Avere «occhi eruditi» a Roma

di M. PAPINI, Avere “occhi eruditi” a Roma. Arte greca – e sensi di colpa romani – nelle opere di Cicerone, in I giorni di Roma. L’età della conquista, Milano 2010, pp. 125-135).

 

70 a.C.: anno del clamoroso processo contro Gaio Verre, di famiglia non blasonata, il quale già nel compimento della sua legatio al seguito di C. Cornelio Dolabella nell’80 a.C. ad Atene aveva promosso lo scippo di gran quantità d’oro dal Partenone e in Asia aveva fatto man bassa di quadri e statue (Verrine, II 1, 45-50). Dopo la conclusione della propretura in Sicilia, conseguita nel 73 e prolungata fino al 71 a.C., varie città dell’isola, a causa delle sue plurime malversazioni, manifestarono contro di lui un furore tale da abbatterne le statue; il governatore venne così processato de pecuniis repetundis, per concussione, e Cicerone su richiesta dei Siciliani assunse il compito di accusatore. L’Actio prima iniziò il 5 agosto del 70 a.C., e, dopo un’interruzione dell’attività giudiziaria, la seconda fase fu rinviata alla metà di settembre; siccome Verre scelse la via dell’esilio volontario, all’eventuale rapida ripresa delle accuse seguì la sentenza che inflisse un’ammenda modesta all’imputato, il quale continuò a vivere tra le ricchezze a Marsiglia, dove però Antonio nel 43 a.C. lo fece proscrivere a causa del rifiuto di donargli i suoi bronzi corinzi (Plinio, Naturalis Historia, XXXIV 6). Al termine Cicerone redasse le Verrine, costituite dall’Actio prima e dalle cinque orazioni mai pronunciate dell’Actio secunda, ibrido tra una requisitoria e un’opera di finzione letteraria. Il quarto libro dell’Actio secunda, la De Signis, stigmatizza, in un folto dossier, le sottrazioni di opere d’arte perpetrate in Sicilia da Verre, descritto come un ignorante convinto di poter comprare tutto: un homo locuples, eruditus, sine ulla bona arte, sine humanitate, sine ingenio e sine litteris, con la pretesa di esprimere giudizi sottili e di essere il solo a intendere; peccato solo che il Graeculus di greco non sapesse neppure un parola (Verrine, II 4, 127). Così, schiavo di un’insana smania (morbus), egli derubò dei privati cittadini, Greci e Romani, e persino dei principi reali e non si fece scrupolo di carpire opere d’arte a città o a santuari circondati da profonda venerazione, senza distinguere tra privato e pubblico o profano e sacro (II 4, 2); in più, non sempre riuscì a esibire i libri contabili e a precisare le eventuali modalità d’acquisto, a differenza di generali vittoriosi come lo scrupoloso P. Servilio Vatia, console nel 79 e trionfatore nel 74 a.C., membro della giuria nel processo, il quale, sottomessa la regione dell’Isauria, annotò nei documenti pubblici numero, grandezza, aspetto e atteggiamento di tutte le statue fatte sfilare nel trionfo (II 1, 57). La scaltra argomentazione-narrazione di Cicerone, incline a mischiare il piano legale con le forti reazioni emotive dei derubati (II 4, 47; 106-115), si trasforma oggi anche in una preziosa fonte di informazioni sul frenetico mondo delle collezioni del I secolo a.C. e sulla coesistenza delle diverse valenze, non solo estetiche, veicolate da ogni opera d’arte; ad esempio, una statua di Apollo con su iscritto sulla coscia il nome di Mirone per gli Agrigentini costituiva allo stesso tempo un dono di un generale romano, un oggetto legato al culto della loro comunità, un ornamento urbano, una testimonianza di un evento vittorioso e una prova dell’alleanza con i Romani (II 4, 93). Ma Cicerone prende di mira soprattutto l’inosservanza della sanctitas e della religio da parte di Verre a causa del furto di antichi manufatti trasmessi dagli antenati, preoccupazione del resto ben avvertita in occasione del trasferimento di bottini di guerra, quando il Senato esortava il collegio dei pontefici a determinare la categoria di appartenenza di signa o altri ornamenta (sacra o profana: Livio, XXVI 34, 12; XXXVIII 44, 5). Un esempio: i due principi reali di Siria, i fratelli Antioco e Seleuco, di passaggio dalla Sicilia, non avevano ancora potuto dedicare in Campidoglio, come nelle loro intenzioni, un magnifico candelabro tempestato di gemme, perché il tempio di Giove Ottimo Massimo, dopo un incendio dell’83 a.C., non aveva ancora finito; e di quel manufatto, un dono votivo in potenza da loro consacrato già mente et cogitatione, Verre, spacciandosi per un ospite dai tratti signorili, riuscì ad appropriarsi, con il pretesto di volerlo esaminare (Verrine, II 4, 61-68).

Eros (o Thanatos). Statua, marmo pario, copia romana del II secolo d.C. da un originale di Prassitele. Roma, Musei Capitolini.

A Messina, città favorevole al governatore, risiedeva una delle sue vittime più illustri, il ricco Gaio Eio, individuo pieno di humanitas, pietas e religio, che al dibattito partecipò nella duplice veste di privato e capo-delegazione per la laudatio dell’accusato (II 4, 3-18). La sua casa, accessibile ai visitatori per tutto l’anno, costituiva un vanto per la città, tanto che i visitatori (compresi i magistrati romani) godevano del libero accesso alla raccolta fatta di splendide statue greche, ereditate dagli antenati, che egli poteva prestare: infatti, C. Claudio Pulcro durante la sua edilità curule nel 99 a.C. ottenne per pochi giorni un Cupido in marmo di Prassitele per adornare il Foro a Roma in onore degli dèi e del popolo (modo per aumentare la magnificentia degli spettacoli e per raccomandarsi le tappe future del cursus honorum), ma fu puntuale nel restituirlo. Nell’abitazione di Eio un sacrarium ospitava da una parte l’opera di Prassitele appena citata e dall’altra un Ercole in bronzo egregie factus attribuito a Mirone; due altarini davanti davano un tocco di sacralità a un impianto altrimenti più somigliante a un “museo” in miniatura; inoltre, di due Canefore, statue in bronzo, di modeste proporzioni ma eximia venustate, sostenenti sul capo un canestro con qualche oggetto sacro non meglio determinato, si sbandierava l’attribuzione a Policleto: tutti artisti di primissimo ordine – ma attenzione ai falsi! – , che consentono di istituire un parallelo con la Casa di Hermes a Delo, della seconda metà del II secolo a.C., ospitante in un vano una statua perduta di cui si conserva solo la base con la firma di Prassitele, ritenuta di fatto riferibile al IV secolo a.C. Verre dalla cappella tutti trafugò, salvo una statua lignea molto antica forse della dea Buona Fortuna, lì lasciata o perché meno stimata o per dare la parvenza di non voler eccedere nei sacrilegi: a ogni modo, è l’unica per la quale Cicerone non nomina l’artefice. Ebbene, obietta un interlocutore fittizio, Eio si lasciò sedurre da una somma elevata, ma Cicerone non ci sta e replica: le statue, come riscontrabile sui registri, furono sì vendute per seimilacinquecento sesterzi, cifra però tanto ridicola per simili capolavori da far fiutare una simulatio emptionis. Insomma, Eio non vendette le sue preziose statue volontariamente, confidava lo stesso Mamertino, indifferente al denaro e ai manufatti solo ornamentali (le Canefore): ma i simulacri degli dèi, quelli sì, egli li rivoleva assolutamente indietro.

E a che servivano le rapine? Per ornare non i monumenti pubblici, bensì le residenze di Verre, spettacolo sgradevole e non raro, purtroppo, in tempi in cui ormai «[…] l’intera Asia e l’Acaia e la Grecia e la Sicilia si sono raccolte negli spazi interni di un ristretto numero di ville» (Verrine, II 5, 127). Così due statue un tempo collocate davanti ai battenti del tempio di Hera a Samo erano finite nell’atrio, il luogo di presentazione delle virtù ancestrali, della sua domus (II 1, 61), altresì un tempo stracolma di sculture davanti alle colonne, tra gli intercolumni dei portici e in una silva (II 1, 50-51); alcune poi le aveva affidate in deposito ad amici e altre ancora offerte in dono (II 4, 36), tenue indizio da moderni commentatori considerato, assieme ad altri (produzione di vasi e tessuti preziosi realizzati in appositi laboratori), rivelatore di una presunta natura almeno in parte mercantile dell’attività di Verre quale art dealer, saltuariamente insultato da Cicerone con metafore del genere mercator cum imperio (II 4, 8; si vd. anche II 1, 60). Eppure, se così davvero fosse stato, l’Arpinate non avrebbe mancato di farne denuncia più esplicita, stante il suo punto di vista in genere polemico nei confronti della magna mercatura; più naturale, quindi, che Verre si fosse avvalso delle spoliazioni anche alla stregua di un’arma politica per procacciarsi una fitta rete di amici e familiarissimi in seno alla nobilitas: si sa, ad esempio, che nel 75 a.C. prestò statue e dipinti proprio al suo futuro difensore, Q. Ortensio Ortalo, per la celebrazione della sua edilità mediante l’abbellimento del Foro e del Comizio (II 1, 58); e quest’ultimo ricevette dal suo cliente una preziosa sfinge in bronzo (corinzio?), alla quale fu tanto legato da portarla sempre con sé in viaggio (Plinio, XXXIV 48; Quintiliano, Institutio oratoria, VI 3, 98; per Plutarco, Vita di Cicerone, 7, 8, la sfinge, d’avorio, la ottenne come compenso per il suo intervento durante la discussione in cui si fissò l’ammenda; si vd. anche Plutarco, Moralia, 205b).

Danzatrice. Statuetta, marmo, II-I secolo a.C., da Fianello Sabino.  Roma, Museo Nazionale Romano.

Per ingigantire gli indecorosi abusi di Verre Cicerone usa – e “costruisce” – dei modelli positivi attinti a un passato idealizzato, visto l’irreversibile deterioramento nel presente dell’immagine della classe politica. Spicca M. Claudio Marcello (Verrine, II 4, 115-121), conquistatore di Siracusa nel 212 a.C., la più grande e più bella di tutte le città greche. Secondo la storiografia antica l’impresa, inscrivibile nella cornice delle dispute per il prestigio tra imperatores impegnati a sfidarsi a suon di bottini di guerra sempre più fantasmagorici, sancì una svolta con la quale l’ammirazione per le arti greche si impose grazie all’importazione in massa di signa e tabulae  (donde iniziò la pessima abitudine di spogliare sacra e profana che finì per rivolgersi contro gli stessi dèi romani: Livio, XXV 40, 2-3). Plutarco (Vita di Marcello, 21) schizza un quadro affascinante di Roma come città rude e primitiva, piena di armi barbare e trofei, incapace di offrire uno spettacolo gioioso o tranquillo, un «sacro recinto del bellicosissimo Ares» per dirla con le parole di Pindaro (Pitiche, 2, 1); meno male che Marcello ingentilì l’Urbe con opere che procuravano piacere alla vista e sprigionavano bellezza (ēdonḗ) e fascino (cháris) greco; tuttavia, i più anziani, dalla mentalità conservatrice, preferivano la condotta moderata di Q. Fabio Massimo, vincitore su Taranto, che nel 209 a.C. si appagò di confiscare ricchezze e tesori e pronunciò le famose parole, da non prendere però alla lettera: «Lasciamo ai Tarantini questi dèi irritati». Sempre Plutarco fa rivivere la reazione del popolo, che, dimentico della propria indole guerriera, prese a trascorrere intere giornate immerso in discussioni su arti e artisti, dal che l’«eroe filelleno» Marcello si gloriò persino davanti ai Greci (!), fiero di avere insegnato ai Romani a onorare e ammirare le loro belle opere. Forse una storiella congegnata a distanza di tempo, ma che quei capi militari del II secolo a.C. ne subissero l’attrazione anche artistica è mostrato dal fatto che essi talvolta portarono con sé artifices dall’Asia Minore o dalla Grecia (come L. Cornelio Scipione Asiageno o M. Fulvio Nubiliore: Livio, XXXIX 22, 10; 22, 2). In modo significativo gran parte dei tesori siracusani fu destinata a ornare un santuario presso Porta Capena con due templi gemelli affiancati, votato dallo stesso Marcello nel 222 a.C. e visitato dagli stranieri proprio per l’excellentia dei suoi ornamenta, di cui però poco restava quasi due secoli dopo, ai giorni di Livio (XXV 40, 3): l’aedes Honoris et Virtutis, personificazioni di concetti cardinali, per cui le opere trafugate concorsero anche a glorificare la religione e il potere di Roma. La loro importazione non fu però indolore perché finì al centro della discussione intorno alla data di inizio della corruzione dei costumi romani, derivante dalla progressiva espansione dell’Impero secondo le ricostruzioni moralistiche di quegli eventi. Polibio (IX 10), su base però pragmatica, rimprovera ai Romani di aver tradito i principi di semplicità e compiuto un errore tattico nell’abbandonare le usanze dei vincitori per imitare i gusti dei vinti, attirandosi così sul lungo periodo il loro odio, e per cosa poi? Per prede belliche che non aggiungevano alcun lustro, anche se, continua lo storico, almeno la loro distribuzione nella specifica occasione risultò appropriata, perché gli oggetti strappati a private dimore a Roma finirono in proprietà privata, mentre gli ornamenti pubblici divennero possesso statale. Le opere siracusane vengono definite infesta signa in un discorso del 195 a.C. posto da Livio (XXXIV 4, 3-4) sulle labbra dell’arcigno difensore del mos maiorum del II secolo a.C., il celebre censore del 184 a.C., M. Porcio Catone, che sempre in quell’occasione mise in guardia dai troppi lodatori degli ornamenta di Corinto e Atene a spese delle antefisse fittili degli dèi romani, dopo aver espresso il timore che le attrattive della dissolutezza incontrate in Grecia e in Asia e i tesori regali conquistassero i Romani piuttosto che essere da loro conquistati (ma davvero si espresse con queste precise parole?). A depurare comunque l’immagine di Marcello dei tratti più scomodi provvede già Cicerone, secondo il quale egli si astenne da appropriazioni indebite a uso privato e trattò Siracusa con humanitas, senza spogliarla del tutto e senza compiere scelleratezze contro le divinità. Quale differenza da Verre, che dalla cella del locale Athenaion depredò una pugna equestris del re Agatocle (305-289 a.C.) dipinta su parecchie tabulae, non toccate da Marcello, religione impeditus, che tuttavia con la sua vittoria rese tutte le cose profana; di lì rubò anche una galleria di altri ventisette quadri con ritratti di re e tiranni della Sicilia, ammirati non solo per la maestria dei pittori, ma anche perché facevano conoscere l’aspetto e rinfrescavano il ricordo di quelle figure storiche; infine, dai battenti del tempio asportò degli stupendi soggetti cesellati in avorio e staccò finanche parecchie borchie d’oro, attratto dal peso; ecco messo a nudo il suo interesse per i valori non solo artistici ma anche venali dei manufatti. Risultato: a Siracusa una volta le guide additavano le principali opere in ciascun luogo; dopo Verre non potevano che mostrare cosa era stato portato via (Verrine, II 4, 132).

Sileno. Statuetta, marmo, II-I secolo a.C., da Fianello Sabino. Roma, Museo Nazionale Romano.

In contrasto con la sua libido Cicerone adduce poi la temperantia e l’intelligentia del distruttore di Cartagine del 146 a.C., P. Cornelio Scipione Emiliano, homo doctissimus e humanissimus, che invitò proprio gli ambasciatori delle città siciliane a identificare tra le opere d’arte confiscate quelle loro sottratte nel passato dagli stessi Cartaginesi, perché capì che siffatta bellezza fu concepita non per il lusso degli uomini, ma per l’ornamento di santuari e città (II 4, 98). E Verre invece? A Engio osò sottrarre da un santuario le offerte di quel benefattore e a Segesta rimosse dapprima una maestosa statua bronzea di Diana, lì meta di pellegrinaggio da parte dei forestieri, e in un secondo momento, per oscurare la vicenda, anche il suo alto piedistallo con l’iscrizione recante a grandi carattere sempre il nome del condottiero (II 4, 72-83).

Stesso anno decisivo per il crollo dei costumi (Plinio, XXXIII 150), ma altro conquistatore: il ferus L. Mummio, vincitore di Corinto, che dall’Acaia riportò un immane bottino e secondo un filone deformante della tradizione storiografica peccò d’ignoranza sprezzante verso l’arte. Stando a Cicerone, a Tespie in Beozia l’Eros di Prassitele, un’attrazione turistica e persino l’unico motivo per recarsi in quella città, egli non lo toccò perché consecratus (ma più avanti nel tempo ci pensarono altri Romani, tra cui prima Caligola e poi Nerone, ad arraffarlo). Di Mummio Plinio esalta altresì l’abstinentia per aver riempito Roma di statue senza tenerle per sé, tanto da lasciare senza dote la figlia (XXXIV 36); e inoltre egli fu il primo a conferire auctoritas ai quadri stranieri a Roma, il che fu degno di lode perché avvenuto nel contesto pubblico (XXXV 24), attraverso la collocazione di una tabula di Aristide, pittore tebano della seconda metà del IV secolo a.C., nel tempio di Cerere: ennesima riprova dell’intreccio arte-religione, tanto più che molti oggetti paiono di grande valore solo per il fatto di essere consacrati nei templi, dichiara sempre Plinio (praef. 19)!

In breve, un conto fu la publica magnificentia, irrinunciabile, un altro la privata luxuria, tanto insopportabile (a parole) quanto inarrestabile, sfere che la classe dirigente tentò disperatamente, ma invano, di bilanciare: la crisi del sistema fu solo ritardata, vista l’artificiosità della contrapposizione, in quanto dopotutto i vizi si diffondono al meglio proprio tramite la via pubblica (Plinio, XXXVI 5). La dissipazione e lo spreco innescati dall’aumento di ricchezza sociale inocularono nei precari equilibri interni della res publica un veleno mortale, cui già Catone provò a tener testa in diversi discorsi, noti in frammenti, che, nel condannare non l’arte greca in blocco ma i suoi usi più eversivi, trattano del lusso abitativo, del buon uso e delle legittime modalità di acquisizione delle prede belliche e della mania di esporre nelle abitazioni le statue di divinità quale suppellettile; e l’ultima apprensione non perse d’attualità negli ultimi decenni del I secolo a.C., allorché M. Vipsanio Agrippa tenne una stupenda orazione intorno alla necessità di rendere di proprietà pubblica tutti i signa e le tabulae senza «condannarli all’esilio» nelle ville (Plinio, XXXV 26).

Fortuna huiusce diei. Testa colossale, marmo, 101 a.C. dal Tempio ‘B’ di Largo Torre Argentina. Roma, Centrale Montemartini.

Per Cicerone (Verrine, II 4, 126) chi desiderava contemplare opere d’arte di alto livello poteva visitare monumenti pubblici come: il tempio di Felicitas, votato durante la campagna militare di Spagna del 151 a.C. e costruito dopo il 146 a.C. da L. Licinio Lucullo, il quale per l’inaugurazione si fece prestare le statue da L. Mummio senza ridarle però indietro, con il pretesto che ormai erano sacre e appartenevano agli dèi – e Mummio, soprassedendo, si guadagnò una reputazione migliore: Strabone, VIII 6, 23; Cassio Dione, XXII 76, 2; il tempio della Fortuna huiusce diei, votato nel 101 a.C. dopo la vittoria sui Cimbri da Q. Lutazio Catulo, presso il quale si trovavano un’Atena e due signa palliata nientemeno che di Fidia; la porticus di Q. Cecilio Metello Macedonico, iniziata nel 146 a.C. dopo il trionfo sulla Macedonia e ospitante la turma Alexandri, asportata dal santuario di Zeus a Dion. Ma Cicerone deve anche riconoscere come per vedere i capolavori occorresse darsi da fare per essere ammessi nelle ricche ville dei signori di Tusculum, seppur con seguente riflessione: la passione di signa e tabulae viene invero meglio soddisfatta dalle persone di ceto modesto rispetto a chi ne possiede un gran numero; difatti, nella capitale la sfera pubblica abbonda di opere di ogni sorta, mentre chi le tiene segregate in ambito privato anzitutto non può averne così tante sotto gli occhi e per di più le riesce a vedere di rado, solo recandosi nella propria residenza rurale; infine, i privati inevitabilmente provano qualche rimorso (quos tamen pungit aliquid) non appena si rammentano come se le sono procurate (Tuscolane, V 102).

In breve, arduo separare pubblico e privato. Poteva così capitare che una statua finisse coinvolta in un’oscillazione continua tra i due poli, come un Ercole tunicato presso i Rostri del Foro, di cui ben tre iscrizioni consentivano di ricostruire la storia (Plinio, XXXIV 93): la prima «dal bottino del generale Lucullo» ne segnalava lo status di preda di guerra del ricchissimo trionfatore del 63 a.C., L. Licinio Lucullo (le manubiae, in proprietà pubblica, potevano essere controllate, ma senza abusarne, dai generali); la seconda «il figlio minorenne di Lucullo (M. Licinio Lucullo) l’ha dedicata per decreto del Senato» si riferiva a una sua pubblica dedicatio tra 56 e 49 a.C.; la terza «Tito Settimio Sabino edile curule restituì al pubblico dominio la statua già proprietà privata» ne implicava un ritorno al pubblico – nel 30 a.C.? – dopo un interludio privato. Non solo statue però: quattro colonne in marmo luculleo, alte circa 11, 24 metri, utilizzate per un teatro provvisorio allestito da M. Emilio Scauro, furono reimpiegate nell’atrio tetrastilo della sua enorme dimora in Palatio (Plinio, XXXVI 6) per poi essere collocate da Augusto in regia theatri del teatro di Marcello (Asconio, In Scaurianam, 45).

Il cosiddetto Tempio ‘B’ dedicato da Q. Lutazio Catulo nel 101 a.C. alla Fortuna huiusce diei, in Largo Torre Argentina, Roma.

Torniamo a Verre, bramoso anche di manufatti di pregio, ancor più tipici della privata luxuria. Egli razziò drappi attalici (stoffe tessute con filigrana d’oro, un’invenzione asiatica), anelli d’oro e una grande tavola di cedro (mensa citrea); Plinio (XIII 92) tramanda però come lo stesso Cicerone pagò per un’analoga mensa cinquecentomila sesterzi, cifra tanto più sorprendente sullo sfondo della sua personale situazione economica non ottimale. L’appetito insaziabile del governatore fu poi solleticato dal vasellame prezioso e dalle argenterie cesellate o decorate da rilievi, talora funzionali a sacrifici: ormai da tempo era tramontata la verecundia, il pudore di comprare siffatti articoli nelle vendite pubbliche di beni regali, fine con precisione databile per Plinio (XXXIII 149) nel 132 a.C., quando Attalo III di Pergamo lasciò in eredità il regno (e tesori annessi) ai Romani, che cominciarono per loro sventura ad amare l’opulenza straniera; e ancora più lontani i giorni in cui si poteva essere estromessi dal Senato per il possesso di dieci libbre di vasellame d’argento, come accaduto nel 275 a.C. a P. Cornelio Rufino (Valerio Massimo, II 9, 4). A ogni modo, se essere esperti di argenterie equivaleva per Cicerone a trastullo (Verrine, II 4, 33), tuttavia, nota il grande erudito del I secolo a.C., M. Terenzio Varrone (De lingua Latina, VIII 16, 31), rientrava ormai anche nelle precipue qualità dell’humanitas la voglia di non avere solo servizi soltanto utili al cibo, ma anche roba bella e artistica: per un uomo assetato basta un bicchiere qualsiasi, per un uomo raffinato no, se non è bello. Il problema si poneva però quando si oltrepassava il limite del necessario.

Verre sguinzagliò ovunque due autentici cani da caccia, i fratelli Tlepolemo e Gerone, un modellatore in cera e un pittore da Cibira in Frigia, già conosciuti durante la permanenza in Asia, e arraffò, ad esempio, delle falere appartenute al tiranno di Siracusa Gerone II (270-216 a.C.), una pesante idria cesellata di Boethos, toreuta greco del III o II secolo a.C. (quale tra i diversi artisti conosciuti con tal nome?), dei bicchieri d’argento terminanti con una testina di cavallo e gli immancabili e ambitissimi vasi corinzi, dei quali era l’unico, osserva Cicerone, in grado di penetrare i segreti della composizione (Verrine, II 4, 98; a distanza di circa un secolo un altro “competente”, Trimalchione, andrà orgoglioso di conoscerne l’origine, ma in modo ridicolo: Petronio, Satyricon, 50): infatti, l’epiteto Corinthius applicato a vasi, statue e oggetti di altra sorta fu un marchio d’eccellenza in grado persino di infiammare il furor dei raffinati intenditori, tanto da essere di norma associato nei discorsi moralistici alla dismisura e al lusso (si legga però la puntualizzazione di Plinio (XXXIV 6) a proposito della lega corinzia, determinatasi per caso – si raccontava – in occasione dell’incendio di Corinto nel 146 a.C.).

Alessandro a cavallo. Statuetta, bronzo, II-I secolo a.C. da Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Verre bramò poi, senza neppure averle viste, delle tazze fabbricate da Mentore, il più famoso cesellatore greco della prima metà del IV secolo a.C., del quale si diceva avesse fatto solo quattro paia di vasi (Plinio, XXXIII 154), quantunque a Roma specie nel I secolo d.C. circolassero parecchie sue opere – dei falsi? – con quotazioni stratosferiche; già alla fine del II secolo a.C. dall’oratore L. Licinio Crasso furono acquistate per centomila sesterzi due sue coppe d’argento, di cui mai osò servirsi proprio per la verecundia (Plinio, XXXIII 147): prima l’acquisto e poi il non uso, bel modo per non sporcarsi la coscienza; e con i suoi tanti triclinia aerata (Plinio, XXXIV 14), letti con appliques in bronzo, che fece? Senz’altro non si fece scrupolo ad usarli.

In assenza di vasi vistosi Verre si accontentò di spiantare i rilievi incastonati nei turiboli o nei piatti e nelle coppe per banchetti, oggetti antiquo opere e summo artificio (Verrine, II 4, 46-49; 52): così stavolta volle mostrare interesse per il valore artistico degli oggetti, non per l’argento, commenta, con sarcasmo, Cicerone. Eppure, la raccolta di tanti fregi uno scopo l’ebbe (II 4, 54). Infatti, egli impiantò un grande laboratorio nell’ex palazzo reale di Siracusa, dove raccolse e rinchiuse per otto mesi parecchi cesellatori ed esperti nella fabbricazione di vasi preziosi; essi, senza fermarsi, crearono moltissimi vasi d’oro, ben superiori al bisogno personale, ai quali furono applicati i vecchi rilievi, con precisione e abilità tali da dare l’impressione che fossero stati persino concepiti per quella destinazione. A qual fine tali pasticci? Senz’altro non per dissimularne la provenienza, ma per possedere manufatti ancor più lussuosi rispetto allo stadio iniziale! Come se non bastasse, allo stesso governatore piacque trascorrere la maggior parte della giornata in officina, indossando vesti indegne di un magistrato romano, una tunica scura di lana grezza (da schiavo/operaio) e un mantello di tipo greco, il pallium; è lampante il suo atteggiarsi alla maniera di un sovrano ellenistico, come Alessandro Magno, habitué della bottega del grande pittore Apelle (Plinio, XXXV 85), o Antioco IV, avvezzo a discutere con toreuti e altri artigiani di questioni tecniche (Polibio, XXVI 1).

Nella presentazione di Cicerone Verre è in fin dei conti un collezionista squilibrato e un po’ spaccone, infervorato di sculture e manufatti di notevole antichità, di forte valore commemorativo e/o di grandi artisti, senza cura per la loro provenienza, arrogandosi qualità d’intenditore. E Cicerone? Va premesso che per lui sono i Greci a nutrire, al di là dello zelo religioso, un’incredibile passione per oggetti invece insignificanti agli occhi dei Romani, i cui antenati, anzi, con magnanimità, permisero di tenere presso di sé le opere d’arte agli alleati quali garanzia di una vita il più possibile prospera e ai tributari (vectigalii e stipendiarii) come oblectamenta e come solacia servitutis (fonti di piacere e sollievo nella condizione di subalternità: Verrine, II 4, 134): benché le cose non stessero esattamente così, in gioco erano questioni di identità nazionale.

Satiro ebbro. Statua, bronzo, II-I secolo a.C. dalla Villa dei Papiri, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

L’Arpinate descrive le statue in modo succinto, con un ventaglio di aggettivi ripetitivi che ne esaltano le qualità (egregius, elegans, nobilis, optimus, perfectus, praeclarus, pulcherrimus, singularis, eximia venustate, summo artificio e così via): nessun stupore, è un’orazione, non un trattato d’arte. Tuttavia, egli sa stabilire dei confronti sulla base di species, forma e pulchritudo tra diverse opere (Verrine, II 4, 129-130), anche perché ne ha visto un gran numero, benché ciò non lo abbia aiutato a farne un intenditore raffinato, e riesce a distinguere tra loro pregi o difetti, capacità in fondo obbediente a una sorta di istinto inconscio: gli uomini, infatti, possono giudicare pitture e statue, ancorché per natura forniti di un numero limitato di strumenti per la loro comprensione (intelligentia: De oratore, III 90, 195). A più riprese egli si compiace nel negare una competenza in materia, in quanto profano, idiota (Verrine, II 4, 4), strategia in parte strettamente funzionale al processo, perché si rivolge a un pubblico ancora diffidente di un’eccessiva considerazione fine a se stessa dell’arte greca, e dissimulatio volta ad accrescere per contrasto il prestigio della propria gravitas. A proposito delle statue nel sacrarium di Eio si meraviglia di avere imparato i nomi degli artisti durante la raccolta delle prove e si industria a tradire qualche impaccio nelle attribuzioni, anche quando sicure! Così si chiede per le Canefore: l’artista che le ha fatte, chi era? Risposta: ecco, sì, buono il tuo suggerimento; dicevano che si trattava di Policleto. Certo, uno stratagemma volto a fingere una non praeparata oratio (Quintiliano, IX 2, 61); ma, al di là degli artifici oratori, Cicerone, pur al corrente delle valutazioni delle opere d’arte sul mercato, con la misura del loro valore proporzionale alla libido nutrita per esse, non rientrava affatto nella schiera dei fanatici studiosi, intellegentes o elegantes che del collezionismo facevano il loro unico scopo di vita. In breve: nel campo delle arti figurative egli non è né competente né ignorante, la sua è un’attitudine non da peritus ma da “dilettante”, conscio del piacere da esse suscitato, che però può pericolosamente trasformarsi in un intrattenimento privo di utilitas. Un parallelo si può istituire per certi versi con il rapporto ambivalente con la cultura greca, distintivo secondo Cicerone dei suoi maestri, gli oratori L. Licinio Crasso e Marco Antonio, ben coscienti delle insidie del bilinguismo, positivo solo se sfruttato al fine dell’affermazione della romanità e non per una sua mera assimilazione alla grecità: l’uno, esperto di greco, voleva comunque dare l’impressione di disprezzare i Greci a favore della saggezza dei concittadini, mentre l’altro addirittura ne negava la conoscenza, malgrado si fosse tanto appassionato a dotti dibattiti durante una permanenza ad Atene e a Rodi (De oratore, II 1, 3-4).

Come si comportò l’Arpinate nell’ornamento delle sue ville (ben sette ne possedette, oltre a quella di Arpino ereditata dal padre)? Esse solo in parte continuarono a essere dotate di parti funzionali alla produzione e rappresentarono soprattutto luoghi di un otium raffinato e propizio alla studio o rifugi in periodi di dolore o forzato allontanamento dall’impegno pubblico: uno spazio esistenziale alternativo ai negotia della burrascosa arena politica, impossibile però da lasciarsi del tutto alle spalle, tanto più se lì tendevano comunque a riversarsi masse di clienti (ad Atticum, II 14, 2; V 2, 2). Dimore e ville lussuose con l’indebolimento dell’autorità senatoria e con l’espansione della sfera dell’otium si ridussero sempre più a simboli di affermazione personale, tanto che i senatori, come poté rimarcare Catone Uticense durante un dibattito sulla pena da applicare ai complici di Catilina, le avevano sempre apprezzate, insieme ai signa e alle tabulae, persino più del bene della Repubblica (Sallustio, De Catilinae coniuratione, 52, 5). La profusione di spese sfociò così in una gara sfrenata, cui solo gli incendi per fortuna potevano porre un limite: ad esempio, se nel 78 a.C. non v’era abitazione più bella di quella di Marco Lepido, nel giro di soli trentacinque anni nella graduatoria delle case più sontuose essa era scesa persino sotto il centesimo posto, tanto si erano incrementate le spese regali, la quantità dei marmi e le opere dei pittori (Plinio, XXXVI 109-110). Nell’opera De officiis (I 39, 139-140), scritta proprio ai giorni del boom del lusso (44 a.C.), nel momento del profondo rinnovamento delle residenze del Palatino ben tangibile anche nella documentazione archeologica, Cicerone al riguardo dell’aedificatio privata giustifica il bisogno di una casa di rappresentanza all’altezza della dignitas e di un homo honoratus et princeps e dunque abbastanza ampia per accogliere ospiti e clienti, ma senza troppo sfarzo, nel rispetto della giusta misura, e fa appello al senso di responsabilità dei principes civitatis, chiamati a fornire un simile modello per gli altri, cavalieri o liberti, che tendono a imitarli (si vd. anche De legibus, III 13, 30-31), in ossequio a un modello di etica sociale poi assimilato dall’ideologia augustea. A ogni modo, alla luce delle condizioni di generale agiatezza e delle possibilità di “bella vita”, era in fondo inutile continuare a riproporre l’antica virtù della più rigida continenza, ormai anacronistica e introvabile persino nelle carte, se non in quelle ingiallite, e la realtà, seppur intrisa di vizio, consentiva comunque delle scelte positive e graduate, senza dover rendersi insensibili ai piaceri: questa la constatazione di Cicerone nella cornice di una nuova e disinvolta “proposta educativa” per la gioventù esposta nel 56 a.C. (Pro M. Caelio, 40).

Filosofo. Busto, bronzo, I secolo a.C. ca. dalla Villa dei Papiri, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Ed egli come si regolò per par suo? L’abitazione urbana, acquisita alla fine del 62 a.C., gli costò la somma di tre milioni e mezzo di sesterzi, spesa esorbitante ma necessaria per dare visibilità allo status raggiunto – fu eletto console nel 63 a.C. – , mentre una domus davvero contrassegnata da mediocritas sul Quirinale e un po’ demodé la possedette piuttosto l’amico T. Pomponio Attico, che, malgrado il cospicuo patrimonio, si distinse più per il buon gusto e disprezzò falsi beni come pavimenti marmorei o soffitti a cassettoni (De legibus, II 1, 2): non a caso, egli, elegans, non magnificus, splendidus, non sumptuosus (Cornelio Nepote, Vita Attici, 13, 5), non fu un membro della nobilitas e si astenne dalla vita politica attiva, stomacato dalle sue degenerazioni.

La casa a due piani di Cicerone si trovava sulla pendice settentrionale del Palatino, verso le Carinae, in un’area vicinissima al Foro e naturalmente in bella vista (in conspectu prope totius urbis), esigenza, questa, avvertita dai domini a tal punto che M. Livio Druso nei primi anni del I secolo a.C. pretese una dimora parimenti in Palatio edificata in maniera tale che tutti potessero vedere quello che il proprietario svolgeva all’interno, contrariamente ai progetti iniziali dell’architetto (Velleio Patercolo, 2, 14). L’abitazione dell’Arpinate possedeva una palaestra (ad Atticum, II 4, 7), un’ambulatio, un laconicum (quest’ultimo ambiente adibito al bagno secco tipico della palestra: ad Atticum, IV 10, 2) e horti (ad Quintum fratrem, III 1, 14); le ultime tre componenti sono assicurate almeno a partire dalla restituzione sotto forma di villa urbana, seguita al saccheggio e alla demolizione di una sua parte a opera del vicino, l’avventuriero P. Clodio Pulcro, il quale, approfittando dell’esilio di Cicerone nel 58 a.C., volle allargarsi per abitare alla grande e superare laxitate et dignitate le domus di tutti gli altri (Pro domo sua, 116); e lo stesso Pulcro comprò poi nel 52 a.C. anche la già citata casa sul Palatino di M. Emilio Scauro per la cifra record di quattordici milioni e ottocentomila sesterzi (Plinio, XXXVI 103).

Dall’epistolario tra il 68 e il 65 a.C. con Attico, di stanza ad Atene, si apprendono parecchi dettagli sull’acquisizione di opere d’arte per la villa prediletta, comperata da Cicerone nel 68 a.C. e già appartenuta a Silla, a L. Lutazio Catulo, console del 78 a.C., e a L. Vettio, in quella Tusculum piena di palazzi “regali” (Strabone, V 3, 12) dove egli ama ambientare i propri dialoghi, ma dove c’era da competere con parecchi principes civitatis, amanti particolarmente della pittura. Per eccitare la plebe, nel 67 a.C. il tribuno A. Gabinio in contionibus si servì a mo’ di aiuto visuale di una pittura a illustrazione dei fasti della villa di L. Licinio Lucullo (Pro P. Sexto, 93; peccato però che quella in costruzione dello stesso Gabinio risultasse talmente grande da farla apparire come un tugurium); Lucullo fu comunque uno dei maggiori collezionisti di quadri tanto da avere acquistato ad Atene per due talenti la copia di un’opera, La venditrice di ghirlande, del pittore greco del IV secolo a.C., Pausia di Sicione (Plinio, XXXV 125). Il già citato oratore Ortensio nella propria villa di Tusculum intorno a una tabula di un altro pittore sempre del IV secolo a.C., Cidia, rappresentante gli Argonauti e pagata centocinquantaquattomila sesterzi, fece costruire un tempietto (Plinio, XXXV 130); e sempre Ortensio nel 55 a.C. dissuase Pompeo e Crasso, promotori di una lex sumptuaria, dall’aprire una contraddizione tra la proposta e il loro tenore di vita (Cassio Dione, XXXIX 37, 2). Infine, nella villa tuscolana di M. Emilio Scauro furono portati tutti gli oggetti rimasti della decorazione del teatro provvisorio – perché destinato a durare un solo mese – montato nel 58 a.C. durante la sua edilità, nel quale esibì tremila statue di bronzo tra trecentosessanta colonne di una scena a tre piani, stoffe attaliche, dipinti e altri arredi; e quando gli schiavi in rivolta la bruciarono, se ne andarono in fumo trenta milioni di sesterzi (Plinio, XXXVI 115-116); plausibile che diversi quadri fossero stati da lui comprati a Sicione, la patria della pittura, costretta a vendere all’asta tutte le tabulae del patrimonio pubblico per riscattare un debito (Plinio, XXXV 127).

Un esemplare dalla coppia dei “Corridori”. Statua, bronzo, II-I secolo a.C. dalla Villa dei Papiri, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Frattanto, mentre le residenze brillavano sempre più dei colori delle tabulae greche, che succedeva alla Repubblica? Si stava perdendo, proprio come un dipinto antico, di cui non ci si preoccupava di ravvivare né le tinte originarie né il disegno né le linee di contorno (Cicerone, De re publica, V 1).

Per il proprio Tusculanum l’Arpinate allestì delle installazioni battezzate con nomi greci evocativi dell’universo del ginnasio, tra cui uno xystus (quest’ultimo nell’accezione romana un ambulacro scoperto, mentre secondo la denominazione greca era un portico per le esercitazioni degli atleti durante l’inverno: Vitruvio, VI 7, 5), il Lyceum con annessa biblioteca e, su una terrazza più bassa, l’Academia: le ultime due dovevano consistere in peristili, lunghi porticati con un vasto giardino, ben adatti per lo svolgimento di conversazioni filosofiche e letterarie. Si delinea insomma il quadro quasi di una villa philosopha a rimprovero dell’insania di altre ville, per parafrasare le parole dello stesso Cicerone relative a quella del fratello Quinto a Laterium, non priva però di piacevoli abbellimenti, come le statue di palliati che tra gli intercolumni sembravano fare i giardinieri e vendere l’edera sparsa ovunque dal decoratore del giardino (ad Quintum fratrem, III 21, 5: 54 a.C.). Al desiderio del recupero dei simboli della tradizione culturale greca contribuì anche l’amore di Cicerone per Atene – la Grecia allo stato puro –, dove ebbe modo di risiedere per sei mesi durante un viaggio d’istruzione del 78-79 a.C., come dimostra il suo progetto di realizzarvi poi qualche monumentum, tanto da proporre la costruzione di un propylon per l’Accademia (ad Atticum, VI 1, 26); e siccome i suoi posti un tempo frequentati da illustri e ammirati ingegni costituivano dei luoghi di memoria colmi di una vis admonitionis stimolante la loro imitazione e non una pretta curiosità antiquaria, se ne comprende il perché dell’evocativo e virtuale “trapianto” all’interno degli spazi romani, dove si poteva persino “imitare” la letteratura. Infatti, nel De oratore di Cicerone composto nel 55 a.C. e ambientato nel Tusculanum di L. Licinio Crasso, gli interlocutori si siedono sotto un platano per imitare l’atteggiamento di Socrate nel Fedro di Platone, sdraiato sull’erba sotto un albero per pronunciare le parole ispirate da un dio, con la differenza, non da poco, che nel nuovo scenario romano era ormai possibile godere del comfort di sedili e cuscini (I 7, 28); e nel Brutus (24), terminato nel 46 a.C., i protagonisti conversano in un praticello propter Platonis statuam, forse all’interno di un peristilio nella casa sul Palatino di Cicerone.

L’Arpinate preme su Pomponio Attico (ad Atticum, I 5, 7; I 6, 2) perché gli procuri, oltre a una biblioteca, anche degli ornamenti scultorei adatti per diversi ambienti: desidera degli ornamenta da ginnasio (gymnasióde: l’espressione può includere statue tanto di atleti quanto di divinità o eroi); si rallegra al solo pensiero di ricevere quanto prima delle erme in marmo pentelico con teste di bronzo; pretende statue conformi: al luogo (ginnasio e xystus), alla sua passione e al gusto (elegantia) di Attico; ammette così di esser preso da un tale studius (passione) da meritare quasi una nota di biasimo (I 8, 2); attende con ansia i signa di Megara, pagati ventiquattromilaquattrocento sesterzi a un certo L. Cincio, e le erme e richiede altre cose che ad Attico appaiono il più possibile idonee per l’Accademia (I 9, 2); ordina la spedizione per nave delle sue statue e delle erme di Eracle e lo prega di nuovo di trovargli qualcosa di adeguato a una palestra e a un ginnasio, nonché dei bassorilievi da includere nell’intonaco dell’atrio secondario e due puteali con figure (I 10, 3); prova piacere a leggere quel che l’amico scrive su una Hermathena, ornamento a puntino per l’Accademia, perché, se Hermes si addice a tutti i ginnasi, Minerva, dea della sapienza, dà particolare lustro al suo impianto, e dice poi che gli sarà grato se riuscirà ad adornare quel luogo anche con altri pezzi in grande quantità (I 4, 3); e l’erma non solo riesce a delectare Cicerone, ma trova anche una collocazione sì adeguata che l’intero ginnasio sembra trasformarsi in un dono votivo (anáthema) in onore di quella dea (I 1, 5) con la quale egli intrattiene un rapporto strettissimo (è, infatti, la consigliera delle sue decisioni: Pro domo sua, 144) e che richiama l’Accademia di Atene, contenente appunto un santuario di Atena; la struttura si ammanta dunque di un’aurea religiosa, altra scappatoia per addolcire la contraddizione tra un modello di vita improntato alla salvaguardia, per quanto non ottusa, del mos maiorum e l’esigenza di vivere all’altezza del proprio rango sociale.

Athena Promachos. Statua, marmo bianco, I secolo a.C. dal tablinium della Villa dei Papiri, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Per riepilogare, Cicerone, benché non privo di un entusiasmo di cui quasi si vergogna, non è “maniaco” come Verre, delega le scelte all’amico, dei soggetti si interessa in modo generico ed è piuttosto sensibile alla loro capacità, in congruità con l’ambiente, di creare una determinata atmosfera; reclama non capolavori di artisti celebri ma l’acquisto del più ampio numero possibile di opere (quam plurima: ad Atticum, I 8, 2) e a buon prezzo (I 3, 2). Queste, in definitiva, le virtuose ricette per procurarsi un’“arte ambientale” al servizio di aspirazioni culturali e per evitare ogni senso di colpa.

E in caso di infrazione della regola della conformità al contesto? Cicerone si seccava. Difatti, in una sua lettera del 46 a.C. (?) all’amico M. Fabio Gallo, al cui gusto di uomo in omni iudicio elegantissimus era solito affidarsi (ad familiares, 7, 23), rende conto di un affare infelice. Costui gli aveva acquistato a un prezzo esagerato da un certo C. Avianio Evandro quattro-cinque statue di piccole proporzioni, ritenute degne del suo gusto e in grado di delectare, tra cui delle baccanti carine (pulchellae); quanto ad Avianio Evandro, deve essere lo stesso scultore – e toreuta – assai attivo ad Atene negli anni cinquanta; di lì si trasferì al seguito di Antonio ad Alessandria (36 a.C.) e fu poi portato a Roma sotto Augusto nel 30 a.C.; e nel tempio di Apollo del Palatino gli fu affidato il restauro della testa di una statua di Diana scolpita da Timoteo (Plinio, XXXVI 32). A ogni modo, l’Arpinate si lamenta del paragone istituito a sproposito da Gallo con un gruppo di muse di Metello (venduto sub hasta?), che comunque non avrebbe mai considerato confacente a tanto prezzo – anche se appropriato per una biblioteca –, mentre le baccanti non costituivano un soggetto conforme alla propria casa, tanto più visto il suo vezzo di comprare statue per la palestra ad similitudinem gymnasiorum; egli, oltretutto, le baccanti le conosceva benissimo e le aveva spesso viste ad Atene, per cui, se le avesse desiderate per davvero, non avrebbe mancato di istruirlo in merito. In aggiunta, Cicerone deplora anche un altro acquisto, una statua di Marte, poco adatta per un fautore della pace come lui, mentre invece si dichiara disponibile a prendere un trapezophorum qualora Gallo, deciso a tenerselo, avesse cambiato idea. Transazione del tutto sballata pertanto, ma il ritardo nel pagamento lasciava aperto un minimo spiraglio per scaricare il gruppetto delle sgradite sculture a Damasippo (lo stesso interlocutore di Orazio nelle Satyrae, 2, 3, commerciante d’arte divenuto insanis a forza di acquistare vecchie statue) o a uno come lui.

Ora, sebbene a Cicerone le baccanti non piacessero, esse di fatto rientravano nell’offerta tesa a soddisfare la famelica domanda dei soggetti dionisiaci destinati a un frequente impiego “decorativo” nei giardini delle ville romane a partire dall’epoca tardo-repubblicana, mentre Dioniso e satiri scarseggiavano invece nelle dimore di Delo.

Dioniso. Erma, bronzo, 80 a.C. ca. dal relitto di Mahdia. Alaoui, Musée Nationale.

Ad esempio, nella Casa del Fauno di Pompei dal tardo II secolo a.C. sul bordo dell’impluvio dell’atrio principale danzava la statuetta di bronzo di un satiro, mentre l’incontro erotico sempre di un satiro con una menade era inscenato su un emblema musivo del cubicolo 28. Del carico commerciale del relitto di Mahdia (Tunisia), nell’insieme ben esemplificativo delle richieste degli acquirenti romani a cavallo tra il II e il I secolo a.C., faceva parte sì di un’erma, in bronzo, ma di Dioniso, firmata sull’attacco del braccio destro da Boeto di Calcedonia, scultore e toreuta della prima metà del II secolo a.C., peraltro già usata e trasportata quindi per un riutilizzo.

Vale poi la pena di menzionare un complesso di sculture di modulo inferiore al vero da un villa di Fianello Sabino nel Lazio, per lo più riferibili al periodo tra il II e il I secolo a.C.: in virtù del materiale, in prevalenza marmo “grechetto” – forse pario – , se ne è postulata la provenienza quasi in un’unica fornitura da una o più botteghe di Delo, attivissime proprio in tale periodo anche nella produzione dei bronzi, attribuzione congetturabile anche per i diversi triclinia aerata dal relitto di Mahdia – e il Gaio Eio delle Verrine è stato identificato con un C. Heius T. f. Libo, magister di un collegio religioso attestato nell’isola. Tra i rinvenimenti di Fianello Sabino spicca una statuetta di menade con pelle di pantera in atto di incedere (anch’essa pulchella?) forse parte di un unico corteo dionisiaco assieme a un sileno e a una danzatrice acefala. Lo stesso nucleo, testimone in chiave formale di un ampio spettro di scelte adattate ai temi, contiene anche ornamenti più in linea con un ambiente “ginnasiale” e perciò con i gusti di Cicerone: un giovane lottatore, un altro fanciullo impegnato forse in una performance sportiva e un Eracle con clava; inoltre, una piccola doppia erma barbata, con il volto di Demostene ancora riconoscibile (abbinato a Eschine?), riporta alla mente la presenza di una imago in bronzo del grande oratore attico insieme alle immagini degli antenati nella villa di Tusculum di M. Giunio Bruto (De oratore, 31, 110). Infine, sempre da Fianello Sabino derivano altri manufatti marmorei, tra cui sei rari esemplari di lussuose lucerne a forma di corona a otto fiammelle, le quali, affini per la peculiare forma a tipologie in uso in santuari, potevano spargere un’aria sacrale: un po’ alla maniera dei candelabri in marmo, altra categoria di manufatti “inventata” per il mercato romano, della quale, non a caso, sempre il relitto di Mahdia conteneva almeno cinque esemplari prodotti in serie all’interno di atelier ateniese del II –I secolo a.C., e un po’ anche alla maniera degli altarini del sacrarium di Eio.

Un satiro e una ninfa. Mosaico pavimentale dal cubiculum 28 della Casa del Fauno a Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Immagini attinenti al tiaso dionisiaco e al mondo della palestra abbondano anche tra i tanti reperti scultorei da diversi ambienti nella Villa dei Papiri di Ercolano, inquadrabili tra il terzo quarto del I secolo a.C. e, in numero minore, gli ultimi anni di vita del complesso: senza comporre un “programma” leggibile in termini troppo rigidi, tra di essi, caratterizzati da una forte eterogeneità dei modelli formali, si annoverano repliche di originali greci e creazioni ex novo, affiancate con pari dignità; e non manca neppure Atena, sotto forma di una promachos in marmo pentelico, dal cosiddetto tablinium, secondo un tipo arcaizzante elaborato proprio nel I secolo a.C. e trasmesso anche dai frammenti di un altro esemplare dall’area dell’acropoli di Atene. Siccome alla formazione di ogni collezione, per quanto nell’insieme standardizzata, dovette contribuire anche qualche scelta più personalizzata, è concepibile che Cicerone non sarebbe stato troppo interessato a quei ritratti dei sovrani ellenistici esposti in gran copia nella Villa dei Papiri accanto ai volti di filosofi e poeti, attraverso i quali il proprietario poté mirare quasi alla ricreazione di una corte dinastica e all’associazione con grandi personaggi carismatici del passato, modelli di riferimento per i protagonisti della vita pubblica e militare dell’ultima generazione della Repubblica. Di certo i ritratti greci vennero amati non tanto per le loro qualità artistiche quanto piuttosto per la fama dei personaggi: sintomatico il comportamento nel 56 a.C. di Catone Uticense in missione a Cipro per annettere l’isola a Roma e confiscare i beni di Tolomeo, in quanto si astenne dal vendere una sola statua, quella del fondatore della scuola stoica, Zenone, non perché sedotto dal bronzo o dall’arte, ma perché immagine di un filosofo (Plinio, XXXIV 92).

È inappurabile se l’ornamento del Tusculanum, come non escludibile, prevedesse repliche di celebri originali greci; ma si può stabilire a quali grandi scultori andasse la preferenza di Cicerone grazie a plurimi brani che instaurano delle analogie tra retorica e arti visive, sempre con la dovuta premessa: queste ultime sono mediocres, di ordine minore. Egli ama quindi il ristretto canone degli artisti del V secolo a.C., del calibro di Policleto e Fidia, scelta scontata perché la loro eccellenza fu comunemente riconosciuta nell’antichità: secondo una visione storico-artistica già tardo-ellenistica, di impostazione classicistica, le statue del primo, almeno a suo parere, risultavano iam plane perfecta perché perfezionarono un processo di progressivo avvicinamento alla veritas, avviato sin dall’inizio del V secolo a.C. (Brutus, 70; con tale brano si imparenta poi un più articolato passo di Quintiliano – XII 10, 7-9 – , che attinge alla medesima fonte greca); e il secondo viene elogiato in quanto nello scolpire lo Zeus di Olimpia o l’Atena del Partenone ebbe insita nella mente una perfetta immagine di bellezza in grado di indirizzare la sua mano nell’attuazione concreta (De oratore, II 8-9), evidente riflesso di un’altra teoria estetica, quella della phantasia, sottintendente una visione idealistica del processo creativo, stavolta non limitato alla mimesi della natura, ed elaborata forse già nel II-I secolo a.C. sulla base di spunti platonici, aristotelici o stoici.

Dinasta ellenistico (forse Eumene II di Pergamo). Busto, bronzo, II-I secolo a.C. dalla Villa dei Papiri, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Cicerone ha idee ancora più chiare nel campo della pittura, l’arte che più riesce a dilettarlo (ad familiares, VI 23, 3). I gusti sono tanti: poiché un criterio per un giudizio assoluto non v’è, qualcuno ama le pitture rozze e qualcuno quelle più nitide, vivaci e piene di luce (De oratore, XI 36); ma nel De oratore (III 25, 98) il protagonista, Crasso, rileva come le pitture nuove che appaiono più brillanti (floridiora) per pulchritudo e varietas dei colori, attirino sì al primo sguardo, ma senza saper dilettare a lungo, mentre si rivela forte l’attrazione del colore rozzo e antiquato delle tabulae antiche. In sostanza, nella pittura – e non solo – conviene il senso della misura (De oratore, XXII 73). Tra i pittori greci Cicerone loda i grandi nomi del V secolo a.C., Zeusi, Polignoto, Timante e le formae e i liniamenta di coloro che usarono un sistema tetracromatico (a quattro colori), mentre vede la piena maturità coincidente con la fase finale del IV secolo a.C. (Ezione, Nicomaco, Protogene, Apelle: Brutus, 70). Indubbio è che il suo Tusculanum, pur senza poter ostentare tabulae greche originali al pari delle ville “rivali”, poté almeno vantare una pittura romana di argomento storico immortalante uno dei suoi precedenti proprietari, Silla, in atto di ricevere la corona ossidionale da parte dell’esercito nella sua funzione di legato contro i Marsi, episodio occorso nel 149 a.C. (Plinio, XXII 12).

Chiunque sia solo un poco “umano” non può non conoscere l’eccellenza di Prassitele, asserisce Varrone in un brano riportato da Aulo Gellio in Noctes Atticae (XIII 17), il quale spiega come “umano” significhi qui l’essere dotato di una certa cultura e dottrina, consistenti anche nella conoscenza, dai libri e dalla storia, di chi fosse Prassitele, e come l’humanitas implichi un’educazione nelle arti liberali; e con l’humanitas di Varrone dovette armonizzarsi anche il possesso di un’opera in marmo Gli amorini alati in atto di giocare con una leonessa di uno scultore da lui tanto stimato e attivo nella prima metà del I secolo a.C., Arcesilao, familiaris probabilmente di M. Licinio Lucullo (Plinio, XXXVI 41). Chissà, forse anche questo tema “rococò”, il cui schema è rappresentato su tre quadretti musivi, di cui uno da Anzio del I secolo a.C., non sarebbe stato molto apprezzato da Cicerone, ma non era questo il punto; piuttosto era da stolti provare uno smodato piacere per statue, quadri, argenterie cesellate, vasi corinzi e magnifici palazzi. Così, nel figurarsi uno dei sedicenti principes civitatis come inebetito davanti a un quadro di Ezione o ad una statua di Policleto, egli afferma (Paradoxa stoicorum, V 2, 36-38): «anche senza porre la domanda di come e da dove ti sia procurato tali capolavori, quando ti vedo fermo a gridare lodi e ad ammirarli, ti considero un servo di tali quisquilie, amabili sì, ma riducibili a trastulli da ragazzi (oblectamenta puerorum)».

Ciononostante, egli stesso deve alla fine confessare di avere «occhi eruditi», perché nessuno ormai poteva più sfuggire al processo di acculturazione visiva prodotto dall’appropriazione e dalla diffusione delle opere greche: niente di male, a patto però di non farsene troppo abbindolare.

Fascino greco e “attualità” romana: la conquista di una nuova architettura

di A. D’Alessio, in AA.VV., I giorni di Roma. L’età della conquista, Ginevra-Milano 2010, pp. 49-62.

L’“età della conquista” – ovvero il progressivo allargamento del dominio di Roma su tutto il bacino del Mediterraneo fra la metà circa del III e il I secolo a.C. – rappresenta come noto una fase storica affatto “rivoluzionaria” anche nel campo dell’architettura antica. Nella fattispecie, un prolungato passaggio epocale denso di sperimentazioni e acquisizioni tecniche, ingegneristiche e ovviamente “tipologiche” e formali, che si riveleranno altamente formative per i progressi e i successivi sviluppi dell’architettura romana e i cui caratteri costitutivi resteranno a fondamento dell’”arte del costruire” presso l’intera civiltà occidentale (e non solo). Il formidabile intensificarsi, specie negli ultimi due secoli a.C., dei contatti e rapporti di osmosi culturale fra i Romani e le altre genti italiche da un lato e il mondo greco e orientale dall’altro, ebbe infatti a giocare un ruolo determinante nel processo di insorgenza della nuova architettura di età ellenistico-romana, laddove il termine “ellenismo” identifica un fenomeno tanto vasto e trasversale da riassumere perfettamente quel concetto di “mescolanza culturale” che sta alla base della celebre formulazione di Droysen, individuando probabilmente il primo anelito nella storia di “globalizzazione” antropologica.

Due milites antesignani contro la cavalleria achea (146 a.C.). Illustrazione di A. McBride.
Due milites antesignani contro la cavalleria achea (146 a.C.). Illustrazione di A. McBride.

In tal senso, se acculturazione può voler dire ricezione e accettazione da parte di una civiltà dominante (nel caso specifico quella di Roma) di temi, concetti e cosiddetti modelli culturali che emanano da una civiltà sottoposta a conquista (in altre parole, per quanto qui direttamente interessa, il fascino esercitato dalla Grecia e dal mondo greco-ellenistico nella sua accezione più ampia), ebbene ciò che ne consegue – e che certamente ne conseguì allora –, è graduale, seppur faticoso costituirsi di un pluralismo culturale che alimenta una sorta di “meta-livello” della coscienza e della riflessione culturale medesima, entro e a partire dal quale si assiste alla comparsa di una civiltà “nuova” e che può definirsi intensificata (Gehlen; Assmann). In altre parole, quando due o più gruppi etnici marcatamente diversificati (due o più ethnicities) vengono a scontrarsi/incontrarsi e a fondersi in strutture geo/etnopolitiche immensamente più grandi e complesse di quelle originarie, in seguito a conquiste, migrazioni o sovrapposizioni anche reciproche come quelle ingenerate dall’espansionismo romano, i processi integrativi e acculturativi che inevitabilmente ne derivavano fanno sì che la cultura dominante consegua una propria validità transetnica e s’intensifichi, appunto, in una civiltà di livello “superiore” – nel senso ovviamente di sintesi, storicamente indotta, di preesistenti condizioni date. D’altra parte, ovunque la nascita delle grandi civiltà del passato ha prodotto l’apparire di forme politiche, istituzionali, economiche e socio-culturali precedentemente inedite, cosicché anche le relative manifestazioni linguistico-letterarie, artistiche e dell’architettura vi concorrono alla caratterizzazione di un’accresciuta e più composita dimensione identitaria.

Acculturazione, tuttavia, può significare non soltanto, o non semplicemente, passaggio o scambio osmotico da una cultura all’altra, bensì anche uno «spogliarsi – dal punto di vista della civiltà dominante e d’arrivo di determinati stimoli e apporti – della natura selvaggia per rivestirsi di umanità» (Pfeiffer), in linea con quell’opposizione dei concetti di feritas e humanitas (cfr. Cicerone, De officiis, III 32; De oratore, I 33; De legibus, II 36) che proprio in età romana si afferma come superamento dell’antico contrasto tra grecità e barbarie, denotando qui peraltro una suggestiva assonanza con il celebre adagio oraziano del Graecia capta la quale ferum victorem cepit et artes intulit agresti Latio (Epistole, II 1, 156). Ciononostante, per quanto concerne le espressioni artistiche e soprattutto dell’architettura ellenistico-romana, il discorso è ben più ampio e articolato di quanto non traspaia da un’approssimativa lettura, «in un certo qual modo banalizzante rispetto al processo di ricezione della cultura greca» a Roma (La Rocca), del motto Graecia capta. E ciò – possiamo affermare oggi con certezza dopo le tante riflessioni al riguardo dell’ultimo cinquantennio – in più direzioni di analisi. Non fosse altro per il fatto che la chiara e decisiva presa di coscienza di sé e dell’uomo che la Grecia insegnò a Roma sin dall’età arcaica, di contro alla mitica instabilità (e feritas) dell’inconscio preistorico italico (da cui appunto il dispiegarsi dell’humanitas romana), servì poi a Roma al perseguimento di tendenze e risultati anche molto diversi e persino opposti a quelli greci, fino ad includere nella propria compagine stessa “barbarie” e tutto l’immenso mondo che la Grecia aveva invece sempre e volutamente alienato da sé.

Il cosiddetto «Sarcofago delle Amazzoni», (lato 2). Un guerriero greco soccombe sotto i colpi delle Amazzoni, da Tarquinia. 400-340 a.C. ca. Museo Archeologico Nazionale di Firenze.
Il cosiddetto «Sarcofago delle Amazzoni», (lato 2). Un guerriero greco soccombe sotto i colpi delle Amazzoni, da Tarquinia. 400-340 a.C. ca. Museo Archeologico Nazionale di Firenze.

D’altro canto, uno dei condizionamenti che ha più pesato negli studi di antichistica sul mondo romano-italico è stato pur quello di averne considerato troppo a lungo le manifestazioni artistiche e architettoniche del periodo in esame quali «semplici epifenomeni della cultura ellenistica» (Coarelli), visione questa profondamente radicata nella storiografia ottocentesca e dei primi del Novecento. Per contrasto, segnatamente nei decenni a cavallo del secondo conflitto mondiale, si è reagito apertamente a tale assunto, giustamente rivendicando un grado di autonomia del patrimonio e repertorio figurativo e monumentale italico nel panorama della produzione contemporanea, che è andato poi sempre più definendosi e comprendendosi con il prosieguo delle ricerche, ma finendo talora per sovvertire diametralmente quella visione ellenocentrica al punto da sostituirla con un non meno ambiguo e pericoloso esclusivismo autoctonista. Nella sintesi odierna, ovviamente, nessuno penserebbe che possano esistere un’arte e un’architettura romana senza le plurisecolari esperienze della civiltà greca (e di presenza di “modelli” ellenici in Italia, da quello urbano all’architettura templare e domestica, si può parlare già per le fasi che precedono e/o seguono la “colonizzazione” greca arcaica), ma al contempo, anche le troppo abusate categorie dell’influenza, dell’imitazione e dell’importazione sic et simpliciter di cosiddetti prototipi concettuali e formali a Roma e in Italia sembrano ormai destinate a scomparire dal vocabolario delle discipline storico-archeologiche. Ed è in questo senso che pure le tradizionali periodizzazioni in “età medio/tardo-repubblicana” ed “età ellenistica” possono venire in pratica a coincidere, così come le dizioni di “consuetudo italica ellenizzata” o di “ellenizzazione delle forme” invalse per gli studi, specialmente di architettura, ci sembra debbano essere compiutamente riassorbite in quella di “architettura ellenistica romana” e “italica” o, più estesamente, di “ellenismo italico” (come parimenti di “ellenismo greco”, “magnogreco”, “asiatico”, “punico” e così via), alludendo con ciò alle specificità o interpretazioni o declinazioni locali di un fenomeno come detto tanto grande e trasversale quale fu l’ellenismo – glocal si direbbe oggi.

La questione, rilevante e spinosa anche per quel che attiene alla produzione monumentale dell’epoca, continua a vertere dunque sulla necessità di comprendere al meglio natura, modalità e tempi di “contaminazione”, finanche reciproca, tra le architettura di Roma e delle città italiche e i supposti antecedenti o paralleli nel mondo greco (alessandrino, microasiatico e insulare in particolar modo), tematica questa che sta ricevendo oggi una rinnovata attenzione e che s’intreccia indissolubilmente con quella del ruolo di Roma e degli altri centri della penisola nel più ampio e variegato processo di trasmissione e ricezione, ma anche di scambio ed elaborazione “autonoma” dei portati ellenistici e, più in generale, della circolazione delle idee, delle genti e dei “modelli” culturali nel bacino del Mediterraneo fra III e I secolo a.C. Come ben riassunto da F. Coarelli, il problema centrale nello studio del fenomeno di «acculturazione in senso ellenistico» della società romana e italica (la cosiddetta “ellenizzazione” appunto), non è infatti tanto quello dell’inizio del rapporto acculturativo, che è come detto ben più antico, oppure il ravvisavi lo svolgersi di flussi prevalentemente unidirezionali, quanto di riconoscerne e decifrarne correttamente le modalità e i livelli di estrinsecazione proprio all’insegna di quella commistione, fusione e dunque “mescolanza culturale” tra entità diverse che caratterizza l’ellenismo nel suo divenire storico. E soprattutto si tratta di individuare e circoscrivere al meglio tempi, luoghi e stadi di sviluppo del processo acculturativo (dalle fasi di assimilazione più convulsa e impetuosa a quelle di conservativa resistenza e infine di selezione e sintesi degli apporti culturali allogeni nei diversi ambiti di applicazione, come di tenere nel debito conto le scelte e le motivazioni dei soggetti che ne furono artefici e destinatari (in quanto esponenti delle comunità umane che “danno” e di quelle che tali apporti “ricevono”); e ancora di valutare attentamente le circostanze storiche precipue entro cui il processo maturò e venne concretizzandosi (condizioni politico-istituzionali, socio-economiche e finanziarie, ideologiche, di progresso tecnologico, e così via), senza peraltro disconoscere che quella del mondo antico è in ogni caso una realtà composita e ricca di contraddizioni. È evidente infatti che né la grecità nella sua straordinaria articolazione, né la società romana e italica nel suo progressivo stratificarsi e trasformarsi, rappresentavano dei blocchi monolitici, il che ovviamente incise sulle stesse dinamiche e sugli esiti acculturativi, prima, durante e dopo il loro verificarsi.

Glycon di Atene, Ercole Farnese. Copia romana in marmo del III secolo d.C. da un originale greco. Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Glycon di Atene, Ercole Farnese. Copia romana in marmo del III secolo d.C. da un originale greco. Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

La cultura, d’altra parte, non opera mai solo ed esclusivamente a favore dell’integrazione e unificazione, agendo anzi anche nel senso della distinzione e ripartizione di quanti vi partecipano in strati e “classi”, sovente nei termini di una differenziazione etologica che contrappone schemi e modelli comportamentali dei ceti superiori a quelli della massa. Ed è in questa divaricazione che la cultura, tanto più quella (o quelle) dell’antichità classica, può e finisce per costituire un fenomeno appannaggio dei ceti dominanti, sebbene questi non la concepiscano in assoluto come elitaria e contrapposta ad una popolare (da cui ad esempio il superamento, negli studi sulla civiltà romana, del preteso bipolarismo tra cosiddetta arte “colta” e cosiddetta arte “popolare” o “plebea”), ma come cultura tout court che l’élite avoca a sé e gestisce in vece della massa anche nell’ottica di organizzarne il consenso, laddove i ceti subalterni ne sono resi partecipi in quanto vengono (e vivono) “tematizzati” da essa. Peraltro, l’apparato materiale e simbolico derivato a una civiltà intensificata come fu quella romana già in età ellenistico/repubblicana, non poté più assolvere soltanto ai bisogni e alle funzioni antropologiche “primarie”, bensì dovette precocemente assumere il compito supplementare di stabilizzare di volta in volta – pagando ciò anche a caro prezzo – istanze, rivendicazioni e intenti delle rispettive formazioni politiche, strutture di potere e dell’intero corpo sociale (“classi” dirigenti e fazioni in seno alla nobilitas, plebe e proletariato urbano e rurale, esercito, ecc.) e inoltre di integrare una moltitudine di componenti etniche e socio-culturali più o meno eterogenee (dai socii e poi municipia italici alle popolazioni provinciali; in generale su questi aspetti si rimanda ancora ad Assmann).

È chiaro pertanto come in una civiltà e cultura così intensificata (o intensificatesi), via via ampliata in senso interlocale e transetnico, che si struttura “in alto” e “in basso” e “in centro” e “periferia”, anche l’architettura partecipi attivamente della sua temperie storica, di modo che una panoramica ancorché rapida sulle principali testimonianze monumentali di Roma (e non solo) del II e I secolo a.C. […] non potrà non tener conto del fatto che la sola categoria dello spazio edificato, per quanto di fondamentale importanza ai fini cognitivi, non esaurisce di per sé l’esperienza e conoscenza dell’architettura. È opinione comune, infatti, che l’architettura – possiamo affermare in ogni tempo e luogo – si inserisca entro un sistema sociale e culturale di cui esprime e condivide essa stessa i valori, stabilendo e ridefinendo man mano il suo palinsesto di regole e indirizzi coerentemente con la struttura materiale e di pensiero nella quale si riconosce (Arredi), tanto che il giudizio critico espresso su un dato manufatto o complesso architettonico presuppone sempre che esso sia caratterizzato da una pluralità di aspetti, funzioni e significati che ne dilatano enormemente l’interpretazione storica.

M. Cecilio Metello. Denario, Roma 127 a.C. Ar. 3,81 gr. Rovescio: M(arcus) Metellus Q(uincti) f(ilius). Scudo macedone con testa di elefante iscritta nel centro, contornato da una corona d’alloro.
M. Cecilio Metello. Denario, Roma 127 a.C. Ar. 3,81 gr. Rovescio: M(arcus) Metellus Q(uincti) f(ilius). Scudo macedone con testa di elefante iscritta nel centro, contornato da una corona d’alloro.

Entrando dunque nel merito della materia con una simile prospettiva, non sarà arduo riconoscere, anche a un lettore non esperto, come i più considerevoli e recenti sull’architettura di Roma e delle città italiche in età ellenistico/repubblicana (a cominciare dai fondamentali lavori di P. Gross) abbiano dovuto necessariamente contemplare tutta una serie di precondizioni essenziali e di fattori condeterminanti per gli sviluppi della produzione monumentale dell’epoca, i quali possono essere sostanzialmente riassunti come segue.

Le conquiste militari e il conseguente assoggettamento politico-istituzionale a Roma degli sterminati territori d’oltremare sia a Occidente (Hispania e Gallia) che nelle regioni già ricadenti sotto i regni ellenistici di Grecia e d’Oriente tra l’ultimo quarto del III e la metà circa del II secolo a.C. (dalle Guerre macedoniche e siriaca alla presa di Corinto), e poi ancora da questa data fin verso la metà del secolo successivo con la susseguente costituzione delle province di Macedonia, di Achaia e d’Africa (147/6 a.C.), e quindi d’Asia (129 a.C.), di Cyrenaica e Creta (75/4 e 66 a.C.), di Bithynia e Pontus (74 e 63 a.C.) e di Syria (62 a.C.), determinano l’afflusso a Roma e in Italia di un’impressionante quantità di ricchezza. Questa profusione si esprime sia in termini di bottini di guerra a immediato appannaggio dei generali romani vittoriosi e dei loro eserciti (ove militano anche gli alleati italici), sia nel drenaggio di risorse e materie prime fino ad allora inaccessibili e/o semisconosciute (si pensi ad esempio alle ricchissime miniere d’oro e d’argento della Macedonia o ai grandi giacimenti di marmo della Grecia continentale, delle isole e d’Asia Minore, oltre che dell’Africa), sia ancora e specialmente nella forma di un incessante arrivo in Italia di schiavi, il quale verrà a fornire una disponibilità di forza-lavoro senza precedenti nel mondo antico e che inciderà peraltro a fondo, a partire dagli anni successivi alla guerra annibalica, nelle radicali trasformazioni dell’assetto economico, produttivo e sociale della penisola e nella connessa organizzazione territoriale e urbana. A tutto ciò si sommano e si collegano strettamente il regime di tassazione supplementare imposto da Roma alle popolazioni sottomesse, e anzitutto la straordinaria apertura dei traffici commerciali e dei mercati in tutto il bacino del Mediterraneo e nell’Egeo in particolar modo, lì dove si riversa una massa crescente di negotiatores e mercatores romani ed italici che hanno come noto a Delo, porto franco sin dal 167 a.C., la principale base operativa.

l. emilio paolo. denario, roma 146 a.c. r – trofeo con armi macedoni e prigionieri.
L. Emilio Lepido Paolo. Denario, Roma 62 a.C. Ar. 3,90 gr. Rovescio: Trofeo con armi macedoni e prigionieri. In exergo: Paullus.

Del controllo e della gestione di questo immenso surplus economico e finanziario si appropriano in massima parte, com’era del resto scontato, la “classe” dirigente e affaristico-imprenditoriale di Roma sotto forma di negotium privato e nello svolgimento delle funzioni di Stato (la nobilitas nella sua articolata composizione) e, quantunque in misura sensibilmente inferiore a quella, le aristocrazie e i ricchi possidenti e mercatores delle città alleate, il che condurrà a un’evidentissima ricaduta anche nel campo della produzione edilizia e monumentale dell’epoca: denaro e forza-lavoro “a costo-zero” (manodopera servile) rappresentano infatti i presupposti strutturali imprescindibili per l’insorgenza della nuova architettura ellenistico-romana. A contrappunto si pongono d’altro canto le imminenti necessità (alimentari e per così dire “di sede” e “di rappresentanza”) di una popolazione, quella di Roma in primis, che vede nel corso del II secolo e ancor più nel I un vertiginoso aumento demografico, di pari passo al processo di urbanizzazione che interessa tanto la capitale che i maggiori centri italici. Basti pensare a questo proposito al versamento nelle casse dell’erario effettuato nel 168 a.C. da L. Emilio Paolo, il vincitore di Perseo a Pidna, di ben trecento milioni di sesterzi prelevati dal bottino di guerra, a seguito del quale il popolo non fu più tenuto a pagare il tributum individuale per le spese belliche; oppure, per quanto concerne il finanziamento pubblico all’edilizia, alla somma accordata già ai censori del 179 a.C. per i cinque anni di carica quasi pari alle entrate dello Stato di un anno (Livio, XL 46, 16; 51, 2-7), mentre nel 169, quando l’introito complessivo era enormemente aumentato, i nuovi censori ne ebbero a disposizione circa la metà (Livio, XLIV 16, 9-11), in una crescita costante dell’allocazione di risorse nella relativa voce di spesa che prosegue per tutto il II secolo e agli inizi del successivo.

Statua romana detta ‘Atena Mattei’, copia romana da un originale di Cefisodoto del IV secolo a.C. in bronzo. Marmo, 230 cm, I secolo a.C. Musée du Louvre, Parigi.
Statua romana detta ‘Atena Mattei’, copia romana da un originale di Cefisodoto del IV secolo a.C. in bronzo. Marmo, 230 cm, I secolo a.C. Musée du Louvre, Parigi.

Tra i presupposti per così dire concettuali e formali (o sovrastrutturali) del fenomeno si deve invece annoverare, senza chiaramente sganciarne i riferimenti al quadro storico sopra indicato, la conoscenza sempre più vasta che i Romani e i socii italici vennero maturando del mondo altro di cui prendevano via via possesso. Una conoscenza che appare precocemente esprimersi nel senso della “ricezione”, o meglio della selezione, dell’assorbimento e della rielaborazione di un ampio ventaglio di temi e “modelli” comportamentali, intellettuali, estetici, stilistici e formali appunto – in una parola culturali –, i quali saranno di volta in volta prescelti e “funzionalmente” adattati alle particolari esigenze o rivendicazioni di quanti intesero fruirne (basti qui citare la figura di T. Quinzio Flaminino o il ruolo svolto dal circolo degli Scipioni agli esordi del II secolo e, successivamente, quello esercitato da altri personaggi colti e filelleni, seppur con diverse posizioni e sfumature di significato: da L. Emilio Paolo ancora a L. Mummio, da Scipione Emiliano a Q. Lutazio Catulo e a Pompeo, solo per ricordarne alcuni celebri). Non senza incorrere tuttavia in fasi di riflusso o di aperto contrasto e reazione anche violenta a un impatto della cultura ellenistica sulla società romana che taluni consideravano eversivo, in un bipolare e altalenante atteggiamento ravvisabile finanche in Catone (“italico” ed “ellenizzato” al tempo stesso), così come nell’“invenzione” dei prisci mores o nella costante riaffermazione del concetto di utilitas romano in contrapposizione alla luxuria asiatica.

Fra quei “modelli”, accanto alle maggiori correnti di pensiero (filosofiche e “scientifiche”) sorte in seno alla speculazione greca di età tardo-classica ed ellenistica, eppur guardate a Roma con notevole diffidenza, rientra come noto la ripresa e in un certo modo l’emulazione di comportamenti e schemi avvicinabili tanto alla manifestazione del potere presso le corti e nelle città dei regni ellenistici (la cultura asiatica in senso lato, di cui l’adeguamento del ritratto romano ai moduli dinastici dell’Oriente greco è solo un esempio), quanto e principalmente alle più alte espressioni culturali della vecchia Grecia, Atene in testa (la cultura neoattica), tutte componenti destinate a incidere marcatamente sull’immaginario e l’universo simbolico dei Romani. Così come l’assimilazione, concreta o virtuale, di uno straordinario patrimonio e repertorio sia letterario sia propriamente artistico (e dunque iconografico, stilistico e semantico), e ancora l’adozione, per quanto qui direttamente interessa, di “tipologie” e soluzioni architettoniche e urbanistiche cui si avrà modo di accennare in seguito, ma che possiamo subito dire concorrono, nell’originale interpretazione locale, allo stupefacente rinnovamento del volto di Roma e di tante città italiche.

Tutto ciò venne comunque a innestarsi su di un sostrato materiale e culturale squisitamente “autoctono”, cioè sopra una tradizione o struttura connettiva che sebbene avesse già attinto, come si è ricordato prima, a certe esperienze e conquiste della civiltà ellenica nei secoli precedenti (come pure dell’Etruria, del Lazio e della Magna Grecia), conservava in ogni caso intatte le proprie fondamenta di appartenenza e identità schiettamente romane: quelle cioè che consentivano al singolo – allora come sempre – di dire “noi”, in quanto tutto ciò che in ogni cultura lega gli individui al gruppo è appunto la struttura connettiva di un sentire, di un sapere e di un’immagine o rappresentazione di sé comuni.

Tempio di Vesta, a Roma.
Tempio di Vesta, a Roma.

Senza entrare nel merito di un discorso sì complesso, ma calandone piuttosto il senso nell’argomento in oggetto, basterà sottolineare ad esempio come nel campo dell’architettura sacra di Roma (e non solo), il tempio di tradizione etrusco-italica costituisse, e continuò praticamente sempre a costituire (almeno fino all’età alto-imperiale), la struttura formale privilegiata dell’edificio di culto. Nella sua rigida concezione di spazio “inaugurato” (templum), consacrato e organizzato in una pars antica occupata dal pronao e in una postica occupata dalla o dalle celle (con o senza alae), al cui interno alloggia la divinità (aedes), accessibile da un unico ingresso frontale e assiale e ancora elevato su alto podio (il tipico tempio prostilo), esso è infatti intimamente legato all’idea stessa che i Latini e altri popoli italici avevano dello spazio celeste, del mondo iperuranio e della sua proiezione in terra; e dunque alle attente prescrizioni in materia della normativa giuridico-religiosa e ai condizionamenti imposti dalle specifiche funzioni cultuali. Così, seppure non è da escludere che la medesima comparsa in area tirrenica del tempio italico in età tardo-arcaica derivasse dal contatto, pure di tipo acculturativo, con la Grecia – come dimostrerebbe il fatto che alcuni fra i più antichi edifici noti (tempio “B” di Pyrgi e tempio di Satricum nella sua seconda fase, entrambi con peristasi completa) paiono rappresentare una diretta filiazione del periptero greco (Coarelli) – , ebbene questa “assimilazione” assunse quasi subito o ben presto i caratteri della rielaborazione autonoma e dell’adattamento al sistema culturale locale, del tutto estraneo alla nozione di ambulatio intorno alla cella in quanto priva di fondamento rituale, tanto che già il tempio della triade capitolina a Roma (a meno che non fosse anch’esso un periptero, come è stato recentemente proposto da A. Sommella Mura) presentava sì colonnati lungo i fianchi, ma il lato posteriore chiuso, anticipando in tal modo l’altra categoria, pure tipicamente romana, del tempio peripteros sine postico che tanta fortuna avrà nei secoli a venire. E nel medesimo solco si pone anche l’elaborazione tra il II e il I secolo a.C., tramite l’applicazione di colonne incassate o semicolonne alle pareti della cella di un “normale” tempio prostilo, dello “pseudoperiptero” (si veda il tempio rettangolare sull’acropoli di Tivoli, il tempio sul Foro di Terracina, il tempio di Portuno nel Foro Boario a Roma), ulteriore soluzione localistica, composita e di “compromesso” con il periptero greco, ma di maggiore compiutezza e organicità formale rispetto al sine postico. Tutta latina è invece la creazione, ancora tra la metà del II e gli inizi del I secolo e dovuta a particolari vincoli di ordine spaziale e topografico nel contesto urbano, ma crediamo anche a motivazioni di natura cultuale di cui non si ha oggi percezione, del tempio “a cella trasversa”, cioè con il lato maggiore disposto trasversalmente al pronao, il quale assume di conseguenza l’aspetto di una sorta di vestibolo colonnato aggettante (tempio di Esculapio a Fregellae e di Diana a Nemi stando a Vitruvio, IV 8, 4, che allude tuttavia a un’improbabile derivazione del tipo dall’Eretteo e dall’Athenaion di Capo Sunio; templi tardo-repubblicani di Veiove sul Campidoglio, dei Castori in Circo, di Venere Vincitrice sul teatro di Pompeo, e ancora della Concordia al Foro Romano nella ricostruzione tiberiana).

Ricostruzione assiometrica del tempio di Concordia, Roma.
Ricostruzione assiometrica del tempio di Concordia, Roma.

Ora, questa persistenza e resistenza dei caratteri precipui dell’architettura sacra romana farà si che anche in età tardo-repubblicana il ricorso a planimetrie templari dichiaratamente greche o a esse allusive (indiscutibilmente nel tempio di Giove Statore nella porticus Metelli, nel tempio rotondo del Foro Boario, e si presume in quello di Marte in Circo nella seconda metà del II secolo; ipoteticamente invece in quelli più antichi di Venere Ericina del 181, di Hercules Musarum del 179 e della Fortuna Equestre del 173 a.C.; o ancora nelle formule “miste” del tempio dei Castori al Foro Romano del 117, dei templi “B” e “A” nell’area sacra di largo Argentina, di Iuno Sospita e di Spes al Foro Olitorio agli inizi del I secolo a.C., tutti su podio) stenti ad affermarsi con continuità, divenendo peraltro terreno di distinzione, contrapposizione e scontro in seno alla stessa nobilitas. Una resistenza e una contrapposizione che si estrinsecano parallelamente anche in altri requisiti degli edifici di culto, reciprocamente correlati e quasi mai scindibili dalle soluzioni planimetriche sopra indicate: dalle proporzioni date agli ordini (si veda il rapporto tra il diametro delle colonne e la larghezza degli intercolumni, sempre piuttosto ampia nella tradizione italica dei colonnati diastili o aerostili, a fronte delle più ristrette soluzioni sistile e picnostile in templi maggiormente aderenti ai modelli greci, o ancora il rapporto tra l’altezza delle colonne e degli architravi, generalmente più schiacciati rispetto ai “canoni” dello ionismo ellenistico ecc.), fino all’aspetto dei frontoni (che resteranno a lungo aperti e gremiti di fictiles deliciae) e specialmente nei materiali da costruzione, laddove il tufo in blocchi nelle strutture di fondazione e portanti (le trabeazioni in pietra entrano infatti in uso relativamente tardi, nel corso del II secolo), il legno nei sostegni e nella carpenteria, lo stucco e la terracotta nelle finiture architettoniche e decorazioni figurate determinavano la resa strutturale e materica consueta dell’architettura templare italica. Di contro, l’impiego del marmo “greco”, volutamente indice e sinonimo anch’esso di conquista e appropriazione (preda bellica) delle altrui risorse (si pensi alle tegole marmoree trafugate da Q. Fulvio Flacco dal tempio di Era Lacinia presso Crotone per la copertura del citato tempio della Fortuna Equestre, prima attestazione dell’uso del materiale a Roma), non sarà tuttavia mai preponderante prima dell’età imperiale – se è vero che Augusto potrà enfaticamente vantarsi di aver trovato una città fatta di mattoni e di averla lasciata, lui sì, di marmo.

Tempio di Ercole nel Foro Boario, a Roma.
Tempio di Ercole nel Foro Boario, a Roma.

Ovviamente, in questa notevole viscosità evolutiva dell’edilizia sacra (e non solo) di Roma pensavano anche e non poco la formazione e le attitudini dei progettisti e specie delle maestranze locali, inizialmente incapaci o comunque poco inclini a recepire forme e principi dell’architettura greca. Ma la straordinaria apertura di orizzonti nella mens romana, con le susseguenti scelte operate dai diversi committenti e l’afflusso sempre più massiccio di artigiani e maestranze d’origine greca dalla metà del II secolo in poi, favorirono una lenta ed inesorabile trasformazione delle decorazioni e dei partiti architettonici in senso ellenistico, come è dato osservare nell’introduzione dell’ordine corinzio e nella sua interpretazione corinzio-italica di ascendenza siceliota e magno-greca, nonostante gli esiti morfologici e stilistici che ne derivavano fossero ancora molto condizionati dall’uso delle pietre locali quali il tufo o il travertino.

L’utilizzo ricorrente e privilegiato dei materiali da costruzione “tradizionali” e il savoir-faire consolidato dei costruttori romani e italici – la cosiddetta consuetudo italica –, consentono di accennare d’altro canto a quella che fu in quest’epoca la vera “rivoluzione” tecnologica e concettuale dell’architettura romana, tale da fornire i presupposti teorici e spaziali al suo strabiliante sviluppo sia nel campo dell’edilizia monumentale pubblica che in quella privata (domus, villae, monumenti funerari, ecc.). Ci si riferisce chiaramente all’“invenzione”, maturata fra il tardo III e il II secolo a.C., del calcestruzzo (opus caementicium) e, più in particolare, alla sua diretta applicazione al sistema spingente (arco e volta) il quale si afferma parallelamente in tutto il suo potenziale tettonico; ovvero alle premesse tecniche, ingegneristiche (di “scienza delle costruzioni” diremmo) e quindi progettuali, di un balzo di progresso che riveste in generale nella storia dell’architettura un’importanza di proporzioni paragonabili solo a quelle del cemento armato o all’impiego dei materiali “di nuova generazione” in età moderna e contemporanea. Né si potrà ignorare come tali acquisizioni abbiano trovato origine e siano incorse in un prolifico impulso e grado di perfettibilità non solo (e anzi inizialmente nemmeno tanto) a Roma e nelle aree immediatamente circostanti, quanto nelle città e nei territori compresi tra il Lazio centro-meridionale e la Campania, dalla dorsale appenninica alla fascia costiera, lì dove un’inveterata sapienza costruttiva si coniugava perfettamente all’ampia disponibilità delle materie prime indispensabili alla preparazione della malta idraulica, quali il pulvis puteolanus (pozzolana dalla zona flegrea) e il calcare per la fabbricazione della calce (ad esempio i saxa calci coquendae aptissima di Terracina di cui si ha notizia in Pomponio Porfirione, Commentarii ai Sermoni di Orazio, I 5, 26), o ancora il tufo e di nuovo il calcare per ricavare i caementa (inerti). Dal che pure si evince il ruolo assolutamente centrale che queste aree geografiche, non di rado collegate ai più potenti gruppi dirigenti e imprenditoriali di Roma, ebbero a svolgere non solamente in ordine al contributo di ferro e sangue versato alla causa dell’espansionismo, ma nel processo stesso di rinnovamento della cultura artistica e dell’architettura del tempo, grazie appunto alla sperimentazione e all’affinamento delle nuove potenzialità tecniche ed espressive date dal calcestruzzo e dalla volta (quali consentiranno ad esempio la realizzazione dei celebri santuari terrazzati e sostruiti italici, con perfetto equilibrio tra le esigenze e categorie di spazio, funzione e integrazione paesaggistica), come all’adozione di “tipi” monumentali o di specifici elementi compositivi mutuati dai diversi ambiti del mondo greco-ellenistico (teatri, odeía, portici e quadriportici, peristili, macella, ecc.), accanto all’autonoma ideazione di edifici come gli anfiteatri o le terme (per le basiliche il discorso è più complesso) di cui pure si dotano, tra la metà circa del II e il I secolo a.C., le ricche città del Lazio e particolarmente della Campania come Capua, Pompei, Ercolano, Paestum, ecc.

Antefissa in terracotta policroma. Testa di Juno Sospita. 500 a.C. ca. Altes Museum di Berlino.
Antefissa in terracotta policroma. Testa di Juno Sospita. 500 a.C. ca. Altes Museum di Berlino.

Vi è tuttavia di più. L’“invenzione” dell’opera cementizia, e il suo utilizzo sempre più diffuso a partire dai decenni centrali del II secolo nelle strutture di fondazione, di elevato e in specie di copertura delle nuove costruzioni romane ed italiche, dovette altresì innescare una concatenazione di effetti la cui straordinaria portata non tarderà a palesarsi. Da un lato le formidabili possibilità offerte dalla nuova tecnica dei caementa in termini di semplificazione, replicabilità e celerità struttiva, ben sostenute altresì dal volano del modo di produzione schiavistico, inducono una vertiginosa contrazione dei tempi di realizzazione delle opere (si pensi qui solo alla relativa rapidità con cui furono portate a compimento l’integrale ristrutturazione del santuario della Magna Mater a Roma tra il 106 e il 100,  l’edificazione del Tabularium tra gli anni ottanta e settanta del I secolo, la costruzione del teatro e del quadriportico di Pompeo dal 61 al 55 a.C., o ancora alla realizzazione dei grandi santuari della Fortuna Primigenia a Palestrina, del Monte Sant’Angelo a Terracina e di Ercole Vincitore a Tivoli tra l’ultimo quarto del II e il I secolo a.C.). Contestualmente, si assiste a una progressiva “standardizzazione” del lavoro in ogni sua fase (dal reperimento alla trasformazione dei materiali da costruzione, dall’organizzazione dei cantieri al collaudo delle opere) che si ripercuote tanto nella moltiplicazione ed “economicità” di esecuzione delle imprese edilizie, quanto nell’affinamento e nello sviluppo di ulteriori procedimenti e tecniche di cui il “passaggio” dall’opera incerta all’opera reticolata nella finitura dei paramenti a fine II-inizi I secolo rappresenta forse l’aggiornamento più significativo.

E d’altra parte – esito questo sì assolutamente rivoluzionario – la capacità ora acquisita grazie all’impiego e all’associazione del calcestruzzo ai sistemi voltati per le coperture e/o il sostegno (sostruzione cava) degli edifici, di estendere, dilatare, plasmare, in poche parole di organizzare lo spazio architettonico, di appropriarsene a tutti gli effetti realizzandolo e funzionalizzandolo come mai era stato possibile prima di allora, individua il vero presupposto fondante per il costituirsi di un linguaggio architettonico inedito e che segna uno scarto decisivo rispetto alle pur imprescindibili conquiste dell’architettura greca. Anzi è la nuova architettura che si fa carico ora di amplificare e portare semmai alle estreme conseguenze quanto era in quella in nuce. L’adozione di schemi costruttivi non rettilinei, quali erano invece propri della Grecia classica ed ellenistica, ma appunto curvilinei (pur quando dissimulati dal sistema trilitico degli ordini), rivela infatti un primum, un senso della forma, che consente di mettere in valore la tecnica stessa del cementizio e identifica in sostanza la peculiare volontà romana di espressione e totalità spaziale. Ed è questa che denota il significato propriamente architettonico delle costruzioni romane, laddove l’accento è posto ora non sull’elemento, alla maniera greca (uso di grandi blocchi autoreggentisi, nelle murature come negli ordini), bensì sul legamento e nesso sintattico tra le parti, cioè su un’unità complessiva della fabbrica che soggiace ai concetti stessi vitruviani di firmitas e utilitas, come a quelli di venustas e concinnitas (bellezza ed eleganza) in quanto rispondenti a un principio estetico di symmetria che interessa «la reciproca relazione tra le membra e la consonanza tra le parti e il tutto» (Panofsky).

Ricostruzione del santuario di Satricum alla fine del VI secolo a.C.
Ricostruzione del santuario di Satricum alla fine del VI secolo a.C.

Di qui non stupisce dunque come il progresso tecnologico rappresentato dall’opus caementicium e dalla volta abbia rapidamente influito sulla moltiplicazione e sui requisiti medesimi delle opere monumentali e delle infrastrutture che già dai decenni iniziali del II secolo vanno popolando Roma e gli altri centri italici, in termini di celerità di costruzione come detto, ma anche di solidità, funzionalità e ancora di accrescimento del valore qualitativo dello scenario urbano. Le esigenze dettate dal forte incremento demografico (in primis alimentari e dunque annonarie) e l’opportunità di conferire all’Urbe un aspetto maggiormente consono al nuovo status di città-capitale ellenistica, determinano così un incremento notevolissimo della produzione edilizia in ogni suo ambito. Non soltanto l’architettura templare ne è investita (nonostante una scarsa permeabilità ai cambiamenti, come visto, che non impedisce tuttavia che almeno i podi, le strutture di sostegno e altri annessi dei templi vengano ora realizzati in calcestruzzo), ma specialmente quella civile e delle infrastrutture quali gli impianti portuali e i ponti, gli acquedotti (aqua Marcia del 144-142 e aqua Tepula del 125), gli horrea e magazzini (horrea Galbana della fine del II e Lolliana della metà circa del I secolo) ecc., in un exploit del fenomeno che coinvolge anche la sistemazione delle reti stradali e viarie (viadotti, viae tectae e fornices-ambulacri) e che ha forse in quest’epoca, prima ancora che nel Tabularium, la più tangibile testimonianza nel grande edificio in opera cementizia e incerta del Testaccio, immensa costruzione di 487×60 metri (pari a una superficie di quasi 30.000 m2) costituita da una lunghissima schiera composta da cinquanta file di vani paralleli voltati a botte e disposti su quattro livelli decrescenti in direzione del Tevere: già identificati con la porticus Aemilia del 174 a.C., i suoi resti sono da attribuire invece a un impianto utilitario della (seconda) metà del II secolo o poco oltre (forse i Navalia?).

Ricostruzione grafica del Santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina, II secolo a.C.
Ricostruzione grafica del Santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina, II secolo a.C.

Fuori Roma la tecnica dei caementa e il connesso impiego della sostruzione cava producono del resto esiti forse ancor più monumentali, quali si ravvisano di nuovo nell’allestimento dei grandi complessi santuariali e civici del Lazio, della Campania o del Sannio, in linea con il processo di rinnovamento edilizio e urbano che interessa tanti centri nei decenni precedenti e successivi alla guerra sociale e che prende frequentemente le mosse proprio dalla rivisitazione della sfera del sacro: santuari della Fortuna Primigenia a Palestrina, di Ercole Vincitore a Tivoli, di Diana a Nemi, di Iuno Sospita a Lanuvio, del Monte Sant’Angelo a Terracina, di Apollo ad clivum Fundanum, di Venere a Pompei, di Ercole Curino a Sulmona ecc.; e ancora, avancorpo e cosiddetto Mercato dell’acropoli di Ferentino, sostruzioni forensi, periforensi o genericamente urbane ad Anagni, a Cori, di nuovo a Palestrina, a Tivoli e a Terracina, a Segni, a Sezze, a Sessa Aurunca, a Teano, a Pozzuoli e a Pompei, solo per citare i casi più noti. Lo stesso può dirsi per la costruzione, sempre in questo periodo, degli edifici per spettacolo come gli anfiteatri (a Capua, Cales, Cuma, Literno, Pozzuoli, Pompei, Telesia), gli odeía (a Pompei) e i teatri (a Teano, Pompei, Capua, Cales, ecc.), quando invece a Roma, a causa delle forti resistenze “moralistiche” del Senato e di una nobilitas forse preoccupata dal possibile insorgere di sedizioni popolari in questi luoghi, le rappresentazioni sceniche, che fossero connesse alla celebrazione dei culti come nel caso dei ludi Megalenses per la Magna Mater, o direttamente ascrivibili alla drammaturgia di Plauto, Terenzio o Pacuvio, continuarono per molto tempo a svolgersi in strutture provvisorie in legno. Tanto che si dovrà attendere l’edificazione di quello di Pompeo in Campo Marzio, con il millantato escamotage della cavea che fungeva da gradinata al tempio di Venere Vincitrice posto alla sommità, per ammirare il primo teatro stabile dell’Urbe: primo (e unico) esempio di complesso teatro-tempio sul genere di quelli allestiti nei santuari di Gabii, Palestrina, Tivoli, Pietrabbondante o Teano, a ulteriore dimostrazione della reinterpretazione italica degli apparati ellenistici (si vedano al riguardo i noti casi di Stratonicea e Delo). In termini generali, il pattern teatro-tempio costituisce infatti una significativa commistione di presupposti formali e funzionali squisitamente autoctoni, quali si osservano ad esempio nelle strutture comiziali di Roma e di altri centri della penisola (Cosa, Paestum), con altri di più chiara derivazione greco-orientale, finendo per dar vita a una sorta di pietrificazione degli originari luoghi di culto e incontro delle comunità italiche attorno all’area sacra (spazio effatum e consacrato).

Tempio 'B' identificato con l'Aedes Fortunae Huiusce Diei, dedicato da Q. Lutazio Catulo nel 101 a.C. per la sua vittoria contro i Cimbri ai Campi Raudii (Vercelli). Largo di Torre Argentina, Roma.
Tempio ‘B’ identificato con l’Aedes Fortunae Huiusce Diei, dedicato da Q. Lutazio Catulo nel 101 a.C. per la sua vittoria contro i Cimbri ai Campi Raudii (Vercelli). Largo di Torre Argentina, Roma.

Un ultimo tassello resta da aggiungere al discorso, forse il più eloquente fra i fattori congiunturali e condeterminanti l’insorgere della nuova architettura ellenistico/romano-italica, e che in un certo senso li attraversa e riassume tutti storicizzandoli. Quanto si è fin qui evidenziato non sarebbe infatti compiutamente decifrabile se non si focalizzasse ancora l’attenzione sull’identità e la funzione esercitata dalle committenze nella produzione artistica e monumentale dell’epoca – a cominciare certamente da quelle di Roma nel loro veicolare interessi e rivendicazioni di blocco socio-economico e di potere. Edili, censori, pontefici, consoli, viri triumphales e quanti si trovavano in qualche misura a svolgere un compito decisionale in materia di edilizia pubblica, altri non erano che gli esponenti di una “classe” politica e dirigente del tutto incardinata nella struttura gentilizia della società romana, quella stessa nobilitas cioè (patrizia e poi anche plebea) che manteneva il controllo e l’indirizzo della res publica in Senato e tramite l’assunzione delle diverse cariche magistratuali e religiose. Conseguentemente, l’architettura nella Roma del tempo quale si esprimeva nelle forme del voto, della costruzione o ricostruzione e della dedica degli edifici (specialmente di culto) o di interi complessi monumentali, nell’allestimento delle infrastrutture di pubblica utilità, fino all’attuazione di programmi edilizi e urbani di ampio respiro, offriva alle élite dominanti uno straordinario terreno e strumento di autoaffermazione, catalizzando in sé temi e contenuti dello scontro tra factiones e favorendo la costruzione del consenso presso una popolazione enormemente cresciuta, come già detto, e percorsa da tensioni sociali che si faranno sempre più forti durante il I secolo. Attraverso l’architettura, singoli personaggi e gruppi di potere celebravano così la loro stirpe attualizzandone il passato glorioso (il potere, da sempre, si legittima retrospettivamente) ed esaltavano le loro gesta eternandone il ricordo (il potere si immortala prospettivamente), si narravano nello spazio e nel tempo e rivendicavano in definitiva un protagonismo sulla scena politica, culturale e della storia di Roma.

Resti del colonnato del Tempio di Spes, incastonati nella parete esterna della Basilica di San Nicola in Carcere, Roma.
Resti del colonnato del Tempio di Spes, incastonati nella parete esterna della Basilica di San Nicola in Carcere, Roma.

Una storia che nella prima metà del II secolo è largamente dominata dalla stella dei Cornelii Scipiones in un primo breve momento, e poi soprattutto da quella degli Aemilii, che con gli Scipiones finiranno del resto con l’imparentarsi. Dopo la presa di Siracusa nel 212 a.C. da parte di M. Claudio Marcello e la caduta di Taranto nel 209 per mano di Q. Fabio Massimo, eventi cui seguì un immediato e cospicuo afflusso a Roma di opere d’arte e altre “meraviglie” greche (tanto che Catone, strenuo difensore dei costumi aviti, poteva imputarne l’inizio della decadenza proprio alla conquista della città siceliota), toccò a personaggi, quali T. Quinzio Flaminino, M. Cecilio Metello, Scipione Africano appunto e altri, di farsi interpreti di un atteggiamento filellenico i cui riflessi non tarderanno a manifestarsi anche in architettura. Conclusa la guerra annibalica e inaugurata a tutti gli effetti la stagione di conquista del Mediterraneo orientale (una chiara eco se ne ha nell’accoglienza, in un’ottica di rivendicazione delle origini troiane di Roma, del culto della Magna Mater con la costruzione del tempio sul Palatino tra il 204 e il 191), la città si trova peraltro nell’impellente necessità di dotarsi di spazi e strutture oltre che di apparati monumentali e del decoro appropriati a una nuova veste imperialista. A tutto ciò pongono mano in rapida successione quanti si avvicendano nell’assunzione delle cariche dell’edilità e della censura, fra i quali gli Aemilii e i gruppi gentilizi a essi collegati, o finanche “antagonisti” come Catone o i Fulvii, rivestono una posizione di assoluto rilievo.

A partire dall’insignis aedilitas di M. Emilio Lepido e L. Emilio Paolo nel 193 a.C. prende così avvio una programmatica attività di potenziamento infrastrutturale e di radicale trasformazione della città e del gusto architettonico che si materializza in una serie di interventi di portata senza precedenti nell’Urbe, in una «progettualità globale che incide in modo profondo su tutte le forme, antiche o nuove, dell’architettura pubblica del tempo: templare […], forense […], annonaria e commerciale» (Zevi). È la Roma dei «resplendent Aemilii» (Syme, Wiseman), ma in cui trovano posto anche le notevoli imprese di altri illustri rappresentanti e interpreti dell’ideologia senatoria: dalle susseguenti sistemazioni dell’area capitolina (dove il fastigio del tempio di Giove fu decorato con dodici scudi dorati dagli stessi edili del 193 e ulteriormente abbellito poi da quadrighe, mentre nel 179 il censore Emilio Lepido procedette sia al restauro delle sue colonne e pareti che alla rimozione della zona circostante delle statue onorarie che l’affollavano, evidentemente con l’intento di trasformarla in luogo di glorificazione del suo lignaggio e di quelli alleati), all’avvio e prosecuzione degli imponenti lavori all’Emporio e al portus Tiberinus (in diretto collegamento con la creazione del porto di Pozzuoli) tra il 193, il 179 e la metà circa del secolo (cordonate di accesso al fiume, porticus extra portam Trigeminam, grande edificio in opera incerta del Testaccio e portici a porta Fontinali ad Martis aram, post Navalia et ad fanum Herculis e post Spei ad Tiberim); e ancora, dalla costruzione del tempio dei Lares Permarini in campo (votato nel 190 da L. Emilio Regillo, praetor navalis vincitore a Myonnesos durante la guerra contro Antioco III di Siria, e dedicato nel 179 dallo stesso Emilio Lepido insieme a quelli di Diana e di Giunone Regina, in una triplice esaltazione delle imprese della gens), all’allestimento della basilica forense sul lato nord-est della piazza da parte di M. Fulvio Nobiliore sempre nel 179 (la basilica Fulvia appunto, detta poi anch’essa Aemilia), mentre è possibile che Lepido o più tardi L. Emilio Paolo (nel 164) ne impiantasse un’altra sul lato sud-est, parallelamente ai lavori condotti al lacus Curtius e al lacus Iuturnae con la dedica del gruppo dei Dioscuri. Si trattava sicuramente di un edificio più grande e sontuoso della basilica Porcia, la prima costruita a Roma da M. Porcio Catone presso la Curia (dal 184) e che traeva già il nome e la funzione dalle attività giudiziarie e finanziarie precedentemente svolte negli atria posti lungo il Foro, e più in particolare dall’atrium Regium arcaico, mentre la forma (il tipo edilizio) derivava da una rielaborazione romana di modelli ellenistico-alessandrini. Appena dieci anni più tardi, inoltre, nel 169, una terza basilica (la Sempronia, poi sostituita dalla Iulia) fu costruita sul lato sud-ovest della piazza da Ti. Sempronio Gracco, padre di Tiberio e Gaio, sul sito della casa del suocero Scipione Africano. E ancora agli Aemilii può ascriversi la ricostruzione in pietra del pons Aemilius nel 142 a cura di P. Cornelio Scipione Emiliano, il quale avrebbe offerto anche un tempio a Hercules Victor al Foro Boario, votato forse durante l’assedio di Cartagine nel 147, e uno di Virtus dopo la conquista di Numanzia del 133, mentre il suo collega alla censura, il grande L. Mummio, si dedicava alla doratura dei soffitti del tempio di Giove.

tempio di portuno, foro boario, roma.
Tempio di Portuno, Foro Boario, Roma.

Il ruolo importantissimo giocato dagli Aemilii, accanto ai Fulvii, ai Metelli e a quanti altri (ad esempio Cornelio Cetego, Lucio Sternino o Acilio Glabrione) detengono il primato politico in quest’epoca, nel processo di trasformazione della città è insomma del tutto evidente. Erano pur sempre questi personaggi, d’altra parte, singole figure e/o interi lignaggi di più o meno antica tradizione come visto, a poter contare su una disponibilità fondiaria e finanziaria tale che si rivelava non solo nella proprietà dei terreni su cui sovente edificavano, ma anche nel possesso e nell’organizzazione delle cave estrattive di materiali da costruzione, del loro trasporto e smistamento, e specie nel controllo di vere e proprie squadre di redemptores operis, progettisti e maestranze che agivano al loro servizio, ovunque operando con il loro bagaglio di conoscenze e competenze tecniche.

Un bagaglio che risulterà via via più consistente e qualitativo di pari passo allo svolgersi delle campagne militari in Oriente, quando con i generali romani vittoriosi (imperatores e triumphatores) arriveranno a Roma non solo le enormi quantità di ricchezza derivate dai bottini di guerra e ampiamente reinvestite nell’ambito dell’edilizia (manubiae), ma anche un buon novero di intellettuali (si pensi a Polibio), di artisti e di artigiani (si veda Policle e la sua bottega) e di architetti greci: le cosiddette «premières générations d’architects hellénistiques à Rome». Fra questi ultimi, l’unico di cui ci sia stato tramandato il ricordo (da Cicerone e da Vitruvio) è certamente quell’Ermodoro di Salamina, cipriota già formatosi all’insegna delle innovative esperienze dell’architettura ionico-asiatica compiute da Ermogene di Alabanda a Magnesia (Artemision) e a Teos (tempio di Dioniso), giunto a Roma al seguito di Q. Cecilio Metello Macedonico e responsabile, a partire dalla metà del II secolo, della realizzazione della porticus Metelli appunto (146-143 a.C.) con il tempio di Giove Statore (un periptero o periptero sine postico di 6×11 colonne, il primo a Roma interamente in marmo), del tempio di Marte in Circo dedicato da D. Giunio Bruto Callaico nel 131 (pure in marmo pentelico, ionico e presumibilmente periptero di 6×9 colonne su crepidoma), e forse ancora dei Navalia (arsenale militare sul Tevere) e del tempio rotondo al Foro Boario (thólos su crepidine a venti colonne corinzie di marmo pentelico con basi attiche). È una svolta: si tratta infatti di edifici direttamente ispirati alle più aggiornate tendenze dell’epoca, tanto nell’adozione di “tipologie” planimetriche inedite nell’architettura templare di Roma, quanto nella relativa organizzazione formale e spaziale (si consideri che nel tempio di Giove Statore l’ampiezza degli intercolumni sui fianchi era secondo Vitruvio pari alla loro distanza dalla cella, in linea con le soluzioni elaborate da Ermogene), e i quali contribuiscono a far dell’Urbe in questo periodo (quello del revixit ars pliniano) «il più importante centro creativo dello ionismo ellenistico» (Gros). Edifici, inoltre, di aspetto e resa materica mai visti a Roma prima di allora e che rispecchiano la personalità e il gusto di committenti interessati a nuove e più incisive modalità di propaganda della loro immagine.

ricostruzione planimetrica della porticus metelli, con i templi di giove statore e di giunone regina (di pierre gros).
Ricostruzione planimetrica della Porticus Metelli, con i templi di Giove Statore e di Giunone Regina (di Pierre Gros).

La porticus Metelli ad esempio, nella sua rigida impostazione di spazio chiuso e recinto dall’enorme quadriportico a due navate (sorta di témenos), al centro del quale svettavano il magnifico tempio di Giove accanto a quello preesistente (del 179) e ora rifatto di Giunone Regina, oltre a costituire uno dei primi allestimenti del genere a Roma (dopo l’illustre precedente della porticus Octavia), offriva al contempo al Macedonico l’opportunità di procedere a un’immediata esposizione di opere d’arte e altre prede belliche (fra cui come noto la celebre turma lisippea raffigurante Alessandro Magno e i suoi compagni caduti al Granico), sul modello delle analoghe sistemazioni monumentali di ambiente ionico-asiatico (si veda ad esempio quella di Athena Nikephoros a Pergamo) e in funzione prettamente autocelebrativa e di propaganda elettorale, quella stessa che doveva portarlo al conseguimento del consolato nel 143. E fu forse questa impazienza di mostrare al pubblico i migliori pezzi del bottino della Macedonia a far sì che il portico venisse realizzato in peperino stuccato anziché in marmo come il tempio di Giove Statore, la costruzione del quale richiese infatti ancora alcuni anni (l’edificio fu dedicato solo nel 131, anno della censura di Metello). Il contrasto che ne risultò, se per un Greco poteva apparire oltremodo incongruo e inaccettabile, illustra in ogni caso bene la dimensione sincretistica, “ibrida” e di libera interpretazione, si può dire, che inizia a caratterizzare l’architettura romana. Un sincretismo e una commistione che si osservano anche in altri aspetti e dettagli degli edifici innalzati nell’area, ancora relativamente libera, del Campo Marzio meridionale (Circo Flaminio), lì dove il percorso seguito dai trionfi veniva ad essere ora scenograficamente scandito dalla presenza dei nuovi apparati monumentali: è infatti questo il momento in cui compaiono modi di realizzazione e trattamento degli ordini e delle decorazioni architettoniche diversi rispetto a quanto precedentemente in uso. In tal senso, la porticus Octavia qui allestita tra il 167 e il 165 a.C. dal praetor navalis e poi console Gn. Ottavio, personaggio di cultura profondamente ellenizzata, per celebrare la sua vittoria su Perseo di Macedonia, aveva aperto la strada: duplex e Corinthia a detta di Plinio (Naturalis Historia, XXXIV 13), quasi un sinonimo di luxuria, essa era dotata di capitelli rivestiti in bronzo e corinzi, forse già del tipo “normale”, con ogni probabilità prodotti in Grecia e trasportati a Roma. Questa prima apparizione dell’ordine, sebbene stenti a dar subito luogo a una prolifica continuità d’impiego, troverà in ogni caso conferma nel successivo tempio rotondo del Foro Boario (ultimo quarto del II secolo), che documenta il primo esempio conservato a Roma di uso di capitelli corinzi in marmo, pure questi d’importazione, di tipo appunto “normale” e la cui ortodossia di ispirazione orientale ben si coglie nelle proporzioni del calato molto slanciato e nelle foglie d’acanto rigogliose e morbide al tempo stesso, con nervature scanalate e lobi profondamente incavati. Qui inoltre, dov’è riconoscibile anche il lavoro di maestranze locali, ricorre forse la più antica attestazione di basi attiche, mentre nel tempio sotto San Salvatore in Campo, quello cioè di Marte in Circo, si osserva la presenza di basi lesbie (cosiddette Wulstbasen) che rappresentano un autentico unicum a Roma.

porticus aemilia, testaccio (roma).
Resti della Porticus Aemilia, sul Testaccio a Roma.

Siamo insomma di fronte a costruzioni dai tratti fortemente distintivi e innovativi, in certo qual modo “dirompenti” rispetto ai “canoni” della tradizione italica, e che seppur non produssero un’immediata e solida eredità formale (peripteri saranno comunque il tempio ionico di Iuno Sospita e quello dorico di Spes al Foro Olitorio dopo il rifacimento del 90 a.C., mentre quello adiacente e pure ionico di Giano assumerà l’aspetto del sine postico), lasciarono in ogni caso una profonda traccia sull’immaginario e il gusto dei Romani. Nonostante la “reazione” di stampo oligarchico e conservatore che ne seguì, particolarmente acuta negli anni successivi alla crisi graccana e riscontrabile a vari livelli della società romana (per quanto concerne la produzione monumentale si ricorda tra gli altri il nuovo tempio della Concordia eretto ai piedi del Campidoglio da L. Opimio nel 121 a.C., insieme alla costruzione di una nuova basilica nel Foro, tempio probabilmente prostilo, su alto podio e caratterizzato dal ricorso ai materiali “tradizionali” quali il tufo stuccato, il legno e la terracotta), l’attività di Ermodoro e delle maestranze greche che avevano operato a Roma avrebbe infatti lasciato il segno. Ovviamente non nell’ordine di una drastica cesura rispetto ai dettami della tradizione stessa – che come già detto era fisiologicamente incompatibile in quest’epoca –, quanto in termini di conoscenza e sperimentazione delle proposte e “tipologie” architettoniche di matrice greco-orientale e nel relativo innesto sui caratteri e nel repertorio della consuetudo romano-italica, con risultanze ibride ed eclettiche in grado poi di riemergere a seconda dei tempi e delle circostanze storiche precipue entro cui si troveranno ad agire i committenti. Fra questi, sono ancora i Cecilii Metelli e i loro alleati a tenere la scena tra la fine del II e gli inizi del I secolo, con un atteggiamento certo prudente, ma che non poteva ormai prescindere del tutto da quanto saggiato nei decenni precedenti: con la ricostruzione del tempio dei Castori al Foro da parte di Metello Dalmatico nel 117 a.C. ad esempio, edificio ottastilo e probabilmente periptero sine postico; con i contestuali interventi al lacus Iuturnae (dove è attestato il primo pioneristico impiego dell’opera reticolata); e ancora con il rifacimento del santuario del Palatino a opera del Numidico dopo l’incendio del 111 (tempio di Cibele esastilo corinzio e forse pseudoperiptero, e tempio esastilo sine postico della Vittoria), santuario la cui riorganizzazione appare ispirata da un orientamento progettuale decisamente innovativo, quale si riconosce sin nella disposizione della platea antistante i templi su sostruzione cava, in perfetta sintonia con le soluzioni adottate nei grandi santuari terrazzati italici.

ricostruzione della basilica aemilia (di christian hülsen).
Ricostruzione della Basilica Aemilia (di Christian Hülsen).

La fin de siècle segna in breve la compiuta accettazione del compromesso fra tradizione romana e apporto greco, come ben traspare dalla nota formulazione vitruviana (IV 8, 5) della Tuscanicorum et Graecorum operum communis ratiocinatio («sistema misto che dipende da tradizioni etrusche e greche») e di cui sono fulgida testimonianza adesso il tempio “B” nell’area sacra di largo Argentina da un lato, thólos periptera di diciotto colone su podio dedicata alla Fortuna huiusce diei (personificazione affine al Kairòs greco) dall’ottimate Q. Lutazio Catulo per esaudire il voto fatto prima della battaglia di Vercelli contro i Cimbri nel 101 a.C., e, dall’altro, il perduto tempio di Honos et Virtus votato nel corso della stessa guerra dall’antagonista di Catulo, l’homo novus C. Mario e innalzato sulla Velia. Nel primo edificio, componenti sincretistiche si ravvisano senza dubbio nell’adattamento del modello greco della thólos ai principi etrusco-italici dell’alto podio e dell’assialità, mentre per quanto riguarda i materiali impiegati, il tufo stuccato nei fusti ionici e il travertino nelle basi e nei capitelli corinzi si combinano con il marmo pentelico del fregio ionico a girali, che nella resa stilistica del cespo d’acanto denuncia inoltre una certa affinità con quella delle foglie nei capitelli stessi (Caprioli), dove il raddoppiamento dei caulicoli individua l’esito di una ricerca decorativa già avviata in Asia Minore fra III e II secolo (Gros).

Quanto sappiamo invece del tempio mariano di Honos et Virtus si deve essenzialmente alla descrizione datane da Vitruvio (III 2, 5 e VII praef., 17), che lo magnifica quale superba testimonianza della rigorosa applicazione dei principi dell’architettura ionica microasiatica al tradizionale schema italico, nonostante il ricorso esclusivo a materiali come il tufo. L’edificio, con ogni probabilità un periptero sine postico, perfetto nelle proporzioni e nell’elegante simmetria dei principali elementi costituivi (cella, colonne, architravi), fu realizzato dall’architetto Gaio Mucio, un Romano dunque, ma di formazione profondamente intrisa di cultura e prassi greca: a meno che non si debba pensare che fosse egli stesso un Greco, eventualmente giunto in Italia al seguito di un membro della familia dei Mucii Scaevola che aveva tenuto il governo d’Asia, dal quale avrebbe di conseguenza ottenuto la cittadinanza romana e il nomen. Un parziale riscontro a quest’ipotesi potrebbe venire dal recente rinvenimento a Segni (quindi in un contesto non urbano) di un ninfeo dove compare un’iscrizione in greco con la firma dell’architetto che lo costruì, un Quinto Mucio, consanguineo e forse fratello del progettista di Roma, la cui opera è stata suggestivamente adombrata anche in rapporto al santuario della Fortuna a Palestrina. Ora, l’emergere di questa dimensione schiettamente laziale e italica si sposa a perfezione con la figura di Mario e il suo tempio di Honos et Virtus. Onore e Virtù erano infatti le qualità personali e ideologiche orgogliosamente rivendicate dall’homo novus arpinate davanti agli ottimati, virtutes che ne apparentavano inoltre l’azione politica a quella dello schieramento “democratico” post-graccano e alle richieste sempre più pressanti degli equites da una parte (in materia di controllo delle corti de repetundis ad esempio, o di riscossione delle decime nella provincia d’Asia) e a quelle dell’esercito e dei socii italici dall’altra, fedeli alleati e compartecipi da decenni alle campagne di conquista, ma ancora esclusi dalla cittadinanza romana. Ed è esattamente in questa temperie storica, idealmente risalente fin quasi alla metà del II secolo, che si colloca quel rigoglioso «fiorire delle forme architettoniche nuove e monumentali» in area centro-italica (a partire dalla costruzione di molti dei grandi santuari sopra citati) che ricade oggi per l’appunto sotto la definizione di «architettura mariana» (Zevi), annoverando fra le sue molteplici concause la comprovata saldatura fra gli interessi e le istanze dei ceti dirigenti nelle città italiche e quella parte di nobilitas romana facente capo a vario titolo a personaggi o gentes quali gli Herennii, gli stessi Mucii Scaevola e altri, trovando infine il principale referente proprio in Mario. La sua sconfitta, pertanto, con le inevitabili conseguenze che essa ingenerò nel panorama politico e istituzionale della Repubblica, segnò così anche la disfatta di quegli stessi ceti e gruppi dirigenti e affaristici che nell’azione mariana e nell’ottenimento della civitas avevano sperato di conseguire vantaggi e concreti miglioramenti alla loro condizione di subalternità a Roma. Nonostante la concessione della cittadinanza e dello status di municipia ai centri italici dopo la guerra sociale, un intero segmento della società dell’epoca incontrava invece nelle confische e nelle repressioni ordinate da Silla in tante città leali a Mario il definitivo abbattimento delle sue aspirazioni libertarie.

Le sorti di Roma e della penisola, come quelle dell’architettura, restavano saldamente nelle mani di Silla e dell’oligarchia senatoria. Ai fedelissimi del grande dittatore spettò così l’assumersi l’onere, anche dopo la sua morte, dei nuovi interventi in campo edilizio ed urbanistico. Mentre nei municipia di recente istituzione si procedeva all’ammodernamento e alla dotazione funzionale e infrastrutturale delle sedi urbane, oltre che all’ampliamento o alla costruzione ex novo di vari complessi santuariali, a Roma si segnalano in particolare i grandi lavori condotti nel Foro (ripavimentazione della piazza, costruzione della nuova Curia e del nuovo tribunal pretorio da parte di C. Aurelio Cotta, riduzione del vecchio Comizio, ricostruzione della basilica Aemilia a cura di M. Emilio Lepido, ecc.), insieme alla ricostruzione del tempio di Giove Capitolino bruciato nell’incendio dell’83 e ridedicato nel 69 da Q. Lutazio Catulo, e la già menzionata realizzazione del Tabularium (archivio di Stato) con la sottostante substructio ai piedi del Campidoglio. Responsabile ne è lo stesso Lutazio Catulo, figlio del console del 101, già luogotenente di Silla e console a sua volta nel 78 a.C., mentre architetto è L. Cornelio, probabilmente ostiense e suo praefectus fabrum. Si tratta senza dubbio di una delle più impressionanti architetture dell’epoca, come risulta sin dall’intenzione, perfettamente riuscita, di unificare in un medesimo complesso monumentale le due cime retrostanti del Campidoglio e creare così un imponente prospetto sul Foro, dietro i templi di Saturno e della Concordia. La costruzione è interamente eseguita in pietra gabina e tufo dell’Aniene (di rivestimento all’opera cementizia) e consta della substructio (la sola conservata) di un gigantesco basamento lungo oltre settanta metri e internamente percorribile, al di sopra del quale si imposta un’enorme galleria voltata e aperta in facciata con una serie di arcate inquadrate da semicolonne doriche con capitelli e architrave in travertino: è la superba affermazione, per la prima volta a Roma (ma già presente altrove in Italia: si vedano santuari di Palestrina e Tivoli), del cosiddetto Theatermotiv, cioè appunto della soluzione dell’arco inquadrato dall’ordine che tanta fortuna avrà nell’architettura romana dei secoli a venire (basti pensare ai teatri appunto e agli anfiteatri). Di per sé già noto in ambiente greco-ellenistico, ma in applicazioni di secondaria importanza (per esempio nella facciata interna della corte della fonte Peirene a Corinto), il motivo viene invece subito adottato a Roma in un importantissimo edificio pubblico proprio per risolvere la tematica generale dell’inserimento dei sistemi voltati con proiezione esterna ad arco nell’ambito formale e prettamente decorativo del sistema trilitico degli ordini, episodio che segna l’esordio di una prassi destinata come detto a qualificare gran parte della successiva produzione romana e, di riflesso, quella che dal Rinascimento in poi vi farà a lungo riferimento (V. Franchetti Pardo).

Resti della parete del Tabularium, con sovrapposto il Palazzo dei Senatori.
Resti della parete del Tabularium, con sovrapposto il Palazzo dei Senatori.

Con il Tabularium, la sua perfezione tecnica e ingegneristica, il gigantismo della sua mole e il sistematico impiego del Theatermotiv, siamo dunque a una svolta ulteriore, quella stessa che consentirà di fissare e sintetizzare in forme e scale ormai decisamente monumentali le stesse esperienze di conciliazione tra apporto greco e tradizione italica che si andavano compiendo da più di un secolo. Dopo, sarà ancora la costruzione dell’enorme complesso pompeiano del Campo Marzio, con il teatro-tempio di Venere Vincitrice e il grande quadriportico retrostante, a riprendere e rilanciare il tema della porticus come spazio chiuso e dalle connotazioni fortemente autocelebrative già affaciatosi nell’architettura romana al tempo di Cn. Ottavio e Metello Macedonico, venendo di lì in avanti a offrire un modello di riferimento obbligato sia per il nuovo Foro di Cesare con il tempio di Venere Genitrice (mitica capostipite della gens Iulia), sia per gli immensi e splendidi fori innalzati dagli imperatori nei futuri giorni di Roma.

Roma e la Grecia

di F. GUALDONI, in Arte classica, Milano 2007, pp. 125 sgg.

«Gli antichi Romani non si curavano della bellezza, tutti presi da cose più grandi e più necessarie». In questo passo di Strabone è sintetizzato il rapporto complesso che la cultura romana dei primi secoli intrattiene con l’ellenistica, così come con quelle italiche più evolute – in specie l’etrusca – sino alla seconda metà del II secolo a.C.
La sofisticatezza dei modelli greci, l’apprezzamento puramente estetico del bello, il fasto decorativo non solo non appartengono alla cultura romana ma vengono avvertiti come ostili, come elementi tali da erodere un senso di appartenenza fondato su valori altrimenti concreti e funzionali di civitas.
L’origine e i costumi delle genti romane sono rurali, e a fronte del vitalissimo espansionismo militare ed economico che contraddistingue i primi secoli il modo di vita fa valore della semplicità, della frugalità, dell’utilità. Rispetto al mondo greco la cultura urbana matura in modo affatto differente: Roma è già di per se stessa la città, non una città, e il suo potere per lungo tempo non ha bisogno di ratifiche e manifestazioni sul piano simbolico. Il suo confine e perimetro è una linea sacra non difensiva, il pomerium – la città verrà dotata di mura munite solo dopo l’invasione gallica del 390 a.C. – secondo un concetto che permarrà anche in età imperiale, e il suo interno è concepito come una macchina funzionale, in cui è prevalente la risposta alle esigenze pratiche di vita di un agglomerato complesso di abitanti. La copertura della Cloaca Massima, l’antica condotta fognaria, i due acquedotti costruiti nel 312 e nel 272 a.C., l’avvio di una pratica rete viaria lastricata, sono nei primi secoli di vita della città opere di utilità pubblica avvertite come prioritarie rispetto alla stessa edificazione di templi, le cui proporzioni rimarranno, sino all’età imperiale, modeste.
Del resto la stessa struttura della società presenta, sul piano simbolico per eccellenza, quello religioso, forti tipicità. La comunità è strutturata sulla coesione di forti nuclei familiari, i quali rappresentano il primo inderogabile fattore di identità. Il ruolo centrale è attribuito al pater familias, il patriarca, responsabile a un tempo del partecipare della famiglia alla vita collettiva e della religione privata, non secondaria rispetto alla pubblica, in cui gran luogo hanno i sacrifici alle icone dei Lari e dei Penati, divinità protettrici private della terra e della dispensa, e ai Mani, gli antenati la cui presenza era garantita e al tempo stesso esorcizzata da immagini all’interno della casa, che contrassegnavano la continuità della stirpe e il complesso dei suoi valori sociali e morali. La pietas, amore verso i genitori, è lo stesso sentimento con cui ci si rivolge agli dèi.
Il passaggio da questa religiosità privata, che fa dell’interno della casa un luogo a sua volta sacrato, tipica del retaggio rurale e con evidenti residui animistici, a una religione comunitaria di tipo uranico, in cui progressivamente si opera il sincretismo con gli dèi olimpici greci avviato con l’identificazione della triade celeste Giove, Giunone, Minerva (gli etruschi Tinia, Uni, Menrva) con Zeus, Hera e Atena, e delle divinità ctonie Cerere e Proserpina con Demetra e Persefone, non intacca il ruolo della religiosità domestica, e contribuisce a spiegare la non particolare rilevanza, a quel tempo, degli edifici pubblici di culto.

Triade Capitolina. Marmo lunense, II sec. d.C. ca., da Guidonia. Montecelio, Museo Archeologico.

Altro elemento di forte tipicità è il prevalere dei riti sui dogmi. La religiosità romana pone al centro l’uomo e le sue azioni, cui il rituale mira a rendere favorevoli, quasi contrattualmente (tale è il senso del votum) le forze soprannaturali, e non le divinità stesse, le quali peraltro non agiscono di propria iniziativa nella vita degli uomini: l’assenza di una cultura mitica, così sviluppata invece nel mondo greco, ne è testimonianza evidente.
Da ciò discende un elemento cruciale riguardante la cultura artistica, l’assenza di una vera discontinuità concettuale tra immagine del divino e immagine umana, tra figura sacrata e figura individuale, entrambe appartenendo a un sistema unico di onori che la società e i suoi nuclei fondanti attribuiscono a chi incarni i valori condivisi cui far riferimento.
Plinio testimonia, peraltro, l’uso antico della terracotta per le statue delle divinità (in uno strato ancor più arcaico esse erano lignee), e il bronzo per quelle degli uomini; marmo, oro, avorio essendo materiali lussuosi non appartenenti alla tradizione. Quando, nel 396 a.C., Camillo saccheggia Veio, ne riporta le statue sacre in quanto sacre, così come accadde alla statua di Giove condotta a Roma da Preneste nel 380 a.C., e a quella di Giano quadrifronte presa a Falerii nel 241 a.C., secondo la ben conosciuta tendenza ad appropriarsi dell’altro impossessandosi dei suoi segni identitari di culto.

Glicone di Atene, Ercole Farnese. Statua, copia in marmo di III sec. da un originale ellenistica di Lisippo del IV sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Quando, nel 212 a.C., dalle vinte Capua e Siracusa vengono a Roma come bottino statue marmoree e bronzee, ori, argenti, decori lussuosi, e poi nel 210 a.C. da Taranto altre ricchezze tra cui l’Eracle di Lisippo, e in seguito centinaia di quadri e statue dalle prime vittorie greche dopo quella nel 194 a.C. su Filippo V di Macedonia, l’atteggiamento è palesemente mutato. Quelle statue, quei quadri, non valgono in quanto signa delle altrui religioni, ma in quanto opera d’arte, indicatori d’una tutta umana qualità della vita contrassegnata da simboli ormai squisitamente culturali. È ben vero, d’altronde, che sino al II secolo a.C. anche l’attività edilizia e architettonica, la più tipica romana, non mostra ambizioni qualitative particolari. Il tempio Capitolino dedicato a Giove, Giunone e Minerva nel 509 a.C., così come quello eretto in onore della triade «plebea» e tutta ctonia Cerere, Libero e Libera nel 493 a.C., vedono all’opera nel primo caso maestranze etrusche, come testimonia il nome tramandateci dalle fonti del veiente Vulca, e nell’altro magno-greche. Le decorazioni fittili, vivamente dipinte, adornavano edifici di concezione originale, debitrice dell’architettura templare etrusca, dalla quale derivavano i concetti strutturali fondamentali.

Ricostruzione del Tempio di Giove Capitolino, a Roma.

L’edificio, di non grandi dimensioni, si ergeva su un alto podio ed era accessibile grazie a una gradinata che saliva verso l’unica facciata, colonnata, oltre la quale si schiudeva la cella tripartita, dedicata alla triade divina, chiusa dalla parete posteriore del tempio.
Dal III secolo a.C. è documentato con sicurezza l’uso di materiali litici come tufo, travertino, peperino, e soprattutto della tecnica dell’opus caementicium, un conglomerato fluido di calce e sabbia mescolato a ghiaia o a frammenti di tufo il quale, asciugandosi, acquisisce una straordinaria solidità e consente di legare stabilmente tra loro altri materiali costruttivi, schiudendo soluzioni assai diverse dall’elementare sistema trilitico in uso nel mondo greco, limitato dal modesto rapporto tra peso intrinseco e capacità statica degli elementi impiegati.
Nel II secolo a.C. fanno la loro apparizione altri tipi architettonici. Gli archi commemorativi e onorari, sovrastati da statue, celebrativi di campagne militari vittoriose, sfruttano la tecnica nuova dell’opus caementicium per creare ampie strutture a fornice di valore monumentale; analogamente, la struttura ad arco consente realizzazioni complesse come i corsi degli acquedotti e i ponti in muratura sul Tevere, e nei secoli successivi darà vita a costruzioni grandiose, come teatri e anfiteatri.
Le basiliche, strutture coperte a pianta rettangolare e sviluppo longitudinale divise in tre navate, destinate a scopi civili, sono tra gli edifici che qualificano il foro, spazio aperto di commercio e vita pubblica sul quale affacciano gli edifici pubblici. In esse è testimoniato l’uso dei mattoni d’argilla corti (opus latericium), di largo impiego in tutta l’edilizia imperiale per la flessibilità d’uso.
È con la stagione del potere di Silla, colui che nell’86 a.C. saccheggia Atene e che dopo aver vinto Mario esercita la dittatura, ovvero il potere supremo e non condizionato tipico delle situazioni di emergenza, tra l’82 e il 79 a.C., che ha inizio il processo di rinnovamento architettonico di Roma in senso monumentale. Esso prosegue con Giulio Cesare per trovare compimento in età augustea, allo scorcio dell’età repubblicana e all’avvio di quella imperiale.
L’influenza della cultura ellenistica, si avverte nell’introduzione del modello della tholos nei tempietti a pianta circolare, nell’adozione del marmo e delle sue policromie come elemento decorativo, nell’impiego degli ordini greci. Essi, tuttavia, vengono in certo senso sovrapposti al concetto costruttivo romano, la cui tecnica consente ben altri ardimenti, testimoniati ad esempio dal terrazzamento del tempio di Giove a Terracina, per cui vengono ridotti a semplici partiture decorative, con predominio del corinzio, in un gioco di pieni e vuoti in cui colonne e semi-colonne dialogano con la nuova cadenza visiva degli archi. Ciò accade nella scena architettonica e nell’architettura stessa dei teatri, che contraddicendo l’antica morigeratezza di costumi, che stabiliva che fossero solo strutture provvisorie in legno, si fanno in quest’epoca stabili: il Teatro di Marcello in Roma, avviato da Cesare e compiuto sotto Augusto, mostra la possibilità di reggere la grande cavea senza sfruttare un pendio naturale, ma con un sistema di ampie arcate, ritmate pittoricamente negli ordini sovrapposti dalle semi-colonne tuscaniche, ioniche e corinzie. Allo stesso principio risale la concezione degli anfiteatri, edifici circolari nei quali si svolgevano ludi gladiatori e circensi.

Teatro di Marcello, Roma. Particolare della facciata con i due ordini di arcate. I resti sono inglobati nel palazzo dei Savelli (XVI secolo).

Proprio l’accezione decorativa e ostentatoria dell’arte greca tutta fa sì che essa trovi spazio, nel ricco ed ellenizzante I secolo a.C., soprattutto nel consumo privato, declinandosi in spazi come ville e giardini dalle articolazioni complesse ed esuberanti, in cui le statue – originali, copie, reinvenzioni – perdono ogni altra accezione che non sia l’estetica, e in cui persino tipi architettonici cultuali come il ninfeo, nel mondo greco semi-sotterraneo e dedicato al culto delle Ninfe, divengono puro accidente scenografico: è tuttavia dalla forma absidata del ninfeo, unita all’assialità longitudinale a tre navate della basilica, che deriverà di lì a qualche secolo il modello basilicale cristiano.
Degli ornamenti della vita privata nelle ville patrizie, e del grado di penetrazione della voga ellenistica, è testimonianza il tesoro di Boscoreale, corredo di vasellame da tavola in argento trovato in una villa dell’area pompeiana nel 1895 insieme ad altri oggetti aurei meno interessanti sul piano artistico, ma denotanti l’immensa ricchezza del proprietario. I decori esterni delle coppe, che presentano talora rilievi anche all’interno, sono a motivi vegetali alternati con pittoresche immagini allegoriche, e indicano il grado di enfasi fastosa con cui il gusto ellenistico viene declinato e fruito in ambiente romano nel I secolo a.C. Analoga qualità decorativa traspare dal coevo tesoro di Hildesheim, scoperto nel 1868, in cui a decorazioni complesse si alternano raffigurazioni divine di gusto sofisticatissimo.
Il caso della scultura è assai più complesso. Una destinazione pubblica della statuaria si radica nell’uso di collocare nella città effigi bronzee celebrative e commemorative dei cittadini illustri, in molti casi secondo la tipologia originale della statua posta su una colonna. Sono ritratti spesso eseguiti dopo la morte del personaggio, quindi tipizzati, come avviene nella Grecia del IV secolo a.C., ma dotati di una caratterizzazione realistica che appartiene al portato originale dell’arte etrusca prima e poi romana, in cui hanno un gran peso la ritrattistica funeraria e il culto degli antenati: ne è tipico il modello delle imagines clipeatae, ritratti realizzati a rilievo di individui collocati al centro di uno scudo o medaglione circolare. Già nei canopi e nei sarcofagi etruschi è evidente l’intento ritrattistico che presiede alla realizzazione dei volti, dei quali è concettualmente e culturalmente fondamentale l’identificazione. Tale tradizione, fondandosi su una pratica concepita peraltro come artigianale, quindi senza particolari implicazioni colte, trasferisce all’arte romana dei primi secoli un linguaggio immediatamente verista, crudo e diretto, lontano dall’idea stessa di stile e di elaborazione ideale. Essa permane anche quando, tra il III e il II secolo a.C., i rapporti con l’arte ellenistica si fanno più stretti, e la ritrattistica ideale greca consente a tale atteggiamento di evolversi dal punto di vista tecnico e formale, pur senza tradire la propria natura originaria.
Popolaresco e tendenzialmente ignaro sul piano stilistico, tale strato artigianale permane a lungo come humus dell’ambiente artistico romano. Se la cultura tradizionalista legata alla virtus romana concepisce la scultura meramente in funzione civica e religiosa, dunque utilitaria e scevra da implicazioni estetiche, non riconoscendo ai suoi artefici altro statuto che l’artigianale, quella affascinata dalla luxuria ellenistica è xenofila e snobistica, apprezza e onora i maestri stranieri (ecletticamente neoattici oppure baroccamente ellenistici, da Pasitele a Arcesilao, da Stephanos a Cleomene, largamente omaggiati dalle fonti) ma in quanto stranieri, verso i quali esercitare un mecenatismo a sua volta imitativo, perpetrando un sostanziale disconoscimento della figura dell’artista come intellettualmente degna e autorevole in seno alla comunità.

Il cosiddetto «Togato Barberini». Statua, marmo, fine I secolo a.C. con testa non pertinente. Roma, Musei Capitolini

Il ritratto verista, di stringata sintesi fisionomica, e un’arte del rilievo fatta di diretta, fresca descrittività e narratività, attenta all’evidenza iconografica quanto schietta sul piano esecutivo, sono dunque caratteristiche che transitano dal III-II secolo a.C. sino all’età imperiale, riemergendo come nutrimento primario dell’arte imperiale stessa da Traiano in poi. Esemplare è da questo punto di vista, naturalmente, proprio la ritrattistica funebre. Una statua di personaggio togato che regge nelle mani i busti del padre e del nonno è perfettamente esplicativa di questo filone. Il personaggio, ben connotato, fa delle fisionomie degli antenati i signa stessi della propria gens. Tale fedeltà descrittiva è robusta e sintetica, ed è riscontrabile in una serie di busti e di rilievi funerari che dal I secolo a.C. si inoltrano alla prima età imperiale, indicando differenti livelli di fattura, da un maturo realismo che supera i limiti del semplice verismo a espressioni di ingenuo piglio popolare.
Dal III-II secolo a.C. sino all’età cesariana si dipana una serie di testi e busti ritrattistici che ben indicano l’intrecciarsi della vigorosa sintesi etrusco-italica con elementi più popolareschi e con accentuazioni veristiche di sapore addirittura espressionista; ma anche con il fertile influsso della ritrattistica greca del IV secolo a.C., che agisce nella tensione vitale e nell’intensità psicologica, oltre che nell’equilibrio formale, di alcune di queste opere. La testa del Bruto Capitolino, scandita su piani netti con il fitto lavorio di capigliatura e barba, seccamente chiaroscurati, a evidenziare gli elementi identificativi maggiori, le labbra sottili, il forte naso e le orbite che ombreggiano lo sguardo intensificandone il protagonismo, è sicuramente uno dei raggiungimenti più alti del periodo più antico. Alla stessa epoca, III-II secolo a.C., appartiene una testa di fanciullo la cui stereometria è addolcita dal luminismo dolce delle superfici, non lontano dalle coeve teste fittili etrusche.
Anche la ritrattistica del I secolo a.C., dalla quale ci si attenderebbe una eroizzazione del personaggio all’uso greco, che ne amplifichi l’eccezionalità rispetto all’uomo comune, presenta piuttosto un’attenzione alla misura spirituale dell’individuo che ne definisce la sostanza psichica, non una retorica grandeur. Ritratti di personaggi illustri come Cicerone, dai lineamenti maturi e intensi, e Cesare, effigiato con sobrio realismo e modi di austera semplicità, ne indicano il concreto valore individuale, senza spinte eroizzanti o divinizzanti. È quanto emerge anche da una delle opere maggiori a noi giunte, il cosiddetto Arringatore. Al maturo realismo del volto si affianca, qui, anche una descrittività sobria e diretta che riguarda il corpo tutto, non risentendo di alcun modello sculturale ideale che faccia da paradigma.
Dei rari rilievi dell’epoca sopravvissuti, l’Ara di Domizio Enobarbo, diversamente datata dagli studiosi tra la fine del II secolo e gli ultimi decenni del I a.C., mostra un caso di convivenza complessa tra elementi ellenistici, prevalenti nella scena mitologica raffigurante le nozze tra Nettuno e Anfitrite, con Tritoni e Nereidi, e autoctoni, tipici della scena di sacrificio rituale per la purificazione dell’esercito. Le sensuose movenze curvilinee, il luminismo chiaroscurale della scena mitologica, di chiara ispirazione pergamena, sono in evidente contrasto con la sobrietà della scena storica, scandita come una theoria classica ed eseguita con pesantezza accademica non priva di abbreviazioni popolareggianti.
Una prima sintesi tra cultura romana e modelli greci si attua sotto il principato di Ottaviano, il vincitore nel 31 a.C. della battaglia di Azio contro Cleopatra e Marco Antonio, al quale nel 27 a.C. vengono riconosciuti dal Senato il titolo di Augusto e l’imperium militare, e che concentrando progressivamente su di sé tutti i poteri repubblicani, sino alla carica di pontefice massimo, la più alta autorità religiosa conferitagli nel 12 a.C., avvia la gestione monocratica dello Stato.
Dall’ellenismo Augusto deriva in primo luogo la consapevolezza dell’importanza della cultura come valore di appartenenza, come reagente e collante in grado di agire nella formazione di un’identità romana precisata e autorevole. L’azione letteraria di Virgilio, Orazio, Livio, Ovidio, favorita e orientata dal principe, mira ad accreditare la rinascita di un’età aurea pacificata e florida, in cui la virtus romana rifulga come modello per il mondo tutto, nonché a vestire di mito la figura di Augusto, discendente, per il tramite di Enea, da Venere.
Il programma di trasformazione monumentale di Roma, già concepito e avviato da Silla e da Cesare, è parte integrante della strategia culturale di Augusto, che ricerca forme e modi che assommino il potere romano, la sua sagace concretezza, e il carisma colto dell’antica Atene: in questo ambito alla scultura viene attribuito parimenti il ruolo di fissare e diffondere un’iconografia insieme nobile e propagandisticamente persuasiva.
Documento per eccellenza di questo programma è l’Ara Pacis, inaugurata nel 9 a.C., un altare decorato a rilievi poggiante su un podio con gradinata e circondato da un recinto marmoreo. Accessibile da due porte che si aprivano – nella collocazione originale – sulla via Flaminia e sul Campo Marzio, il recinto è decorato all’esterno da uno straordinario complesso di rilievi su due ordini separati da un meandro continuo. L’ordine inferiore è decorato da volute correnti di acanto, il superiore da scene figurate rispondenti a un preciso programma iconografico. All’interno, la fascia alta è scandita da una serie di festoni vegetali retti da bucrani. Il fregio vegetale esterno ha un valore insieme decorativo e allegorico. L’acanto, dal cui cespo si diparte la serie fastosa di motivi curvilinei, simboleggia la forza prorompente della natura che genera e si rigenera: tra le sue volute si colloca una varietà infinita e minuziosa di motivi come palmette, fiori, viticci, foglie d’edera e di vite, abitata da piccoli animali, dalla lucertola alla rana allo scorpione. Di estrema eleganza, nascente dal gioco sottile delle linee curve e del ritmo scandito tra ripetizioni e varianti, il fregio è, nel suo trionfo del naturale, il pendant concettuale dell’ordine superiore: là è l’effetto storico della pax deorum guadagnata da Augusto, qui è la manifestazione nella natura, fiorente e rigenerata: l’ordine cosmico, l’armonia tra divino e umano e naturale, è pienamente ristabilito. I due pannelli superiori che affiancano la porta occidentale, la principale, aperta su Campo Marzio, raffigurano l’uno Enea, in veste sacerdotale, sacrificante ai Penati, l’altro, di cui restano pochi frammenti, Marte con Faustolo che guardano Romolo e Remo allattati dalla Lupa.

Dettaglio dal fregio dell’Ara Pacis: Enea che sacrifica ai Penati. 9 a.C. ca. Roma, Museo dell’Ara Pacis.

Enea, dunque la discendenza da Venere proveniente da Troia, nell’atto di compiere un rito tipico del pontefice massimo; Romolo e Remo, dunque la discendenza autoctona da Marte, accolti e cresciuti dal pastore Faustolo, esponente delle popolazioni italiche precedenti Roma: il programma iconografico è esplicito. Simmetrici, sul lato opposto sono i due pannelli raffiguranti Roma vincitrice e pacificatrice, del quale quasi nulla ci è pervenuto, e la Tellus, la Terra madre, tra piante e animali, ambiguamente ritratta un po’ come Venere un po’ come Cerere, che regge sulle ginocchia due fanciulli ed è affiancata da due figure femminili sedute rispettivamente su un cigno e su un drago marino, raffiguranti gli spiriti fecondatori della terra e dell’acqua. I lati nord e sud del recinto esterno raffigurano una processione sacra cui prende parte lo stesso Augusto con littori, sacerdoti, la famiglia imperiale, in una vera e propria teoria nella quale l’evocazione classica greca si salda con un preciso intento ritrattistico. Il fregio dell’ara vera e propria, ridotto a pochi frammenti, non consente ipotesi iconografiche solide. Dal punto di vista stilistico il gioco delle pose e dei panneggi, svolti con abile effetto chiaroscurale tra cadenze verticali e fluenze diagonali, determina netti rapporti narrativi ed emotivi tra figura e figura, ricorrendo anche all’incrociarsi degli sguardi reciproci, che intensificano l’esplicito valore ideologico dell’immagine dovuto alla riconoscibilità dei personaggi. Il clima ellenistico, trasparente dalla spettacolarità dell’insieme, del suo senso fastosamente decorativo e naturalistico, si stempera in una deliberata ripresa del classico che già può essere detto, a queste date, classicismo: il richiamo alla grande arte attica della seconda metà del V secolo a.C. non è, qui, pura questione di gusto, ma scelta da leggere nel quadro del programma politico-culturale di Augusto.
Un peso fondamentale, e per certi versi nuovo, assume in questo momento la ritrattistica. Il ritratto ufficiale del princeps diviene l’elemento iconografico che anche nei domini più lontani impone il carisma del monarca: esso dunque deve possedere una sorta di riconoscibilità “ufficiale”, un misto tra realismo e idealizzazione, in grado di eroizzare il personaggio attraverso l’interpretazione psicologica più che attraverso la tipizzazione divinizzante.
La varietà di teste giunte a noi, scalate negli anni dalla presa e dell’esercizio di potere di Augusto, mostra una certa oscillazione tra l’ispirazione più esplicitamente realistica e quella idealizzante, per far posto in seguito a un’iconografia ufficiale e ripetuta.
Le opere più rappresentative di questa fase sono la statua eroica proveniente dalla villa di Livia, moglie di Augusto e madre di Tiberio, a Prima Porta, e quella in veste di pontefice massimo da via Labicana. La prima rappresenta il principe in armi, secondo uno schema iconografico ispirato al Doriforo di Policleto ma aperta a un ritmo più mosso grazie al braccio destro teso, bilanciato dal panneggio sul sinistro. Il volto è reso con accuratezza fisionomica, ma è privo delle crudezze italiche, sintetizzato in un’espressione intensa che conferisce al personaggio un’aura di umanità e intelligenza, dunque di eroismo esercitato responsabilmente nel mondo, non al di sopra di esso in virtù di un potere autocratico. A tale definizione della sua autorità Augusto è programmaticamente attento. Egli si presenta come il restauratore della centralità dell’idea di Roma e della sua storia repubblicana, non come colui che l’ha dissolta: il suo potere non è personale, ma esercitato con dignità in nome di Roma. Sulla corazza, scolpita a rilievo alto, scene allegoriche si alternano a figure storiche in cui un generale romano, forse Tiberio, è circondato da figure di vinti. La statua velata si sottrae a maggior ragione a ogni suggestione eroica per fare di Augusto una sorta di pater, di capo spirituale, come fosse il pater familias di Roma tutta, nel segno di più compiuta appartenenza all’identità civica.
Impressionante è l’attività architettonica che dall’età augustea caratterizza tutto il periodo della dinastia giulio-claudia (Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone) e flavia (Vespasiano, Tito, Domiziano), cioè il I secolo d.C.
Svetonio attribuisce ad Augusto il merito di aver trovato una città di mattoni e di averne lasciata una di marmo. In realtà, è proprio nel I secolo d.C. che l’uso dei laterizi cotti si diffonde e consente, a Roma come nelle province, imprese imponenti di cui il Pont du Gard, presso Nimes, e la Porta Palatina di Torino, accesso munito alla città fondata nel 28 a.C., sono testimonianze eloquenti. È peraltro vero che un impiego diffuso del marmo e delle sue possibilità decorative risale a questo momento, realizzandosi in un’amplissima diffusione dello stile corinzio, come testimoniano esemplarmente il comportamento del Teatro di Marcello, dedicato nell’11 a.C. e ispiratore dell’Anfiteatro Flavio (noto più tardi come Colosseo) eretto da Vespasiano, e il tempio augusteo detto la Maison Carrée di Nimes.

Iscrizione epigrafica di M. Vipsanio Agrippa sulla facciata del Pantheon (27-25 a.C.), fatta riposizionare da P. Elio Adriano durante la sua ricostruzione dell’edificio nel decennio 118-128 d.C.

Più complesso è il caso del capolavoro dell’architettura augustea, il Pantheon, tempio di tutti gli dèi. Dedicato nel 27 a.C. da Marco Agrippa, generale e genero di Augusto, era a pianta rettangolare, rivestito di marmo, con capitelli bronzei, Cariatidi e frontone figurato. Il suo aspetto si deve alla ricostruzione di età adrianea, nel terzo decennio del II secolo d.C., con il grande pronao a colonne corinzie che si apre su una cella a pianta circolare, con esedre e colonne corinzie, coperta da una cupola semisferica, la cui concezione è stata per secoli oggetto di studio e ammirazione, e sarà modello per l’architettura rinascimentale. Delle originali decorazioni bronzee nulla è sopravvissuto.
Nel I secolo d.C. si diffonde anche l’uso di rendere monumentali le porte urbane a fornice con semicolonne corinzie, frontoni e rilievi, trasformandole sempre più in veri e propri archi commemorativi, che assumono ben presto fisionomia autonoma. Tale processo giunge a compimento nell’arco di Tito, eretto da Domiziano per celebrare le vittorie giudaiche del predecessore nel 70 d.C. Le semicolonne corinzie con elementi ionici su alto zoccolo, l’estradosso dell’arco e il fregio decorati, un attico con iscrizioni, perfezionato il fronte. All’interno dell’arco, l’intradosso è decorato a cassettoni e l’interno dei piloni di sostegno con rilievi figurati, che inaugurano l’uso di celebrare i fasti militari dell’impero con vere e proprie narrazioni. Sull’attico si trovava una quadriga con l’imperatore sul carro, in bronzo dorato.
Del tutto innovativa è la concezione scultorea che presiede ai rilievi narrativi. Scavate nella pietra senza levigature superficiali, e lasciando in vista ai bordi la superficie originale in modo da dar conto della profondità, le figure trascorrono dal limite del tutto tondo a rilievo pressoché disegnativo sullo sfondo. Esse, tuttavia, non sono scalate su piani paralleli convenzionali, ma variamente articolate secondo una profondità continua, che senza soluzioni trascorre dal primo piano allo sfondo. Tale caratteristica è accentuata dal raggruppamento e dalle sovrapposizioni diverse tra figure, e dall’effetto chiaroscurale dovuto all’incidenza diretta della luce naturale, che produce effetti pittorici non artificiosi. Ulteriore elemento di innovazione, certo derivato da modelli pittorici ellenistici, è la scelta di risparmiare nella parte alta una fascia dello sfondo, corrispondente al cielo sapientemente solcato dalle lance, anziché spingere l’altezza delle figure sino al bordo superiore, come avviene nel rilievo classico. L’allegorismo e il cauto classicismo del tempo di Augusto sono ormai alle spalle, e la sintesi matura tra realismo narrativo romano e illusionismo ellenistico comincia ad avvicinarsi: essa troverà pieno compimento in età traianea.

Enea e Didone. Affresco, 10 a.C.-45 d.C., dalla Casa del Citarista (I, 4, 5). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

È al periodo tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. che si attribuisce la quasi totalità delle pitture romane giunte a noi. Esse in gran parte provengono dall’area vesuviana – dove la data dell’eruzione del vulcano, 79 d.C., offre un sicuro termine cronologico – ma anche da Roma. Si tratta esclusivamente di decorazioni murali destinate all’ornamentazione di edifici privati, dunque esemplari della luxuria romana e del suo gusto ostentatorio, propenso all’enfasi e alla sovrabbondanza.
Un’arte della pittura su tavola era in realtà diffusa sin dall’età repubblicana. Essa era legata alla narrazione, tra sintetica e allegorica, dei fatti memorabili durante le celebrazioni dei trionfi, oppure collocata per ragioni affini in edifici pubblici: si trattava, con ogni probabilità, di figurazioni essenziali e di impronta stilisticamente non evoluta, di valore per lo più illustrativo. Artisti greci immigrati e locali, in genere schiavi e liberti vista la scarsa considerazione sociale attribuita alla figura dell’artista, operavano affiancati in questo come in altri campi prediletti dal mondo romano: la ritrattistica, di viventi e dei maiores defunti, le pitture votive, le raffigurazioni popolaresche di ludi. Dalla Grecia, poi, fioriva l’importazione di pinakes, di tema sia storico che decorativo, oggetto di un vero e proprio collezionismo maniacale, tipico status symbol ellenizzante.
La pittura murale ha soprattutto carattere decorativo, e sotto molti punti di vista risente dell’influenza ellenistica, in modo particolare di quella alessandrina, alla quale si devono il prevalere di elementi paesistici suggestivi e la tecnica della compendiaria, ovvero una pittura fatta di tocchi rapidi e corsivi, di sapore impressionistico, in cui peso quasi nullo ha la tradizione greca della nitida linea di contorno e protagonista è il colore, dai toni fastosi e ricchi, dall’ocra d’oro alla porpora al blu d’Armenia, il cui pregio era tale che, testimonia Vitruvio, il loro acquisto era a carico del committente.
L’abbondanza delle pitture da Pompei e da Ercolano ha consentito nel 1882 ad August Mau, nella fondamentale pubblicazione Geschichte der dekorativen Wandmalerei in Pompeij (Storia della decorazione parietale a Pompei), di suddividere le tipologie di decorazioni pittoriche in quattro stili, corrispondenti con le debite cautele a quattro fasi cronologiche scalate dal I secolo a.C. al 79 d.C. Pur precisata in molti punti e assai più articolata sulla base degli studi successivi, tale classificazione è tuttora in uso. Il primo stile, derivante da esempi ellenistici del II secolo a.C., prevede uno zoccolo sopra il quale la parete è ripartita in blocchi imitanti marmi variegati, alabastro, porfido, con coloriture intense in cui dominano nero, rosso, giallo. Semplici elementi architettonici, come porte chiuse, pilastri, metope, fregi, scandiscono e compartiscono questo tipo di pitture. Nel secondo stile la quadratura architettonica evolve sino a trasformarsi in un illusionistico chiostro colonnato, nei cui riquadri appaiono panorami urbani e architetture illusionistiche di tipo prospettico, oltre a vedute paesistiche, di sapore e ispirazione certo teatrali. In questa fase compaiono anche festoni vegetali e fregi continui ricchi di figurette dipinte in modo veloce e impressionistico, quasi bozzettistico, con freschi effetti narrativi e artifici come colpi di luce e sapidi chiaroscuri.
Alcune opere eminenti, attribuibili a esecutori di qualità superiore, appartengono a questa fase. La pompeiana Villa dei Misteri presenta partizioni architettoniche semplici che delimitano ampi riquadri a fondo rosso in cui gruppi di figure rappresentano scene d’iniziazione misterica.

Satiro danzante. Affresco, I sec. d.C. dalla Villa dei Misteri a Pompei.

La villa di Livia a Prima Porta, in Roma, scavata nel 1869, si caratterizza per l’abbondanza di festoni vegetali e per la vasta descrizione ravvicinata di un giardino, motivo tipico di questa stagione del gusto, con minuzie naturalistiche e delicati accenni bucolici, in una concezione comunque eminentemente decorativa. Il miniaturismo idilliaco della pittura ellenistica si nutre qui, nelle mani di un artefice consapevole, del gusto descrittivo e diretto della tradizione romana, con un risultato di sintesi di notevole livello, confrontabile per certi versi – precisione nel differenziare le specie vegetali, attenzione descrittiva negli animali – al decorativismo naturalistico del fregio vegetale dell’Ara Pacis.
Caratteristica del terzo stile è l’abolizione della scenografia architettonica in favore di decorazioni esili e calligrafiche come candelabri culminanti in figurette, tralci, corone, e di illusioni di tessuti tesi con figurazioni centrali, emulanti le ricche decorazioni in tessuto delle case, dei quali nulla ovviamente ci è giunto, con inserzione di illusionistici pinakes. Talora, anziché essere raffigurati direttamente sulla parete, i pinakes erano eseguiti su stucco o marmo e incastonati nella parete stessa. È tra secondo e terzo stile che si diffonde la moda delle nature morte, il cui sviluppo e la cui proliferazione presuppongono un fitto e continuo scambio tra produzione di quadri veri e propri e raffigurazione degli stessi quadri nei contesti decorativi della pittura parietale.
Il quarto stile torna, dopo la finezza grafica delle grottesche del terzo, a un’accelerazione degli elementi scenografici e della sovrabbondanza decorativa. Ricco di tipologie diverse, rende protagonisti gli illusionismi architettonici collocandovi figure e scene vere e proprie, oppure larghe vedute paesistiche, dove la pittura compendiaria raggiunge effetti di autentica suggestione impressionistica, senza più la preoccupazione naturalistica tipica del secondo stile.
Rispetto ai modelli ellenistici, è proprio la tendenza a semplificare e rendere schietto il clima visivo l’elemento di innovazione che si può riferire alla cultura romana. Poco, tuttavia, si può dire in merito alla qualità specifica di queste pitture, di concezione e fattura ascrivibili all’alto artigianato, in assenza di una vera e propria cerchia di maestri riconosciuti. È nei riquadri figurati, ispirati spesso a temi ellenistici spinti verso un clima definitivamente idilliaco, che la pittura pompeiana raggiunge talora esiti di straordinaria fragranza.
Anche l’arte dei pavimenti a mosaico si diffonde secondo esempi ellenistici, sostituendo progressivamente i più semplici pavimenti in cocciopesto con incrostazioni marmoree, e quelli con decorazioni geometriche continue, incornicianti piccoli elementi figurativi riquadrati, tipici della casa romana. Se gli esempi più direttamente impliciti nell’arte ellenistica, in genere copie di pinakes, sono a tessere piccole in pasta colorata, le traduzioni romane impiegano più larghe tessere in marmo e pietre dure, e talora paste vitree colorate, con effetti più corsivamente decorativi.
Della pittura ritrattistica romana nulla è sopravvissuto. Tuttavia, la ritrattistica di età imperiale è evocata dalla produzione tipica di un’area specifica dell’Egitto, il Fayum, isola sul Basso Nilo, da cui provengono circa seicento ritratti funerari databili dall’età neroniana al IV secolo. Sono ritratti dipinti su tavolette di legno che venivano fissate sull’involucro delle mummie secondo l’uso egizio, e che, nell’evolvere da un più schietto realismo a forme di idealizzazione del tipo frontale con gli occhi fissi, mostrano un rapporto continuo e diretto con l’arte romana di madrepatria.

Il mito del classico

di F. Gualdoni, in Arte classica, Milano 2007, pp. 7 sgg.

Nel 1503 il papa Giulio II Della Rovere incarica Donato Bramante di incorporare nel Palazzo Vaticano il contiguo casino del Belvedere: l’ampio cortile è destinato a ospitare una collezione esemplare di sculture antiche, e a divenire ben presto celebre in Europa come il “Cortile delle statue”. La scelta fa parte del progetto papale di stabilire il carisma del proprio potere radicandolo nel passato più illustre. Il colle Vaticano stesso era in antico luogo di vaticini etruschi, poi sacro ad Apollo; dalla finestra aperta sulla parete del Parnaso di Raffaello qualche anno dopo si vedranno le sculture antiche del Belvedere, in continuità tra antico e moderno; il corridoio che porta al cortile recherà incise le parole virgiliane della Sibilla Cumana «Procul este, profani» (“State lontani, profani”) e le sibille affiancheranno i profeti nella Sistina di Michelangelo… è tale sovranità sacrata, in cui l’antico si proietta nell’attualità e in un potere che si vuole universale, che da subito celebrano Francesco Albertini nel suo Opusculum de mirabilibus novae et veteris urbis, 1510, e Andrea Fulvio in Antiquaria Urbis, 1513, oggi documenti preziosi, allora veri e propri manifesti di cultura e potere. È, questo, il momento culminante della mitizzazione dell’arte classica, e contemporaneamente l’avvio della riscoperta e dello studio dell’arte greca e romana. In effetti, nessuna vicenda storico-artistica presenta, nella cultura occidentale, uno scambio così fitto, duraturo e reciprocamente stimolante tra costituzione di un modello culturale e conoscenza storica dei suoi presupposti.

Già nella Roma repubblicana, forte della conquista della Magna Grecia, della Sicilia e della stessa madrepatria greca, compiuta nel 146 a.C., la cultura dell’oraziano «Graecia capta ferum victorem cepit» (“La Grecia conquistata conquistò il feroce vincitore”) diventa allo stesso tempo moda e modello, gusto e paradigma: classicus è sinonimo del meglio, dell’oggetto di imitazione e di ispirazione costante, pena la deriva dalla qualità suprema e insuperabile, pena la lontananza dalla bellezza assoluta.

In quel tempo, in seno alle cerchie ellenizzanti che prime danno vita al nucleo sorgivo della cultura classica, la Grecia delle arti è già, più che una realtà storica un’idea sconfinante nel sogno, il bisogno di un modello che incontra i propri riscontri, piegandoli al proprio desiderio. La vivente arte ellenistica e Fidia, Zeusi e Lisippo, vi si amalgamano in un unico orizzonte ideale, del quale il primato di Atene è mito nel mito, ed entro il quale s’intessono nozioni effettive e desideri tutti nuovi che da quel mito traggono garanzia. Così, nel I secolo d.C., ne scrive Plinio il Vecchio nei libri XXXIV-XXXVI della Naturalis Historia, prima ampia trattazione che rappresenta ancor oggi una fonte preziosa di informazione e un materiale straordinario di riflessione; così si desume dalla Periegesi della Grecia di Pausania, erudito greco del II secolo d.C.

L’umanesimo che marca il trapasso dal Medioevo al Rinascimento si radica esattamente in quel mito, raddoppiandolo con il mito congenere della grandezza di Roma antica, e con il desiderio di rinnovarne i fasti. Atene e Roma incarnano, dal Rinascimento a oggi, il culmine definitivo della bellezza e della grandezza: sarà Edgar Allan Poe, in To Helen, a sintetizzare tutto ciò nel distico celeberrimo «To the glory that was Greece, / And the grandeur that was Rome» (“Alla gloria che fu la Grecia, / Alla grandiosità che fu Roma”).

Statua dell'Ermafrodito dormiente. Copia romana del II secolo d.C. da un originale ellenistico, restaurato da David Larique (1619) e riadattato da Gian Lorenzo Bernini. Musée du Louvre
Ermafrodito dormiente. Statua, copia romana in marmo di II secolo da un originale di età ellenistica. Restauri di David Larique (1619), riadattamento di Gian Lorenzo Bernini (1620). Paris, Musée du Louvre.

È l’umanesimo a rileggere e rielaborare, ben più che filologicamente, l’idea dell’antichità come antichità classica. Ed è l’umanesimo, tra Venezia e Roma, a offrirci i primi esempi significativi di collezionismo e studio delle antichità greche e romane. Nei gabinetti antiquari degli intellettuali dell’epoca si accumulano, pur in assenza di qualsiasi prospettiva storica e sistematica, monete e vasi, bronzetti e frammenti scultorei e architettonici dell’antico, a comporre delle Wunderkammern, le eclettiche ed esotiche stanze di meraviglie allora in voga, sempre più specialistiche.

Possedere questi oggetti significa poterli studiare, ma allo stesso tempo – com’è da sempre nella ragione stessa del collezionare – partecipare della loro sacralità, facendosi irradiare dal loro potere carismatico. L’oggetto antico, l’oggetto classico, proietta sul possessore le proprie virtù: dunque, lo rende partecipe della medesima grandezza e bellezza della quale è portatore, testimoniandone allo stesso tempo l’eccellenza nei confronti della società.

Non è un caso, in questa prospettiva, che i papi più sensibili e arguti del XV secolo facciano delle raccolte di antichità lo strumento di una renovatio Romae che si vuole allo stesso tempo restituzione della città alla sua grandezza urbana e monumentale, e rifondazione ideologica di un’unità di tipo imperiale garantita dall’eredità atavica: concetto, questo, che avrà in seguito lunga e controversa fortuna, sino al Fascismo.

Lupa Capitolina. Originale etrusco del V secolo a.C. modificato nel '500 con l'aggiunta dei gemelli. Bronzo, Musei Capitolini
Lupa Capitolina. Statua, bronzo, originale etrusca del V secolo a.C. con aggiunta cinquecentesca dei Gemelli. Roma, Musei Capitolini.

Già nel cuore del Quattrocento papa Paolo II Barbo raccoglie un’importante collezione di antichità nel romano Palazzo di Venezia. Dopo di lui, sarà Sisto IV Della Rovere, nel 1471, a donare un gruppo fondamentale di sculture fino a quel momento collocate davanti al Patriarchio lateranense – rappresentando così proprio la continuità tra la Roma imperiale e il potere temporale della Chiesa – alla città e a farle collocare al Palazzo dei Conservatori, primo nucleo dei Musei Capitolini, i quali possono ben vantare il titolo di primo museo pubblico della storia: la Lupa (alla quale nel Cinquecento sono state aggiunte le figure di Romolo e Remo), lo Spinario, il Camillo, il Costantino, simboleggiano la nuova Roma che, grazie al papato, torna agli antichi fasti di prima città del mondo. È poi con Alessandro VI Borgia che l’attività di scavo di antichità, sino a quel momento sporadica, prende a farsi sistematica, a partire dai primi ritrovamenti alla Villa Adriana di Tivoli: sarà un suo discendente, Ippolito II d’Este, figlio di Lucrezia Borgia, a dare un impulso determinante agli scavi di Tivoli intorno al 1550, assistito dal dotto Pirro Ligorio.

Negli stessi anni, non meno intensa è l’opera di studio, imitazione e reinvenzione del classico da parte delle nuove generazioni artistiche. Esemplare è il caso della corte mantovana dei Gonzaga, dove la passione antiquaria è alla base del progetto dello studiolo di Isabella d’Este, in cui il collezionismo d’antichità si incrocia con le invenzioni classiche di Andrea Mantegna e con le copie, le citazioni e le reinvenzioni scultoree di Pier Jacopo Alari Bonacolsi, che gli valgono l’appellativo di “l’Antico”: questi, tra l’altro, darà anche precoce testimonianza dell’uso di intervenire con restauri estetizzanti sulla scultura classica, firmando a Roma un intervento sui Dioscuri del Quirinale.

L’effetto del Cortile del Belvedere sulla cultura europea è dirompente. La chiave di lettura non è, tuttavia, quella del riconoscimento dell’antico, bensì la sua equivalenza immediata nel contemporaneo: non si tratta di conoscere l’altro distante, ma di inglobare, quasi in una forma di amorevolmente feroce cannibalismo, il modello e nutrirsene per creare l’arte del presente, dotata di pari prestigio e senso della bellezza.

Che Michelangelo assuma il Laocoonte (l’opera che Plinio definiva «tra tutti i dipinte e le sculture, il più degno di ammirazione»), scoperto nel 1506 e subito collocato al Belvedere, a modello anatomico, identificandovisi al punto che, in tempi recenti, si è potuto addirittura sostenere – in modo peraltro del tutto fallace – che egli ne sia l’inventore stesso; che Bramante indica una vera e propria gara per realizzarne modelli per la fusione in bronzo, tra i quali Raffaello giudica quello di Jacopo Sansovino come il più meritevole; che poco più di dieci anni più tardi la copia marmorea eseguita da Baccio Bandinelli – il quale risiede e ha studiato al Belvedere stesso, così come Bramante, Sansovino, l’orafo Caradosso, e per un certo periodo Leonardo – sia ambita da Francesco I di Francia; che due repliche bronzee figurino da subito nella “grotta” di Isabella d’Este: tutto ciò, oltre ai risarcimenti diversi e alle varianti che di replica in replica rendono appassionante la vicenda iconografica dell’opera, dice quanto l’antico, testualmente o per elaborazione concettuale, sia argomento vivo del dibattito artistico cinquecentesco, e altrettanto quanto il possesso di un exemplum classico abbia valore carismatico presso le maggiori corti europee.

Leocare (attr.), Apollo del Belvedere. Statua, copia romana in marmo bianco di II secolo da un originale ellenistico, c. 350 a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.
Leocare (attr.), Apollo del Belvedere. Statua, copia romana in marmo bianco di II secolo da un originale ellenistico, c. 350 a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Sarà ancora Michelangelo, d’altronde, a dare la propria impronta alla re-mitizzazione del classico con la collocazione in Campidoglio della Statua equestre di Marco Aurelio a far da perno concettuale, su un nuovo basamento, alla sistemazione di tutta la piazza. E va ricordato che i suoi Prigioni saranno esposti un secolo dopo nella collezione del cardinal Richelieu fianco a fianco alle sculture antiche.

Possedere originali, possedere repliche, possedere copie d’après. Con una gradazione infinita di differenze, è tra queste tre pulsioni che si gioca la vicenda dell’arte classica.

Parallele alle collezioni capitoline, ulteriormente arricchite a partire dal 1566, e a quelle papali, si formano cospicue collezioni private, tra le quali spiccano la Cesi, la Cesarini, la Della Valle, cui inoltrandoci nei due secoli successivi altre se ne affiancheranno, fondamentali per la storia artistica, dalla Medici alla Farnese, dalla Ludovisi alla Borghese, dalla Giustiniani alla Odescalchi, dalla Pamphili alla Albani, seguendo i saliscendi delle fortune delle grandi casate aristocratiche.

Collezionismo, d’altronde, significa anche mercato. A questo proposito, tiene conto  ricordare che proprio per l’acquisto del Laocoonte si scatena una feroce contesa nella quale Giulio II deve risolversi a far valere il proprio potere, ma anche  che, per tutto il Seicento e il Settecento, saranno più l’iconografia e la fama delle opere, piuttosto che la loro qualità intrinseca, a determinarne il prezzo: né è inusuale che siano esponenti della stessa casata nobiliare che colleziona a farsi protagonisti del mercato, reperendo, comprando e vendendo, come accadrà agli Albani.

Agesandro, Atanodoro e Polidoro (Scuola di Rodi). Gruppo del Laocoonte. Copia romana del I secolo d.C. da un originale bronzeo del 150 a.C. ca.
Agesandro, Atanodoro e Polidoro (o Scuola di Rodi). Gruppo del Laocoonte. Copia romana in marmo di I secolo da un originale bronzeo del 150 a.C. ca. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

È proprio la spinta del mercato a espandere rapidamente anche l’attività di restauro dei pezzi antichi ritrovati. Il concetto di restauro come restituzione e completamento dell’opera, da allora assai diffuso, nasce, oltre che dall’assenza di una consapevolezza filologica, anche dalla labilità dei confini, tipica del tempo, tra arte contemporanea e arte antica. La famiglia Della Porta annovera scultori, mercanti (autori di importanti vendite alla collezione Borghese) e restauratori, e sarà uno dei suoi esponenti, Guglielmo, a por mano all’Ercole Farnese.

Dai primi del Seicento si rendono protagonista di tale tipo di restauri (che meglio descrive il termine francese rénovation) molti autori, anche di primo piano. Nel 1609 Nicolas Coridier restaura le Tre Grazie e altre opere della collezione Borghese, e un decennio dopo sarà Gian Lorenzo Bernini, reduce dal successo della Capra Amaltea scambiata per antica, a rielaborare l’Ermafrodito per il mecenate Scipione Borghese, restaurandolo e aggiungendovi il materasso.

Di lì a poco, nel 1626, un altro astro del firmamento scultoreo, Alessandro Algardi, assumerà l’esclusiva dei restauri delle opere antiche della collezione Ludovisi, succedendo a Ippolito Buzio: nel 1633 alle sue mani sarà affidato anche il ripristino delle centoventidue sculture acquistate a Roma dal cardinal Richelieu, prima del loro trasferimento in Francia.

Alla metà del secolo addirittura vi è chi cerca di stabilire pionieristicamente le norme per il restauro. Si tratta di Orfeo Boselli, le cui Osservazioni della scoltura antica, 1642-1663, hanno il carattere di vero e proprio trattato. Tant’è. Ancora per molti decenni, e sino all’affermarsi della consapevolezza storica moderna, il restauro sarà vissuto come una forma di creatività e di ricreazione, tale da condizionare in modo decisivo il formarsi dell’idea di classico così come poi verrà normata da Winckelmann e dai suoi seguaci.

Laddove non si acquisiscano originali – pratica che, nel primo Seicento, raggiunge un tal grado di intensità da far imporre, nel 1624, severe restrizioni all’esportazione di opere antiche da Roma, e da render necessaria per gli scavi di una licentia extraendi da parte del Camerlengo del papa – è ritenuto necessario presso le corti e l’aristocrazia internazionale, in Francia al pari che in Inghilterra e in ambito tedesco, ottenere calchi e repliche fedeli. Perso il Laocoonte di Baccio Bandinelli (che perverrà alle raccolte medicee), e solo parzialmente risarcito con la copia dello Spinario eseguita da Benvenuto Cellini e donatagli nel 1540 da Ippolito II d’Este, l’italianizzante Francesco I invia a Roma il fedele Primaticcio per far eseguire calchi delle maggiori sculture classiche, dalle quale trarre bronzi per Fontainbleau. Sono, questi calchi, i capostipiti di una vera e propria industria dei gessi e delle copie che, nel volgere di pochi decenni, dilagherà per tutta l’Europa, riproducendo con relativa fedeltà modelli iconografici e suggestioni stilistiche che, con il passar del tempo, assumeranno un valore ideologico fortissimo, sino al costituirsi delle collezioni di modelli nell’ambito delle accademie e delle scuole d’arte.

In ogni caso, il primo originale classico a lasciare Roma per la Francia sarà la Diana cacciatrice, copia romana di un originale del IV secolo a.C., donata nel 1554 da papa Paolo IV Carafa a Enrico II, e subito, a sua volta, oggetto di repliche. Giusto un secolo dopo, nel 1649, sarà Diego Velásquez ad affrontare un viaggio romano per provvedere di calchi la corte di Filippo IV di Spagna.

Il Seicento è, in generale, il secolo della diffusione internazionale di un numero di originali, di copie e di stampe di traduzione tale da omologare una sorta di visione del classico in cui sono indistinguibili – né, d’altronde, importa distinguere – il tratto originale dall’interpretazione posteriore, lo stile dalla stilizzazione. D’altronde, la mancanza di distinzione tra severità dell’arte antica d’epoca più alta e drammaticità dell’ellenistica, tra formalismo greco e realismo romano, in quel momento accomunati nell’unico ideale classico, colma lo iato tra persistenze classiciste e folate barocche che contraddistingue il dibattito artistico del secolo, garantendo a entrambe le posizioni i necessari quarti di nobiltà.

Da segnalare è inoltre, in questo periodo, il diffondersi di una vera e propria moda del classico in Inghilterra e in Francia. Oltremanica, pioniere e santone della riscoperta dell’antico è Lord Arundel, leggendario collezionista che nel suo viaggio italiano del 1613-1614 conduce con sé il pupillo Inigo Jones, primo grande architetto classicista in Inghilterra, e nella cui raccolta confluiscono ben centosessantacinque pezzi antichi. Nel secolo successivo, collezionista principe sarà Charles Townley. In Francia a fianco delle raccolte reali (le sculture dei giardini di Versailles sono una sorta di fior fiore dell’arte classica, in copia) si segnalano quelle di Richelieu, che arriva a possedere quattrocento pezzi originali, e del cardinal Mazzarino. Nel 1666 viene istituita su iniziativa di Lebrun e Colbert l’Académie de France a Roma: il Prix de Rome, grazie al quale i migliori tra i giovani pittori e scultori vengono inviati a Roma a formarsi nel confronto diretto con l’antico, durerà sino al 1968.

Così, mentre ancora la sensibilità artistica non fa alcuna distinzione tra classicità effettiva e trasognato ideale classico, cosicché può accadere che François Girardon, scultore prediletto di Luigi XIV, nel 1684 trasformi la statua mutila scoperta nel 1651 ad Arles in una Venere con braccia, specchio e pomo, una svolta ulteriore al mito del classico è impressa dall’affermarsi e dal diffondersi della moda del Grand Tour.

Glicone di Atene, Ercole Farnese. Statua, copia romana in marmo di III secolo da un originale ellenistico di Lisippo (IV secolo a.C.). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Glicone di Atene, Ercole Farnese. Statua, copia romana in marmo di III secolo da un originale ellenistico di Lisippo (IV secolo a.C.). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

La cultura del Grand Tour prende avvio dalla pubblicazione in Inghilterra nel 1670, e subito dopo in Francia, nel Voyage of Italy, or a Complete Journey through Italy di Richard Lassels, di lì a poco, 1691, affiancato da resoconti come il Nouveau Voyage d’Italie di François-Maximilien Misson. Si tratta di un vero e proprio pellegrinaggio, compiuto da aristocratici e intellettuali, nei luoghi del classico: Firenze, Venezia, ma soprattutto Roma e Tivoli, e di lì a poco il Mezzogiorno, l’antica Magna Grecia e la Sicilia. Un effetto moltiplicatore esercita, su tale voga, l’avvio degli scavi sistematici, deciso dai Borbone, di Ercolano, 1738, e Pompei, 1748, asseverati nel 1757 dalla pubblicazione del primo volume delle Antichità di Ercolano. Moda nella moda, per lunghi decenni un “gusto pompeiano” circolerà tra gli ambienti intellettuali, e non solo, d’Europa. Va ricordato peraltro che, prima di quelle date, solo le cosiddette Nozze Aldobrandini, scoperte nel 1606, erano documento significativo della pittura romana.

Sempre meno mere elencazioni di mirabilia, tali opere letterarie e grafiche sono vere e proprie esperienze conoscitive, in cui il pittoresco e l’esotico lasciano luogo a una repertoriazione agguerrita di dati storici e artistici, che tra Settecento e Ottocento consentirà il diffondersi, a mezzo stampa, di una messe iconografica imponente, e di alcuni non banali tentativi di comprensione sistematica dei materiali.

Attorno al fenomeno del Grand Tour si coagula inoltre una ulteriore ondata collezionistica, in cui alla pittura di paesaggio e alla moda dei capricci pittorici con rovine si affianca un fitto scambio di materiali originali, legalmente o illegalmente esportati, soprattutto in Inghilterra e in area tedesca. Ancora una volta a far da padrone è, in questo ambito, la figura dell’artista, che a un tempo svolge la funzione di restauratore e di mercante. È il caso di Giovan Battista Piranesi, restauratore e mercante oltre che autore di fondamentali incisioni documentarie e d’invenzione di antichità e monumenti; di Bartolomeo Cavaceppi, collezionista, restauratore e catalogatore, cui si deve l’importante repertorio Raccolta d’antiche statue, busti, teste cognite…, 1769-1772, attivo nella cerchia del cardinale Alessandro Albani e alla base della collezione Torlonia; di Vincenzo Pacetti, incaricato tra l’altro del restauro e dell’ordinamento della collezione Giustiniani. È il caso, soprattutto, di Gavin Hamilton, esempio perfetto del nuovo vento di moda classicheggiante che spira in Inghilterra, dalla quale si trasferisce a Roma nel 1756: buon pittore, è soprattutto archeologo e mercante delle proprie scoperte. Più che di un mero gusto esotico, il Grand Tour è padre, s’è detto, del maturare di un atteggiamento antiquario consapevole dell’importanza di una conoscenza diretta, verificata, delle opere antiche.

Nel 1722 i pittori inglesi Jonathan Richardson padre e figlio pubblicano Account of Some of the Statues, Bas-Reliefs, Drawings, and Pictures in Italy, in cui la filosofia diaristica del voyage comincia a trasformarsi in una documentazione sistematica e accurata, con implicazioni storico-artistiche in nuce.

Nel 1734 sono «dei gentlemen che avevano viaggiato in Italia», secondo le parole di Richard Chandler, a fondare a Londra la Dilettanti Society, emula della Society of Antiquaries of London nata nel 1718, che ha lo scopo di finanziare e patrocinare viaggi di studio che dall’Italia meridionale si estendono infine al mondo greco, sino a quel momento trascurato in quanto considerato parte di un Oriente d’umore esotico. Tra il 1769 e il 1800 Chandler pubblica le Antiquities of Ionia e nel 1776 i Travels in Greece. Prima di lui, James Stuart e Nicholas Revett, sempre su iniziativa dei Dilettanti, lavorano a The Antiquities of Athens, edite dal 1762, riproduzioni grafiche accurate, rigorosamente misurate, delle rovine d’Atene, e in particolare dell’Acropoli. Negli stessi anni, peraltro, Julien-David Leroy pubblica a Parigi Les Ruines des plus beaux monuments de la Grèce, 1758, di intento affine.

Leocare, Diana cacciatrice. Copia romana di un originale greco del IV secolo a.C. Musée du Louvre
Leocare, Diana cacciatrice. Statua, copia romana in marmo di un originale greco di IV secolo a.C. Paris, Musée du Louvre.

Sulla scia di questo approccio positivo e metodologicamente orientato si muovono anche due nobili siciliani, Ignazio Paternò Castello principe di Biscari, al quale si devono la costituzione di un vero museo «publicae utilitati / patriae decori / studiosorum commodo», inaugurato dal principe nel 1758 nel suo palazzo in Catania, e un Viaggio per tutte le antichità di Sicilia e Calabria, 1781; e Gabriele Lancillotto Castelli principe di Torremuzza, il quale redige nel 1764 l’Idea di un tesoro che contenga una generale raccolta di tutte le antichità di Sicilia, preziosa e precoce intuizione sistematica.

Ben poco tali tentativi hanno a che fare con esperimenti enciclopedici ancora compilatori, come L’Antiquité expliquée, 1719-1724, di Bernard de Montfaucon, e come il Recueil d’antiquités égyptiennes, grecques, étrusques et romaines di Anne Claude Philippe de Tubières, conte di Caylus, i cui sette tomi, usciti tra il 1752 e il 1767, sono responsabili del diffondersi di un antico indiscriminato come fattore di moda imitativa.

È in questo clima, e forte di un nutrimento filosofico altrove assente, che irrompe la figura cruciale nella conoscenza e nello studio dell’antico. Johann Joachim Winckelmann, fondatore della moderna storia dell’arte e dell’archeologia, è colui che elabora il primo autentico tentativo di comprensione e di sistemazione dell’arte antica, soprattutto greca, e che allo stesso tempo conferisce dignità intellettuale proprio al mito del classico.

Trasferitosi a Roma nel 1755 e divenuto bibliotecario del cardinale Alessandro Albani, Winckelmann è autore dei fondamentali scritti Gedanken über die Nachahmung der griechischen Werke in der Malerei und Bildhauerkunst (Considerazioni sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura), 1755, e Geschichte der Kunst des Altertums (Storia dell’arte nell’antichità), 1764.

L’opera d’arte deve, per lui, essere sottoposta ad analisi testuali e comparative, che ne facciano emergere i rapporti con il contesto ambientale, storico e culturale in cui fu prodotta, grazie al quale definirne i caratteri estetici. È, per la prima volta, un’idea di arte in prospettiva storica. Carattere tipico dell’arte greca – che peraltro Winckelmann studia e differenzia dalla romana, sebbene basandosi solo su materiali romani – è il perfetto dominio delle passioni e del disordine, quella «nobile semplicità e serena grandezza» derivante ai Greci dalla bellezza etica e civile che ne fece i campioni della libertà. La bellezza dunque è bellezza insieme fisica e morale, una sorta di condizione sorgiva e, in Grecia, naturale: è a quella condizione primigenia che il Rinascimento si è avvicinato, a quella ancora l’arte deve tendere, in un’imitazione che superi il mero aspetto formale. E per vero Anton Raphaël Mengs, sodale e artista preferito da Winckelmann, ben più al classicismo raffaellesco che al «gusto greco» guarda, nella sua copiosa produzione.

Al di là delle ramificazioni di dibattito culturale che faranno di Winckelmann il patrono del neoclassicismo in via d’affermazione (Denis Diderot sostiene peraltro che bisogna «peindre comme on parlait à Sparte», dove con il «dipingere come si parlava a Sparta» intende il mito classico come etica eroica della pittura), soprattutto le sue riflessioni sullo stile e sul metodo indicano il mutato approccio in termini di cultura archeologica. Da subito, ad esempio, una diversa sensibilità nei confronti del contesto in cui le opere si inseriscono, e del quale lo scavo e il prelievo indiscriminato rappresentano delle lacerazioni, affiora tanto nelle riflessioni di Cavaceppi, amico dello studioso tedesco, sia, che soprattutto, in quelle successive di Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy, le cui Lettres à Miranda, redatte nel 1796, rappresentano una denuncia lucida e appassionata contro la rimozione dei capolavori dal loro contesto originario da parte di Napoleone.

Gian Lorenzo Bernini, Il ratto di Proserpina. Marmo, 1621. Galleria Borghese
Gian Lorenzo Bernini, Il ratto di Proserpina. Gruppo scultoreo, marmo, 1621. Roma, Galleria Borghese.

Tra i resoconti illustrati di fine Settecento vanno ricordati ancora, per il loro impatto in termini di diffusione iconografica, il Voyage pittoresque ou description des Royaumes de Naples et de Sicilie, in cinque volumi e 411 tavole, 1781-1786, di Jean-Claude Richard Abbé de Saint-Non, che si avvale delle indicazioni di Dominique Vivant Denon, il quale sarà direttore dei Musei di Francia in età napoleonica, e Travels in the Two Sicilies in the Years 1777, 1778, 1770 and 1780, di Henry Swinburne, 1783. Di intento più metodologicamente schiarito è Reise durch Sicilien und Grossgriechenland (Viaggio in Sicilia e Magna Grecia), di Johann Hermann von Riedesel, 1771, la cui dedica all’amico Winckelmann indica una ben precisa collocazione culturale.

Tuttavia gli eventi degli ultimi decenni del secolo sono di segno differente. Mentre, nello stretto ambito della produzione artistica e in quello del gusto, il goût grec indica forme accentuatissime di idealizzazione e di reinterpretazione (si pensi al successo ottenuto da John Flaxman con le sobrie e composte illustrazioni per l’Iliade, 1793, e l’Odissea, 1795; si pensi alla scultura canoviana), sul piano della conoscenza è proprio il modello museale, erede ed emulo del collezionismo papale e aristocratico, a prevalere su ogni ragionamento di contesto e di studio comparativo.

Il British Museum, inaugurato a Londra nel 1759, nel 1772 si arricchisce della collezione di vasi greci e di oggetti classici. Ma è soprattutto il Louvre, nell’epoca che segna il trapasso dalla Rivoluzione all’impero napoleonico, a incarnare esemplarmente il concetto di museo di paradigmi storici, di modelli eccellenti il cui valore civile sia educativo verso il popolo, e carismatico per il regnante.

Nel 1791 un decreto dell’Assemblea destina la residenza reale del Louvre alla «riunione di tutti i monumenti delle scienze e delle arti»: aperto due anni dopo, gratuito, esso è visitabile sempre dagli artisti, e il fine settimana dal pubblico. L’ascesa di Napoleone coincide con il trascolorare del senso civile dell’operazione, e con l’imporsi esclusivo del modello imperiale. Nel 1796, a conclusione della campagna d’Italia, tra le clausole d’armistizio Napoleone impone la cessione di cento opere, scelte discrezionalmente tra le collezioni italiane, da trasferire al Louvre. L’operazione ha un valore ideologico straordinario, implicando simbolicamente e concretamente il passaggio dall’eredità culturale dell’antica Grecia e del retaggio imperiale romano a Parigi.

Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne. Gruppo scultoreo, marmo, 1622-1625. Roma, Galleria Borghese
Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne. Gruppo scultoreo, marmo, 1622-1625. Roma, Galleria Borghese.

Aperto il 9 novembre 1800 nel vecchio appartamento di Anna d’Austria, il Musée des Antiques eredita dalle collezioni romane anche i criteri di ordinamento, affidati a Ennio Quirino Visconti, già conservatore a Roma del Museo Capitolino e figlio di quel Giovan Battista Antonio Visconti cui si deve la riorganizzazione del Museo Pio-Clementino in Vaticano, peraltro assai caratterizzato anche architettonicamente in senso classico dagli interventi di Michelangelo Simonetti. Frutto del soggiorno parigino del Visconti saranno anche studi fondamentali come Iconographie grecque, 1808-11, e il primo volume di una Iconographie romaine, 1817.

Nel 1807 Napoleone arricchisce ulteriormente il museo con l’acquisizione di molte opere della collezione Borghese, grazie al legame di parentela stabilito dalla sorella Paolina, moglie di Camillo Borghese. Quando nel 1815, alla caduta dell’imperatore, i suoi bottini di guerra verranno restituiti ai legittimi proprietari, sarà Antonio Canova a occuparsi delle antichità italiane: i Cavalli di San Marco, giunti a Venezia dopo la conquista di Costantinopoli nel 1204, tornano nella città lagunare, e le collezioni vaticane, capitoline e medicee vengono reintegrate.

Per effetto imitativo, il Langravio Federico II tra il 1769 e il 1779 fa edificare il Museum Fridericianum a Kassel, su progetto dell’architetto Simon Louis du Ry, di cultura neopalladiana, e Ludovico I di Baviera immagina di fare di Monaco l’«Atene tedesca», commissionando nel 1815 a Leo von Klenze la costruzione della Glyptothek, che si inaugurerà nel 1830. Il gioiello della sua collezione, che nei primi anni del secolo si arricchisce notevolmente, è il frontone del tempio di Aphaia a Egina, che nel 1812, secondo l’uso invalso, lo scultore neoclassico Bertel Thorvaldsen, di lunghe frequentazioni romane, sottopone a restauro.

Il 1830 è anche l’anno dell’inaugurazione dell’Altes Museum di Berlino, voluto da Federico Guglielmo III e progettato dal grande architetto Karl Friedrich Schinkel. È in questi musei e nel loro citare elementi del tempio greco, a cominciare del frontone e dalle colonne, che si afferma il paradigma, poi divenuto stereotipo, del museo come tempio, come luogo sacro dell’arte e della sua celebrazione.

Sarà nella seconda metà del secolo, dopo il 1871, che una serie sistematica di scavi archeologici, in cui ragioni scientifiche e motivi di competizione coloniale con Francia e Inghilterra si intersecano strettamente, arricchirà notevolmente i musei berlinesi, a partire dall’Altare di Pergamo, scavato tra 1878 e 1886. A segnare la prima metà dell’Ottocento sono due fattori, l’incremento cospicuo delle conoscenze e il maturare di una più salda consapevolezza storica.

Da un lato, più di frequente le campagne di scavo si estendono verso la Grecia di madrepatria e il Vicino Oriente – oltre che, dopo le campagne napoleoniche, l’Egitto – per incrementare lo studio delle opere originali in situ e per aumentare parallelamente la quantità dei materiali collezionistici, pubblici e privati. Sino alla fine del Settecento, il repertorio di opere conosciute, nella quasi totalità di provenienza italiana, aveva nutrito un mito classico fatto di repliche e di imitazioni, oltre che di un’accentuata attenzione iconografica. Di ciò è documento eloquente uno degli ultimi tentativi eruditi del tempo, il Musée de Sculpture antique et moderne, contenant una suite de planches au trait relatives à la partie technique de la sculpture…, monumentale opera in 13 volumi che il conte di Clarac e Alfred Maury pubblicano tra il 1826 e il 1853. Solo gli scavi – e tecniche di scavo non improvvisate, non volte solo alla ricerca del capolavoro – secondo la nuova consapevolezza possono portare significative evoluzioni negli studi e nella conoscenza. In effetti, se si eccettua l’identificazione di una copia marmorea del Discobolo di Mirone, nel 1781, l’ampliamento della conoscenza dell’arte greca è merito tutto delle campagne del primo Ottocento. Dal 1801 Edward Daniel Clarke, archeologo e viaggiatore, compie un periplo della Grecia, riportandone una raccolta di circa 2000 pezzi: i suoi marmi antichi entreranno nella collezione del Fitzwilliam Museum di Cambridge.

Nel 1806 Thomas Bruce, più conosciuto come Lord Elgin, porta in Inghilterra dalla Grecia parte del fregio, 15 metope e 17 figure frontonali del Partenone, una Cariatide e una colonna dell’Eretteo, che passano nel 1816 al governo britannico ed entrano al British Museum. Ambasciatore a Costantinopoli, egli non solo ottiene i preziosi reperti ateniesi, ma promuove intense campagne di scavo nell’Attica e a Egina, nelle Cicladi e a Salamina. Nel 1812 si effettuano gli scavi del tempio di Apollo a Figalia-Bassae: i rilievi verranno portati in Inghilterrra – perverranno al British Museum – da Charles Robert Cockerell, geniale archeologo che aveva preso parte anche agli scavi di Egina, riconoscendo precocemente tracce di colore sull’architettura. Nel 1820 l’isola di Melos restituisce l’Afrodite, subito passata al Louvre; nello stesso anno, il duca di Luynes scava il tempio di Apollo Liceo a Metaponto, e lo pubblica con Debacq nel 1833. Del 1829 sono gli scavi francesi al tempio di Zeus a Olimpia, e del 1835 gli scavi sistematici dell’Acropoli di Atene.

Alessandro di Antiochia (attr.), Venere di Milo. Statua, marmo pario, c. 130 a.C. Paris, Musée du Louvre
Alessandro di Antiochia (attr.), Venere di Milo. Statua, marmo pario, c. 130 a.C. Paris, Musée du Louvre.

Altro fattore è lo studio dei materiali, iniziando a prescindere dal modello intellettuale e algido di una grecità immaginata, e per certi versi sognata. L’interrogazione delle opere e dei siti procede con piglio sempre più metodologicamente schiarito, e consente di aprire fronti d’indagine sino a quel punto mai immaginati. Non più nella logica del Grand Tour, che vi conduce nel 1787 Wolfgang Goethe, il soggiorno a Selinunte nel 1822 degli inglesi Samuel Angell e William Harris porta allo scavo del tempio C e al ritrovamento delle metope del tempio F. Al di là del loro tentativo, fallito, di trasferire illegalmente materiali a Londra, la scoperta rivela al mondo una verità a quel tempo sconvolgente, la presenza del colore nella scultura e nell’architettura greca. Il loro percorso si incrocia con quello di Jacques Ignace Hittorff, che negli stessi anni studia con Karl Ludwig von Zanth i templi di Agrigento, Segesta e Selinunte per ritrovarci tracce di colore.

In effetti, sin dai rilievi ateniesi di Stuart e Revett l’argomento era stato più volte sollevato da coloro che avevano avuto esperienza dell’architettura e della scultura greca di madrepatria. Ma ciò contraddiceva il pensiero dominante della castità cromatica dell’arte classica, e non venne per decenni preso in seria considerazione; peraltro, i restauri e le puliture, oltre che le procedure necessarie per trarre calchi dagli originali, contribuivano non poco a «ripulire» gli antichi marmi.

Il tema viene affrontato in modo esplicito da Quatremère de Quincy in Le Jupiter Olympien, 1814, e ciò rilancia in modo decisivo la questione. Angell e Harris pubblicano le loro scoperte selinuntine nel 1826, Hittorff e Zanth danno alle stampe l’anno dopo il fondamentale Architecture antique de la Sicile: quando nel 1851 pubblicheranno Restitution du temple d’Empédocle à Sélinonte, ou l’architecture polychrome chez les Grecs, redatto nel 1830, la nuova cognizione sarà faticosamente accettata dalle cerchie colte d’Europa. Quanto sconvolgente sia, sul piano della coscienza dell’antico, tale novità, è detto dalle polemiche che nel 1836-37 accompagnano i lavori della commissione, ufficialmente insediata, incaricata di stabilire se anche i marmi Elgin fossero originariamente colorati. Della commissione fanno parte, Hittorff, Thomas Leverton Donaldson e Cockerell: nonostante le conoscenze scientifiche ormai maturate, la conclusione è che non fossero dipinte. Ancora a quelle date, dunque, forte è l’influenza del vecchio concetto winckelmanniano, secondo cui il bianco delle sculture è ideale per qualificare il rapporto dei volumi e delle superfici con la luce: quasi che il fantasma della purezza originaria sia ancor più forte della certezza oggettiva. E forte è la proiezione continua dell’oggi sul desiderio del classico: Canova e Thorvaldsen sono paradigmi classici, infine, non meno di Fidia.

Lisippo, Apoxyomenos. Statua, copia romana in marmo pentelico di età claudia da un originale bronzeo del 330 a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.
Lisippo, Apoxyomenos. Statua, copia romana in marmo pentelico di età claudia da un originale bronzeo del 330 a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Il miglior omaggio agli studi di questi autori sarà, nel 1868, un quadro, ovvero ancora una creazione d’arte che riflette sul classico: Lawrence Alma-Tadema in Phidias and the Frieze of Parthenon, ora al museo di Birmingham, riproduce il fregio completamente colorato. In ogni caso, dalla seconda metà dell’Ottocento si assiste, sino agli inizi del secolo nuovo, a una sorta di doppio binario. Da un lato, è la prosecuzione del mito classico nelle fattezze dello studio iconografico e della purezza plastica, che si arricchisce di nuove identificazioni: nel 1849 è riconosciuta una copia marmorea dell’Apoxiomenos di Lisippo, nel 1863 una copia del Doriforo di Policleto, nel 1864 viene scoperta la Nike di Samotracia. Il suo tenace permanere è, in realtà, ormai solo il risultato di un classicismo che intride di sé la cultura ottocentesca – e con essa l’architettura, e molta della pittura – in una sorta di conservatorismo che scambia la relatività del proprio gusto per omaggio all’immortalità, e della cui opacità è testimone l’accademismo artistico. Dall’altro si trova il fronte della ricerca archeologica vera e propria, che giunge infine a pensare se stessa come disciplina autonoma e autorevole, non più debitrice del gusto corrente e sottratta alla contiguità con il dibattito artistico e filosofico. È questo fronte, alla fine dell’Ottocento, a dare l’avvio all’archeologia moderna e allo studio autonomo dell’arte antica.

Resta una considerazione. Per una bizzarria della storia quando Filippo Tommaso Marinetti, nel manifesto futurista del 1909, afferma che «un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia», per contrapporsi al mito museificato del classico sceglie l’esempio di una delle sculture più «giovani», e più incolpevoli, tra quante hanno fatto nascere e poi trascolorare il mito del classico.