Gli “stipendia” dei soldati romani

Stranamente, a fronte di una vastissima bibliografia moderna sull’argomento, scarsa è la documentazione antica, letteraria ed epigrafica, su quanto esattamente guadagnassero i soldati romani.

Questo stato di cose ha reso difficile agli studiosi una precisa ricostruzione della paga annuale di un militare antico. Il primo a studiare l’argomento fu Alfred von Domaszewski nel 1899 e da allora sono stati proposti diversi modelli interpretativi; le ricerche più recenti sono state condotte da Michael A. Speidel, che a partire dal 1992 si è esercitato sulla questione.

Il signifer distribuisce lo stipendium ai soldati della Legio XXI Rapax (I secolo). Illustrazione di J. Morán.

È noto, grazie soprattutto a fonti papiracee, che i soldati romani ricevevano una paga annua in tre rate (stipendia): il 1° gennaio (RMR 72.7; 73 fr. h; ChLA 466; 473; 495; P. Panop. 2.37; 58; 201; 292), il 1° maggio (RMR 66 fr. b I 30, 71 fr. a 1; 10 fr. b 5) e il 1° settembre (RMR 66 fr. b II 3; ChLA 495; P. Oxy1047; 2561).

L’entità degli emolumenti corrisposti ai militari nel I e II secolo è stata ricostruita grazie ad alcune fonti letterarie, mentre quella del III secolo è stata desunta in modo indiretto e non esiste un parere unanime tra gli studiosi (Jahn 1984, 66 ss.). Per maggiore comodità, tutte le cifre stimate sono riportate dagli esperti in sestertii, quattro dei quali fanno un denarius (Jahn 1984, 65; cfr. Doppler 1989, 110-111).

I maggiori problemi hanno riguardato l’ammontare complessivo delle paghe in base al grado ricoperto nella gerarchia dell’esercito; naturalmente, cavalieri e centurioni percepivano molto di più di un semplice miles, ma le cifre non sono certe, soprattutto per i reparti scelti, come le cohortes praetoriae o quelle urbanae. In ogni caso, gli studi di Speidel hanno permesso di ricostruire con buona verosimiglianza il sistema utilizzato tra l’età di Cesare e l’impero di Massimino Trace: i pagamenti degli stipendia erano commisurati al grado del beneficiario, erano effettuati con scadenze regolari e prefissate, erano calcolati in base alla lunghezza del servizio prestato, e pare che contemplassero ulteriori  beneficia per particolari meriti del soldato.

Ora, un legionario semplice del I secolo percepiva 300 sestertii, pari a 75 denarii, per stipendium: Svetonio (Iul. 26, 3), riferendo che legionibus stipendium in perpetuum duplicavit, potrebbe alludere al fatto che Cesare, forse nel 49 a.C., avesse fissato le corresponsioni intorno a alla suddetta cifra (Keppie 1996, 371-372).

Non è attestato che sotto Augusto ci fosse stato un aumento, ma è noto da Cassio Dione (LIV 25, 5-6) che nel 13 a.C. il princeps impose una formula certa (o condicio) sul sistema degli emolumenti militari. Tacito (Ann. I 17, 4) riporta che intorno all’anno 14 d.C. i soldati romani ricevevano una paga giornaliera di 10 assi, equivalenti a 912½ sestertii l’anno.

Da sinistra a destra: miles auxiliarum (Germania, 14); miles legionarius (Germania, c. 20-50); beneficiarius (Britannia, 70). Illustrazione di G. Sumner.

Cassio Dione (LXVII 3, 5), invece, riferisce che prima dell’84 lo stipendium militare ammontava a 300 sestertii, mentre, dopo l’abolizione dello stipendium Domitiani (Suet. Dom. 7, 3, addidit et quartum stipendium militi, aureos ternos), ogni soldato ne riceveva 400.

Il biografo di Settimio Severo (SHA Sev. 12, 2) ed Erodiano (III 8, 5) dicono che l’imperatore aumentò le paghe militari a quantità mai raggiunte in precedenza: Joachim Jahn ha dimostrato che questo incremento fu del 100% (cfr. Passerini 1946, 145-159).

Caracalla, ricordando le ultime parole del padre sul letto di morte, incrementò ulteriormente gli stipendia a 1200 sestertii, soprattutto per ingraziarsi i soldati dopo l’uccisione del fratello Geta (Hrd. IV 4, 7; cfr. DCass LXXVIII 36, 6, che riporta che dal 218 l’aumento di Caracalla portò la spesa pubblica a 70.000.000 di denarii l’anno; cfr. Pekáry 1959, 484).

Massimino il Trace duplicò lo stipendio militare, portandolo a 2400 sestertii (Hrd. VI 8, 8), ma pare che dopo di lui non si siano verificati ulteriori aumenti pecuniari (cfr. Jahn 1984, 66-68): le uniche due forme di retribuzione per i soldati a subire incrementi furono soltanto l’annona militaris e i donativa (van Berchem 1936, 136-137; Jahn 1984, 53).

Sviluppo dello stipendium nell’esercito romano (da Augusto a Massimino il Trace) [tabella].

Di acclarata importanza documentaria, oltre che archeologica, è il sito della fortezza romana di Vindonissa (od. Windisch, Svizzera), che nel corso del I secolo fu quartier generale delle legiones (XIII Gemina, XXI Rapax, XI Claudia Pia Fidelis) e auxilia (le cohortes VI e VII Raetorum, XXVI Voluntariorum Civium Romanorum, III Hispanorum).

Il sepolcro di Indo, corporis custos di Nerone (AE 1952, 148). Illustrazione di Á. García Pinto.

Nel corso di lunghe campagne di scavo sono state portate alla luce ben 600 tavolette lignee, anticamente ricoperte di cera (delle quali soltanto 30 sono meglio conservate), che con i loro testi redatti in corsiva offrono uno spaccato di vita quotidiana castrense. Tra queste, la Tab. Vindon. 2 (16 x 7,3 cm, Speidel 1996) conserva quella che sembra la parte finale della ricevuta per lo stipendium di un soldato (è un testo raro e finora non ne sono stati trovati altri simili):

 [. . . . . . .] | Asinio Ce[l]erẹ, Nọṇ[io] co(n)s(ulibus), XI k(alendas) | Aug(ustas). S(upra) s(criptus) Cḷua, eq(ues) Raetor(um) | tụr(ma) Aḷbi Pudentis, ac(c)epi X̶ (denarios) L | [e]ṭ stipendi proximi X̶ (denarios) LXXV.

Traduzione: «[…] il 22 luglio dell’anno di consolato di Asinio Celere e Nonio (= 38), io, il suddetto Clua, cavaliere dello squadrone dei Reti di Albio Pudente, ho ricevuto una paga di 50 denarii e 75 di anticipo».

La natura del documento è piuttosto chiara: come si è detto, si tratta di una ricevuta della paga del cavaliere retico Clua, scritta, a quanto pare, proprio dall’interessato e con mano incerta (si nota l’omissione del cognomen Quintiliano del secondo console) – insomma, una sorta di autodichiarazione (sulle irregolarità della scrittura, cfr. Bakker – Gallsterer-Kröll 1975, n. 349; Tomlin 1988, n. 53; CIL XIII 10009, 6, 119a; 10010, 118d2, 228i, 251e).

Le pagine precedenti, non conservatesi, dovevano presumibilmente contenere il testo ufficiale dell’intero documento, insieme ai nomi e ai sigilli dei testimoni. Una copia dell’incartamento era probabilmente conservata nei registri ufficiali del reparto.

Cavaliere accompagnato da due servitori. Bassorilievo, marmo, c. 170, dal cosiddetto “Rilievo Giustiniani”. Berlin, Altes Museum.

La redazione e la conservazione di questo genere di documenti era solitamente affidata a un contabile (librarius) o a un tesoriere (signifer): a tal proposito, Vegezio (Ep. rei mil. II 20) ricorda che proprio i signiferi, che dovevano essere obbligatoriamente litterati homines, erano responsabili delle paghe delle truppe e di singulis reddere rationem.

Curiosamente, il nome Clua compare anche su un’iscrizione di Brescia (CIL V 4698), in cui figura come padre di un certo Esdrila. È probabile che Clua fosse abbastanza diffuso nell’onomastica locale subalpina e fosse proprio di origine retica (si vd. Untermann 1959, 126 ss.; 151 ss.; Hartmann-Speidel 1991; Holder 1896-1904, III 1238; 1240).

Il Clua della tavoletta era un membro di uno squadrone di cavalleria (turma) – un’unità propria degli auxilia (mentre la cavalleria legionaria era assegnata alle singole centuriae; cfr. Speidel 1987, 56-58) – al comando di un certo Albio Pudente, non altrimenti noto: potrebbe trattarsi di un soldato di carriera (un eques legionis) ad tradendam disciplinam immixtus (Tac. Agric. 28; cfr. AE 1969/70, 661; CIL III 8438; si vd. anche Speidel 1980, 111-113). Sebbene Clua si riferisca alla propria unità semplicemente con l’espressione colloquiale di equites Raetorum (cfr. anche Tab. Vindol. 181, 13; Speidel 2006, 14; 1981, 109-110), si può essere certi che si trattasse di una cohors Raetorum equitata, forse la cohors VII Raetorum equitata, di stanza a Vindonissa alla metà del I secolo.

Un eques cohortis (I-II secolo). Illustrazione di M. Alekseevich.

Secondo le stime degli studiosi, la paga annuale di un eques cohortis auxiliarum ammontava a 225 denarii; in questo caso, appare interessante che a luglio inoltrato Clua abbia avuto bisogno di riceverne in tutto 125 (tra il saldo, forse al netto di spese in detrazione, dello stipendio spettante al 1° maggio e quello successivo del 1° settembre), pari a quasi la metà dell’intera paga. Come ha mostrato Speidel (1992, 91), sono pervenuti dei papiri (RMR 70 [192 d.C.]; 73 [c. 120-150 d.C.]; ChLA 473 [II-III sec. d.C.]) che attestano, seppure indirettamente, altri casi di corresponsione anticipata degli stipendia.

In quali circostanze l’esercito romano era disposto a concedere un anticipo? Potrebbero essere state le più svariate, anche se ne è nota solo una: è testimoniata da un papiro egiziano datato al 179 (RMR 76), il cui corpo di testo conserva circa sessantadue ricevute, emesse a nome dei cavalieri dell’ala Veterana Gallica per la loro paga annuale di 25 denarii.

La maggior parte di costoro dichiara esplicitamente di aver ricevuto il denaro in anticipo (ἐν προχρε[ί]ᾳ), perché erano in procinto di lasciare i propri acquartieramenti di Alessandria per recarsi negli avamposti del Basso Egitto (alcuni dei quali a più di 300 km di distanza; si vd. Daris 1988, 752-753). Le paghe sono state corrisposte a quegli equites tra il 9 gennaio e il 6 marzo; purtroppo, non si sa con certezza quando la paga annuale sia stata interamente consegnata, ma la spiegazione più probabile per un anticipo è che i distaccamenti non sarebbero rientrati alla base il giorno di paga, poiché il servizio presso gli avamposti esterni poteva durare molti mesi.

Una zuffa per l’insegna: scena di vita castrense. Illustrazione di Z. Grbasic.

È possibile che anche Clua stesse per andare in missione (Hartmann-Speidel 1991, n. 27) e che, quindi, abbia ricevuto in anticipo il suo terzo stipendium. Quanto ai 50 denarii, sui quali non fornisce ulteriori informazioni, si potrebbe citare l’analogo caso della ricevuta di pagamento di un certo Tinhius Val[—] in RMR 70 (= P. Aberd. 133 b col. ii 7 ss.): questo soldato ricevette una certa somma, accepit sum(–), e fu inviato ad praesi(dium?) Bab(ylonis?); si attesta così la sua assenza il giorno in cui è stato redatto il documento e, quindi, non compare l’espressione accepit stipendium. Secondo Speidel (1992, 357), nonostante questo sia accaduto circa un secolo e mezzo dopo, il parallelo con la tavoletta di Vindonissa potrebbe essere interessante.

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Antinoo. Il favorito dell’imperatore

La complessa personalità di Adriano, ricca di contraddizioni e di risvolti inattesi, acquista ulteriore luce dalla figura del giovane favorito, l’ormai celebre Antinoo, che gli fu vicino negli anni centrali del suo principato, per poi scomparire tragicamente (PIR² A 737).

L’imperatore aveva dedicato tutta la propria esistenza a raggiungere un ideale di vita greco nel comportamento, nella formazione, nello stesso aspetto esteriore (fu il primo princeps a portare la barba), imitando i filosofi dell’età classica.

A questo modello culturale era indissolubilmente legata l’idea di una comunità maschile, in cui l’educazione dei giovani avveniva a fianco degli uomini adulti e si esplicava anche attraverso l’amore omoerotico.

Antinoo-Dioniso. Rilievo, marmo, c. 130-138 d.C.

In una società in cui le donne di condizione libera erano tenute al margine della vita sociale pubblica, il legame fra giovani e adulti era un vero e proprio passaggio obbligato nell’universo maschile, e veniva idealizzato dagli stessi filosofi antichi come il momento formativo per eccellenza.

Pur se l’omosessualità, ovviamente, esisteva anche a Roma e nella parte occidentale dell’Impero, un ideale culturale simile mancava del tutto nella tradizione romana e la sua diffusione era legata a influssi ellenici.

È in questo quadro che va inserita la scelta di Adriano, già stigmatizzata dal moralismo del tempo, di circondarsi di giovani e gradevoli favoriti. Il ragazzo prediletto dall’imperatore era nato nella città di Bythinium (od. Ghivvalı), nell’omonima regione della Bithynia sul Ponto Eusino, il 27 novembre di un anno imprecisato tra il 105 e il 110.

Antinoo. Busto, marmo di Carrara, c. 131-132 d.C. Madrid, Museo del Prado.

Della sua esistenza, in realtà, si conosce molto poco: entrato come altri giovani al servizio del princeps, soppiantò tutti e divenne il primo favorito. Accompagnò senza dubbio Adriano nelle sue lunghe peregrinazioni attraverso l’ecumene, allietando certe lunghe ore di ozio durante il viaggio.

Fu proprio in una simile occasione che il ragazzo trovò la morte, l’evento, in verità, meglio noto e più celebrato di tutta la sua breve esistenza. Nel 130, probabilmente alla fine di ottobre, Antinoo si trovava insieme all’imperatore a bordo di una nave sul Nilo; la sua morte per annegamento resta ancora oggi avvolta nel mistero: fu a seguito di una caduta fortuita? Si era gettato in acqua, come sostenevano alcuni, per permettere con il proprio sacrificio che si adempissero i voti dell’amato imperatore? O ancora, secondo una versione isolata, era stato fatto uccidere da qualcuno? (Chron. min. I 223 Mommsen; SHA Hadr. 14, 5-6; DCass. LXIX 11, 1-4).

Comunque siano andate le cose, l’evento diede luogo a esagerate manifestazioni di lutto da parte di Adriano, che costrinse naturalmente tutti gli abitanti dell’Impero a parteciparvi.

La costruzione del tempio di Antinoo ad Antinoupolis. Illustrazione di A. McBride.

Sul luogo dell’annegamento fece erigere una città alla quale diede il nome dell’amasio, Antinoupolis, dove, secondo Pausania (VIII 9, 7), fu posta la sepoltura (cfr. Aur. Vict. XIV 7-8).

Gli concesse anche l’onore di un monumento nella capitale, sia che si trattasse di una tomba, sia che fosse un semplice cenotafio. In tutto l’Impero fece porre statue e altre immagini; si ricordano templi dedicati al ragazzo a Mantinea in Arcadia, ma anche a 𝘓𝘢𝘯𝘶𝘷𝘪𝘶𝘮 nel Lazio (cfr. Paus. l.c.; SEG 31, 1060 bis; ILS 7212). Furono battute monete con la sua effigie, furono composti carmi in suo onore, di cui si ricordano gli autori Pankrates, Mesomedes e Noumenios (cfr. Athen. XV 677 d-f; P. Oxy. VIII 1085; LXIII 4352, f. 5 II Rea [f. 8 Livrea]). Infine, Adriano dichiarò che dall’anima del giovane era nata una stella, che, individuata dagli astronomi, prese il suo nome.

La creazione dell’immagine di Antinoo fu forse l’ultimo esperimento formale della grande tradizione greco-ellenistica: fu realizzato allora un tipo fisso di giovane nudo, dal corpo morbido e sensuale, dal volto fortemente idealizzato, classicheggiante, ma con tratti piuttosto languidi, e dai capelli con lunghe ciocche mosse, apparentemente disordinate, ma in realtà organizzate in una precisa acconciatura. Modello ultimo era certo Ganimede, il giovane coppiere divino, favorito di Zeus, originario anch’egli dell’Asia Minore e rapito dal dio sotto forma di aquila.

Zeus che rapisce Ganimede. Gruppo scultoreo acroteriale, terracotta, c. 480 a.C. dal Tempio di Zeus Olimpio. Olimpia, Museo Archeologico.

La divinizzazione del giovane bitinico fece sì che fosse poi assimilato alle divinità del pantheon greco-romano: Apollo, Hermes, Dioniso, Silvano, ma anche Osiride. Il suo culto, decretato appositamente dall’imperatore, sopravvisse di poco alla morte di Adriano.

La memoria di quella che già il moralismo del tempo aveva considerato una nefandezza durò tuttavia a lungo, come dimostrano le invettive degli apologeti cristiani, primo tra tutti Tertulliano (Apol. 13, 9; Ad nat. II 7, 6; II 10, 11; De cor. 13, 6; Adv. Marc. I 18, 4).

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Gli aspetti scenografici del teatro greco

di F. Ferrari, R. Rossi, L. Lanzi, Bibliothéke. Storia della letteratura, antologia e autori della lingua greca. 2. Atene e l’età classica, Bologna 2012, 10-15.

L’edificio teatrale greco è costituito da cavea, orchestra e scena. Una tarda tradizione riconnette i più antichi spettacoli teatrali in Atene all’agorà, con panche di legno e tavolati provvisori, ma in età classica le rappresentazioni si svolgevano nel teatro di Dioniso, situato ai piedi della scarpata meridionale dell’Acropoli e dominante l’area cultuale dedicata a Dioniso.

La cavea (il θέατρον vero e proprio come «luogo donde si guarda») era costituita dalle gradinate appoggiate a un pendio a conca e tagliate in senso verticale da scalinate (κλίμακες) che la dividevano in settori e in senso orizzontale da corridoi (διαζώματα) che consentivano un rapido affollamento e svuotamento del teatro.

Gli spettatori si distribuivano secondo gerarchie giuridiche e sociali: i seggi più vicini all’orchestra erano riservati agli alti funzionari della πόλις e agli orfani dei caduti in guerra, mentre il settore inferiore ai cittadini di pieno diritto.

Ricostruzione planimetrica del Teatro di Dioniso, Atene [Campanini, Scaglietti 2004, 70].

Al centro della prima fila, su una poltrona di pietra, sedeva il sacerdote di Dioniso, al quale il dio stesso si rivolge burlescamente in Aristofane, Rane 297: ἱερεῦ, διαφύλαξόν μ΄, ἵν’ ὦ σοι ξυμπότης («Ehi, sacerdote, salvami se vuoi che io continui a bere con te!»).

L’orchestra (ὀρχήστρα, cioè lo «spazio della danza»), al centro della quale sorgeva la θυμέλη («l’altare di Dioniso»), aveva un diametro di circa 20 metri o poco più e forma dapprima circolare, poi semicircolare, ma il coro (χορός) della tragedia si muoveva in formazione rettangolare (su cinque file quando il coro, con Sofocle, passo da 12 a 15 elementi) dopo aver fatto il suo ingresso preceduto da un suonatore di flauto doppio (αὐλητής).

Più liberi e variati erano i movimenti del coro comico, costituito da 24 elementi, che potevano raffigurare, oltre che uomini, esseri della più varia natura, molto spesso animali, ma anche nuvole o città (rispettivamente nelle Nuvole di Aristofane e nelle Città di Eupoli). Mentre i cori del ditirambo (διθύραμβος) eseguivano la τυρβασία circolare, la danza composta e stilizzata caratteristica della tragedia era chiamata ἐμμέλεια; le danze proprie del dramma satiresco e della commedia erano invece rispettivamente la vivace «sicinnide» (σίκιννις) e il lascivo «cordace» (κόρδας).

Pittore dell’Altalena (attribuito), Gruppo di coreuti che incede su sostegni di legno e trampoli (forse Titani). Pittura vascolare da un’anfora attica a figure nere, c. 550-525 a.C. Christchurch, University of Canterbury.

Fra la scena (ἐμμέλεια) e le due proiezioni dell’emiciclo della cavea si aprivano due corridoi laterali (εἴσοδοι o πάροδοι) che consentivano l’accesso degli spettatori alla cavea e l’ingresso, oltre che del coro, degli attori che non uscissero dall’edificio scenico. È dubbia la regola secondo cui da destra sarebbero entrati i personaggi provenienti dalla città, da sinistra quelli provenienti dalla campagna.

I drammi più antichi di Eschilo non sembrano presupporre un edificio scenico (σκηνή) quale invece compare sicuramente nell’Orestea del 458: si trattò inizialmente su una linea tangente all’orchestra di una costruzione in legno con tendaggi, con la trasformazione in requisito dell’area teatrale di un locale originariamente adibito a deposito per maschere, costumi e attrezzatura scenica e a camerino per i cambiamenti di costume degli attori. La scena fungeva da sfondo all’azione identificandosi volta a volta con un palazzo, un tempio, una tenda militare, una grotta.

Fra il 338 e il 330 a.C. il teatro di Dioniso, su iniziativa dell’oratore Licurgo, fu ricostruito in pietra (σκηνή compresa). Poi la scena fu proiettata in avanti per mezzo di un alto proscenio sostenuto da un colonnato.

Furono altresì create quinte girevoli su pali (περίακτοι), con decorazioni di paesaggi, che permettevano rapidi mutamenti di luogo. In relazione alla nuova struttura dovette essere introdotto anche un tipo a suola fortemente rialzata di quegli stivaletti in pelle con incurvatura delle punte che rappresentavano la consueta calzatura degli attori (i κόθορνοι, «coturni»).

Secondo una dubbia testimonianza dell’enciclopedia bizantina (X sec.) denominata Suda (φ 609) la decorazione della scena sarebbe stata introdotta per la prima volta, fra VI e V secolo a.C., da Formo di Siracusa, che avrebbe usato una tenda fatta di pelli conciate e dipinte di rosso (ἐχρήσατο […] σκηνῇ δερμάτων φοινικῶν), ma Aristotele fa della scenografia un invenzione di Sofocle (Poetica 1449a 18- 19), mentre Vitruvio (VII 1, 11) informa che Eschilo adottò la σκηνογραφία giovandosi dell’aiuto del pittore Agatarco di Samo. I pannelli decorati dovevano mostrare uno o più edifici o sfondi paesistici.

Scena tragica davanti a un palazzo. Pittura vascolare a figure rosse da un cratere tarentino, c. 350 a.C. Würzburg, Martin von Wagner Museum.

Un problema che è stato largamente discusso è quello dell’area antistante l’edificio scenico e retrostante l’orchestra, ovvero del cosiddetto proscenio (προσκήνιον): si dibatte se nel teatro del V secolo a.C. lo spazio in questione fosse costituito da una pedana soprelevata rispetto al livello dell’orchestra. Certo è che, se pure questa pedana esisteva, essa era tale da non impedire la comunicazione verbale e il transito dei personaggi e dei coreuti fra proscenio e orchestra (perciò, non avrebbe comunque potuto superare il dislivello corrispondente a due o tre scalini).

Dibattuta è anche la questione del numero di porte che si aprivano sulla facciata dell’edificio scenico: due sembrano richieste nelle Coefore di Eschilo (oltre a quella centrale, la porta degli alloggi delle donne, verso cui si precipita un servo) e tre nella Pace di Aristofane (abitazione di Trigeo, dimora di Zeus, caverna dello scarabeo). Anche il tetto della σκηνή poteva essere eventualmente utilizzato come spazio occupato dagli attori: da esso, per esempio, balza al suolo il servo frigio nell’Oreste di Euripide. Inoltre, ugualmente a un livello soprelevato, poteva essere utilizzata una piattaforma (θεολογεῖον) invisibile agli spettatori su cui gli attori salivano dal retro della scena.

Un altro problema che ha diviso gli studiosi riguarda l’esistenza e, in caso positivo, la frequenza di utilizzo, già nel corso del V secolo, di una sorta di basso carrello su ruote (ἐκκύκλημα), una piattaforma che, sospinta in avanti ed eseguendo un movimento circolare, serviva a rendere visibile al pubblico quanto avveniva nella parte più interna della scena: di esso trattano, con descrizioni sensibilmente divergenti, fonti tarde, fra cui gli scoli, cioè i commenti ai testi drammatici.

Un probabile uso di questa macchina si trova nell’Antigone di Sofocle (vv. 1294 ss., rappresentata nel 442 a.C.): Creonte, ormai conscio della catena di morti atroci che hanno decimato la famiglia a causa della sua ostinazione, vede da ultimo anche il corpo della moglie Euridice avvinto all’altare di Zeus Ercheo (Ἕρκειος, «Protettore del focolare domestico»), posto nel cortile interno del palazzo. Uscita di scena, la donna aveva annunciato che sarebbe andata a pregare per il figlio Emone e per la casata tutta. Grazie all’ἐκκύκλημα, gli spettatori potevano vedere l’altare domestico sul quale Euridice, dopo essere andata a piangere il figlio Megareo e ora anche Emone, si è tolta la vita.

Va rammentato, di passaggio, che le scene violente non potevano essere proposte sulla scena ed era, quindi, sempre un narratore – spesso un servo o un messaggero – a riferire al coro e al pubblico l’accaduto. Solo grida si potevano udire “dietro le quinte” e immaginare quanto si stava perpetrando o, come in questo caso, scorgere il cadavere. Oltre a questo, un altro celebre finale in cui si sarebbe fatto ricorso alla macchina è quello dell’Ippolito (430) di Euripide, mentre, per restare alla produzione sofoclea, si pensi all’Elena (v. 1458) e, probabilmente, all’Aiace (v. 344).

Ricostruzione schematica delle principali macchine teatrali in uso sulla σκηνή (link).

In ogni caso, a un tale congegno alludono due passi parodici di Aristofane. Negli Acarnesi (vv. 406-409) Diceopoli supplica Euripide di uscire di casa per prestargli qualche straccio dei suoi eroi cenciosi:

D                        Ti chiama Diceopoli di Collide: io!

E                         Ma non ho tempo!

D                      E dai: fatti trasportare fuori sul carrello!

E                         Ma non è possibile!

                       Su, avanti!

E                         Ecco, mi farò metter fuori sul carrello: non ho tempo di scendere!

Nelle Tesmoforiazuse è lo stesso Euripide a cercare l’aiuto di Agatone, il quale sta uscendo dalla σκηνή (νν. 95-96):

E                        Silenzio!

P                        Che c’è?

E                        Agatone sta uscendo!

P                        E quale sarebbe?

E                        Lui, quello che si fa metter sul carrello!

Pacificamente accertato è invece, per alcuni drammi, il ricorso a una macchina del volo, detta γέρανος («gru»), che – grazie a un sistema di cavi, carrucole e ganci – serviva per tenere sollevato in aria un personaggio o fargli percorrere un certo tragitto aereo.

Nella Pace di Aristofane, con parodia del perduto Bellerofonte di Euripide (dove il protagonista volava in groppa a Pegaso), Trigeo impartisce istruzioni dapprima allo scarabeo che intende cavalcare per recarsi a colloquio con Zeus (vv. 82-87):

T Oh, buono, buono: rallenta, asinello mio!
Non slanciarti con troppo impeto,
fin da principio fidando nella tua forza,
prima di aver ammorbidito
i muscoli col battito veloce delle ali!
E non soffiarmi addosso questo puzzo, per pietà!

Poi si rivolge al macchinista addetto alla manovra, il μηχανοποιός (vv. 174-176):

T Macchinista, pensa a me!
Già mi sento turbinare un vento sotto l’ombelico:
se non stai attento, ingrasserò lo scarabeo!

Con la macchina del volo arriva Oceano nel Prometeo di Eschilo (vv. 284 ss.), fugge per l’etere Medea alla fine dell’omonimo dramma euripideo, appaiono talora gli dèi di cui si dice che giungono per l’aria, come, nelle chiuse di alcuni drammi euripidei, Tetide (Andromaca), Atena (Ione), i Dioscuri (Elettra).

Pittore anonimo. Il volo di Medea. Pittura vascolare da un κρατήρ-κάλυξ lucano a figure rosse, c. 400 a.C. Cleveland, Museum of Art.

Talvolta i personaggi potevano comparire in scena anche su un carro da parata, come nell’Agamennone eschileo il sovrano argivo e la sua prigioniera Cassandra o, nell’Elettra di Euripide, Clitennestra, che si reca in campagna a far visita alla figlia.

Nell’area scenica potevano comparire anche tombe e altari, come, in Eschilo, nelle Supplici, dove uno rialzo sacro adorno di statue e altari degli dèi (una κοινοβωμία) diventa l’asilo delle Danaidi, o nelle Coefore, dove il tumulo di Agamennone è il luogo presso il quale Elettra scorge le orme del fratello e poi intona insieme con lui e con le coreute il commo di invocazione (κομμός) al padre defunto. E in Euripide si rifugiano ai piedi di un altare, fra gli altri, Andromaca perseguitata da Ermione e la sposa e i figli di Eracle perseguitati dal tiranno Lico (Eracle).

Occasionalmente anche un letto poteva essere portato alla vista degli spettatori. come, in Euripide, nel caso di Fedra delirante nell’Ippolito e di Oreste malato nell’Oreste o in Aristofane, per Strepsiade che, tormentato dal pensiero dei debiti, si agita su un pagliericcio al principio delle Nuvole.

Claudio Rutilio Namaziano

Claudio Rutilio Namaziano fu poeta e politico latino del V secolo. Di origini galliche (forse nacque di Tolosa), era figlio di Lacanio, funzionario imperiale celebre per la sua integrità. Trasferitosi a Roma in età relativamente giovane, come suo padre, anche Namaziano ricoprì incarichi di grande rilievo nell’amministrazione pubblica e la sua carriera fu anzi più brillante di quella paterna: sotto il dominato di Onorio egli fu magister officiorum nel 412 e praefectus Urbi nel 414.

Fornito di un’ottima formazione culturale, Namaziano apparteneva all’ambiente dell’aristocrazia senatoria più tradizionalista, legata al culto degli antichi dèi di Roma: la sua mentalità, i suoi ideali, le sue posizioni politiche, che traspaiono dall’operetta che di lui si è conservata, sono i medesimi della società rispecchiata dall’epistolario di Simmaco e del circolo culturale descritto da Macrobio nei suoi Saturnalia.

Nell’autunno del 416, o più tardi nel 417, a causa delle gravi notizie provenienti dalle Galliae, Namaziano fu costretto a ritornare in patria per sorvegliare personalmente le sue proprietà fondiarie e contribuire a riorganizzare la provincia, devastate dalle scorrerie di Vandali e Visigoti.

Un letterato nel suo studio. Rilievo, marmo, III-IV sec. d.C. Roma, Museo della Civiltà romana.

Il De reditu suo [Sul proprio ritorno], un poemetto in distici elegiaci, pervenuto lacunoso (ne sopravvivono 664 versi del libro I e 68 del II, ai quali si aggiungono altri 39 molto frammentari, ritrovati nel 1973) narra, appunto, il viaggio verso la Gallia dal porto di Ostia (Portus Augusti), lungo le coste della Tuscia e della Liguria, attraversando le località di Centumcellae, Portus Herculis, Populonia, Falesia, Villa Triturrita, Pisae, Portus Lunae.

Se da una parte l’Itinerario descrive le bellezze naturali delle coste frastagliate della Penisola, l’isola d’Elba, le montagne della Corsica, che si profilano all’orizzonte, la maestà degli Appennini, che destano la meraviglia del poeta, dall’altra l’attenzione dell’autore si appunta su una serie quasi ininterrotta di rovine e distruzioni: città devastate, campagne abbandonate, desolazione e povertà, che regnano in ogni luogo.

L’Itinerario di Rutilio Namaziano. Ricostruzione di I. Lana [Fo 1997, xxvi]

Legato agli ambienti neoplatonici e ai culti aviti, Namaziano riempie il proprio «giornale di viaggio» con malinconici rimpianti per un mondo che sta ormai finendo.

Narrazioni di odeporiche in forma autobiografica erano presenti nella poesia classica all’interno del genere satirico: si pensi all’Iter Siculum di Lucilio o all’Iter Brundisinum di Orazio (Sat. I 5). Tuttavia, mentre i poeti satirici si erano soffermati su aneddoti divertenti e spiritosi e su particolari anche umili della vita quotidiana, allo scopo di intrattenere piacevolmente il lettore, Namaziano si mantiene invece costantemente su un livello stilistico elevato, escludendo ogni elemento troppo realistico e “basso”; anzi, egli sfrutta il motivo del viaggio per dare sfoggio alla propria cultura letteraria.

Scena da Portus Augusti (Ostia). Bassorilievo, marmo bianco, c. fine II sec. d.C., dal cosiddetto “Rilievo Torlonia”. Roma, Collezione della Fondazione Torlonia.

Inoltre, l’autore inserisce non solo brevi racconti di svariati episodi (come la battuta di caccia o le cerimonie in onore di Osiride, cui assiste a Faleria), ma anche e soprattutto descrizioni ed encomi di città e persone – perlopiù di amici, che incontra nelle località visitate –, nonché invettive contro avversari e sviluppi di luoghi comuni moralistici.

Grande rilievo ha, quasi in apertura dell’operetta, l’esaltazione di Roma, cui il poeta si rivolge come a una divinità, dedicandole un vero e proprio inno (vv. 47-164); in esso egli dichiara solennemente – a pochi anni di distanza dal sacco di Alarico – la propria fede nell’eternità dell’Urbe ed elogia la funzione provvidenziale svolta dall’Impero nei confronti dei popoli conquistati:

Exaudi, regina tui pulcherrima mundi,

inter sidereos, Roma, recepta polos;

exaudi, genetrix hominum genetrixque deorum:

non procul a caelo per tua templa sumus.

te canimus semperque, sinent dum fata, canemus:

sospes nemo potest immemor esse tui.

obruerint citius scelerata oblivia solem

quam tuus e nostro corde recedat honos.

nam solis radiis aequalia munera tendis,

qua circumfusus fluctuat Oceanus;

volitur ipse tibi, qui continet omnia, Phoebus

eque tuis ortos in tua condit equos.

te non flammigeris Libye tardavit arenis;

non armata suo reppulit ursa gelu:

quantum vitalis natura tetendit in axes,

tantum virtuti pervia terrae tuae.

fecisti patriam diversis gentibus unam;

profuit iniustis te dominante capi;

dumque offers victis proprii consortia iuris,

urbem fecisti, quod prius orbis erat.

Dea Roma. Affresco, I sec. d.C. Roma, P.zzo Massimo alle Terme.

Dammi ascolto, bellissima regina del mondo che t’appartiene,

Roma, accolta tra le stellate volte del cielo!

Dammi ascolto, madre d’uomini e madre di dèi:

grazie ai tuoi templi noi non siamo lontani dal cielo.

Ti cantiamo, e ti canteremo sempre, finché i fati lo concedano:

nessuno, finché è vivo, può dimenticarsi di te!

Un empio oblio potrà oscurare il sole,

prima che la tua gloria svanisca dal mio cuore:

perché i favori che tu spargi sono uguali ai raggi del sole,

fin dove scorre Oceano che ci circonda.

Per te si volge anche Febo stesso, che tutto controlla,

e in te nasconde i suoi cavalli, da te sorti:

non è stata un ostacolo per te la Libia con le sue sabbie infuocate,

né l’Orsa armata del suo gelo ti ha respinto;

quanto la vita della natura si è estesa tra i due poli,

tanto la terra si apre al tuo valore.

A popoli diversi hai dato un’unica patria;

è stato un bene per chi era senza legge cadere sotto il tuo dominio!

e concedendo ai vinti di condividere il tuo diritto peculiare,

hai trasformato in città quel che prima era mondo!

(Namat. De red. suo I 47-66, trad. it. A. Rodighiero, 2011, con modifiche)

Ancora più dell’elogio nell’opera di Namaziano risulta significativo il biasimo, che si esprime in invettive rivolte contro i nemici di Roma, individuati dall’autore, oltre che nelle popolazioni barbare, anche nei cristiani. Dal momento che l’Impero è ormai da tempo ufficialmente cristiano, non potendo attaccare direttamente la religione che anche a corte ha soppiantato gli antichi culti, il poeta si scaglia da un lato contro i Giudei, avari e disonesti, dalla cui terra conquistata esala il contagio che ormai corrompe gli stessi funzionari imperiali, e dall’altro contro una particolare categoria di cristiani, quella dei monaci.

Le invettive sono piene di sdegno e di disprezzo: in particolare, Namaziano interpreta la scelta della vita ascetica dei monaci come una fuga dalle responsabilità e dai doveri del buon cittadino, come una vergognosa diserzione dettata dalla paura e da una forma di isteria furiosa, che spinge i giovani appartenenti a famiglie altolocate a seppellirsi vivi, sottraendo energie preziose alla società e alla politica.

Giovane magistrato romano. Statua, marmo, fine IV secolo, dal ninfeo degli Horti Liciniani. Roma, Centrale Montemartini.

Un’altra invettiva rivelatrice dell’atteggiamento dell’autore nei confronti dei problemi dell’attualità contemporanea è quella scagliata, nel libro II, contro Flavio Stilicone. Il generalissimo di origine romano-vandalica, che, tutor principum, aveva perseguito la politica teodosiana di conciliazione con l’elemento barbarico, viene definito da Namaziano «traditore» (proditor) della romanità e gli viene attribuita la responsabilità del sacco di Roma, avvenuto, in realtà, due anni dopo il suo violento assassinio.

Il De reditu suo costituisce, dunque, il documento dell’amore appassionato e del rimpianto del suo autore per la grandezza della patria romana, di cui egli teme la prossima fine. Il culto del passato si manifesta anche sul piano formale, nella lingua e nello stile (assai ornato e ricercato), scrupolosamente modellati sui classici, come pure nella metrica ineccepibile, nei continui richiami intertestuali ai grandi poeti del passato: del solo Virgilio si contano, nell’operetta, più di 200 reminiscenze.

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Riferimenti bibliografici:

M.G. Celuzza, Il De reditu suo di Rutilio Namaziano e l’archeologia tardoantica delle coste tirreniche, in C. Casi (ed.), Il mare degli antichi, Pitigliano 2010, 193-232.

M.G. Celuzza, Sulle tracce di Rutilio Namaziano. Il «De Reditu» fra storia, archeologia e attualità, Grosseto 2020.

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G. Mazzoli, Tre sintagmi proemiali nel De reditu suo di Rutilio Namaziano, CdM 9 (2021), 159-172.

A.P. Mosca, Aspetti topografici del viaggio di ritorno in Gallia di Rutilio Namaziano, in F. Rosa, F. Zambon (eds.), Pothos, il viaggio, la nostalgia, Trento 1995, 133-151.

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G. Stampacchia, Problemi sociali nel De reditu suo di Rutilio Namaziano, Index 17 (1989), 243-254.

La conquista romana della Britannia

Un tempo l’isola di Britannia era conosciuta come Albion (Plin. Nat. hist. IV 102; Avien. Or. Mar. 108-109 = FGrHist. 2009 F 1; la notizia risale probabilmente a Pitea di Marsiglia, c. 325 a.C.). Nelle fonti greche più antiche, la Britannia appare sotto il nome di Βρεταννικαὶ νῆσοι e gli abitanti sono detti Βρεττανοί (Strabo II 1, 18; 5, 12), mentre negli autori latini la forma Britannia è attestata dal I secolo a.C. (Caes. BG. II 4, 7 ss.; 4, 20 ss.; 5, 2 ss.; Cic. Ad fam. VII 6 ss.; cfr. Rivet-Smith 1979, 282).

I primi contatti tra la Britannia e il mondo mediterraneo furono di natura commerciale: lo scopo del viaggio di Pitea intorno all’isola (fine IV sec. a.C.) era la ricerca di minerali e altre materie prime. Fino a prima dell’invasione di Cesare, l’entroterra era perlopiù ancora sconosciuto. L’impresa del generale romano nel 55 a.C. gli fornì una serie di informazioni sul territorio per progettarne la conquista l’anno successivo. La spedizione, tuttavia, non conseguì un risultato soddisfacente e la Britannia rimase fuori dal controllo romano per ancora un secolo.

Sbarco delle legioni di Cesare in Britannia. Illustrazione di P. Connolly.

A ogni modo, fra l’isola e il continente – soprattutto Gallia e Italia (Strabo II 5, 8; IV 5, 1-3) – vi furono costanti scambi commerciali e alcuni principi locali intrattennero importanti rapporti diplomatici con Roma, al punto che persino due capi-tribù britannici in esilio trovarono asilo presso l’Impero (August. R.g. 6, 32).

I regni più importanti dell’isola furono quelli dei Trinovantes, dei Catuvellauni e degli Atrebates (Frere 1987, 48-69; già Caes. BG. V 20) e le lotte per la supremazia territoriale delle prime due tribù condussero all’ascesa a Britannorum rex di Cunobellino, capo dei Catuvellauni e figlio di Tasciovano (Suet. Calig. 44), che regnò all’incirca dal 10 al 40.

Gli studi condotti sulle monete battute a suo nome rivelano che costui, muovendo da Verulamium (nell’od. Hertfordshire), riuscì a ottenere il controllo della maggior parte della Britannia sud-orientale e a estendere il suo dominio su Camulodunum, capitale dei Trinovantes (od. Colchester, Essex).

Cunobellino dei Catuvellauni e Trinovantes. Statere, Camulodunum, c. 10-43. AV 5,58 g. Recto: coppia di cavalli al galoppo, verso sinistra; foglia nel campo superiore, ruota in quello inferiore; CVNOBELIN in exergo.

La sua morte, nel 43, avrebbe causato la rottura dello status quo tra le tribù rivali, offrendo il destro all’invasione claudiana, il cui obiettivo, stando a Cassio Dione (LX 20), era proprio quello di conquistare il regno di Cunobellino: il pretesto dichiarato sarebbe stata la restaurazione al trono degli Atrebates di Verica, cliente dei Romani (DCass. LX 19).

Claudio affidò il comando delle operazioni ad Aulo Plauzio, alla testa di un nutrito corpo di auxiliae e ben quattro legioni: la II Augusta, agli ordini di Tito Flavio Vespasiano (Tac. Agr. 13, 5; Suet. Vesp. 4), la VIIII Hispana, guidata da Gneo Osidio Geta, la XIV Gemina, al comando di Tito Flavio Sabino, e la XX Valeria Victrix, condotta da Gneo Senzio Saturnino. Salpati forse da Gesoriacum (od. Boulogne-sur-Mer), i Romani sbarcarono a Rutupiae (od. Richborough, Kent) e consolidarono le loro posizioni sul territorio circostante, corrispondente all’ex regno di Verica.

La resistenza indigena fu guidata dai figli di Cunobellino, Togodumno e Carataco, i quali, radunata una poderosa armata, diedero battaglia agli invasori presso l’odierna Rochester, sul corso del Medway. I combattimenti si protrassero per due giorni e vi si distinse Osidio Geta, per cui fu insignito degli ornamenta triumphalia. I Romani incalzarono i nemici oltre il Tamesis (Tamigi), inflissero loro gravi perdite e dilagarono nel sud-est dell’isola. L’oppidum di Camulodunum fu espugnato e trasformato in una fortezza legionaria (Dunnett 1975, 31-35).

Nel 46 Claudio rientrò a Roma per celebrare la vittoria e ricevere l’appellativo di Britannicus. Mentre Carataco, perso il fratello, fuggiva verso occidente, Vespasiano proseguì le operazioni in quella direzione, sottomettendo le tribù indigene fino all’attuale Exeter e conquistando l’isola di Vette (Suet. Vesp. 4).

Vespasiano alla guida della legio II Augusta. Illustrazione di G. Sumner.

Sotto il nuovo governatore, Ostorio Scapula, nel 47 i Romani dilagarono anche nel Nord, raggiungendo i corsi dell’Humber e del Severn; il proconsole lanciò un’offensiva contro le tribù dell’odierno Galles, scontrandosi contro la fiera resistenza dei Silures.

Nel frattempo, a oriente gli Iceni, precedentemente alleati di Roma, si erano ribellati, dopo che il governatore ne aveva ordinato il disarmo. Benché si fossero coalizzati con altre tribù vicine, i Romani ne ebbero la meglio e il loro re, Antedio, fu deposto e sostituito da Prasutago, filo-romano. Intanto, Carataco, sconfitto, proseguiva la sua fuga nel territorio dei Brigantes, clienti di Roma, la cui regina Cartimandua lo fece catturare e consegnare a Scapula.

Nel 49 Camulodunum, divenuta capitale della provincia britannica, fu ribattezzata Colonia Victricensis: da quel momento l’abitato conobbe un’intensa trasformazione in città romana, con l’erezione di una serie di importanti edifici pubblici (fra i quali, nel 55, si ricorda il tempio del Divo Claudio: Tac. Ann. 31). Dopo la morte di Scapula, nel 53 l’amministrazione dell’isola passò ad Aulo Didio Gallo.

Sotto il principato di Nerone, si succedettero Quinto Veranio Nipote e Gaio Svetonio Paolino. Quest’ultimo, in particolare, era un senatore di rango pretorio (DCass. LX 9), che nel 42, sotto Claudio, si era distinto in qualità di legatus Augusti aver condotto un’importante spedizione oltre la catena dell’Atlante in Mauretania. Per le sue abilità di uomo politico, Paolino fu soprannominato vetustissimus consularium (Tac. Hist. II 37, 1).

Forse nel 58 subentrò a Veranio Nipote nel comando britannico e nei due anni successivi condusse una dura offensiva. Sottomise tutta la regione occidentale della Britannia e assaltò l’isola di Mona (od. Anglesey), sede di un importante culto druidico. Mentre Paolino era così impegnato, nel 60/1, gli Iceni si ribellarono nuovamente, trovando alleati presso i Trinovantes: la sanguinosa rivolta fu guidata da Boudicca, vedova di Prasutago, assetata di vendetta contro i Romani (DCass. LXII 1-2). I ribelli, adunate forze consistenti, marciarono su Camulodunum, dove incontrarono scarsa resistenza e misero a ferro e fuoco l’abitato.

La regina Boudicca esorta gli Iceni alla sommossa. Illustrazione di R. Oltean.

Quinto Petilio Ceriale, comandante della VIIII Hispana tentò di riconquistare la città, ma fu respinto. L’esercito ribelle incendiò e rase al suolo anche Londinium (od. Londra) e Verulamium (od. St Albans). Nel frattempo, Paolino riunì le unità superstiti, marciò verso meridione e raggiunse l’armata ribelle lungo la cosiddetta Watling Street, dove scoppiò una furiosa battaglia. Benché i Romani fossero in inferiorità numerica, inflissero una dura sconfitta ai nemici. Mentre Tacito (Ann. XIV 39; Agr. 15) racconta che Boudicca, per non cadere prigioniera dei Romani, si avvelenò, Cassio Dione (LXII 12) narra che cadde malata e morì di stenti.

La conquista romana della Britannia proseguì con una serie di nuove campagne militari e rapporti diplomatici, fino all’età flavia. Le regioni settentrionali dell’isola si rivelarono ancora più dure da sottomettere a causa delle montagne e dell’ostilità delle popolazioni indigene.

Sotto il principato di Domiziano, il nuovo governatore della Britannia, Gneo Giulio Agricola pianificò una serie di spedizioni, tra gli attuali Galles e Scozia, volte a consolidare il dominio romano nell’isola e a difenderne i confini. Il generale poté contare su quattro legioni (II Adiutrix, II Augusta, VIIII Hispana, XX Valeria Victrix) e numerose unità ausiliarie (cfr. Rodríguez González 2003, 725; Le Bohec 1992, 34; 45).

Dopo aver fatto i preparativi necessari, nel 77 Agricola mosse guerra alla tribù degli Ordovices, li sconfisse e li sterminò, perché, stando al resoconto di Tacito (Agr. 18, 2), avevano teso un’imboscata a uno squadrone di cavalleria romano. Quindi, allestita una flotta, invase e sottomise nuovamente l’isola di Mona. Nonostante avesse perpetrato dure repressioni nei confronti delle genti ribelli, Agricola si guadagnò una buona fama come amministratore oltre che come generale: promosse la romanizzazione dei Brigantes nel Settentrione, incoraggiò la costruzione di nuovi centri abitati e l’educazione dei ragazzi secondo l’uso romano (Tac. Agr. 20, 3).

Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico (o Nerone?). Testa, bronzo, c. 50 dal letto del River Alde, presso Rendham. London, British Museum.

Nel 79 Agricola riprese le operazioni militari nel Nord, avanzando fino all’estuario del fiume Tanus (Tay); sconfitti i Venicones, per consolidare le posizioni raggiunte, fece costruire una serie di castra, nota al giorno d’oggi come “Gask Ridge”, e installò altri praesidia nell’odierna Scozia centrale, tra i corsi del Clota (Clyde) e del Bodotria (Forth). Nell’81 le armate di Agricola si volsero verso sud-ovest, sconfiggendo più volte le orde dei Novantae e dei Damnonii (Tac. Agr. 24, 1).

L’anno seguente i Romani mossero contro le tribù sul corso del Bodotria, mentre i Caledonii attaccarono in forze gli accampamenti della legione  VIIII Hispana, ma Agricola riuscì a respingerli con i reparti di cavalleria.

Le fonti antiche riportano il nome dei Caledonii in vario modo: Tacito (Agr. 25) identificava così le popolazioni dell’odierna Scozia oltre l’istmo tra il Forth e il Clyde; Tolemeo (II 3, 8), chiamava in questo modo una delle tribù del Great Glen, mentre Cassio Dione (LXXVI 12) designava con questo nome una confederazione tribale delle Highlands settentrionali. L’uso del toponimo Caledonia (Tac. Agr. 27) e di silvae Caledoniae (Plin. Nat. hist. IV 102) lascia pensare che i Caledonii si fossero stabiliti su una vasta area della Scozia orientale.

Nell’83/4 si giunse al momento decisivo della campagna di Agricola: l’esercito romano si scontrò sul Mons Graupius (un’altura non meglio identificata nelle Highlands) con l’armata della Confederazione caledone, guidata da Calgaco, di cui Tacito tramanda un accorato ma poco credibile discorso contro l’imperialismo di Roma. Dopo uno scambio di dardi e pietre, il comandante romano lanciò all’attacco le coorti di ausiliari batavi e tungri, con l’ordine di impegnare il nemico in un estenuante corpo a corpo.

L’armata di Gneo Giulio Agricola al Monte Graupio (84). Illustrazione di S. Ó’​ Brógáin.

Il dominio romano sulle regioni settentrionali, tuttavia, non durarono a lungo. Gli sforzi per mantenere una certa stabilità su quell’area continuarono fino a quando, nel 122, Adriano non ordinò la costruzione di un vallo lungo lo stretto corridoio di Tyne-Solway (Breeze 1982, 73-92).

Il suo successore, Antonino Pio, fece erigere un muro di confine tra il Firth of Forth e il Firth of Clyde nella Scozia centrale, posizione che resistette per circa vent’anni e verso il 165 fu abbandonata. Da allora il Vallo di Adriano costituì il confine romano fino all’abbandono totale dell’isola nel IV secolo (Frere 1987, 332-348).

Le città romane in Britannia si svilupparono attraverso una combinazione di deductio coloniaria e crescita demografica delle comunità locali. Oltre la capitale, Camulodunum , i Romani fondarono entro la fine del I secolo le colonie di Lindum e Glevum. A Eboracum fu accordato lo status di colonia, dopo che nel III secolo divenne la nuova sede provinciale. In altri luoghi dell’isola, le civitates e gli oppida indigeni contribuirono allo sviluppo urbanistico del territorio.

Nel Meridione, la presenza di città, come Verulamium, Calleva Atrebatum, Noviomagus, Venta Belgarum, Durovernum Cantiacorum e Corinium Dobunnorum, facilitò il processo di romanizzazione della popolazione locale (Wacher 1975). Ciononostante, nella maggior parte dell’isola la lingua, le strutture sociali e i culti di epoca pre-romana rimasero dominanti (Henig 1984).Gli squadroni di cavalleria, invece, respinti i carri da guerra caledoni, si unirono alla mischia stringendo gli armati britannici alle spalle: fu una vera carneficina! (Tac. Agr. 29; sulle perdite 37, 9).

La Britannia romana [Encyclopædia Britannica 1929].

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