Arato di Soli

di I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca. III. L’Ellenismo e la tarda grecità, Firenze 2004, 41-42.

Sulla biografia di Arato non si hanno molte notizie, nonostante circolassero in antico ben quattro vitae, derivate dal commentatore Boeto di Sidone. Nativo di Soli in Cilicia, si trasferì da giovane ad Atene, dove frequentò l’ambiente degli Stoici, che lasciò nella sua formazione una significativa impronta. Nel 276 da Atene si trasferì a Pella, in Macedonia, alla corte di Antigono II Gonata (276-239 a.C.), sovrano di notevole cultura e simpatizzante con il pensiero stoico, filosofo e letterato egli stesso. A Pella si trovavano altri intellettuali di prestigio, come il poeta tragico ed elegiaco Alessandro Etolo, attivo anche presso la Biblioteca di Alessandria intorno al 280 a.C.; il filosofo e poeta satirico Timone di Fliunte (320-230 a.C.); il filosofo Menedemo di Eretria, fondatore della scuola di pensiero che portava il nome della sua città natale. Molta della produzione letteraria di Arato nacque proprio in questo contesto culturale, e, però, buona parte di essa è andata perduta: come la raccolta Κατὰ λεπτόν («Argomenti leggeri»), che conteneva anche delle trenodie per defunti importanti (Ἐπικήδεια), degli epigrammi (dei quali almeno due si sono conservati in Anth. Pal. XI 437 e XII 129) e vari inni. In occasione della vittoria di Antigono sui Galati a Lisimachia (277 a.C.) o delle nozze del sovrano con Fila, figlia di Seleuco, avvenute l’anno precedente, Arato compose un Inno a Pan (un frammento del quale va forse identificato con SH 958: vd. Barigazzi 1974), andato perduto. Inoltre, il poeta scrisse delle ἠθοποιίαι ἐπιστολαί (SH 106), «lettere sulla formazione del carattere»; i suoi scritti didascalici furono significativi per la storia della letteratura antica: restano cinque titoli di opere astronomiche, che almeno parzialmente citano sezioni dei Φαινόμενα (Fenomeni), a cui si aggiunge un Κανών, in cui, fra l’altro, si descrivono le orbite dei pianeti attraverso calcoli matematici (cfr. Leonida di Taranto, Anth. Pal. IX 25, 3). Di Arato si conoscono anche sette titoli di testi che trattano di anatomia e farmacopea: si conserva un frammento sulle suture craniche. Di questi libri, tuttavia, la Ὀστολογία (SH 97) non era un’opera sull’anatomia ossea, ma più probabilmente un trattatello sulla negromanzia tramite gli scheletri.

Antigono II Gonata e Fila. Affresco, ante 79 d.C. dalla domus di Fannio Sinistore a Boscoreale.

 

Secondo le vitae I e III, Arato lasciò poi la Macedonia per soggiornare qualche tempo in Siria, presso Antioco I Sotere, fratello di Fila, dove attese alla revisione critica dell’Odissea e, probabilmente, anche dell’Iliade. Tornato in Macedonia vi rimase fino alla morte, avvenuta forse poco prima di quella del suo protettore Antigono Gonata, scomparso nel 240/239.

 

Antigono II Gonata. Dramma, zecca macedone ignota 277-239 a.C. ca. AE 6,26 g. Obverso: Pan innalza un trofeo militare (monogramma A – B).

 

L’opera maggiore di Arato, quella per cui i contemporanei lo considerarono un novello Esiodo, fu un poema in esametri, i Fenomeni, giunto fino a noi con i commenti di vari grammatici. L’opera, che forse fu commissionata da Antigono Gonata, è un trattato di astronomia; il suo autore ebbe come modello gli scritti del matematico Eudosso di Cnido (408-355 a.C.), discepolo di Platone e di Archita, filosofo pitagorico e matematico di Taranto (400 ca. a.C.).

 

London, British Library. Ms. Harley 647 (IX sec.), Arato di Soli, Phaenomena, ff. 10v-11r. Le costellazioni dei Pesci e di Perseo.

 

Il poema di Arato si apre con un’invocazione a Zeus e descrive poi la volta stellata del cielo, distinguendo le costellazioni dei due emisferi. Successivamente, il poeta espone la teoria dei circoli che dividono la sfera celeste, e il sorgere e il tramontare delle costellazioni. L’ultima parte dell’opera è dedicata alla descrizione dei segni premonitori delle variazioni meteorologiche, attraverso l’osservazione del mondo naturale e del comportamento degli animali. Per il suo contenuto, in alcuni manoscritti questa sezione del poema, che fu poi tradotta in esametri da Cicerone, porta il titolo di Pronostici attraverso i segni naturali. I contemporanei di Arato espressero giudizi molto lusinghieri sulla sua opera che, pur avendo il suo archetipo in Esiodo, si riallacciava anche al più tardo filone didascalico di Xenofane, Parmenide ed Empedocle. In particolare, ne fu molto ammirata la λεπτότης, la «sottigliezza»; un apprezzamento che rientra perfettamente nel gusto dell’epoca e che aveva la sua massima espressione in Callimaco, autore di un epigramma altamente laudativo nei confronti del poeta (Anth. Pal. IX 507; cfr. anche Leonida, Anth. Pal. IX 25). Tra l’altro, come si è ricordato, Arato stesso aveva intitolato Κατὰ λεπτόν una delle sue antologie poetiche, nome che sembra alludere proprio a questa qualità, quasi come se fosse la sua personale σφραγίς; a conferma di ciò pare essere anche l’acrostico λεπτή in Arat. 783-787. Gli antichi celebravano di Arato anche la dedizione al lavoro e le notti insonni, la sua profonda dottrina, la ripresa stilistica di Esiodo, le competenze didascaliche, ma anche la δύναμις di filosofo naturale (frutto, cioè, della sua visione stoica del mondo), che a dispetto di altri poeti-astronomi doveva essere una sua caratteristica esclusiva (cfr. Boeto di Sidone, Scholia in Aratum vetera, p. 12 f. Martin).

 

«Atlante Farnese» che regge il globo celeste. Statua, marmo, copia romana di III sec. d.C. da originale ellenistico. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

Già prima di lui, un allievo di Eudosso, Cleostrato di Tenedo, era stato il primo a mettere in versi le proprie conoscenze astronomiche. Altri Fenomeni – in prosa o in poesia – furono composti anche dal già menzionato Alessandro Etolo, ma anche da Ermippo di Smirne (III secolo), da Egesianatte di Alessandria (II secolo) e da Alessandro di Efeso (I secolo a.C.). Rispetto a questa tradizione, comunque, il poema di Arato riscosse un subito successo, al punto che, a scapito delle opere omonime e dell’astronomia matematica (sic), divenne ben presto un elemento fondamentale della ratio studiorum successiva: in effetti, il papiro più antico che conserva i vv. 480-494, P. Hamb. 121, risalente alla prima metà del II secolo d.C., rivela proprio il suo impiego come testo scolastico (cosa che contribuì al fiorire di un’intensa attività di commento).

 

Paris, Bibliothèque nationale de France. Ms. lat. 8878. Beatus de Liebana, Commentaria in Apocalypsin (ante 1072), f. 139v. Cielo stellato.

 

Per il lettore moderno, tuttavia, risulta difficile condividere tanto entusiasmo; però è innegabile che nel mondo antico Arato ebbe una straordinaria fortuna, come dimostra il gran numero di scienziati e di grammatici che lo lo studiarono: il più celebre di tutti fu probabilmente Ipparco di Nicea, uno dei più grandi astronomi greci, vissuto nel II secolo a.C. e autore di un dotto commento in tre libri sui Fenomeni. Inoltre, dal I secolo a.C. al IV d.C., da Varrone Atacino a Cicerone, da Germanico a Manilio e a Festo Avieno, anche la cultura romana si impegnò, con esiti diversi, nella traduzione dell’opera, mentre illustri poeti come Virgilio (Buc. III 60, Georg. I) e Ovidio (Fas. III 105-110) attinsero al testo arateo, com’è dimostrato da evidenti reminiscenze di esso. Perfino l’apostolo Paolo, nel discorso Areopagitico (Act. 17, 28-29) citò il v. 5 del proemio, senza precisare il nome del poeta (ὡς καί τινες τῶν καθ’ ὑμᾶς ποιητῶν εἰρήκασιν, «come hanno detto alcuni dei vostri poeti»), per dimostrare che non è necessario cercare Dio lontano da noi, dal momento che tutti «viviamo, ci muoviamo e siamo in Lui, come hanno detto alcuni dei vostri poeti: infatti, noi siamo sua stirpe (τοῦ γὰρ καὶ γένος ἐσμέν)».

 

Andreas Cellarius, Planisphaerium Arateum. Illustrazione, 1661, da Harmonia macrocosmica.

 

Una così vasta fortuna dell’opera di Arato, che si protrasse, attraverso le traduzioni latine, durante il Medioevo e il primo Rinascimento, fu probabilmente dovuta al fatto che il poema vide la luce in un’epoca in cui non esisteva quella distinzione fra arte e scienza per noi rigorosa e irrinunciabile; in conseguenza di ciò, esso poté essere apprezzato dal pubblico di età ellenistica come un’illustre testimonianza della poesia erudita che, riallacciandosi all’antica tradizione esiodea, si arricchiva del gusto della ricerca rara e minuziosa, tipico dei tempi nuovi, ed esponeva, con abbondanza e varietà di informazioni e con limpida eleganza di stile, il tema dell’astronomia, da sempre carico di grande attrattiva.

 

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Gli epigoni della poesia bucolica: Mosco e Bione

di Bɪᴏɴᴅɪ I., Storia e antologia della letteratura greca. III. L’Ellenismo e la tarda grecità, Firenze 2004, 365-366.

I principali prosecutori della poesia bucolica furono Mosco di Siracusa (metà del II secolo a.C.) e Bione di Smirne (fine II secolo a.C.), entrambi ricordati nel lessico bizantino Suda; le loro opere ci sono giunte nello stesso corpus che comprendeva anche quelle di Teocrito.

London, British Library. Add MS 11885 (XV sec.), f. 35v. Mosco di Siracusa, Europa.

Mosco fu considerato dal Suda «secondo a Teocrito». Egli unì, come molti autori del suo tempo, l’attività filologica a quella poetica. Probabilmente allievo del grande Aristarco, della sua opera di grammatico ci è rimasto solo un titolo, Sulle parole rodie, forse un lessico o una raccolta di termini rari. Giovanni Stobeo ci ha conservato tre frammenti di poesia bucolica, in dialetto dorico, in cui il motivo pastorale si intreccia a quello amoroso. Il primo svolge un tema caro alla poesia ellenistica: il confronto fra la piacevole vita del contadino e quella, ben più dura e travagliata, del pescatore. Di maggior ampiezza è un epillio intitolato Europa, contenuto nel corpus teocriteo: questo componimento, in esametri, narra il mito di Europa, rapita da Zeus in forma di toro, tema assai frequente anche nelle arti figurative. Il poemetto, di carattere prevalentemente descrittivo, è ambientato in una cornice di paesaggio che richiama il ratto di Persefone a opera di Ade, trattato nell’inno omerico A Demetra. Esso contiene però anche numerose concessioni al gusto ellenistico: il racconto di un sogno, l’ἔκφρασις del cesto d’oro in cui la principessa tiria depone i fiori appena raccolti, opera di Efesto, che vi ha raffigurato il mito di Io, e, infine, un episodio di carattere romanzesco, il rapimento della fanciulla sotto gli occhi delle compagne. La tradizione antica attribuisce a Mosco anche un carme in esametri, Eros fuggitivo, in cui la stessa Afrodite fornisce i connotati del terribile figlioletto, promettendo in compenso un bacio «e anche di più», a chiunque lo ritroverà. La graziosa descrizione insiste sul contrasto fra il delicato aspetto infantile di Eros, fanciullo «dalla voce di miele», e la sua crudele potenza, capace di far soffrire chiunque. Opera di livello inferiore e di dubbia autenticità è il poemetto Megara, in esametri, in cui la sposa di Eracle e sua madre Alcmena si confidano a vicenda le sofferenze sopportate a causa dell’eroe. Molto discutibile l’attribuzione a Mosco di un altro componimento della raccolta teocritea, il XXVII, Colloquio d’amore, in cui si descrive la seduzione di una fanciulla, per la verità non troppo restia, a opera di un pastore. Compositore colto e raffinato, Mosco esercitò una certa influenza su autori posteriori, come Nonno di Panopoli, che si ispirò a lui nelle Dionisiache, e Orazio, che ne imitò l’Europa in Odi III 27.

Pierre-Maximilien Delafontaine, Venere e Cupido. Olio su tela, 1860.

Poche e incerte sono anche le notizie circa Bione di Flossa, presso Smirne; da un elogio funebre in versi, opera di un suo sconosciuto discepolo (alcuni lo hanno attribuito, con poco fondamento, a Mosco), sappiamo che il poeta soggiornò a lungo in Sicilia e che morì avvelenato; ma la notizia è tutt’altro che certa. Giovanni Stobeo ci ha trasmesso sedici componimenti in dialetto dorico (alcuni sono forse epigrammi, altri parti di opere più ampie); il suo carme più esteso, l’Epitafio di Adone, che gli fu attribuito nel Rinascimento dall’umanista Camerario, proviene da altre raccolte. Il modello è l’idillio teocriteo sulla morte di Dafni; ciò risulta evidente anche dall’uso dell’ἐφύμνιον, il «ritornello», che Teocrito riprese forse dai lamenti funebri (θρῆνοι o γόοι) e che ha la funzione di scandire le varie fasi della lamentazione rituale. Il componimento di Bione è caratterizzato dall’insistita evidenza dei particolari, macabri ed erotici insieme: Afrodite, folle d’amore, supplica il giovane morente di non perdere coscienza, almeno fino al momento in cui ella raccoglierà dalle sue labbra, con un ultimo bacio, l’estremo respiro. Intanto, il sangue che sgorga dalla mortale ferita macchia il grembo e il seno della dea, le cui tenere carni sono state crudelmente lacerate dai rovi in mezzo ai quali ha vagato in cerca dell’amante. Sofferenza e sensualità, Eros e Thanatos, si fondono in questa descrizione, che ispirò al giovane Foscolo l’inizio dell’ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo.

Pieter Paul Rubens, La morte di Adone. Olio su tela, 1614 c. Jerusalem, Israel Museum.

In età umanistica venne attribuito a Bione anche il frammento di una composizione intitolata l’Epitalamio di Achille e Deidamia, in cui si narravano, in una cornice bucolica, gli amori dell’eroe con la figlia di Licomede, re di Sciro, presso il quale egli era stato nascosto sotto mentite spoglie. Anche un frammento papiraceo, pubblicato nel 1932, e contenente un dialogo fra Pan e Sileno, è stato attribuito, per motivi stilistici, a Bione.

 

Achille sull’isola di Sciro. Mosaico, II-III sec. d.C. da Zeugma. Gaziantep, Mosaic Museum.

Il genere bucolico ebbe in seguito riconoscimento ufficiale con l’opera del grammatico Artemidoro, vissuto nel I secolo a.C., in età augustea, il quale raccolse in un’edizione miscellanea «le Muse bucoliche, prima disperse», come affermò egli stesso in un epigramma dell’Anthologia Palatina (IX 205); e fu probabilmente attraverso la sua silloge che Virgilio venne a conoscenza di questo genere letterario e dei suoi maggiori esponenti.

 

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Un libriccino per Cornelio (Catull. Carm. I)

di CONTE G.B. – PIANEZZOLA E., Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, pp. 620-622.

Con questo carme Catullo dedicò allo storico Cornelio Nepote una raccolta di poesie costituita esclusivamente da componimenti brevi in metri vari, che potevano coincidere in tutto o (assai più verosimilmente) in parte con gli attuali carmina 2-60 della raccolta pervenuta. Gesto cortese di omaggio tra amici letterati, questo testo ha la funzione programmatica di presentare i principi dell’estetica neoterica, che improntano il libellus donato a Cornelio. E nell’affermare il lepos, il labor limae e la doctrina come canoni della nuova poetica, il piccolo carme di Catullo ne offre al tempo stesso un esempio autorevole.

 

Metro: endecasillabi faleci.

 

 

Cui dono lepidum nouum libellum

arido modo pumice expolitum?[1]

Corneli, tibi; namque tu solebas

meas esse aliquid putare nugas[2],

5   iam tum cum ausus es unus Italorum

omne aeuum tribus explicare cartis,

doctis, Iuppiter, et laboriosis[3].

quare habe tibi quidquid hoc libelli[4]

qualecumque: quod, ‹o› patrona uirgo[5],

10 plus uno maneat perenne saeclo[6].

 

A chi dedicare il nuovo elegante libretto

or ora levigato dall’arida pomice?

Cornelio, a te: e, infatti, tu eri solito

ritenere che le mie sciocchezze valessero qualcosa,

5   mentre già osavi, unico tra gli Italici,

svolgere la storia universale in tre volumi,

dotti, per Giove, e per giunta sudati!

Perciò, prenditi il mio libretto che è quel che è,

qualsiasi sia il suo valore: o vergine signora,

10 che possa esso durare più di una generazione.

 

Oxford, Bodleian Library. Ms. Canonicianus Class. Lat. 30 (XIV sec.), f. 1r. Il Carmen 1 di Catullo con iniziale miniata e annotazioni.

 

Il libretto, terminato da pochissimo (vv. 1-2), viene inviato a un amico che ha già mostrato da tempo di saper apprezzare le nugae del poeta (vv. 3-4) e che è a propria volta esperto di fatiche letterarie, seppure di tutt’altro genere (vv. 5-7). Proprio i vv. 5-7 sviluppano ciascuno un aspetto dell’opera di Cornelio Nepote: l’originalità (v. 5), il tema e l’estensione (v. 6), il carattere erudito e l’impegno dell’autore (v. 7). Dopo il riferimento elogiativo all’opera dell’amico, i vv. 8-10 ribadiscono il gesto della dedica attraverso una rete di riprese formali: la ripetizione di libellus (vv. 8 e 1) e del pronome tibi (vv. 8 e 3); il motivo del deprezzamento giocoso delle nugae (vv. 8-9 e 4).

I versi centrali sull’opera di Nepote (vv. 5-7) sono incorniciati dal doppio gesto di dedica accompagnato da dichiarazioni di modestia: così si realizza un effetto di composizione ad anello sul tema della dedica all’amico e dell’ostentato deprezzamento del dono, mentre la parte centrale si sofferma per contrasto sull’impegnativa opera dell’erudito (un contrasto che non impedisce a Catullo di mettere in rilievo i caratteri di doctrina e di labor dei Chronica di Nepote, caratteri ben radicati nella poetica dei neòteroi). Gli ultimi due versi presentano un cambio di destinatario e un forte rovesciamento nell’atteggiamento assunto dal poeta: il v. 9 passa dal gesto di modestia (qualecumque, «qualsiasi sia il valore» del libellus) all’invocazione alla Musa (patrona uirgo) e introduce così la preghiera, formulata nell’ultimo verso, dell’immortalità della raccolta stessa.

 

Al di là del gesto cortese verso l’amico, il componimento ha la funzione di far da proemio all’intera raccolta, che difficilmente sarà stata estesa a tutta la prima parte del Liber pervenuto (cc. 1-60, le cosiddette nugae; vi sono ipotesi che la riducono, per esempio, ai soli cc. 1-14). Al di là del tono colloquiale e dell’impressione di (calcolata) spontaneità, l’incipit del libellus per Cornelio si propone al lettore come una dichiarazione programmatica sulle scelte estetiche adottate dall’autore.

Il v. 1 mette a fuoco l’oggetto del dono: non un liber ma un libellus («libretto, piccolo libro»). Il diminutivo, posto in rilievo a livello fonico dall’omoteleuto (nome e aggettivi hanno cioè identica terminazione), ha valore vezzeggiativo-affettivo: il libretto è grazioso, editorialmente curato; al tempo stesso, in rapporto al destinatario, il diminutivo è (apparentemente) deprezzativo: un piccolo libro di nugae, niente a che vedere con la poderosa opera storica di Cornelio Nepote.

Quanto ai due aggettivi nouus e lepidus, essi si riferiscono all’aspetto formale, curato e invitante, del prodotto librario finito, ma non solo. Lepidus annuncia una raccolta di carmi brevi improntati al lepos (lett. «grazia, eleganza»), termine da cui l’aggettivo deriva e canone dell’estetica neoterica. Lepos, lepidus designano il fascino di una vivacità colta e mai volgare, di un umorismo che, anche se mordace, non travalica mai i limiti dell’urbanità e del buon gusto. Nouus è il libellus appena edito anche e soprattutto per gli elementi di innovazione che la poesia neoterica introduce nella tradizione latina.

Il gesto di levigare gli orli del volume con la pomice, eliminando ogni imperfezione e asperità (v. 2), richiama uno dei cardini della nuova estetica: il labor limae. L’eleganza, il lepos, è frutto di un’attenta cura dei dettagli, di un lavoro assiduo di correzioni e rifiniture: dietro un’apparenza di spontaneità e leggerezza, la poesia del disimpegno nasconde un ossessivo, raffinatissimo lavorio formale.

La poesia è lusus («gioco»); l’atto del comporre è ludere («giocare, scherzare»). Le nugae, perciò, costituiscono, per tradizione, la prima parte del Liber catulliano (anche se il poeta impiega soltanto qui questo termine: altrove, invece, ricorre a ineptiae, come nel c. 14b). Le poesie donate a Cornelio sono presentate così quali nugae, con dovuta, educata espressione di modestia e in contrasto con i Chronica dell’amico, un’impresa titanica (due parole lunghe, di quattro e cinque sillabe, chiudono i vv. 5 e 7, insistendo sull’idea dell’immane fatica compiuta dallo storico!). Sull’opposizione tra le due opere, gesto cortese di omaggio al destinatario, si innesta però una serie di corrispondenze: la nouitas (v. 1) del libellus è ripresa al v. 5 dall’orgogliosa affermazione del primato letterari di Cornelio Nepote (ausus es unus Italorum); il conoscimento del labor e della doctrina al v. 7 richiama, pur nella distanza tra le due opere, principi fondamentali dell’estetica neoterica. La doctrina, infatti, è requisito primario per fare poesia: dotte sono le Muse ispiratrici (definite nel c. 65 v. 2 doctae uirgines), e dotte e raffinate sono le figure femminili amate dai neòteroi (come la ragazza innamorata di Cecilio, c. 35). La necessità di possedere un grande bagaglio di conoscenze e poi di raggiungere un’estrema levigatezza e nitore formale fanno della poesia un impegno lungo e faticoso.

Citarista. Affresco, I sec. d.C. forse da Boscoreale. Württemberg, Landesmuseum.

L’invocazione alla Musa, che segna un repentino cambio di destinatario in (apparente) contrasto con le dichiarazioni dei versi precedenti, ha un modello illustre nell’appello di Callimaco alle Cariti (o Grazie, qui equiparate alle Muse), perché concedano alla sua opera di durare nel tempo: «Siate adesso propizie, e sulle elegie mie sfregate le mani lucide d’olii, affinché mi durino lunga stagione» (Àitia, fr. 1, 7, vv. 14 ss. Pf., trad. G.B. D’Alessio). Il simbolismo dell’oggetto libro accomuna i due testi.

Un altro precedente importante per il carmen è il proemio della Corona di Meleagro (un’antologia di epigrammi di vari autori raccolti dal poeta greco Meleagro sul finire del II secolo a.C., ben nota ai poetae novi), dove è la Musa stessa a portare il libro al dedicatario Diocle: «Musa diletta, per chi questi frutti canori tu rechi? Chi tessé questo serto di poeti? Fu Meleagro: l’autore compose lo splendido omaggio a ricordo dell’illustre Diocle» (Anthologia Palatina IV 1, vv. 1-4, trad. A. Pontani).

 

Il rotolo di papiro (uolumen, da uoluo, «avvolgere, arrotolare») era costituito da più fogli (cartae) incollati uno di seguito all’altro. Gli orli superiore e inferiore del uolumen (frontes) erano lisciati con la pietra pomice; a essi erano poi fissate due asticelle (gli umbilici), le cui estremità (cornua) sporgevano dal rotolo ed erano colorate di rosso nelle edizioni più ricercate; attorno a queste asticelle si arrotolava il volume, che era alla fine chiuso in un involucro di pergamena con attaccato un cartellino recante il titolo dell’opera e il nome dell’autore.

***

Note:

[1] vv. 1-2. Cuiexpolitum? «A chi dedicare il nuovo elegante libretto or ora levigato dall’arida pomice?». dono: l’uso del modo indicativo anziché del congiuntivo è comune nelle domande deliberative, in cui chi parla si interroga sul da farsi: per esempio, quid ago? («Che fare?»); quid respondemus? («Che rispondere?»). Dono indica sia il gesto concreto di donare il nuovo elegante libretto sia quello di dedicarlo all’amico. pumice: comunemente maschile, qui pumex è femminile. expolitum: il verbo polio e i composti expolio e perpolio indicano anche l’atto di limare.

[2] vv. 3-4. Cornelinugas. Corneli. Cornelio Nepote (90-30 a.C.), storico ed erudito, era originario come Catullo della Gallia Cisalpina e a lui legato – a quanto risulta dai versi che il poeta gli dedica – da un’amicizia di lunga data, basata su comuni interessi letterari. nugas: «scherzi poetici». esse aliquid: espressione colloquiale che significa «avere un qualche valore».

[3] vv. 5-7. iamlaboriosis. unus Italorum: Cornelio è il primo fra gli scrittori in lingua latina a comporre una storia universale, intitolata Chronica, in tre libri (andata perduta). omne… cartis: «svolgere la storia universale (omne aeuum) in tre volumi»; carta, propriamente il «foglio di papiro», indica per metonimia l’intero rotolo; explicare ha in sé l’idea dello svolgere tematicamente, cronologicamente e anche concretamente, srotolando i volumina. Iuppiter: «per Giove!», è esclamazione della lingua parlata. laboriosis: l’aggettivo significa qui «duro, difficile, che richiede fatica»; è un’accezione rara del termine, che come significato principale ha «laborioso, diligente».

[4] v. 8. quarelibelli. quare: la congiunzione conclusiva è colloquiale, comune in poesia epigrammatica, satirica ed elegiaca. habe tibi: «prenditi», formula tecnica del linguaggio giuridico; infatti, siccome fin dall’inizio si dice che Cornelio abbia apprezzato la nuova poesia dell’amico, il poeta ora “estingue il suo debito” di riconoscenza “cedendogli in proprietà” il suo libellus appena uscito dall’officina del librarius. quicquid hoc libelli = hunc libellum (libelli è genitivo partitivo) è espressione di modestia, che deprezza almeno in apparenza l’oggetto del dono e anticipa qualecumque del verso seguente.

[5] v. 9. qualecumque uirgo. qualecumque (sotto. est): «qualunque sia il suo valore»; l’aggettivo indefinito è collegato per enjambement al verso precedente (anzi, è l’unico enjambement del carme, dove altrimenti l’unità metrica del singolo verso coincide con l’unità di senso). patrona uirgo: è una delle Muse, definite da Catullo anche doctae uirgines (c. 65, v. 2).

[6] v. 10. plussaeclo. «possa durare più di una generazione»; saeclum è forma sincopata di saeculum, «generazione» (sempre in questo senso in Catullo).

P. Papinio Stazio

liberamente tratto da CONTE G.B., L’epica di età flavia, in Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 1992, pp. 401-407; e da PIAZZI F., GIORDANO RAMPIONI A., Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina, Vol. 3, L’alto e il basso Impero, Bologna 2004, pp. 245-246, 249-250.

Stazio fu probabilmente il poeta che meglio seppe rappresentare e trasmettere ai posteri un’immagine fedele della sua epoca. Le sue notevoli doti artistiche, che gli valsero onori e apprezzamento presso gli ambienti più altolocati di Roma, nonché alla corte di Domiziano, si esercitarono infatti non solo nella poesia elevata di tradizione epica, ma anche nella stesura di testi d’occasione, in cui egli seppe abilmente descrivere il mondo ricco e composito della raffinata società imperiale del suo tempo.

Publio Papinio Stazio nacque a Napoli tra il 40 e il 50 d.C. Il padre, un erudito maestro di scuola (grammaticus) e cultore dell’epica omerica, lo avviò fin da ragazzo alla poesia. Trasferitosi a Roma per perfezionare gli studi ed entrare in società, il giovane poeta si legò ben presto agli ambienti della corte imperiale e divenne amico e protetto dello stesso princeps Domiziano. In qualità di poeta professionista e «cortigiano», ricosse un notevole successo, vincendo nelle recitazioni pubbliche e negli agoni poetici Augustali (gare quinquennali che si svolgevano a Napoli), nonché nel certamen Albanum con il poema storico De bello Germanico sulle imprese belliche del suo protettore. Compose, inoltre, due poemi epici, la Tebaide in 12 libri (oltre 10.000 versi), pubblicata nel 92, e l’Achilleide, lasciato incompiuto, di cui rimangono solo il primo libro e l’inizio del secondo (complessivamente poco più di 1100 esametri); ma scrisse anche poesie d’occasione – le Silvae in cinque libri di versi di vario metro, edite gradualmente a partire dal 92 – alcune consolazioni, degli encomi dedicati agli esponenti del palatium e, infine, dei “libretti” per pantomimi (fabulae salticae), tra i quali l’Agave.

Dopo essere stato sconfitto nel certamen Capitolinum, tenutosi nel 94, forse per delusione, forse per nostalgia della città natale – come si ricava da uno suo carmen (Silvae III 5) –, Stazio ritornò a Napoli. Qui morì intorno al 95, mentre stava attendendo all’Achilleide, il cui argomento, appunto, era la vita del celebre eroe acheo.

Ragazzo che recita la lezione al maestro. Sarcofago romano, rilievo, marmo, II sec. d.C. Paris, Musée du Louvre.

Le Silvae

Da una trattazione che guardi insieme tutti e tre i poemi epici di età flavia (quelli, cioè, di Stazio, Silio Italico e Valerio Flacco), esorbitano le Silvae di Stazio, opera non epica, che possiede caratteri originali propri e molto legati al gusto contemporaneo. Stazio, si è detto, era un letterato di professione, che viveva del proprio lavoro (a differenza di Silio Italico e del misterioso Valerio Flacco).

Per il loro carattere occasionale, quindi vario e anche miscellaneo – il titolo vuole indicare probabilmente una raccolta di «schizzi»[1], quasi a dare un’aurea di improvvisazione al tutto – queste poesie sono un preziosissimo documento sulla società dell’epoca. I «committenti» delle varie poesie si rispecchiano in molte di esse, rivelando mentalità e atteggiamenti di un ceto colto e benestante, impegnato in una fitta vita di relazione e spesso occupato nel sistema del governo e della burocrazia imperiale. Emergono bene i valori che guidavano questo sistema sociale: da un lato, il ripiegamento sul privato (passione per le arti, consumi di lusso, estetismo diffuso, affettività familiare); dall’altro, l’ideologia del «pubblico servizio», inserita nelle strutture del potere imperiale.

Da questo punto di vista sono di particolare interesse composizioni come quella funebre dedicata al segretario finanziario di Nerone, Claudio Etrusco. In essa è celebrata la fulminante carriera del defunto, dalla schiavitù ai vertici della burocrazia, attraverso i topoi encomiastici del funzionario modello: fedeltà all’imperatore, senso del dovere, dedizione al lavoro nel superiore interesse della securitas dei concittadini (questa virtus apparteneva sia al princeps sia ai suoi alti collaboratori), esercizio del potere considerato come un onore (pondus), che comportava rinunce piuttosto che vantaggi personali. Segue l’immancabile elogio servile delle virtutes dell’homo nouus e della Fortuna, che ha consentito a un umile di costruirsi con le sue sole forze una posizione sociale tanto prestigiosa.

T. Flavio Domiziano. Statua, marmo, fine I sec. d.C. ca. Roma, Musei Vaticani.

Altrettanto importanti storicamente sono le poesie cortigiane, direttamente rivolte a Domiziano, che illustrano lo sviluppo del culto imperiale, i cerimoniali e le manifestazioni pubbliche. Una serie di carmi descrittivi testimonia i gusti dell’epoca: gli artifici della poesia si adattano bene a mimare l’artificiosa architettura delle ville e dei giardini, dove la realtà naturale era abilmente trasformata in spettacolo.

I componimenti (trentadue in tutto) sono organizzati libro per libro in serie accuratamente costruite, con molteplici effetti di corrispondenze e variazioni; i metri spaziano dall’esametro ai versi lirici. La struttura dei singoli carmi è governata da rigorosi schemi tradizionali (per esempio, carmi nuziali, di compleanno, epistole poetiche), certamente nutriti di formazione retorica: questi schemi non escludono affatto una ricchezza di variazioni originali, perché il virtuosismo del poeta stava appunto nell’adattarli alla circostanza. Il carattere professionale dei carmi trova riscontro nella modalità compositiva, che rivela la capacità artigianale di variare, adattandoli alla richiesta del committente, questi schemi retorici e di riutilizzare in abili assemblaggi materiali topici, esempi mitologici, figurazioni manierate, espressioni prefabbricate adattabili a contesti diversi: lutti, nozze, compleanni, anniversari, viaggi, inaugurazioni, ecc. L’autore, dunque, si mostra perfettamente inserito in una società gerarchica, entro una rete di autorevoli protettori, che aveva il suo centro immobile nel simulacro divinizzato del princeps.

E così, in uno ieratico scenario imperiale, il poeta talvolta rivendicava a sé una solenne vocazione conciliatoria, quasi fosse preposto alla supervisione sistematica dei pubblici sentimenti. Spettatore di scene terrene e ultraterrene, il poeta delle Silvae si atteggiava a cantore orfico integrato nella comunità: è questo il modello di poeta che più gli piace e che, con varie perifrasi, richiama innumerevoli volte; si sente uno psicagogo, che suscita emozioni patetiche, ma solo per placarle subito nella dolcezza di una contemplazione composta e sospirosa.

Sentenziava bene Giovenale con una notazione efficace: tanta dulcedine captos / adficit ille animos («tanto grande è la dolcezza che egli infonde negli animi affascinati»). La poesia fungeva ora da ornamentazione, costruiva una ovattatura su cui erano deposti, come preziosi, gli oggetti e i gesti del quotidiano. La poesia diventava, così, in questa estrema decadenza, l’altra faccia del lusso, giacché la futilità intellettuale si era ormai mutata in esprit précieux. Non mancarono, tuttavia, prove d’impronta neosofistica, come l’epicedio di un pappagallo e quello di un leone addomesticato; Stazio scrisse perfino un carme per la consacrazione di una ciocca di capelli: si tratta appunto di composizioni manierate, prolisse, appesantite dall’erudizione e dal concettismo.

Albero di melograno con uccelli (dettaglio). Affresco, fine I sec. a.C., dal ninfeo sotterraneo della villa di Livia. Roma, Museo di P.zzo Massimo alle Terme

Questa futilità «leggera» era, in effetti, l’erede di una poesia grande e vigorosa (Virgilio, Orazio, Catullo e i neòteori, gli elegiaci). Di quella tradizione, la poesia delle Silvae ereditava modi e giunture espressive, valori ed elaborazione morale; ma quel che voleva era sfruttarne lo splendore residuo con cui alonare il kitsch quotidiano (fra cui rientrava lo stesso imperatore e il suo culto).

Abilmente, però, essa sfruttava anche taluni vizi di origine di quella grande letteratura: per esempio, l’ambiguo rapporto intrattenuto con il potere. E riusciva perfino, senza problemi e dubbi, con semplicismo spensierato, a far trapassare i poeti «augustei» nel culto imperiale.

La nuova funzione di questa poesia si può, dunque, definire “estetizzante”, nel senso che doveva rendere belli e gradevoli oggetti, uomini e gesti, ma poteva farlo solo a patto di distanziarsene: le ekphraseis (cioè le digressioni) di Stazio più che «descrizioni» sono «encomi», più che mostrare qualcosa al lettore vogliono lasciarlo contento e soddisfatto; le volute ornamentali, allora, coprono e nascondono la linea essenziale delle cose, affinché si realizzi nel testo un’efficace «retorica della dolcezza», una dolcezza che, partendo dallo stile, arrivi a permeare le cose stesse[2].

Ciononostante, le Silvae contengono momenti fra i migliori di tutta la poesia lirica di età imperiale. Per il loro carattere di poesia colta, tradizionale e riflessa, hanno spesso faticato a trovare estimatori: più ancora ha pesato, nella loro svalutazione, una certa ripugnanza suscitata dall’impronta cortigiana e conformistica di tutto l’insieme. Ma proprio di fronte a temi aridi, o a situazioni di bassa adulazione, Stazio emerge come un dotatissimo artigiano della parola. La sua capacità di «improvvisare», la sua celeritas nel comporre, sbandierata più che vera, è il gesto retorico di una poetica dell’opera «minore» o «minima», che raccoglie l’originaria spinta proveniente dalla tradizione epigrammatistica. La proclamata rapidità di composizione finge di essere direttamente vicina alla vita vissuta (istruttiva la prefazione al primo libro)[3] e vuole contrapporre programmaticamente le Silvae alla limatissima Tebaide (curata per più di un decennio), ma insieme denuncia l’autocompiacimento lusivo del letterato professionista, che intervalla così l’impegnativo labor epico.

Meno superficiali e retoriche sono alcune liriche nate da spunti autobiografici, come quella, indirizzata alla moglie per persuaderla a ritornare a Napoli, nella quale sono celebrate con sincera nostalgia le bellezze della sua città natale, o l’epicedio per la morte del padre o quella di un figlioletto: in questi casi il poeta mette da parte il bagaglio ingombrante del professionismo poetico e regala versi intensi e sinceri[4].

La tenera poesia «sentimentale» di Stazio, benpensante e conciliativa, aspirava a presentare di sé il ritratto fedele e autorizzato della buona società imperiale. Ma il gusto e la poetica del sentimento, che caratterizzano le Silvae, rispondevano – nel quadro di una cultura organica che il potere flavio promosse – a un’ampia politica di direzione e di controllo della pubblica emotività.

Poeta nelle vesti di Orfeo (dettaglio). Statua, terracotta, 350-300 a.C. ca. da Taranto.

L’età neroniana, infatti, aveva inaugurato la moda delle pubbliche gare di poesia, certamina celebrativi legati a ricorrenze e a festività: la moda ora si era consolidata, ma serviva piuttosto a un programma di restaurazione civile e morale, all’esaltazione dei valori e delle forme letterarie tradizionali: famosi soprattutto furono i Ludi Capitolini e i Ludi Albani, in cui erano previsti concorsi di poesia e di prosa, sia in latino sia in greco. Ciò produsse una sostanziale «teatralizzazione» della letteratura, trasformando la poesia in spettacolo: le occasioni pubbliche e sociali istituite dal mecenatismo imperiale costruivano, e insieme soddisfacevano, i bisogni del sentimento comune.

Il carattere spettacolare, che ispirava gli agoni poetici destinati a compiacere le masse eterogenee di una metropoli enormemente accresciuta, si accordò bene alla straordinaria fortuna che forme di spettacolo come il mimo incontrarono allora presso il pubblico romano. Tra i certamina celebrativi e il teatro del mimo ci fu probabilmente una differenza di livelli, ma non di atteggiamenti culturali: la cultura ufficiale non solo si riconosceva volentieri nella «retorica» dell’ornamento e della dolcezza, ma pure legittimava e favoriva il gusto per le emozioni seducenti, elementari.

La satira di Giovenale, educatore sconfitto e, in questo, solitario maestro di opposizione, osservava con scandalo il nuovo «mecenatismo per tutti», che l’autorità imperiale favoriva. Lo spettacolo del mimo, suscitatore di facili e sensuose commozioni voluttuosamente appagate, si incontrò con la «teatralizzazione» quotidiana del mito imperiale[5]. Così, figura centrale dell’immaginario mitologico e delle imprese che i certamina proponevano, fu spesso e significativamente quella di Giove, imposta da una scoperta allegoria che lo identificava al princeps regnante: esemplare, a questo proposito, un discorso di Giove padrone assoluto del cosmo conservato nei versi greci di Q. Sulpicio Massimo, vincitore dodicenne nei Ludi Capitolini tenutisi nel 94.

La Tebaide

Composta tra l’80 e il 92 e dedicata a Domiziano, la Tebaide narra le vicende della guerra combattuta presso Tebe dai due figli di Edipo, Eteocle e Polinice: l’opera, conforme al modello dell’epos eroico, di cui conserva gli elementi tradizionali (argomento mitico e apparato divino, presenza di cataloghi, scene di giochi funebri e di battaglie, profezie, ecc.), svolge un mito del ciclo epico e della tragedia. Se Lucano aveva cantato «guerre più che civili» (Bella… plus quam civilia, Pharsalia I 1), il tema di Stazio sono addirittura «battaglie tra fratelli», fraternae acies (I 1). Non pare che la vicenda, incentrata su una guerra fratricida, alludesse al tema lucaneo delle guerre civili, eppure la sostanza del contenuto porta irresistibilmente a compararla al Bellum civile.

In un insolito epilogo programmatico, Stazio dichiara di avere un modello altissimo: l’Eneide, che il suo poema dovrà «seguire a distanza», con religioso e umile rispetto[6]. Le ambizioni sono peraltro molto chiare: il poema virgiliano è ripreso nel lessico, in situazioni e scene precise, nella struttura bipartita, talora è esplicitamente citato. Infatti, il piano dell’opera è in dodici libri, divisi in due esadi; la seconda è tutta una storia di guerra, come la «metà iliadica» dell’Eneide; la prima, più variata, ha funzione di lunga preparazione, e insieme contiene tratti «odissiaci» (le peripezie del viaggio), come la prima metà dell’Eneide. Anche Dante sottolineò la dipendenza della Tebaide all’Eneide, «la qual – come fa dire a Stazio – mamma fummi, e fummi nutrice, poetando: / sanz’essa non fermai peso di dramma»[7].

Eppure, la Tebaide è anche molto diversa dall’opera di Virgilio, a cominciare dall’argomento, che non riguarda la grandezza di Roma, ma una lotta fratricida, emblema di ogni guerra civile, come nell’epica «negativa» di Lucano. A una «teologia» diversa da quella virgiliana rinviano le presenze divine: nell’Eneide la vicenda prende le mosse dal concilio delle divinità olimpiche, nella Tebaide è la Furia, Tisifone, che innesca il dramma. Alla visione provvidenzialistica virgiliana si sostituiscono un cieco Fato e le forze malefiche degli Inferi. Nemmeno Giove è benevolo verso gli uomini e un personaggio pius come Adrasto, re di Argo, è abbandonato dagli dèi. Dal modello virgiliano la Tebaide si discosta anche per l’assenza di un protagonista, per la scarsa organicità dell’impianto narrativo (frammentazione dell’azione, proliferazione di digressioni sproporzionate, ecc.), per il gusto dell’orrido e per i toni carichi che fanno pensare alla poesia di Lucano e alle tragedie di Seneca, per la scarsa penetrazione psicologica dei personaggi.

Sette contro Tebe. Terracotta, V sec. a.C., dal frontone del Tempio A di Pyrgi. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

I modelli poetici di Stazio sono legione. Le funeste imprese dei Sette erano state cantate in poesia epica, soprattutto nella fortunata opera di Antimaco di Colofone (IV sec. a.C.), e nella tragedia greca di Eschilo (Sette contro Tebe); esse avevano, inoltre, ispirato Seneca (Oedipus e Phoenissae). La scelta dell’epos eroico ha comportato molti diretti richiami dell’Iliade, in parte mediati da Virgilio, e in parte autonomi – come si è detto. In certe brevi sezioni digressive appaiono anche modelli più insoliti, e cioè Euripide, Apollonio Rodio e Callimaco (viene in mente la ricca cultura letteraria di Stazio padre). Infine, lo stile narrativo e la metrica dell’opera staziana sono inconcepibili senza la tecnica di Ovidio; la sua immagine del mondo è inseparabile dall’influenza senecana: e proprio qui, nel contrasto fra fedeltà alla tradizione virgiliana e inquietudini modernizzanti, sta il vero centro dell’ispirazione epica di Stazio.

Posta sotto questa costellazione di influssi, l’opera non manca affatto di unità. Il difetto più tipico della Tebaide, tuttavia, è piuttosto l’ossessiva ricorsività di motivi e di atmosfere. Tutta la storia è dominata da una ferrea necessità: «Chi può negare che i presagi scorrono da cause segrete? Il destino si spiega davanti all’uomo, ma dispiace leggerlo, e va persa l’anticipazione del futuro. Così dei presagi noi facciamo casualità, e la Fortuna ha il potere di colpirci» (VI 936 s.). La casa di Edipo è schiacciata non tanto da una maledizione di vendette familiari (concezione, questa, della tragedia attica, che suonerebbe poco attuale qui), quanto da una ferrea Necessità universale. La scelta ideologica di Stazio è chiaramente virgiliana: salvare l’apparato divino dell’epica, ma rendendolo più «moderno» con l’approfondire la funzione del Fato. Ma la scelta di un tema così profondamente negativo porta l’autore molto vicino alla posizione di Lucano: il risultato è un compromesso che avrebbe avuto grande influsso sulla storia dell’epica occidentale.

Le divinità epiche tradizionali appaiono, dunque, svuotate o appiattite: le forze divine più vitali sono invece personificazioni di concetti astratti, con tonalità persino allegoriche: la Furia che muove gran parte dell’azione è un puro e semplice Genio del Male.

Pittore di Caivano. Scena dai Sette contro Tebe, Capaneo assalta la città. Pittura vascolare su anfora a collo campana a figure rosse, 340 a.C. ca. Getty Villa Museum.

Schiacciate, quindi, dalle leggi del cosmo e della predestinazione, le figure umane sono, a loro volta, appiattite. Stazio concede molto poco alle sfumature psicologiche dei suoi personaggi: da un capo all’altro del poema, Eteocle incarna il tiranno dispotico e sanguinario, Capaneo il bestemmiatore – e come tale arriverà fino a Dante in Inferno XIV –, Ippomedonte un sorta di macchina da guerra, e Tideo l’incarnazione dell’ira[8].

A completare questa visione assai manichea della realtà, gli undici libri sulla guerra dei Sette hanno una chiusa di compensazione: il trionfo della clemenza e dell’umanità portate dal civilizzatore Teseo.

La grande quantità di eroi comportava una trama molto complessa, romanzesca e soprattutto (anche qui il pensiero corre a Lucano), l’assenza di un vero protagonista. I pericoli di dispersione sono, però, controllati con notevole energia. Anche nei lunghi episodi che ritardano l’inizio della guerra si avverte spesso la volontà di stabilire dei nessi tematici ricorrenti. Ad esempio, i prolissi giochi funebri del VI libro sono ampiamente funzionali (forse persino più che in Virgilio) allo sviluppo successivo della trama; le similitudini sono spesso pensate in sequenze omogenee, con un effetto a volte ossessivo: le immagini della natura rispecchiano di continuo gli eventi umani. È la concezione stoica della sympatheia che già Seneca aveva saputo trasformare in tema letterario.

L’assenza di riferimenti diretti all’attualità romana non costringe Stazio a eludere gli incubi propri della sua epoca (si pensi, invece, per la ricerca di evasione, all’Achilleide o a Silio Italico). Una guerra civile vista come scontro fra tiranni specularmente uguali; la degenerazione di una famiglia regnante in dispotismo fanatico; il problema etico del «vivere sotto i tiranni» rispettando comunque una regola morale. L’insistenza su questi problemi – visti in uno scenario allucinato di fosca mitologia ancestrale – rende la Tebaide una lettura promettente anche per gli storici della cultura romana.

L’Achilleide

A differenza del poema su Tebe – che avrebbe avuto grande fortuna a lungo termine, nell’epica medievale soprattutto – il poema sulla vita di Achille ha avuto un destino stentato. Qualsiasi giudizio è difficile, perché il testo che è pervenuto (interrotto per la scomparsa prematura dell’autore[9]) tratta solo delle vicende del giovane eroe a Sciro. Forse a causa del tema, o per una precisa scelta di poetica, il tono è più disteso e idillico che nella Tebaide: per questo l’opera non dispiacque a quei critici che hanno rilevato l’eccessivo «barocchismo» della Tebaide. Il progetto di narrare tutta la vita di Achille (I 4 sgg.) rivela comunque ambizioni letterarie grandiose. Se avesse potuto continuare, Stazio si sarebbe trovato di fronte Omero, alle porte Scee; e sin dal titolo l’opera sembra mirare – ancor più che la Tebaide – a un pericoloso confronto con l’ombra del padre Virgilio.

Achille alla corte di Licomede. Bassorilievo, marmo attico, 240 d.C. ca. da un sarcofago, Roma. Paris, Musée du Louvre

La fortuna

L’episodio più spettacolare della fortuna di Stazio è certamente la sua comparsa nel Purgatorio dantesco, basata sulla falsa convinzione che il poeta si fosse convertito al Cristianesimo – da vero discepolo di Virgilio, che il Medioevo considerava precursore e profeta dell’avvento di Cristo. Più in generale, Dante fece un notevole uso del modello epico staziano. Nel XIV secolo, tuttavia, erano del tutto ignote le Silvae, che avrebbero illuminato certi aspetti privati della personalità del poeta antico.

Anche prima di Dante, come comprova la notevole quantità di manoscritti medievali dell’opera, la Tebaide esercitò un grande influsso: per i suoi aspetti quasi manichei (il contrasto fra l’Olimpo e le potenze infere) e per la sua tendenza alla personificazione quasi allegorica, l’opera di Stazio avrebbe costituito un importante punto di riferimento per lo sviluppo dei Romans franco-provenzali a contenuto allegorico.

***

Note:

[1] Cfr. Quint. Inst. or. X 3, 17. Al carattere occasionale ed estemporaneo, oltre che alla varietà dei contenuti, farebbe in particolare riferimento il termine silva; ma anche all’elaborazione formale incompleta, come di materiali solo sbozzati, non rifiniti (silva corrisponde, in questo senso, al gr. ὕλη, cioè «materiali letterari» raccogliticci e disordinati).

[2] Si annida qui il segreto della straordinaria fortuna di Stazio presso i manieristi «cortigiani» tardo-antichi, del tipo di Claudiano e di Sidonio Apollinare, o già medievali, del tipo di Venanzio Fortunato alla corte merovingia, che ne trasmisero la lezione di stile pomposo-epidittico al mondo «cortese» medievale

[3] Stat. Silv. praef. I: mihi subito calore et quadam festinandi uoluptate flexerunt («Mi sono sgorgate sotto lo stimolo di ispirazioni improvvise e con un certo gusto di fare in fretta»). L’autore insiste sulla rapidità d’esecuzione (celeritas) di questi «schizzi», nessuno dei quali lo ha impegnato per più di due giorni.

[4] Cfr. Stat. Silv. III 5, 81-105.

[5] Cfr. Iuv. Sat. 6, 63-66: chironomon Ledam molli saltante Bathyllo / Tuccia uesicae non imperat, Appula gannit / uelut in amplexu subito et miserabile, longum / attendit Thymele… («Quando il molle Batillo danza la pantomima di Leda, Tuccia non riesce a dominare la sua libidine e Apula guaisce come nell’amplesso, in modo improvviso e lamentoso; Timele guarda a lungo con attenzione…»)

[6] Stat. Theb. XII 815-816: nec tu diuinam Aeneida tempta, / sed longe sequere et uestigia semper adora («Non cercare di entrare in gara con l’Eneide divina, ma seguila da lontano e venera sempre le sue orme»).

[7] Pg. XI 97-98.

[8] Come esempio di descrizione raccapricciante di gusto «moderno», si vd. questa scena in cui Tideo morente infierisce sulla testa troncata del nemico (Theb. VIII 751-762): erigitur Tydeus uultuque occurrit et amens / laetitiaque iraque, ut singultantia uidit / ora trahique oculos seseque agnouit in illo, / imperat abscisum porgi, laeuaque receptum / spectat atrox hostile caput, gliscitque tepentis / lumina torua uidens et adhuc dubitantia figi. / infelix contentus erat: plus exigit ultrix / Tisiphone; iamque inflexo Tritonia patre / uenerat et misero decus inmortale ferebat, / atque illum effracti perfusum tabe cerebri / aspicit et uiuo scelerantem sanguine fauces / – nec comites auferre ualent – … («Tideo si erge, tende il viso ed ebbro di gioia e d’ira, appena vede gli spasmi nel volto e gli occhi stravolti, comanda di troncare quella testa nemica, di dargliela e, afferratala con la sinistra, la guarda ferocemente e gioisce nel contemplare quegli occhi torvi e ancora mobili. Il maledetto era soddisfatto: Tisifone implacabile pretende di più. Già la dea Tritonia ritornava, dopo aver convinto il padre e recava allo sventurato il dono dell’immortalità; lo vede lordo del marciume del cervello spappolato con le mascelle di sangue vivo e i suoi non riescono a strapparglielo…»).

[9] Purg. XXI, 92-93: «Cantai di Tebe e poi del grande Achille, / ma caddi in via con la seconda soma».

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Pseudo-Apollodoro

di M. CAVALLI, L’autore, l’epoca, il testo della Biblioteca, in APOLLODORO, Biblioteca, Milano 2011, XIII-XVIII.

L’identità dell’autore della Biblioteca resta enigmatica. Il nome Apollodoro ricorre per la prima volta nell’opera di Fozio, il patriarca-scrittore del IX secolo d.C., che riunì riassunti ed estratti di 279 opere da lui lette nella raccolta intitolata anch’essa Biblioteca, o Myriobiblos. Sia Fozio che le note dei copisti sui suoi manoscritti identificano dunque l’autore della Biblioteca in Apollodoro il Grammatico; gli scoliasti, poi, riportano anche la sua appartenenza geografica, ateniese: e l’unico scrittore di questo nome a noi noto è, appunto, il grammatico ateniese Apollodoro, attivo ad Alessandria e poi a Pergamo intorno alla metà del II secolo a.C., del quale purtroppo nulla ci è stato tramandato. Sappiamo, però, che tra le sue opere esistevano quattro libri di Cronache in versi, dedicati alla sistemazione cronologica di tutto il periodo compreso fra la guerra di Troia (datata al 1184/3 a.C.) e il 120/19 a.C.; e soprattutto l’importante trattato Sugli dèi in ventiquattro libri, ampia compilazione mitologica, che tentava di dare ordine a tutta la materia tradizionale del mito nelle sue connessioni con il culto, le feste, la poesia, il pensiero filosofico stesso. Ma l’identificazione dell’autore della Biblioteca con il grammatico ateniese risulta impossibile, già sulla scorta dei pochi frammenti di Apollodoro in nostro possesso e delle allusioni alla natura delle sue opere e del suo pensiero presenti in altri autori. Il trattato Sugli dèi, infatti, si fondava su una forte impronta razionalistica, con la quale Apollodoro intendeva svincolarsi dal leggendario, per risolvere, invece, scientificamente i problemi inerenti alla divinità e al mito, soprattutto attraverso l’uso dell’indagine etimologica: e il principale assunto della sua opera consisteva nell’identificazione delle divinità con forze naturali oppure con famosi personaggi dell’antichità, morti da tempo e ritenuti dèi.

Vincenzo Foppa, Fanciullo che legge Cicerone. Affresco, 1464, dal Banco Mediceo di Milano. London, Wallace Collection.

Proprio il razionalismo di Apollodoro ha indotto a considerare impossibile la tradizionale attribuzione della Biblioteca: già nel 1873 C. Robert, nella sua dissertazione De Apollodori Bibliotheca, negava che un’opera così ingenua e anonima, lontana da ogni tentativo critico sul materiale del mito e qualsiasi volontà di elaborazione formale e stilistica, si potesse ascrivere al rigoroso e scettico grammatico ateniese, alcuni frammenti del cui lavoro, inoltre, rivelano particolari mitici in decisa contraddizione con passi presenti nella Biblioteca. Ma c’è di più. Nella Biblioteca compare un riferimento a Castore, autore di studi storici, contemporaneo di Cicerone: e questo dato sposta la composizione dell’opera almeno alla metà del I secolo a.C., periodo che resta fisso dunque, per la Biblioteca, almeno quale terminus post quem, e nega definitivamente la sua attribuzione ad Apollodoro di Atene. Il problema dell’individuazione del suo autore – che viene comunque chiamato, per comodità, Apollodoro o pseudo-Apollodoro – è reso ancor più arduo non solo dalla totale assenza all’interno dell’opera di riferimenti cronologici o di allusioni a fatti storici e contemporanei, ma anche dall’assoluto silenzio sull’esistenza di Roma e delle leggende relative alla sua fondazione. Così, per esempio, pur raccontando ampiamente lo stanziamento degli eroi reduci da Troia in diverse aree del Mediterraneo, come pure la fuga di Enea con il vecchio padre Anchise sulle spalle, niente Apollodoro riporta sull’arrivo dell’eroe nel Lazio e sulle vicende che stanno alla base della tradizione romana. Poteva Apollodoro non conoscere l’esistenza di Roma? È difficile crederlo, a meno di non ipotizzare che scrivesse in un luogo e in un’epoca in cui la fama di Roma ancora non si fosse diffusa: forse, dunque, in un remoto paese ai confini del mondo greco, e certo non dopo Augusto. Oppure, come suggeriscono alcuni critici, si dovrebbe piuttosto pensare a un silenzio deliberato a Roma e alle sue leggende, per qualche motivo – ideologico? politico? didattico? – che a noi rimane assolutamente oscuro. In ogni caso, una datazione della Biblioteca intorno alla metà del I secolo a.C. (l’unica che potrebbe in certo modo giustificare il silenzio su Roma) presenta nuove difficoltà, dato che l’opera non viene mai menzionata da alcun autore precedente a Fozio (IX secolo d.C.), e che lo stile e alcune abitudini verbali del suo autore sembrano semmai collocarla tra il I e il III secolo d.C. Ma più probabilmente l’assenza dei riferimenti a Roma nella Biblioteca trova spiegazione nella natura stessa dell’opera, lavoro di compilazione mitografica non originale, e basato più sulla semplice trascrizione e riduzione di originali precedenti, che non sulla loro rielaborazione critica. In questo modo – ipotizzando cioè per la Biblioteca una fonte mitografica antecedente le fortune di Roma imperiale (quindi, senz’altro anteriore al I secolo a.C.), che non citasse dunque il mondo romano perché d’importanza ancora provinciale – il silenzio su Roma trova giustificazione nella volontà di seguire pedissequamente il modello, senza intervenire sulla sua traccia con innovazioni determinate da condizioni storiche e culturali diverse.

Pittore Duride. Scuola di scrittura su tavoletta con stilo. Dettaglio dal lato B di una kylix attica a figure rosse, inizi V sec. Berlin, Staatliche Museen.

L’identità e l’epoca dello pseudo-Apollodoro restano, in ogni caso, impossibili da determinare: per quanto alcuni critici siano concordi, per ragioni stilistiche, nel collocare la sua opera intorno al I-II secolo d.C., gli unici dati certi in nostro possesso lasciano aperto tutto l’enorme periodo tra la metà del I secolo a.C. e gli inizi del IX secolo d.C. Il nome stesso “Apollodoro”, presente sia in Fozio che nei manoscritti della Biblioteca, si presta a differenti possibilità di interpretazione. Forse un errore o un falso dei copisti; forse un inganno dell’autore, nel tentativo di far vivere anche la sua modesta opera nella gloria dell’insigne grammatico ateniese; o forse, invece, semplicemente un caso di omonimia, data la natura piuttosto comune del nome “Apollodoro”. Più difficile risulta interpretare questa tradizionale attribuzione come volontà di indicare, nel testo della Biblioteca a noi pervenuto, il riassunto o la riduzione di un originale di Apollodoro: fra i titoli del grammatico ateniese tramandati da più fonti come sicuramente autentici, infatti, questo non compare; ed è impossibile, del resto, che la Biblioteca costituisca una riduzione del trattato Sugli dèi, la cui natura filologico-grammaticale sembra decisamente altra rispetto alla struttura solo compilativa dell’opera apocrifa. Ma certo le ricerche mitologiche di Apollodoro – e quindi soprattutto il Perì theòn – costituirono una delle principali fonti per la successiva trattatistica mitografica: ed è appunto nell’ambito di tale genere, sviluppatosi in diversi filoni dai rigorosi studi storici, letterari ed etimologici degli eruditi alessandrini, che va collocata la Biblioteca, unico esempio di una certa ampiezza e complessità, peraltro, che sia giunto fino a noi. Isolata è, infatti, la struttura sistematica di questa raccolta, che attua il tentativo di esaurire tutta la materia mitologica greca, collegando in una stretta sequenzialità genealogica e cronologica i racconti relativi alle diverse aree geografiche e alle diverse tradizioni.

Processione con immagini di divinità. Rilievo, marmo, III sec. d.C. Roma, S. Lorenzo fuori le Mura.

Più comune, invece, il tipo di raccolta monotematica, che si organizza cioè nella volontà di riunire in una collezione miti separati, ma del medesimo argomento. Sotto il nome di Eratostene – ma si tratta certamente di un riassunto d’epoca posteriore al III secolo a.C. – sono stati tramandati i Catasterismi (“Trasformazioni in stelle”), opera che raccoglie le più importanti leggende collegate con l’origine delle costellazioni; di Antonino Liberale, attivo fra il II e il III secolo d.C., ci sono giunte, invece, le Metamorfosi, collezione sui miti relativi alla trasformazione di esseri umani in animali e piante, che ricalca probabilmente la perduta raccolta di Nicandro, l’autore del II secolo a.C. che costituisce la principale fonte delle Metamorfosi di Ovidio. Risale poi al I secolo a.C. l’unica opera superstite di Partenio di Nicea, I patimenti d’amore, che riunisce trentasei storie d’amore a conclusione tragica, e che costituì una sorta di repertorio mitologico-erotico per l’elegia amorosa romana. In lingua latina possediamo poi altre due importanti opere, le Favole e l’Astronomia poetica, giunte a noi sotto il nome di Igino, ma certamente non ascrivibili al bibliotecario della Biblioteca di Apollo al Palatino, attivo sotto Augusto: raccolte lacunose e spesso maldestre, esse sembrano semmai da collocare in epoca antoniniana, e la loro rilevanza deriva soprattutto dall’averci tramandato leggende altrimenti sconosciute, tra le quali gli argomenti delle opere perdute dei tragici.

Elemento comune a questi esempi di compilazione mitografica posteriori al III secolo è la natura libresca del materiale mitico raccolto, che deriva, come si è detto, da ricerche e opere di autori precedenti, e non da un lavoro “sul campo” che riporti le diverse tradizioni orali. È Apollodoro stesso a dichiarare le sue fonti: Omero, Esiodo, i tragici e Apollonio Rodio sono le autorità letterarie che sorreggono l’intera struttura della Biblioteca, e proprio dal confronto tra le opere e l’utilizzo fattone da Apollodoro emerge con evidenza la fedeltà e la serietà che impronta tale rielaborazione. Si può dunque presumere che vengano riportate con altrettanto rigore anche le testimonianze tratte da autori per noi ormai perduti, e di cui la Biblioteca costituisce una delle poche fonti; e, in generale, l’assenza di una posizione critica autonoma di Apollodoro, che lo porta ad accettare anche interpretazioni e tradizioni mitologiche contrastanti senza mai impostare una loro conciliazione, sembra garantire l’autenticità e la concretezza dei suoi riferimenti agli autori precedenti. Fra questi, Ferecide di Atene è certamente il più importante, e alla sua autorità Apollodoro si affida con devota costanza: nativo di Lero, ma vissuto ad Atene nella prima metà del V secolo a.C., scrisse un ampio trattato in dieci libri in cui le tradizioni epiche e mitologiche venivano organizzate probabilmente secondo un criterio cronologico e genealogico simile a quello della Biblioteca. Anche Acusilao di Argo, attivo in epoca immediatamente anteriore alle guerre persiane e autore di una Cosmogonia e di un trattato in tre libri dal titolo Genealogie, viene citato con notevole frequenza da Apollodoro, che ci offre in questo modo la possibilità di conoscere alcuni fondamenti della più antica mitografia, per noi totalmente perduta. Ma numerosi altri autori – poeti o eruditi –, di cui nulla possediamo, vengono ripresi da Apollodoro; i più significativi sono il cosiddetto “autore della Tebaide”, poema epico del Ciclo; Pisandro di Rodi, poeta epico attivo probabilmente a cavallo tra il VII e il VI secolo a.C., autore di un famoso poema dedicato a Eracle; Paniassi, della prima metà del V secolo a.C., zio di Erodoto, autore di un poema in quattordici libri dedicato a Eracle, e di una composizione in versi elegiaci dedicata agli avvenimenti della migrazione ionica; Erodoro, storico attivo intorno al 500 a.C., autore di due importanti raccolte di leggende su Eracle e sugli Argonauti; Asclepiade di Tragilo, allievo di Isocrate e attivo nel tardo IV secolo a.C., autore di una raccolta intitolata Tragodoumena, cioè “Cose rappresentate nelle tragedie”, in cui gli argomenti tragici venivano integrati da varianti della stessa leggenda.

Ganimede con berretto frigio. Testa, marmo, copia di età severiana da originale greco di IV sec. a.C. Roma, Domus Augustana.

A differenza delle altre raccolte mitografiche pervenute, dunque, la Biblioteca si organizza non sulla giustapposizione di leggende tra loro slegate, ma in un progetto complesso di raccordi genealogici e cronologici, che ha l’ambizione di esaurire e di dipanare l’intera tradizione greca dalle origini del mondo fino al ritorno degli eroi dopo la guerra di Troia. Robert Wagner ha individuato con estremo rigore il piano di lavoro di Apollodoro, premettendo alla sua edizione della Biblioteca un ampio sommario della materia, diviso in sedici capitoli che corrispondono agli itinerari mitici seguiti dall’autore: Teogonia; la famiglia di Deucalione; la famiglia di Inaco; la famiglia di Agenore (Europa); la famiglia di Agenore (Cadmo); la famiglia di Pelasgo; la famiglia di Atlante; la famiglia di Asopo; i re di Atene; Teseo; la famiglia di Pelope; precedenti della guerra di Troia; materia dell’Iliade; avvenimenti della guerra di Troia non trattati da Omero; i “ritorni” degli eroi; le peregrinazioni di Odisseo. Ma il testo della Biblioteca a noi pervenuto non è integrale. Tutti i manoscritti esistenti si interrompono nel corso delle avventure di Teseo, segno evidente del loro essere tutti copia di un unico manoscritto più antico, forse rovinato dal tempo o comunque già mancante di un’ampia parte dell’opera. Nel 1885, però, Robert Wagner scoprì nella Biblioteca Vaticana di Roma un manoscritto della fine del XIV secolo contenente un’epitome della Biblioteca, redatta quando l’opera poteva essere letta ancora integralmente, e che riportava quindi anche il riassunto della parte per noi perduta. Due anni dopo, nel Monastero di Mar Sabba a Gerusalemme vennero scoperti i frammenti di una seconda epitome della Biblioteca, contenuti nel cosiddetto Codex Sabbaiticus, e il cui testo si discosta in taluni punti da quello dell’epitome Vaticana. A giudizio di Wagner quest’ultima potrebbe essere opera del commentatore bizantino Giovanni Tzetze (XII secolo), che nei suoi lavori impiegò ampiamente citazioni tratte dalla Biblioteca, le quali spesso si accordano con il testo dell’epitome Vaticana e discordano invece da quello della Sabbaitica: e, del resto, il manoscritto contenente l’epitome Vaticana racchiude anche parte del commento di Tzetze a Licofrone.

A Robert Wagner si deve la magistrale edizione della Biblioteca pubblicata a Leipzig nel 1894 (edizione Teubner), più volte ristampata, che contiene anche il testo delle due epitomi, Vaticana e Sabbaitica. […]