinna, storia dell’amore incestuoso di una fanciulla per il proprio padre, Cinira. Il poemetto fu salutato dall’amico Catullo come opera di alto valore e destinata a durare nei secoli (c. 95, v. 1 s.): Zmyrna mei Cinnae nonam post denique messem / quam coepta est nonamque edita post hiemem («La Zmyrna del mio Cinna dopo la nona estate da che fu cominciata / e dopo il nono inverno è venuta alla luce»).

La Zmyrna richiese, dunque, nove anni di laboriosissime cure, e per densità di dottrina doveva essere talmente impenetrabile da aver bisogno di un commento esegetico di un grammatico, come informava Svetonio. Eccone un frammento, relativo al momento in cui, dopo la rivelazione dell’incesto voluto dalla figlia presa d’amore per lui, il padre Cinira ha scacciato Zmyrna (o Mirra), che ora vaga in preda al rimorso e alla disperazione (fr. 6 Morel = 12 Traglia; fr. 7 Morel = 13 Traglia):

 

te matutinus flentem conspexit Eous

et flentem paulo uidit post Hesperus idem.

 

Piangente ti scorse al mattino Eoo

e poco dopo Espero ancor ti vide piangente.

Scena erotica. Affresco parietale, ante 79 d.C., dalla Casa del Ristorante. Pompei, Parco Archeologico.

Licinio Calvo (82-47 a.C.) era di Roma e apparteneva a un’illustre famiglia plebea. Fu oratore famoso, seguace dell’indirizzo atticista, quello che, perseguendo un ideale di nitida, concisa, asciuttezza, contrario all’enfasi e alla prolissità, meglio si conciliava con il gusto neoterico. Di lui restano pochissimi versi (soprattutto di soggetto amoroso), tra i quali il dolente epicedio per la moglie Quintilia. La Io, invece, era un epillio sulla storia dell’eroina amata da Giove e perseguitata da Giunone, che la trasformò in giovenca. Il tema stesso della metamorfosi era molto caro agli alessandrini, poiché soddisfaceva la loro passione per il paradossale e dava modo di cimentarsi in descrizioni che richiedevano grande virtuosismo. Di un verso del poemetto di Calvo (a, uirgo infelix, herbis pasceris amaris [«ah, ragazza sventurata, di erbe amare ti pascerai!»], fr. 9 Morel = 14 Traglia) si sarebbe poi ricordato Virgilio, che lo avrebbe citato ben due volte nella VI egloga, riferendolo a Pasifae, moglie di Minosse innamoratasi di un toro: a, uirgo infelix, quae te dementia cepit! («ah, ragazza sventurata, quale follia ti colse!», v. 47); a, uirgo infelix, tu nunc in montibus erras («ah, ragazza sventurata, tu ora erri sui monti», v. 52).

 

Catullo, il massimo interprete della nuova poesia

Il nome e la poesia di Catullo sono tradizionalmente associati alla rivoluzione neoterica; ne sono anzi il documento più importante. Rivoluzione del gusto letterario, certo, ma – come si è detto – anche rivolta di carattere etico: mentre, infatti, nell’età di crisi acuta della res publica romana si stavano sgretolando gli antichi valori morali e politici della civitas, l’otium individuale diventava l’alternativa seducente alla vita collettiva, lo spazio in cui dedicarsi alla cultura, alla poesia, alle amicizie, all’amore, insomma, a se stessi e alla propria crescita personale. Il piccolo universo privato, con le sue gioie e i suoi drammi, si identificava con l’orizzonte stesso dell’esistenza, e l’attività letteraria non si rivolgeva più all’epos o alla tragedia – i generi portavoce della civitas e dei suoi valori –, bensì alla lirica, alla poesia individuale, introversa, adatta ad accogliere ed esprimere le piccole vicende della vita personale.

C. Valerio Catullo (forse). Frammento di decorazione parietale, affresco, fine I sec. a.C.- inizi I sec. d.C. da Sirmione. Sirmione, Antiquarium.

C. Valerio Catullo nacque a Verona, nella Gallia Cisalpina, certamente da famiglia agiata (Cesare stesso fu ospite a casa sua). La data della nascita è incerta: Girolamo, che si rifà a Svetonio, la fissa nell’87 a.C. e trent’anni dopo, nel 57, colloca la morte; ma il poeta era certamente ancora vivo almeno nel 55 a.C. Lo provano, infatti, alcuni suoi accenni ad avvenimenti occorsi in quell’anno. Pertanto, con quella della morte bisogna abbassare anche la data della nascita, cioè grosso modo 84-54 a.C. (sempre che sia vera la notizia della morte a trent’anni), oppure si dovrà supporre che Catullo sia vissuto qualche anno più di quanto attesta Girolamo.

A Roma (non è dato sapere quando vi giunse) Catullo conobbe e frequentò personaggi di spicco dell’ambiente politico e letterario, dal celebre oratore Q. Ortensio Ortalo ai poeti Cinna e Calvo, da L. Manlio Torquato al giurista e futuro console suffectus Alfeno Varo, da Cornelio Nepote a C. Memmio, ed ebbe una relazione amorosa con Clodia (la Lesbia dei suoi versi), quasi certamente la sorella mediana del tribuno P. Clodio Pulcro e moglie di Q. Cecilio Metello Celere, console nel 60. Probabilmente nel 57 a.C. Catullo andò in Bitinia, per un anno, come membro dell’entourage del pro praetor C. Memmio; in occasione di questo viaggio, il poeta visitò la tomba del fratello, morto e sepolto nella Troade (cfr. c. 101).

Le notizie biografiche su Catullo derivano soprattutto dai suoi carmina, ma la materia di cui si sostanzia il Liber è spesso sfuggente e offuscata; sulle relazioni della famiglia del poeta con Cesare fornisce qualche informazione Svetonio in Iul. Caes. 73, dal De vita Caesarum. Che Lesbia fosse uno pseudonimo per Clodia Pulcra molto riporta Cicerone, che ne traccia un fosco ritratto nella Pro Caelio, l’orazione in difesa di M. Celio Rufo, ex amante della donna e da lei più tardi citato in giudizio con l’accusa di veneficio.

Di Catullo si hanno 116 carmi[1], per un totale di quasi 2.300 versi, raccolti in un Liber che si suole suddividere sommariamente in tre sezioni, su base metrica: i carmina 1-60, le cosiddette nugae, ovvero componimenti brevi e di carattere leggero; i carmina 61-68, o carmina docta, cioè testi più lunghi e stilisticamente elaborati; e, infine, i carmina 69-116, che sono sostanzialmente degli epigrammi in distici elegiaci.

È controversa la questione relativa alla composizione della raccolta: se qualche critico attribuisce al poeta stesso la responsabilità dell’ordinamento del Liber, i più tendono giustamente a credere che tale organizzazione, non rispondente a criteri cronologici o di contenuto, ma esclusivamente metrici, sia opera di altri (un criterio, quindi, da filologi!), dopo la scomparsa del poeta. Alcuni carmina, tuttavia, devono essere rimasti esclusi dalle prime edizioni postume, perché si hanno per tradizione indiretta versi attribuiti a Catullo, che non compaiono nei componimenti raccolti nel Liber. Bisognerà quindi supporre che il libellus che il poeta dedica a Cornelio Nepote (c. 1) non corrispondesse esattamente al Liber rimasto, ma ne costituisse solo una parte.

 

Poeta con stilus e tabula cerata. Mosaico, II-III sec. d.C. Trier, Rheinisches Landesmuseum.

 

La poesia dei sentimenti privati: i carmi brevi

Al progetto di recupero della dimensione intima, dei sentimenti privati, che caratterizza la rivoluzione neoterica, risponde in modo più evidente quella parte della produzione catulliana che si suole indicare come «carmi brevi», cioè l’insieme dei polimetri e degli epigrammi: l’esiguità dell’estensione rivela già in se stessa la modestia dei contenuti, occasioni e avvenimenti quotidiani, e favorisce insieme il paziente lavoro di cesello, la ricerca della perfezione formale.

Affetti, amicizie, odi, passioni, aspetti minori o minimi dell’esistenza sono l’oggetto della poesia di Catullo: uno scherzoso invito a cena (c. 13), il benvenuto a un amico che torna dalla Hispania, le proteste per un gesto poco urbano o per un dono malizioso ricevuto dal poeta sono solo alcune di queste occasioni.

Dall’occasionalità dei temi risulta un’impressione di immediatezza, di vita riflessa che ha dato luogo, nella storia della critica, a un equivoco tenace, quello di una poesia ingenua e spontanea, e di un poeta “fanciullo” che dà libero sfogo ai propri sentimenti, senza i vincoli della morale e i filtri della cultura. In realtà, la celebrata spontaneità catulliana è la veste che questa poesia si costruisce, ma è un’apparenza ricercata e ottenuta grazie a un ricco patrimonio di doctrina: anche i componimenti che sembrano più occasionali, riflesso immediato della realtà, hanno i loro precedenti letterari (come, spesso, l’epigramma greco, il cui influsso si avverte soprattutto nei carmi in distici). L’aggancio a un preciso spunto occasionale garantisce ai carmi catulliani una freschezza del tutto incomparabile.

Nel complesso impasto stilistico della poesia di Catullo entrano precise risonanze letterarie, che quasi mai hanno valenza puramente esornativa, dissimulate più o meno sapientemente in una parvenza di slancio passionale o di immediatezza giocosa, quasi fossero gesti irriflessi di un’emozione e nulla più. D’altra parte, solide strutture formali costituiscono l’“ordito” su cui si inscrive il gioco apparentemente tutto libero del poeta.

Bisogna, quindi, sottrarsi ai rischi del biografismo (si è creduto, infatti, sulla base dei suoi carmina, di poter fedelmente ricostruire la storia dell’amore con Lesbia) e verificare di volta in volta la genesi complessa di questa poesia intessuta di doctrina: non si tratta, beninteso, di negare la vita vissuta, l’importanza davvero insolita che l’esperienza biografica assume in Catullo, ma di vedere come essa si atteggia secondo movenze letterarie, come si deposita nelle forme della tradizione.

Non si deve dimenticare, poi, che il destinatario di ogni testo (la cui presenza alla mente del poeta non è senza conseguenze dirette e importanti sull’organizzazione formale del carmen stesso) è perlopiù rappresentante di una cerchia raffinata e colta: lui si attende, dunque – gli è anzi “dovuto” –, un prodotto letterario che abbia veste stilistica e fattura formale di livello adeguato.

Lo sfondo della poesia di Catullo, infatti, è costituito dall’ambiente letterario e mondano dell’Urbe, di cui fa parte la cerchia degli amici neoterici, accomunati dagli stessi interessi, da uno stesso linguaggio, da un ideale condiviso di grazia e da una brillantezza di spirito: lepos, uenustas, urbanitas sono i principi che fondano questo codice etico e insieme estetico, che governa comportamenti e rapporti reciproci, ma ispira anche il gusto letterario e artistico.

Edward Poynter, Lesbia e il suo passero. Olio su tela, 1907.

Sullo sfondo del raffinato ambiente mondano campeggia e risalta la figura di Lesbia, incarnazione della devastante potenza dell’eros, protagonista indiscussa della poesia catulliana. Il suo stesso pseudonimo, che rievoca Saffo, la poetessa di Lesbo, è sufficiente a creare attorno alla donna come un alone idealizzante: oltre alla grazia e alla bellezza non comuni, sono soprattutto intelligenza, cultura, spirito brillante, modi raffinati a farne il fascino e ad alimentare la passione del poeta.

Gioie, sofferenze, tradimenti, abbandoni, rimpianti, speranze, disinganni scandiscono le vicende di questo amore che è vissuto da Catullo come l’esperienza capitale della propria vita, capace di riempirla e darle un senso. All’eros non è più riservato lo spazio marginale che gli accordava la morale tradizionale, quale debolezza giovanile, tollerabile purché non infrangesse certe limitazioni e convenienze soprattutto di ordine sociale, ma esso diventa centro stesso dell’esistenza e valore primario, il solo in grado di risarcire la fugacità della vita umana (celebre l’invito del c. 5: Vivamus, mea Lesbia, atque amemus…).

All’amore e alla vita sentimentale Catullo trasferisce tutto il proprio impegno, sottraendosi ai doveri e agli interessi propri del civis romano: egli resta, quindi, estraneo alla politica e alle vicende della vita pubblica, ai conflitti di potere che lacerano la società tardorepubblicana, limitandosi a esternare un generico sprezzante disgusto per i nuovi protagonisti della scena politica, arroganti e corrotti.

Il rapporto con Lesbia, nato essenzialmente come adulterio, come amore libero e basato sull’eros, nel farsi oggetto esclusivo dell’impegno morale del poeta tende perciò, paradossalmente, a configurarsi nelle aspirazioni di Catullo come un tenace vincolo matrimoniale. Le recriminazioni per il foedus d’amore violato da Lesbia sono un motivo insistente sulla bocca del poeta, che accentua il carattere sacrale del concetto, appellandosi a due valori cardinali dell’ideologia e dell’ordinamento sociale romano: la fides, che garantisce il patto stipulato, vincolando moralmente i contraenti, e la pietas, virtù propria di chi assolve ai suoi doveri nei confronti degli altri, specialmente dei consanguinei, nonché della divinità.

Catullo cerca di fare di quella relazione irregolare un aeternum… sanctae foedus amicitiae (c. 109, v. 6), nobilitandola con la tenerezza degli affetti familiari (pater ut gnatos diligit et generos, c. 72, v. 4), ma l’offesa ripetuta del tradimento produce in lui una dolorosa dissociazione fra la componente sensuale (amare) e quella affettiva (bene uelle): celebre esempio di questo conflitto interiore è il carmen 72, appunto, che analizza con lucida amarezza la scomparsa di ogni stima e affetto per quella donna che continua, ancor più intensamente, ad accendere la passione dell’innamorato (iniuria talis / cogit amare magis, sed bene uelle minus, vv. 7-8). E celeberrimo è il carmen 85, che condensa in un ossimoro (odi et amo) la dolorosa sensazione del poeta stupito di fronte al dissidio che lo lacera.

La speranza sempre frustrata di un amore fedelmente ricambiato si accompagna in Catullo alla consapevolezza di non aver mai mancato al foedus d’amore con Lesbia, alla gratificante certezza della propria innocenza: il carmen 76 – in cui, a suo tempo, qualcuno volle erroneamente vedere la fiducia di una ricompensa nell’aldilà – è l’espressione più nota di questa consolazione della buona coscienza, di una uoluptas del ricordo garantita per il resto dei giorni terreni dalla consapevolezza di aver tenuto fede a un impiego morale. La sola soddisfazione sicura che l’amore per Lesbia gli avrebbe dato.

Venere, un’ancella e Amore. Affresco, post 29 a.C. Cubiculum B. Casa della Farnesina, Roma, P.zzo Massimo alle Terme.

 

La poesia dotta di matrice alessandrina: i carmina docta

Lepidus, nouus, expolitus: così, presentando il suo libellus nel carme dedicatorio, Catullo oltre ai caratteri materiali ed esteriori ne definisce indirettamente anche quelli interni, i criteri di una nuova poetica ispirata a brillantezza di spirito e raffinatezza formale. Questa poetica rivela apertamente la sua ascendenza alessandrina, meglio ancora callimachea, soprattutto in quella sorta di “manifesto” del nuovo gusto letterario che è il carmen 95, cioè l’annuncio della pubblicazione del poemetto dell’amico Cinna (vv. 1-2; 7-10):

 

Zmyrna mei Cinnae nonam post denique messem

quam coepta est nonamque edita post hiemem […]

At Volusi annales Paduam morientur ad ipsam

et laxas scombris saepe dabunt tunicas.

Parua mei mihi sint cordi monimenta ***,

at populus tumido gaudeat Antimacho

 

La Smirna del mio Cinna dopo nove messi

e nove inverni da che è cominciata vide la luce […]

Gli Annali di Volusio periranno alla foce del Po

e serviranno spesso da tuniche ampie per gli sgombri.

A me stiano a cuore i brevi grandi testi dell’amico;

quanto al popolo, si goda le goffaggini di Antimaco.

 

Brevità, eleganza e dottrina sono i canoni di un gusto cui Catullo aderisce senza riserve, in polemica contrapposizione alla torrenziale faciloneria degli attardati epigoni di scuola enniana, che entusiasmano il pubblico incompetente. I veri intenditori apprezzeranno, invece, la nuova epica elaborata dai poeti neoterici, l’epillio, il poemetto breve (poche centinaia di versi!), che con le sue stesse dimensioni favorisce il paziente lavoro di rifinitura stilistica, teso a conferire asciuttezza e pregnanza, e che sul piano dei contenuti permette al poeta di far sfoggio della sua preziosa dottrina (si tratta, perlopiù, di vicende mitologiche esotiche e dai risvolti patologicamente passionali).

Dottrina e impegno stilistico, oltre a una maggiore ampiezza dei componimenti, sono particolarmente evidenti nella sezione dei carmi che, per tale motivo, sono noti come docta, in cui il poeta sperimenta anche nuove forme compositive, dando prove di raffinata sapienza strutturale.

Amore e Psiche. Affresco pompeiano, dalla Casa di Terenzio Neo. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

L’epillio: le nozze di Peleo e Teti e il lamento di Arianna

Come altri poeti neoterici – Cinna con la sua Zmyrna, Valerio Catone con la sua Dictynna, Calvo con l’Io, Cecilio (un poeta ricordato da Catullo) con la Magna Mater – anche Catullo si cimenta nel nuovo genere dell’epillio: il c. 64 ne costituirà quasi il modello esemplare per la cultura latina a venire. Questo celebre poemetto di 408 esametri narra il mito delle nozze di Peleo e Teti, ma nella vicenda principale contiene – incastonato mediante la tecnica alessandrina dell’èkphrasis e della digressione – un’altra storia, che figura ricamata sulla coperta nuziale, quella dell’abbandono di Arianna a Nasso da parte di Teseo – un motivo che conosce grande diffusione nella letteratura greca e latina: su questo modello, tra l’altro, saranno improntate le Heroides ovidiane.

L’intreccio delle due vicende d’amore, quello infelice di Arianna e quello felice dei due sposi, istituisce fra di esse una serie di relazioni che hanno il proprio nucleo nel tema della fides, la virtù cardinale del mondo etico catulliano, quella fides di cui, nella lontana età degli eroi, gli stessi dèi si facevano garanti e che nella corrotta età presente è violata e vilipesa insieme agli altri valori morali e religiosi. Il canto profetico delle Parche saluta, invece, le nozze di Peleo e Teti, esaltando la reciproca fedeltà degli sposi. Il mito si fa cioè, qui come altrove, proiezione e simbolo delle aspirazioni del poeta, del suo bisogno perennemente inappagato di ancorare un amore tanto precario a un vincolo più saldo, a un foedus duraturo.

Un epillio è anche il c. 63: si ispira alla vicenda del giovane frigio Attis, che, nel delirio religioso, si mutila della sua virilità per farsi sacerdote di Cibele, la grande madre degli dèi. Il culto orgiastico di questa divinità, con musica ossessiva e danze cruente, era stato introdotto a Roma intorno al 205/4 a.C. Una volta libero dall’invasamento, Attis lamenta il folle gesto.

Bacco e Arianna. Affresco, ante 79 d.C, Casa dei Braccialetti d’Oro, Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

Omaggio ai modelli greci: gli epitalami e la Chioma di Berenice

Epitalami, cioè canti nuziali, sono i carmina 61 e 62. Si tratta di un genere letterario di origine ellenica, praticato dall’epoca di Saffo all’età alessandrina, che Catullo romanizza con l’inserimento di una serie di elementi tipicamente italico-romani, sia per quanto riguarda il rito nuziale sia sul piano etico-sociale. Mentre il carmen 61 fu scritto in occasione delle nozze dei due nobili romani L. Manlio Torquato e Vibia Aurunculeia, il carmen 62 non fu composto per un’occasione reale (anche se in esso non mancano accenti di sensibilità latina, il componimento rivela una più marcata adesione ai caratteri formali del genere).

Nel ciclo dei carmina docta è compreso anche un componimento (c. 66) che è un omaggio al poeta principe dell’alessandrinismo, Callimaco: si tratta della traduzione in versi latini di un’elegia famosa del poeta cirenaico, nota come Chioma di Berenice, che pare occupasse la parte finale del IV libro degli Aitia e che è giunta in forma mutila e frammentaria. In essa Callimaco celebrava in versi la cortigiana escogitazione di Conone, l’astronomo alla corte di Tolemeo III Evergete, re d’Egitto, che aveva identificato una nuova costellazione da lui scoperta con il ricciolo offerto come ex voto dalla regina Berenice per il ritorno del marito dalla guerra, ricciolo successivamente scomparso. Nel tradurre, liberamente, la vicenda del catasterismo (cioè della trasformazione della ciocca in costellazione), Catullo introduce o accentua temi centrali della propria ideologia e particolarmente insistenti nei carmi maggiori: l’esaltazione della fides, della pietas, la condanna dell’adulterio e la celebrazione delle virtù eroiche e dei valori tradizionali (vi si riconduce anche il c. 67, in cui una porta racconta le vicende non proprio edificanti di cui è stata protagonista la singolare famiglia che abita in quella casa).

Ambrogio Borghi, La regina Berenice (o Chioma di Berenice) – dettaglio. Statua, marmo, 1878. Monza, Musei Civici.

 

L’amore e l’archetipo mitico: il carme 68

Particolarmente complesso è il carmen 68 (dall’unità controversa: si discute se questo componimento, trasmesso come unico dai codici, si debba, in realtà, distinguere in due testi e quale sia, in tal caso, la relazione che li lega); esso riassume i temi principali della poetica catulliana, quali l’amicizia e l’amore, l’attività letteraria e la sua connessione con Roma, il dolore per la morte del fratello. Il ricordo dei primi amori, furtivi, con Lesbia sfuma nel mito: la vicenda di Protesilao e Laodamia (unitisi prima che fossero celebrate le nozze e, perciò, puniti con la morte di lui appena sbarcato a Troia) si fa archetipo esemplare della vicenda del poeta e della sua donna, di un coniugium anch’esso imperfetto e precario.

Il carme 68 merita, dunque, una menzione particolare per il suo destino nella storia letteraria latina: il largo spazio concesso al ricordo e alla vita trascorsa, proiettata miticamente, in un componimento che andava ben al di là delle dimensioni dell’epigramma, dovevano farlo apparire come il progenitore della futura elegia soggettiva latina.

Donna seduta con kithara. Probabilmente si tratta di un ritratto della regina Berenice II, mentre si esercita al canto. Affresco, 50-40 a.C. ca. dalla Villa di P. Fannius Synistor, Boscoreale.

 

Lingua e stile

Quella di Catullo, si è detto, è una cultura letteraria ricca e complessa, in cui accanto all’influsso dominante della letteratura alessandrina, con la sua eleganza talora preziosa, è sensibile anche quello della lirica greca arcaica (dell’intensa affettività di Archiloco e di Saffo). Quanto al linguaggio, esso è il risultato di un’originale combinazione fra il lessico letterario e colto e il sermo familiaris: la lingua e le movenze del parlato vengono assorbiti e filtrati da un gusto aristocratico che li raffina e li impreziosisce, senza però insterilirne le capacità espressive.

Il gusto ricercato non produce un’eleganza esangue, ma lascia spazio, per esempio, alla cruda espressività di certi volgarismi che non vanno intesi come un tratto di lingua autenticamente popolare, ma ricondotti alla snobismo compiaciuto di un’élite colta che ama esibire il turpiloquio accanto all’erudizione più raffinata. Particolarmente frequenti, fra i tratti del sermo familiaris, i diminutivi, che nella loro stessa mollezza fonica e formale (flosculus, labella, turgiduli ocelli, molliculus, pallidulus, tenellulus, ecc.; c. 3; c. 42; c. 8) sembrano rivelare l’adesione a quell’estetica del lepos, della grazia, che accomuna la cerchia degli amici e ne condiziona anche i modi espressivi, oltre a ridefinirne la gerarchia dei valori etici.

Uno stile composito, insomma, e sempre vitale, con un’ampia gamma di modalità espressive che vanno dallo sberleffo irridente, dall’invettiva sferzante e scurrile alle morbidezze del linguaggio amoroso, dalla baldanza giovanile che dilata le immagini in iperboli alla grazia leggera, alla pacata malinconia, agli abbandoni di certi momenti elegiaci, soprattutto nei carmi più tardi.

La vitalità del linguaggio affettivo e l’intensità del pathos non sono assenti nemmeno nei carmina docta: giustamente la critica ha reagito da tempo all’idea di una netta distinzione fra i carmi più brevi, più vivacemente espressivi e dove è dominante la componente affettiva e autobiografica, e i componimenti maggiori, dove più evidenti sono la dottrina e l’elaborazione stilistica. Ma se la distinzione non va troppo marcata, non va tuttavia nemmeno annullata: vari elementi, come per esempio la selezione di un lessico generalmente più ricercato e la presenza di stilemi e movenze del poesia “alta”, della tradizione enniana (come gli arcaismi, i composti, le clausole allitteranti, ecc.), concorrono a dare ai camina docta un carattere più spiccatamente letterario.

***

Note:

[1] Più esattamente i carmina sono 113, ma la loro numerazione sale a 116, perché 3 carmi priapei (cc. 18, 19, 20) furono inseriti nel Liber (contro l’autorità dei manoscritti) dal Mureto, grande umanista del Cinquecento francese, e ne fecero parte fino a quando, nell’Ottocento, il Lachmann li escluse dal testo catulliano; eppure, la numerazione dei singoli carmi non subì sostanziali aggiustamenti. I tre carmina possono essere letti fra i Priapea dell’Appendix Vergiliana.