Tibullo e il «Corpus Tibullianum»

di E. PARATORE, La letteratura latina dell’età repubblicana e augustea, Milano 1993, pp. 456-470.

Lawrence Alma-Tadema, Tibullus at Delia’s. 1866, Olio su tavola, Boston, Museum of Fine Arts.

[…] Di Albio Tibullo sono ignoti il praenomen e l’anno della nascita ed è incerta la data della morte. La quarta epistola di Orazio, indirizzata ad Albio – che non c’è ragione di non identificare con il poeta – lo raffigura giovane, bello, facile ai crucci e agli scoramenti, e in agiata condizione. Quest’ultimo particolare sembrerebbe contraddire a quanto Tibullo stesso afferma in Elegie I,1, ove accenna alla perdita dei suoi poderi e alla sua «paupertas»; perciò si è supposto che anche lui fosse rimasto vittima delle espropriazioni consecutive alla battaglia di Filippi, o avesse subito il contraccolpo di rovesci finanziari. Tuttavia non bisogna prendere alla lettera ciò che dice Tibullo, il quale spesso ama abbandonarsi al compianto di se stesso o carezzare come ideale morale le immagini trasmessegli dalla poesia a lui cara, come quella bucolica, e quindi anche la povertà, la capacità di «contentus vivere parvo». È più improbabile che, pur avendo subito una diminuzione delle avite proprietà, Tibullo abbia conservato tanto da poter affrontare la vita senza preoccupazioni.
L’epistola oraziana aggiunge anche un altro particolare: che Tibullo s’intratteneva «in regione Pedana», cioè aveva le sue proprietà nella zona fra Tivoli e Preneste. Questa notizia è stata posta in rapporto con quanto afferma un frammento di biografia che si trova alla fine del testo tibulliano nei codici poziori, l’Ambrosianus del sec. XIV e il Vaticanus del sec. XV, e che da taluni è stato considerato come un moncone della biografia svetoniana di Tibullo. In esso si legge che Tibullo era eques regalis. Nella seconda parola è evidente una corruzione originata dalla sigla R. (eques Romanus); il Baehrens emendò in eques R(omanus) e Gabis, e la congettura apparve molto felice, perché Gabii si trova appunto «in regione Pedana», e può quindi essere considerata benissimo la patria di Tibullo. Ma è più semplice pensare che regalis sia una cattiva lettura medievale della sigla R. (Romanus). Quanto all’anno della nascita, calcolando sui dati offerti dal libro I delle elegie, si è propensi a fissarlo intorno al 54 a.C.
Il frammento di biografia, che sembra piuttosto un’accozzaglia di dati, composta in due tempi alle soglie del Medioevo e condotta per lo più sui particolari che possono ricavarsi dal testo stesso di Tibullo e da quello dell’epistola oraziana, continua accennando al principale evento della vita di Tibullo, la sua amicizia col celebre uomo politico, guerriero, oratore e poeta M. Valerio Messalla Corvino, uno dei tipici rappresentanti di quell’aristocrazia repubblicana riconciliatasi in seguito col regime augusteo. Combatté, infatti, a Filippi nell’esercito di Bruto, ma poi militò ad Azio in quello di Ottaviano, fu console e poi proconsole in Siria e comandò una fortunata spedizione in Aquitania. La sua oratoria fu semplice e tersa, cioè in perfetto accordo col gusto atticista dell’età. Scrisse «levia carmina» e in gioventù sembra abbia composto carmi bucolici in lingua greca, donde si è voluto supporre un suo particolare influsso sul giovane Virgilio e dedurne un argomento in favore dell’autenticità della Ciris, dedicata […] a un Messalla. Orazio, alla fine della decima satira, lo ricorda come critico acuto di poesia, uno di quelli alla cui lode egli ambisce: il membro più intransigente del circolo di Mecenate è stato anche il più pronto a intrattenere rapporti con uomini di diverso indirizzo, come appunto Messalla e Tibullo. Ma nel fondo dell’animo dell’antico commilitone di Bruto sussisteva sempre una segreta avversione al nuovo ordine di cose: perciò i poeti di cui egli amò circondarsi (Tibullo, Valgio Rufo, Ligdamo, Sulpicia) appaiono estranei al grande moto di rinnovamento spirituale e di adesione al programma augusteo che era promosso dai poeti e scrittori del circolo di Mecenate. Il solo Tibullo, nell’elegia II, 5 scritta per la consacrazione di Messalino, il figlio di Messalla, nel sacerdozio apollineo, introduce particolari della leggenda troiana sulle origini di Roma, forse in omaggio all’opera che nel frattempo stava scrivendo Virgilio, di cui egli risente gli influssi, più che di qualsiasi altro poeta contemporaneo. Ma alcuni particolari da lui menzionati discordano da quelli corrispondenti dell’Eneide, e soprattutto si tace assolutamente dell’origine della gens Iulia da Enea. Anche Ovidio farà il suo noviziato nel circolo di Messalla e vi si educherà alla poesia frivola e lasciva degli amori. Attorno a Messalla, infatti, che era del resto il primo a darne l’esempio, si poetava sotto il segno di Eros, si deprecavano le guerre e i negotia, ma non con lo spirito virilmente costruttivo di un Virgilio o di un Orazio, bensì in nome di un edonismo sottilmente corrosivo; era l’occulta rivalsa degli ambienti d’opposizione, cui per il momento non appariva possibile altra forma di dissenso. È sintomatica al riguardo l’ipotesi di coloro che ritengono tratti dagli archivi della casa di Messalla il Culex e la Ciris.
Sulla base dell’elegia I, 7 il frammento di biografia accenna alla partecipazione di Tibullo alla spedizione di Messalla in Aquitania (anno 27 a.C.); tace invece dell’evento su cui così lacrimosamente insiste il poeta nell’elegia I, 3, cioè della malattia che lo colse, mentre egli faceva parte della cohors di Messalla in Oriente, e lo costrinse a fermarsi a Corcira.
Della sua morte ci è rimasto il poetico compianto in un delicato epigramma che nei codici Ambrosiano e Vaticano precede anonimo la biografia, ma che Giuseppe Giusto Scaligero, sull’autorità del fragmentum Cuiacianum oggi perduto, attribuisce a Domizio Marso:

Anche a te, o Tibullo, la morte ingiusta ha mandato, ancor giovane,
come compagno a Virgilio nei Campi Elisi, perché non vi fosse più
nessuno che in versi elegiaci piangesse le dolci pene d’amore o
cantasse in metro eroico le guerre dei re.

Anche Ovidio, che in casa di Messalla doveva aver conosciuto e amato Tibullo, ne scrisse un commosso epicedio nell’elegia III, 9 degli Amores. Sulla base dell’epigramma di Domizio Marso si tende a fissare la data della morte di Tibullo nel medesimo anno in cui morì Virgilio, cioè nel 19 a.C.; ma è possibile fissarla anche nell’anno successivo.

Bacco, Arianna, Sileno e Satiro. Mosaico, II sec. d.C. Tunis, Musée du Bardo.

Della poesia di Tibullo non è possibile parlare se prima non si accenna alla questione del «Corpus Tibullianum». I codici tibulliani che ci sono pervenuti ci hanno tutti tramandato tre libri di elegie: il libro III è stato poi volgarmente separato in due parti. In età moderna ci si è progressivamente accorti che, se i primi due libri erano sicuramente tibulliani, altrettanto non poteva dirsi del libro III. Alla fine del sec. XVIII il Voss consacrò definitivamente la scissione, principalmente sulla base del fatto che il poeta autore delle sei prime elegie del libro III (quelle che poi hanno costituito il libro III delle edizioni volgari, mentre i restanti carmi hanno formato il libro IV), il quale scrive sotto lo pseudonimo di Ligdamo, nell’elegia quinta accenna al suo anno di nascita dicendo: «I miei genitori videro per la prima volta il mio dì natale, quando entrambi i consoli caddero sotto i colpi del medesimo fato». Ovidio, che era nato nell’anno 43 a.C., nell’elegia decima del libro IV dei Tristia ripete il secondo verso di questo distico ligdameo per accennare al suo anno di nascita: infatti, i consoli del 43, Irzio e Pansa, caddero tutti e due nella battaglia di Modena. Quindi anche per Ligdamo si credette di dover assumere il 43 come anno di nascita, o, al massimo, interpretando «dì natale» come “anniversario di nascita”, si pensò di fissare la data di nascita nel 44. Entrambe le date non potevano adattarsi a Tibullo, perché il libro I delle elegie rende impossibile pensare che il poeta abbia incominciato a comporre dopo il 30 a.C., ed egli non poteva avere tredici anni o quattordici quando cominciò a scrivere le sue poesie, anche dato il loro argomento. Quindi Ligdamo non poteva essere pseudonimo di Tibullo, anche se da taluni Λύγδαμος è stato ricondotto semanticamente al nomen di Tibullo, Albius. Di tutto il resto del libro III sicuramente tibulliane furono giudicate solo le due ultime elegie scritte per una medesima fanciulla (la cosiddetta «puella innominata»), perché nella prima delle due Tibullo si manifesta col suo nome; si è tentato di identificare la puella con la Glicera che nell’ode I,33 di Orazio (l’altro componimento oraziano indirizzato a Tibullo) appare come restia all’amore del poeta. Altri invece hanno tentato di identificare Glicera con Nemesi, altri con la donna cantata da Tibullo alle prime armi, sì che la «puella innominata» andrebbe considerata una fiamma di Tibullo precedente Delia e Nemesi, le due donne da lui cantate rispettivamente nel primo e nel secondo libro autentici, e ciò anche se Ovidio chiama Delia «primus amor» del poeta. Che l’ode oraziana debba quindi essere stata scritta prima dell’anno 30, cioè prima dell’amore di Tibullo per Delia, non può costituire difficoltà, perché abbiamo già visto che fra le odi dei primi tre libri, anche se pubblicati nel 23 a.C., ve ne sono certamente alcune scritte prima del 30. Degli altri carmi del libro III, oltre anche quelli di Ligdamo, furono generalmente riconosciuti non tibulliani tutti i rimanenti, e cioè il Panegyricus Messallæ, piatto componimento in esametri, composto anch’esso intorno al 30, e undici elegie sugli amori della poetessa Sulpicia col giovane Cerinto (un altro pseudonimo), divisibili a loro volta in due gruppi: il primo è composto da cinque elegie più lunghe che, salvo due, sono poste in bocca a Sulpicia, ma non sembrano scritte da lei, anche perché in complesso sviluppano l’argomento delle sei più brevi elegie successive, piccoli biglietti amorosi che si credono scritti personalmente da Sulpicia.

Aquila imperiale sopra le spoglie dei nemici vinti. Statua, marmo, I sec. d.C. Madrid, Museo del Prado.

[…] Si è tentato di basarsi anche sulla tradizione manoscritta, osservando che Ovidio da un lato, nell’epicedio per Tibullo, pone nettamente che solo Delia e Nemesi sono state le donne amate dal poeta, e che quindi solo i primi due libri sono del poeta; ma si è osservato d’altro canto che nelle due poesie Ovidio riecheggia anche spunti del libro III, dai carmi di Ligdamo e di Sulpicia. Ciò dà la sicurezza che in origine il «Corpus Tibullianum» correva in due sezioni distinte: quella autentica (libri I-III) e una raccolta di altri carmi di poeti appartenenti anch’essi al circolo di Messalla, la quale, per giunta, non si sa bene quando sia stata messa insieme fuori dagli archivi della casa. Il codice Santenianus del sec. IX contiene l’elenco dei manoscritti di una biblioteca, ai quali apparteneva anche un codice tibulliano in due libri: ciò farebbe pensare che sino a quell’epoca le due sezioni non si fossero ancora fuse. Ma gli estratti di carmi tibulliani che sono anteriori ai primi codici contenenti l’intero Corpus (e cioè gli Excerpta Frisigensia del sec. XI e gli Excerpta Parisina del sec. XII) sono desunti dalle poesie di tutti e tre i libri; ed è difficile pensare che la fusione sia avvenuta solo a partire dal sec. X.
L’ipotesi che è sembrata più ovvia fra le tante è che Ligdamo sia da identificare con Ovidio, dato che entrambi adoperano la medesima formula per indicare il proprio anno di nascita. Ciò è sembrato anche più naturale perché le poesie di Ligdamo presentano numerosi incontri di frasi sia con quelle di Ovidio sia con quelle di Tibullo. Ovidio giovane, in casa di Messalla, avrebbe fatto i suoi primi tentativi poetici all’ombra di Tibullo, il più grande poeta del circolo, e sotto lo pseudonimo di Ligdamo, sfogando il dolore per il suo primo matrimonio infelice, contratto in giovanissima età: infatti, le poesie di Ligdamo cantano l’infelice amore del giovane per Neera, che appare moglie o fidanzata del poeta. Altri hanno pensato che tutto il libro III del Corpus contenga i carmi di Ovidio giovane, il quale avrebbe composto anche il Panegyricus Messallæ e si sarebbe divertito anche a sviluppare, nelle elegie 8-12 del libro, i tenui spunti tracciati da Sulpicia nelle elegie 13-18, dopo aver letto queste poesie in casa di Messalla, di cui Sulpicia era pupilla. Altri ancora, fondandosi invece sull’ipotesi che Ligdamo sia nato nel 44, hanno voluto identificarlo col fratello maggiore di Ovidio, di cui il poeta nei Tristia compiange la morte prematura, comunicandoci che egli era nato un anno prima di lui. Entrambe le ipotesi servirebbero anche a spiegare come, nonostante i suoi riecheggiamenti nei carmi sicuramente autentici di Ovidio, il nome di Ligdamo non venga fatto né da Ovidio né da altri poeti. Ma Ovidio dice di suo fratello che egli era dedito all’eloquenza: sarebbe strano che egli avesse taciuto di un’attività poetica di suo fratello (se Ligdamo fosse da identificare con questo), tanto più che ne ha riecheggiato i versi. E quanto all’ipotesi che Ovidio sia l’autore di questi carmi, si tenga presente che nell’elegia decima del libro IV dei Tristia egli ci riferisce di aver bruciato i suoi saggi giovanili precedenti gli Amores. Altri hanno pensato che le elegie 8-12 del libro III siano uno sviluppo dei billets doux di Sulpicia fatto da Tibullo, che degli «elegidia» della poetessa aveva avuto conoscenza in casa di Messalla; e si è tentato di scorgere in Cerinto uno pseudonimo di Cornuto (l’amico cui Tibullo si rivolge nelle elegie seconda e terza del libro II), fondato sul greco κέρας = “corno”. Ma l’ipotesi è insostenibile, perché Cerinthus ha la “e” lunga. Altri ancora hanno proclamato Ligdamo un poeta superiore a Tibullo, che lo avrebbe imitato, ma non hanno rinunciato a ritenere che Ligdamo sia nato nel 43: è difficilmente pensabile che nei primi suoi carmi Tibullo abbia imitato un poeta tredicenne! Altri hanno identificato Ligdamo con l’omonimo schiavo di Cinzia, cui Properzio si rivolge nell’elegia III, 6 e di cui parla nelle elegie IV, 7 e IV, 8. Altri hanno pensato ancora che tutto il libro III sia di Tibullo, il quale, oltre a comporre le due ultime elegie e il Panegyricus Messallae in persona propria, avrebbe fatto da segretario galante a Ligdamo, a Cerinto e a Sulpicia, esprimendo in nome loro i loro sentimenti. A questa ipotesi (e anche a quella più semplice che Tibullo fosse l’autore solo dei carmi 8-12) è sembrato di poter trovare un appiglio in una frase del frammento di biografia, in cui si accenna a «epistulae amatoriae» di Tibullo, mentre altri, sulla base di questo passo, hanno pensato che Tibullo avesse composto lettere amatorie in prosa, ora perdute. Altri infine si sono sforzati di distinguere le due identiche indicazioni del proprio anno di nascita fornite da Ligdamo e da Ovidio, e hanno pensato che Ovidio abbia riecheggiato ad verbum il verso ligdameo, alludendo all’anno 43, mentre in Ligdamo il verso alludeva a un precedente anno in cui i due consoli erano stati travolti da eguale disavventura (o l’82 a.C., in cui i due consoli, Mario il giovane e Papirio Carbone, caddero entrambi per l’effetto della repressione sillana; o il 65 a.C., in cui i due consoli eletti, P. Autronio Peto e P. Cornelio Silla, furono entrambi destituiti perché rei di broglio elettorale, e sostituiti da L. Aurelio Cotta e L. Manlio Torquato, il console ricordato da Orazio; o il 49 a.C., in cui i due consoli, L. Lentulo Crure e C. Claudio Marcello, dovettero abbandonare Roma dinanzi all’incalzare di Cesare). Da questa retrodatazione della nascita di Ligdamo alcuni hanno voluto trarre motivo per identificarlo con Cassio Parmense. Di recente è stata scelta fra le varie date proposte quella del 65 ed è stata proclamata l’identità fra Ligdamo e Tibullo, sostenendo che Neera era stata la prima donna cantata da Tibullo sotto lo pseudonimo di Ligdamo e che la tanto ricercata data di nascita di Tibullo è dunque il 65.

Giovane uomo pensante. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei.

Noi ci associamo a questa ipotesi solo per quanto concerne Ligdamo: neghiamo cioè l’identità fra Ligdamo e Tibullo, insostenibile per tante ragioni, ma riconosciamo anche noi che Ligdamo non può essere nato nel 43 ed essere un tardivo imitatore sia di Tibullo, sia di Ovidio, come ha sostenuto chi l’ha identificato con lo schiavo di Cinzia […]. Interpretiamo poi «natalem», nel testo di Ligdamo, come allusione al “compleanno” del poeta, e perciò fissiamo al 66 a.C. il suo anno di nascita. Egli è stato, a nostro giudizio, un giovane timido e appassionato, di malferma salute, amico e all’incirca coetaneo di Messalla, vittima di un infelice fidanzamento con la fanciulla che egli canta sotto il nome di Neera, e che con la sua indifferenza e la sua infedeltà gli ha accorciato la vita, come Lesbia con Catullo, del quale, nel brevissimo canzoniere di Ligdamo, è vivissima la traccia. Egli costituirebbe perciò l’altro tramite fra Catullo e l’elegia augustea; ma la sua poesia, a differenza di quella di Cornelio Gallo, era la casta poesia di un giovane che si tormentava di non poter realizzare il suo sogno matrimoniale. Essa rimase fra le carte della casa di Messalla e fece sentire il suo esile profumo a Tibullo, a Ovidio e persino a Properzio, che ne trassero spunto; ma Ligdamo non poteva pretendere di essere ricordato dai suoi più celebri imitatori, sia perché non aveva cantato facili amori, secondo l’uso della grande elegia erotica, sia per la tenuità della sua produzione poetica, stroncata immaturamente dalla morte […].
[…] Riteniamo che gli «elegidia» di Sulpicia siano proprio della poetessa e che le elegie 8-12 del libro III siano sviluppi che il suo stesso amante, l’ignoto Cerinto, abbia composti sui biglietti inviatigli dalla sua donna, per assaporare ancor di più la dolcezza di quelle rapide effusioni dell’animo di lei. Rimane naturalmente l’insolubile stranezza di quei due pseudonimi greci, Ligdamo e Cerinto, di cui per giunta il primo, mediante il riscontro con Properzio, si rivela nome di schiavo: forse esso aveva il significato leziosamente allegorico di “schiavo d’amore”, e forse il vezzo di assumere pseudonimi greci doveva essere diffuso, come un ritrovato di eleganza mondana, fra alcuni poeti del circolo di Messalla.
Per noi quindi il mistero del libro III del «Corpus Tibullianum» va risolto nel senso che […] dagli archivi della casa di Messalla, nel corso del I secolo d.C., sia stato composto un nuovo libro, una specie di antologia, con carmi, taluni gelosamente personali, composti parecchi anni prima da poeti del circolo, cioè con quelli di Ligdamo, forse già precedentemente diffusi a parte e conosciuti e imitati da Tibullo e da Ovidio, con l’anonimo Panegyricus Messallæ, coni biglietti di Sulpicia e le variazioni più lunghe che su di essi aveva composte il suo amante Cerinto, e con due carmi giovanili di Tibullo, che il poeta non aveva compresi nell’edizione delle sue opere. Appunto questi carmi, che chiudevano la raccolta e di cui il primo reca il nome di Tibullo, facilitarono in seguito la fusione di questo libro con i due autentici di Tibullo: fusione agevolata anche dal Panegyricus, che sembrava riprendere e sviluppare le lodi di Messalla contenute nell’elegia I,7 di Tibullo; essa, molto più tardi, avrebbe assunto la forma di una divisione in quattro libri per adeguare il testo tibulliano a quello del rivale e contemporaneo Properzio.
Soffermandoci brevemente sul valore artistico di queste pallide figure del libro III del Corpus, diremo che il Panegyricus Messallæ è opera di bolsa retorica, ogni tanto sostenuta da qualche tratto più robusto, i carmi 8-12 non si sollevano molto da un piano di garbata naturalezza, mentre più ardente e rilevata, nella sua femminile passionalità, è la poesia degli «elegidia» di Sulpicia, superba di essere la figlia di un Servio Sulpicio e pronta a rinfacciarlo all’amante che dubita di lei. Con irresistibile spontaneità di donna innamorata lei si lamenta che Messalla, custodendola, non le permetta di recarsi dove si trova l’amato («Ormai cessa dall’agitarti, o Messalla, troppo sollecito di me») ed esprime il cruccio di non poter gioiosamente far pompa del proprio amore («Ma mi piace aver peccato, m’infastidisce dover atteggiare il volto per salvaguardare il mio buon nome»). I rapidi guizzi della fiamma d’amore nel petto della fanciulla, che tutto oblia per l’amato, sono più sapidi delle variazioni troppo smorzate che l’amato stesso ha tramato su quelle improvvise aperture d’animo: Cerinto ci appare molto meno addentro che non la sua donna nel pauroso mistero dell’amore. Gli «elegidia» di Sulpicia sono stati additati da taluni come uno dei rari esempi in cui la «voce del cuore» si manifesta nella poesia latina.
Più interessante della sua la personalità di Ligdamo. È stato detto che il suo è un amore da collegiale; ed effettivamente il suo nostalgico sogno di una tranquilla vita matrimoniale non ha termini di confronto nella poesia d’amore latina. Egli tiene d’occhio Catullo, ma non ha la fibra passionale del Veronese: perciò, dove quegli freme, rugge, si divincola, scaglia ingiurie o avventa immagini di contenuta, profonda, pateticità, egli si abbandona a un pianto accorato e sommesso che annacqua i suoi sfoghi e li stempera in una liquida, monocroma semplicità: par quasi di poter sorprendere in questo i connotati di una personalità scarsamente vitale anche dal lato fisico. Pur avendo tanti punti di contatto con Tibullo, ne differisce fondamentalmente perché, mentre il cantore di Delia si tiene sempre sospeso fra il sogno e la realtà e addolcisce e sfuma i contorni, egli invece è di una fotografica aderenza al mondo circostante, è tutto cose, anche se a queste cose non riesce a imprimere, il più delle volte, il tocco trasfiguratore della poesia: in quest’aderenza immediata all’oggetto è il segno più tipico della sua vicinanza cronologica e spirituale a Catullo, oltre che nell’aperta citazione del suo nome, nella sesta elegia, e nel palese sfruttamento di episodi e cadenze della sua poesia. D’altro canto quella sua tendenza ad annullare e trasformare in tenero pianto l’empito della passionalità catulliana l’ha portato a imprimere al distico elegiaco un’andatura ondosa e levigata, lontana dalla durezza di Catullo, e già molto prossima alla trascolorante musicalità di Tibullo e alla fluida scorrevolezza di Ovidio, dei due poeti, cioè, che non disdegnarono di mutuare espressioni e movenze alle sue poche, umili, quasi dimenticate elegie. In questo, perciò, se veramente è attendibile la nostra tesi sulla sua priorità, egli, pur nella tenuità della sua produzione, rappresenta una tappa di notevole importanza nella formazione della cifra stilistica dell’elegia erotica augustea. Quello che egli, nei suoi bilanciati e ben ritmati distici, dice della sua sposa lo ripeteranno con tono più vibrante i suoi grandi successori per le loro amanti: egli dice che lei «sia che sia mia, sia che io m’inganni, è per me sempre la cara Neera», e le invia doni con questa pudica dichiarazione: «Questi piccoli doni ti manda colui che un giorno sarà tuo marito, che ora è tuo fratello, o casta Neera, e ti supplica che tu li voglia accettare e ti giura che tu gli sei cara più delle sue viscere, sia che tu voglia essere sua sposa sia che voglia rimanere come una sorella per lui. Ma meglio che tu divenga sua sposa: la speranza che tu acquisti questo nome per lui gliela toglierà solo la smorta acqua di Dite, quand’egli sarà estinto». C’è già il presagio che il grande giorno delle nozze non rifulgerà mai per lui. Eppure egli afferma che «colui che strappò al giovane la fanciulla a lui cara e alla fanciulla il giovane a lei caro, ebbe veramente un cuore di ferro. E fu insensibile anche colui che poté sopportare un dolore così grande e vivere dopo che gli era stata strappata la sposa. Io non sono da tanto, non è della mia indole una simile sopportazione». E pensa che gli si frangerebbe il cuore e immagina (e Tibullo farà tesoro di questo trapasso e Properzio riprenderà il motivo dell’epitaffio) che Neera e sua madre vengano a piangere sulla sua tomba e vi pongano questo epitaffio: «Qui giace Ligdamo: a lui il dolore e il cruccio per Neera, la sposa rapita, furono causa della morte». E rivolgendosi a lei geme: «Che giova aver oppresso di voti il cielo, o Neera, e aver bruciato tanti incensi con sommesse preghiere … perché io potessi fondere la mia gioia con la tua in una lunga vita e la mia vecchiaia potesse trovare l’ultimo rifugio nel tuo grembo?». E quando, ormai deluso, chiede al vino l’oblio delle sue pene, apostrofa la sua Neera con l’appellativo di «spergiura», dice che lei è «ingiustamente nemica a me che non lo merito», ma si affretta a soggiungere «ma, benché spergiura, sempre a me cara!». L’«odi et amo» di Catullo, il grido di disprezzo misto al bramoso anelito dei sensi, l’unico rottame dell’amore distrutto, si è già trasformato in quest’umile sospiro di rimpianto verso la donna sconoscente, ma ancora adorata.
Più ricca di motivi, più sapientemente orchestrata la poesia tibulliana. Abbiamo già ricordato che sua nota distintiva è la fusione del motivo erotico con quello agreste. Tibullo la deve forse a Cornelio Gallo; noi vi scorgiamo un profondo influsso di Virgilio, i cui motivi, specie nelle elegie prima e decima del libro I e prima e terza del libro II, sono ripresi, rielaborati, intrecciati con variazioni nuove, ma quasi tutte improntate alla più raffinata sapienza letteraria. Le donne che egli canta, Delia nel libro I, Nemesi nel libro II, sono stilizzate da Ovidio come piangenti accanto al suo letto di morte; ma che esse siano realmente esistite può credersi solo con prudenza. Apuleio, nel già ricordato luogo dell’Apologia, ci afferma che Delia si chiamava Plania, il che potrebbe dar credito al poeta che ci narra il suo infelice amore per lei; e Orazio nell’ode I,33 ci parla di crucci amorosi di Tibullo: ma egli si riferisce proprio alle sue elegie, e quindi proprio a quella testimonianza della cui validità discutiamo. Che Nemesi sia una donna vera è da revocare in dubbio: già il suo pseudonimo, “la vendetta”, fa sospettare che ella sia un’immaginaria donna cantata da Tibullo come rivalsa per il canonico tradimento di Delia; e il libro II è un breve libretto in cui la vena del poeta già appare stanca. In realtà l’una donna non differisce dall’altra: il poeta le raffigura entrambe infedeli, avide, pronte a passare ad altri amori, anche se per Delia ha aggiunto qualche tocco che serve a individuarla come donna maritata. Se abbiamo insistito su questo problema dell’effettiva esistenza di Delia e Nemesi, non lo abbiamo fatto per porre una questione che in sede di giudizio artistico non ha alcun significato, ma solo per fare intendere che Tibullo ha cantato le due donne come forme evanescenti e vuote, sentendole lui per primo come se effettivamente non esistessero. La Lesbia di Catullo e la Cinzia di Properzio hanno ben altra corposità; e l’evanescenza delle donne oraziane si configura in motivo stilistico raffinatissimo, che è esso stesso musica e delizia per la fantasia, quando addirittura, come nell’ode III, 9 (il dialogo della riconciliazione fra gli amanti), la figura di Lidia non viene in primo piano con una sua ben definita, squisita femminilità. Ma Tibullo invece vuol cantare le sue donne nell’atmosfera realistica dell’elegia erotica e addensa intorno a loro tutti i luoghi comuni della poesia d’amore derivata dall’epigramma ellenistico: il παρακλαυσίθυρον (“serenata dinanzi alla porta chiusa”), le imprecazioni contro la mezzana, i riti magici per piegare l’amata, ecc. Ora Delia è invocata come compagna del poeta in un quadro di rustica semplicità, ora invece è vista da lui mentre partecipa ai riti di Iside, ancora riservati agli ambienti più capricciosamente mondani della capitale; la sua figura ondeggia sempre dinanzi alla nostra fantasia, apparendoci ora una ragazza del popolo, ora una vera cortigiana. Né basta: nelle elegie quarta, ottava e nona del libro I il poeta canta l’amore per il giovinetto Marato; il meno che si può dire al riguardo è che egli indulga a un motivo letterario, nel pieno dell’amore per Delia. Da Ligdamo eredita il tono umile e supplichevole dinanzi alla sua bella, ma non vi si attiene sino in fondo, perché la tradizione della poesia erotica esige che l’innamorato ogni tanto manifesti impazienza e sdegno. Il suo amore per la campagna può essere stato anche sincero: Orazio ci testimonia che egli s’intratteneva nei campi. Ma la sua campagna, salvo qualche tratto di maggior spontaneità, è troppo nutrita di colori virgiliani perché non si abbia a scorgere anche qui un raffinato riecheggiamento letterario. La sua, non quella delle Bucoliche virgiliane, già prelude alla campagna dell’Arcadia settecentesca.
Ciò che in lui sostituisce il punto di fusione, il principio armonizzatore di tutti questi elementi disparati è il suo stile, che il più delle volte non riesce a dar forza e suggestione di poesia al suo canto, ma indubbiamente gli imprime sempre un carattere di gustosa e raffinata elaborazione letteraria. Quintiliano lo giudicò «tersus atque elegans», dandogli la palma fra i poeti elegiaci; il suo giudizio è riflesso in Diomede – che cita il primo distico tibulliano come esempio di poesia elegiaca – e nel moncone di biografia di cui abbiamo fatto parola più volte. E grande merito di Tibullo sono state sempre giudicate la nitida fluidità dell’espressione e la mancanza quasi totale di digressioni mitologiche, come se la mitologia potesse costituire di per sé un elemento bello o brutto, e tutto non dipendesse dalla maniera con cui il poeta la introduce nei suoi carmi e la rivive. Ma la vera caratteristica del suggestivo, accuratissimo stile tibulliano non è nella pura e semplice perspicuità, ma nell’andatura sinuosa, sognante con cui un motivo s’intreccia all’altro, un fantasma germina casualmente nell’altro, in una continua, ondosa, soave rêverie. In questo tono di vago, di melanconico, di sfumato Tibullo ha saputo trovare il timbro adatto per amalgamare gli elementi così diversi e contrastanti, e per lo più così libreschi del suo mondo poetico. Egli è sempre un classico, e quindi il suo contorno è sempre nitido; ma la musica che fluisce dentro le sue immagini tende, per così dire, a dissiparle dall’interno, a stemperarle nella nebbia del sogno. In Tibullo il disegno classico è già sul punto di trasformarsi nella romantica indeterminatezza: in questo estremo, instabile equilibrio fra il chiaro e l’indistinto è la sottile suggestione del suo sorvegliatissimo stile. Non si vuol dire con questo che egli non sappia o non voglia determinare i suoi quadri: ma per esempio egli comincia a raffigurare una festa campagnola, poi da questa passa a esaltare la divinità in onore della quale essa è celebrata, e a prospettare i beni della campagna come un dono di questa divinità; di qui torna a esprimere il fascino del «rus», ma poi passa subito a deprecare la guerra che minaccia di comprometterlo; dall’immagine della guerra torna una terza volta a lodare la campagna, ma subito le contrappone l’altro tema abituale del suo canto, l’amore con i suoi «discidia», per terminare con un’ennesima lode della pace agreste. In questa continua, nervosa, cangiante interferenza di piani, la fermezza del quadro e della singola immagine risulta continuamente compromessa; e il miracolo della sapienza stilistica di Tibullo è nel fatto che questa continua trasposizione d’immagini e d’idee avviene sempre in quel linguaggio preciso, quasi scarno, che dà un sentore di vivida incantagione a quel continuo mutar di quadri.
Il fascino maggiore della poesia tibulliana è nei rari momenti in cui quest’andatura desultoria e sognante investe, intacca la nitidezza dell’immagine, ne fa veramente una rosata macchia indistinta, la circonfonde delle trine spumose di un pannelleggiare rococò. Allora Tibullo crea veramente qualcosa di nuovo, introduce quella tipica nota preromantica, che poi il sec. XVIII ritroverà, dalle pittoriche pastorellerie del Watteau al sentimentalismo contagioso della Nouvelle Héloïse di J.J. Rousseau. Nella terza elegia del libro I Tibullo, malato a Corcira, scongiura gli dèi di volerlo conservare in vita; ma poi teme che sia giunta la sua ultima ora e la sua fantasia naufraga dolcemente (il vero Tibullo non conosce mai i toni cupi e drammatici) nell’immaginare i Campi Elisi, ma ben diversi da quelli virgiliani: «Qui regna la danza e il canto, e gli uccelli, svolazzano qua e là, effondono una dolce melodia dalla gola delicata, fiorisce la cannella, fra l’erba che vien su spontanea, e per tutta la distesa dei campi, la terra benigna si copre di rose profumate: un nugolo di giovani s’allegra a mescolarsi alle tenere ragazze, e Amore intreccia di continuo le sue schermaglie». […] Ma l’irrequieta immaginazione del poeta trascorre da questo sogno rosato alla visione cupamente stilizzata dell’Averno, in cui augura che vadano a finire i suoi rivali in amore, e poi torna a posarsi sull’immagine della sua ragazza che si compiace di evocare filante i lini sotto la severa custodia di una vecchia, finché «a poco a poco, vinta dal sonno, si lasci scivolare dalle mani il lavoro»: ove l’immagine della sedula sposa cantata da Virgilio nel libro I delle Georgiche si ammorbidisce in un quadretto di più leziosa sensibilità. Così – ed è il tratto meritatamente più famoso dell’opera di Tibullo – nella prima elegia, dopo aver intrecciato diffusamente i due temi prediletti della campagna e dell’amore, il poeta s’effonde in un delicatissimo intermezzo musicale: «Non mi curo della gloria, o mia Delia: purché stia con te, invoco d’esser chiamato pigro e molle. Possa contemplare il tuo viso, quando verrà per me l’ora suprema, possa stringerti ancora, spirando, con la mano che si abbandona». Tibullo ha varcato il tenuissimo limite, e si è gettato fra le nebbie di un romantico sogno conquistando finalmente la poesia.
Lodato da Ovidio e posto da lui fra i poeti che gli amanti e le belle devono conoscere, ammirato da tutta la letteratissima età imperiale (ma san Girolamo non lo conosce), Tibullo ha lasciato traccia di sé in tutte le letterature moderne[…]. Oggi il giudizio sull’arte è rimasto spesso impegolato nelle fastidiose e trite polemiche alimentate dal suo confronto con Properzio, ed ha sofferto della non ancora raggiunta soluzione del problema del «Corpus Tibullianum».

7 pensieri su “Tibullo e il «Corpus Tibullianum»

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