Gli dèi omerici

di G. SISSA, M. DETIENNE, La vita quotidiana degli dèi greci, Roma-Bari 1987, 7 ss.

Una serie di giornate assolate e di notti scure: accadimenti singolari e improvvisi si susseguono sullo sfondo di una temporalità sicura, continua, piena di abitudini, nutrita di inezie. In primo piano, nel movimento del racconto, si urtano gli incidenti e i sussulti di una guerra che, d’un tratto, è divenuta epica e febbrile allorché, per una questione d’onore, è esplosa la collera di un eroe. Il campo di battaglia si trova nel paese degli uomini, sulle rive dello Scamandro, ma gli dèi vi sono ben più che coinvolti: la dirigono, la fomentano, si ostinano in essa. Prendono le decisioni e le armi. La guerra di Troia appartiene a loro. Chi strappa gli eserciti al torpore, alla tensione immobile, all’attesa vana in cui sono inutilmente trascorsi anni interi? Chi stabilisce la strategia di quelle memorabili giornate di sortite, imboscate, assalti e duelli? È Zeus, il padre degli dèi e degli uomini, a spezzare la monotonia dell’assedio, nel momento in cui risponde alle lagnanze di una dea offesa nella persona di suo figlio. È lui a decidere quando ordinare la risoluzione e la fine del conflitto.

Divinità barbata (Zeus o Hermes). Testa, marmo pentelico, 450-440 a.C. ca. dal Pireo. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Al re degli Argivi egli invia un messaggio, un sogno mendace, e scatena così il terribile scontro che si concluderà con la presa della città. E il sogno, pur ingannando Agamennone riguardo ai suoi successi immediati, non nasconde la natura divina della sua origine. L’immagine parlante che appare al re addormentato, col viso di Nestore, venerabile consigliere, evoca infatti l’assemblea degli abitanti dell’Olimpo: «Gli Immortali, abitanti dell’Olimpo, non hanno più opinioni divergenti. Tutti si sono piegati alla preghiera di Hera. I Troiani sono ormai votati alla sventura». Una discordia fra gli dèi paralizzava ogni attività; il segno di un dio riscuote dall’inerzia.

Per il poeta dell’Iliade, la dinamica della guerra di Troia e la storia frenetica delle sue battaglie sono nelle mani degli abitanti dell’Olimpo. La lite tra Achille e il suo re costituisce un’occasione, un accidente originario. «Canta, o dea, l’ira di Achille, figlio di Peleo»; così ha inizio il poema. Ma l’autore, il motore affatto mobile di tale diverbio fra un eroe, figlio di una dea, e un re di ceppo mortale, è un dio. Certo, il poeta chiede alla dea che il racconto si svolga a partire dal momento «in cui una lite improvvisa oppose il figlio di Atreo, protettore del suo popolo, e il divino Achille». Ma questo inizio ne cela un altro. All’origine della disputa che oppone l’uno all’altro un re e il suo miglior paladino si delinea un’altra causa, decisiva e divina. «Quale degli dèi, dunque, ha seminato discordia fra loro in una tale lite e battaglia?», domanda il poeta. E Apollo fa la sua comparsa, da protagonista. All’origine della lite sta dunque il figlio di Latona e di Zeus: è lui che ha visto il capo degli Achei trattare sprezzantemente uno dei suoi sacerdoti, è lui che «scende dalle vette dell’Olimpo, con cuore corrucciato», per vendicarsi. Agamennone ha rifiutato di restituire a Crise, sacerdote di Apollo, la figlia, una giovane che egli aveva scelto come sua parte di bottino in occasione della conquista di Crisea. Ma è lo stesso Apollo a ritenersi oltraggiato nella persona del suo ministro: la tracotanza del re lo riguarda e lo colpisce. Reagisce. Fa irruzione in quel tempo uggioso nel quale ormai nulla più accadeva. È lui, dunque, a inaugurare il tempo della guerra movimentata e narrata. Quanto all’origine prima dell’offesa recata da Agamennone al sacerdote e al suo dio, questa sembra essere l’effetto dell’arroganza tutta umana del re. Ma l’intero svolgimento della guerra si inscrive, non bisogna dimenticarlo, nei disegni di Zeus.

Pittore di Villa Giulia. Scena con coro femminile. Pittura vascolare a figure rosse da un calyx-krater, 460 a.C. c. da Falerii. Roma, Museo Nazionale di Villa Giulia.

Per la sua incursione nel mondo umano, per venire ad appostarsi, simile alla notte, presso le navi greche, Apollo lascia la sua casa, una dimora ben costruita nel feudo montano degli Immortali, il massiccio dell’Olimpo, nella parte nord-orientale della Grecia continentale. Come tutti i suoi simili, quando si mescolano agli uomini, Apollo all’inizio dell’Iliade deve fare un viaggio, vale a dire percorrere molto velocemente la distanza che separa due spazi: quello delle sue azioni puntuali, nel caso specifico la pianura di Troia, e quello della sua esistenza quotidiana. Due spazi, due tempi: l’intrigo cavalleresco, il dramma che occupa il proscenio, si staglia – come abbiamo detto – su un fondale di costumi, abitudini, gesti ripetuti. Questo secondo piano è talora percepibile grazie a notazioni rapide, che si insinuano nel racconto, en passant, con l’aiuto di una pausa, come l’allusione alla grossa nuvola che le Ore spostano, a mo’ di porta, all’ingresso dell’Olimpo, o l’evocazione delle maniere a tavola. Ma gli indizi di una vita divina, quasi un paesaggio appena delineato in prospettiva, compongono di fatto un altro quadro, obbligano a presupporre l’esistenza di un altro teatro per le imprese degli dèi. Quello di una vita loro propria, autonoma e parallela. Lunghe scene vi si svolgono: assemblee e conversazioni, banchetti e alterchi, nel palazzo di Zeus o sulle vette che lo circondano. Viaggi, incontri, liti: gli dèi si muovono in questo altrove in cui i giorni succedono ai giorni, secondo un ritmo assolutamente simile a quello noto ai mortali. Si muovono, agiscono, si spostano, ma anche si riposano: sanno abbandonarsi allo scorrere del tempo, all’ozio, al ritorno delle ore. Il lettore di Omero ha l’illusione perfetta che gli abitanti dell’Olimpo formino una società a parte, completa e indipendente: relativamente animata, essa ha una storia evenemenziale che non sempre si intreccia a quella dei mangiatori di pane. Ha conosciuto passaggi di potere e sedizioni. La sua struttura gerarchica e genealogica è continuamente esposta al rischio del conflitto. Ma questa società possiede anche una profonda stabilità, fondata su un sistema di comportamenti e di rappresentazioni: gli abitanti dell’Olimpo obbediscono a regole, seguono costumi, hanno una coscienza assai precisa della loro identità etnica.

La società degli Immortali invita alla storia e all’etnografia. La grande partizione culturale che divide in due il mondo iliadico non è quella che distingue i Greci dai Troiani: la somiglianza degli uomini tra loro è pressoché totale. Tutti i mortali, quale che sia la loro origine, ellenica o asiatica, parlano la stessa lingua, indossano armature che possono scambiarsi senza alcun problema, mangiano allo stesso modo lo stesso cibo, sacrificano agli stessi dèi. Rispetto a essi nel loro insieme, sono gli Immortali a figurare come nazione eterogenea. Hanno una propria lingua, un cibo specifico, fanno un uso dei metalli che è loro peculiare: il bronzo per le case, l’oro per le suppellettili e i mobili; essi stessi sono colmi di una sostanza vitale che non è sangue. Accanto alle caratteristiche propriamente divine, agli innumerevoli poteri di cui danno prova – spostarsi con una velocità che annulla il tempo, mutare di forma, rendersi invisibili, dare o sottrarre forza – gli abitanti dell’Olimpo mostrano un insieme di tratti culturali in senso proprio. Essi non sono semplicemente dèi, esseri sovrannaturali caratterizzati da un’onnipotenza virtuale e immobile. Sono gli abitanti dell’Olimpo, mangiatori d’ambrosia, amatori di musica apollinea […].

Assemblea degli dèi. Bassorilievo, marmo, 530-525 a.C. ca., dal Tesoro dei Sifni, Santuario di Apollo Delfico. Delfi, Museo Archeologico Nazionale.

L’amore […] introduce un intero campo dove la dissomiglianza fra dèi e mortali sembra sfumare definitivamente, dove nulla viene a rammentare che gli uni sarebbero meglio equipaggiati degli altri per condurre la propria esistenza. È, questa, la dimensione degli umori e dei luoghi del corpo – cuore (θυμός e κῆρ), diaframma (φρήν), petto (στῆθος) – corrispondenti alla causa e alla sede dei movimenti affettivi. È il registro delle passioni: collera, pietà, odio, amicizia. La loro dieta alimentare priva forse gli dèi di sangue, ma tutto il loro comportamento sociale riposa su una “biologia delle passioni”, un’iscrizione nel corpo, nella quale i Greci dovevano riconoscere facilmente la propria.

La bile, vale a dire la collera, costituisce uno degli ingredienti più attivi della trama dell’Iliade. Se si percorre il suo campo semantico, si incontrano dèi in preda al rancore (μῆνις), al furore (μένος); abitanti dell’Olimpo corrucciati (χωόμενοι), beati che s’indignano (ὀχθέω) e si irritano (νεμεσσάω). E ciò non può essere ridotto a episodiche manifestazioni del carattere. Si tratta, al contrario, di fattori dinamici del racconto. Ricostruire, giorno dopo giorno, la vita degli dèi Olimpici significa confrontarsi con il fatto evidente che la volontà strategica di Zeus, il quale, si ritiene, determina e dispone gli eventi, è in realtà soltanto l’effetto secondario, la decantazione di un impulso più immediato e meno mediato: la grande irritazione del dio contro Agamennone. Rabbia divina che è il risultato di una catena di reazioni passionali, perché Agamennone ha suscitato la furia e il rancore di Achille, che ha fatto appello alla pietà di Teti, la quale, a sua volta, ha saputo suscitare il corruccio di Zeus. E la collera di Zeus non viene forse a dare il cambio a quella di Apollo, il cui sacerdote ha subito uno scatto d’ira da parte di Agamennone e ha invocato il dio di vendicarlo? L’agire degli dèi si narra di furia in furia. Zeus e Apollo, Hera e Atena, Ares e Poseidone funzionano soprattutto in questo modo; allo stimolo dell’offesa rispondono con un eccesso di bile e, rapidi, si lanciano all’azione efficace. La collera si rivela come motore della loro vita frenetica e, conseguentemente, della storia degli uomini. Essa fa cominciare il racconto e ne decide la fine. Infatti, nell’Iliade tutto si ferma proprio con una tregua di tutte le ire e gli odi, quando gli dèi, cominciando da Apollo e Zeus, rinunciano alla loro violenza reciproca, alle opinioni divergenti e alla discordia che li spinge a battersi e ad affrontarsi. Irritati, per una volta all’unisono, dall’accanimento di Achille contro il cadavere di Ettore, solidali in una nuova e ultima collera rivolta all’eroe […] folli di rabbia, decretano la fine delle ostilità e, con ciò stesso, del racconto che da queste traeva la sua energia e ispirazione.

“Atena Mattei”. Statua, copia romana di I secolo a.C. da un originale bronzeo di IV secolo a.C., opera di Cefisodoto. Paris, Musée du Louvre.

Ma gli dèi manifestano anche l’intera gamma delle facoltà deliberative e intellettuali: volontà (βουλή), cuore (θυμός), intelletto (νοῦς). A loro appartengono gli aspetti più avviti della soggettività; il θυμός, in particolare, sede dei sentimenti come anche degli slanci volontari e delle decisioni che s’impongono all’io umano, funziona anche negli dèi in maniera assolutamente normale. Volere è, per Atena, essere spinta dal suo grande cuore (θυμός); esprimere il suo pensiero è, per Zeus, quel che il cuore gli detta nel petto; fare scelte divergenti equivale, per gli dèi nel loro insieme, ad avere cuori divisi, così come, per uno di loro, vuol dire meditare nel proprio diaframma per giungere alla scelta che gli sembra migliore nel cuore… Insomma, gli dèi dell’Olimpo dipendono dal loro θυμός né più né meno dei mortali.

Il teatro e gli strumenti della μίμησις

di I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca, 2, A. Il teatro, Messina-Firenze 2004, 17-19.

Gli studi sul teatro greco di Siracusa e su quelli più antichi del mondo greco (fra cui quelli di Atene e di Epidauro) consentono una conoscenza abbastanza chiara della struttura architettonica dell’edificio e delle tecniche scenografiche in uso nel V secolo a.C., l’età d’oro del dramma attico. Per quanto concerne l’architettura teatrale, la cavea e l’orchestra, in cui agiva il coro, avevano una forma trapezoidale; la scena vera e propria (σκηνή), su cui svolgeva l’azione, era un edificio lungo e basso, a pianta rettangolare, con una fronte decorata rivolta al pubblico. Esso occupava la base dello spazio dell’orchestra ed era coperto da un tetto piano, a cui si poteva accedere dall’interno per mezzo di scalette; vi si trovavano anche i camerini per gli attori e per i coreuti. Il muro della σκηνή, posto di fronte all’orchestra, sosteneva un sistema di meccanismi scenici, consistenti in alti pali formati da più parti a incastro; su di essi venivano montati i telai delle varie scene, dipinti su stoffa o su pelle, riposti, quando non servivano, in una fossa scavata lungo tutto il fronte della σκηνή. Davanti a quest’ultima si trovava una vasta pedana di legno, un po’ più alta del piano dell’orchestra, chiusa alle due estremità da opere in muratura: era il palcoscenico vero e proprio, a cui si accedeva dalla σκηνή attraverso tre porte e da cui si poteva scendere nell’orchestra.

Ricostruzione planimetrica del Teatro di Dioniso, Atene.

Sotto il piano di quest’ultima si trovavano delle fosse attraverso le quali, senza essere visti dagli spettatori, si giungeva direttamente al centro dell’orchestra; venivano usate per simulare il sorgere delle ombre dei defunti dalle profondità della terra (scale caronie), mentre le apparizioni divine erano calate dall’alto per mezzo di carrucole o con una specie di gru, detta μηχανή (di qui l’espressione deus ex machina). Gli ambienti erano di solito costruiti mediante teloni dipinti, montati su leggeri telai di legno, che occupavano tutto il muro frontale della σκηνή, con aperture in corrispondenza delle porte. Per la loro realizzazione ci si rivolgeva a pittori di una certa fama, come Agatarco, che fu scenografo di Eschilo e di Sofocle, oltre che autore di un trattato sulla prospettiva. Qualche notizia sulla scenografia dei vari drammi si può ricavare dagli accenni contenuti nel testo stesso, dagli scolii e dalla pittura vascolare, che si ispirò frequentemente a scene e a personaggi del teatro tragico.

Ipotesi di ricostruzione del Teatro di Dioniso in Atene proposta da Moretti (da MORETTI 2000, p. 297).

Fra le fonti letterarie più tarde si hanno le indicazioni contenute nella Poetica aristotelica, che si preoccupa soprattutto di evidenziare il processo di catarsi operato sul pubblico dal teatro tragico, grazie alla sua eccezionale efficacia mimetica (VI 6 1449b):

ἐπεὶ δὲ πράττοντες ποιοῦνται τὴν μίμησιν, πρῶτον μὲν ἐξ ἀνάγκης ἂν εἴη τι μόριον τραγῳδίας ὁ τῆς ὄψεως κόσμος· εἶτα μελοποιία καὶ λέξις, ἐν τούτοις γὰρ ποιοῦνται τὴν μίμησιν.

Poiché sono dunque persone in azione che compiono l’imitazione, e per prima cosa ne consegue di necessità che un elemento della tragedia sarà l’allestimento dello spettacolo; poi la musica e il linguaggio: in questo modo, infatti, essi realizzano l’imitazione.

Secondo le forme dell’arte, la μίμησις dell’azione era il risultato di tre elementi essenziali, che interagivano costantemente: ὁ τῆς ὄψεως κόσμος («l’allestimento dello spettacolo»), la μελοποιία (la «sintesi di musica vocale e strumentale») e la λέξις (il «linguaggio»).

A proposito dell’allestimento scenico, l’opera di massimo impegno fu probabilmente, verso la metà del V secolo a.C., l’Orestea di Eschilo, la sola che possa darci un’idea di quali fossero le necessità scenotecniche di un’intera trilogia. Le indicazioni contenute nel testo di ciascuno dei drammi, infatti, ci fanno pensare che tutte le scene dovessero essere già montate fin dall’inizio sui pali della σκηνή, l’una a ridosso dell’altra. Bisogna dire che gli scenografi non si proponessero un eccessivo realismo: pur ispirandosi alle forme e alle strutture dell’architettura loro contemporanea, essi preferivano risultati decorativi piuttosto imitativi, come possiamo dedurre dalle pitture vascolari che riproducono scene di tragedia con edifici dalle forme stilizzate, esili e snelle.

Policleto il Giovane, Teatro di Epidauro, 360 a.C. c. [veduta aerea].
La scelta dei colori prediligeva toni piuttosto vivaci sia nella scenografia sia nei costumi di coreuti e attori – altro importante elemento ai fini dell’effetto generale; una così ricca policromia di rossi, azzurri, gialli e bianchi sarebbe un po’ troppo accentuata per il nostro gusto, ma forse non sembrava tale alla luce del giorno, in piena primavera mediterranea: era infatti questa la stagione delle Grandi Dionisie, in cui avevano luogo gli agoni tragici e le rappresentazioni dei drammi.

Il teatro antico faceva uso anche di meccanismi abbastanza sofisticati, il più comune dei quali era la già ricordata μηχανή, o «gru» (il primo a servirsene sarebbe stato Euripide), con la quale si calava dall’alto, sulla scena, l’attore che interpretava la parte di una divinità. Vi era poi l’ἐκκύκλημα, una sorta di «piattaforma girevole», che serviva per aprire il fondo della scena e mostrare agli spettatori l’interno di un edificio e delle sue stanze; funzione analoga aveva l’ἐξώστρα, una specie di «balcone» mobile che poteva essere spinto fuori quando le esigenze sceniche lo richiedevano. Meccanismi come il κεραυνοσκοπεῖον e il βροντεῖον, le «macchine» dei fulmini e dei tuoni, permettevano di ottenere effetti speciali di luce e di suono.

Ricostruzione schematica delle principali macchine teatrali in uso sulla σκηνή (link).

Le nostre conoscenze della musica greca antica sono abbastanza numerose e approfondite per farci capire l’importanza attribuita a quest’arte nel mondo ellenico, ma troppo ridotte e frammentarie per consentircene la conoscenza diretta.

Il mondo greco non considerò né praticò mai la musica come un’arte a sé stante, ma la vide sempre come un complemento non solo della poesia e della danza, ma anche della recitazione, dello sport e delle attività militari. Il legame più stretto fu, da sempre, quello con la poesia, perché la lingua ellenica, melodica e ritmica per sua stessa natura, fece sì che i Greci sentissero la musica come un abbellimento della parola cantata o declamata, privilegiando questo suo uso rispetto a quello puramente strumentale. Questa «unione di parole e di suoni», indicata con il termine μελοποιία, caratterizzò sempre le principali manifestazioni artistiche, sportive, religiose della vita sociale pubblica e privata.

Pittore Epitteto. Sileno con aulos. Pittura vascolare da kylix attica a figure rosse, c. 520-500 a.C. da Vulci. Paris, Cabinet des Médailles.

In ambito teatrale, la musica apparve come un secondo linguaggio, adatto a esprimere, come quello parlato, sentimenti, passioni e stati d’animo; il suo carattere prevalente era la melodia, tanto che anche i cori cantavano all’unisono. L’accompagnamento strumentale, assai semplice, si limitava a raddoppiare il canto, oppure aggiungeva suoni di abbellimento consoni o dissoni rispetto alla voce dell’attore; lo strumento poteva riempire con qualche nota anche le pause della voce, ma, in genere, questi interventi strumentali erano solo decorativi.

La tradizione attribuisce a Eschilo parecchie innovazioni nell’ambito della tragedia, fra cui il progressivo ampliarsi delle parti dialogate rispetto a quelle corali, con la conseguente necessità di un’approfondita ricerca linguistica, propria, pur con aspetti diversi, anche di Sofocle e di Euripide. Tutti riuscirono, infatti, al di là delle loro scelte soggettive, a esercitare sugli spettatori un potente effetto psicagogico (e quindi, secondo Aristotele, catartico), al quale contribuivano tutti gli strumenti dell’«imitazione» (μίμησις): l’allestimento scenico dello spettacolo, la musica e il linguaggio.

Aristofane e Sofocle. Doppia erma, marmo, 130 d.C. dalla villa di Adriano a Tivoli. Paris, Musée du Louvre.

La struttura della tragedia, quale noi la conosciamo attraverso i drammi che ci sono pervenuti, rappresenta il punto di arrivo di un lungo processo di sviluppo; uno degli aspetti di questo percorso evolutivo è rappresentato dallo spazio sempre maggiore concesso al dialogo rispetto alle parti corali, che andarono progressivamente riducendosi. Una volta entrato in scena, il coro, formato al tempo di Eschilo da dodici elementi (che divennero quindici all’epoca di Sofocle), si disponeva secondo uno schema quadrangolare, dividendosi in due semicori. Guidati da un corifeo, i coreuti innalzavano il loro canto, in armonia con la musica dei flauti ed eseguivano le complesse figure dell’ἐμμέλεια, una danza austera e solenne.

Sia gli attori che i coreuti portavano la maschera, dapprima preciso riferimento rituale al culto dionisiaco, in seguito semplice strumento teatrale, destinato a connettere i personaggi secondo tipi fissi (uomo, donna, giovane, vecchio, re, araldo, sacerdote, dio) e forse anche ad amplificare la voce dell’attore.

I costumi indossati dagli attori tragici erano ricchissimi e tali da aumentare l’imponenza della figura; a ciò contribuivano, in età più tarda, anche i coturni, calzari forniti di una suola di sughero assai alta.

Pittore di Pronomo. Eracle e Papposileno (dettaglio). Pittura vascolare da un cratere a volute apulo a figure rosse, 400 a.C. c. da Ruvo di Puglia. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Gli inizi del dramma attico

di I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca, 2, A. Il teatro, Messina-Firenze 2004, 14.

La prima data certa di una rappresentazione drammatica ad Atene è fatta risalire alle Grandi Dionisie della LXI Olimpiade (536-533 a.C.), durante le quali andò in scena un dramma del poeta Tespi, considerato l’inventore della tragedia e nativo del demo attico di Icaria; a costui era attribuito il merito di aver introdotto l’uso del prologo, della maschera e del dialogo fra il coro e un attore. Di lui si sa ben poco; secondo alcune fonti, sarebbe stato amico di Solone, molto più anziano di lui, e la sua fortuna come poeta tragico sarebbe da ricollegare al nuovo impulso dato da Pisistrato al culto di Dioniso.

Pittore di Esiodo. Musa che accorda due cithareis. Pittura vascolare da una coppa attica a fondo bianco, 470-460 a.C. c. da Eretria. Paris, Musée du Louvre.

Quasi contemporaneo di Tespi fu Cherilo, che iniziò la sua attività nel 523 a.C. ca., che gareggiò con Eschilo e Pratina negli agoni del 499/8 a.C. Sebbene fosse stato più volte vincitore (le fonti alessandrine gli assegnano ben tredici vittorie), di lui resta solo il titolo di un dramma, l’Alope, che probabilmente raccontava la storia dell’omonima eroina attica, amata dal dio Poseidone.

Il primo poeta drammatico di cui si hanno notizie più certe fu l’ateniese Frinico, nato intorno al 535 a.C. Egli conseguì la sua prima vittoria negli agoni celebrati fra il 511 e il 508 a.C., ottenendone sicuramente un’altra nel 476 a.C., con il dramma Le Fenicie, di cui fu corego Temistocle. Fra le opere di Frinico, scomparse assai presto dalla circolazione, merita di essere ricordato anche un altro dramma, La presa di Mileto (entrambi erano di argomento storico e narravano vicende della Prima guerra persiana). Secondo Erodoto (VI 21), la rappresentazione della Presa di Mileto suscitò nel pubblico una tale commozione che le autorità cittadine multarono il poeta di mille dracme, per aver ricordato loro una così dolorosa sconfitta.

All’introduzione del dramma satiresco, come si è detto, è legata la figura di Pratina di Fliunte, quasi contemporaneo di Frinico. Di Pratina, le cui opere erano già scomparse nel IV secolo a.C., restano il titolo di una tragedia, le Cariatidi, che trattava il mito delle seguaci di Artemide a Carie (città della Laconia), e quello di un dramma satiresco, I lottatori, che fu rappresentato dopo la morte del poeta da suo figlio Aristias, nel 467 a.C.

Le origini della tragedia: testimonianze antiche

di I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca, 2, A. Il teatro, Messina-Firenze 2004, 7-12.

I frammenti dei poeti tragici prima di Eschilo sono troppo esigui per fare chiarezza sull’origine e lo sviluppo della poesia drammatica; per colmare almeno in parte questa grave lacuna bisogna ricorrere alle testimonianza di alcuni autori antichi, il più importante dei quali è sicuramente il filosofo Aristotele (384-322 a.C.), che condusse un’attenta indagine sulle origini del dramma. Purtroppo, le sue opere su questo specifico argomento sono andate perdute; resta solo il primo libro della Poetica, nel quale l’autore, confrontando i caratteri del genere epico e di quello tragico, affronta in più punti il problema dell’origine e dello sviluppo del dramma. In IV 5; 7 1449a, Aristotele afferma:

γενομένη δ’ οὖν ἀπ’ ἀρχῆς αὐτοσχεδιαστικῆς καὶ αὐτὴ [sc. ἡ τραγῳδία ] καὶ ἡ κωμῳδία, καὶ ἡ μὲν ἀπὸ τῶν ἐξαρχόντων τὸν διθύραμβον, ἡ δὲ ἀπὸ τῶν τὰ φαλλικὰ ἃ ἔτι καὶ νῦν ἐν πολλαῖς τῶν πόλεων διαμένει νομιζόμενα, κατὰ μικρὸν ηὐξήθη προαγόντων ὅσον ἐγίγνετο φανερὸν αὐτῆς· καὶ πολλὰς μεταβολὰς μεταβαλοῦσα ἡ τραγῳδία ἐπαύσατο, ἐπεὶ ἔσχε τὴν αὑτῆς φύσιν.

καὶ τό τε τῶν ὑποκριτῶν πλῆθος ἐξ ἑνὸς εἰς δύο πρῶτος Αἰσχύλος ἤγαγε καὶ τὰ τοῦ χοροῦ ἠλάττωσε καὶ τὸν λόγον πρωταγωνιστεῖν παρεσκεύασεν· τρεῖς δὲ καὶ σκηνογραφίαν Σοφοκλῆς.

ἔτι δὲ τὸ μέγεθος· ἐκ μικρῶν μύθων καὶ λέξεως γελοίας διὰ τὸ ἐκ σατυρικοῦ μεταβαλεῖν ὀψὲ ἀπεσεμνύνθη, τό τε μέτρον ἐκ τετραμέτρου ἰαμβεῖον ἐγένετο. τὸ μὲν γὰρ πρῶτον τετραμέτρῳ ἐχρῶντο διὰ τὸ σατυρικὴν καὶ ὀρχηστικωτέραν εἶναι τὴν ποίησιν, λέξεως δὲ γενομένης αὐτὴ ἡ φύσις τὸ οἰκεῖον μέτρον εὗρε· μάλιστα γὰρ λεκτικὸν τῶν μέτρων τὸ ἰαμβεῖόν ἐστιν· σημεῖον δὲ τούτου, πλεῖστα γὰρ ἰαμβεῖα λέγομεν ἐν τῇ διαλέκτῳ τῇ πρὸς ἀλλήλους, ἑξάμετρα δὲ ὀλιγάκις καὶ ἐκβαίνοντες τῆς λεκτικῆς ἁρμονίας.

Derivava la sua origine dall’improvvisazione, non solo la tragedia, ma anche la commedia: quella dei corifei che intonavano il ditirambo, e questa da chi guidava le processioni falliche che ancor oggi in varie città sono rimaste nell’uso; e poi a poco a poco si accrebbe, perché i poeti coltivavano ciò che in essa appariva spontaneo; così, dopo essere passata attraverso vari mutamenti, la tragedia si arrestò perché aveva raggiunto la sua propria natura.

Fu Eschilo per primo a portare il numero degli attori da uno a due, a ridurre le parti corali, e a far primeggiare il dialogo; a Sofocle si debbono i tre attori e la scena.

Poi c’è la grandiosità: partendo da brevi racconti e linguaggio ridicolo, richiese tempo per acquisire nobiltà, dovendo abbandonare la sua impronta satiresca. Il metro divenne il trimetro giambico al posto del tetrametro: da principio usavano il tetrametro perché la composizione era appunto satiresca e molto ballata, ma quando il linguaggio prevalse, fu la natura stessa a trovare il metro adatto, perché il trimetro è fra tutti il più discorsivo; e la prova è che nel nostro discorrere giornaliero ci capita di pronunciare trimetri molto spesso, ma esametri molto poco, e sentiamo di uscire dal ritmo prosastico.

Aristotele. Busto, marmo greco e onice, copia romana di II sec. d.C., dal complesso della SS. Annunziata. Firenze, Galleria degli Uffizi.

L’accenno più significativo all’origine del dramma è dato dall’espressione ἀπὸ τῶν ἐξαρχόντων τὸν διθύραμβον, che può essere intesa sia «da quelli che cantavano il ditirambo» sia «da quelli che intonavano il ditirambo». La prima interpretazione appare piuttosto generica, limitandosi a ricollegare l’origine della tragedia alla nascita del ditirambo; la seconda si richiama al fr. 77 D. di Archiloco, in cui il poeta si vanta di saper intonare il ditirambo in onore di Dioniso, quando la sua mente è «fulminata dal vino». Da questi labili indizi si è dedotto che la tragedia ebbe origine quando coloro che intonavano il ditirambo, iniziando il canto, si contrapposero al coro, creando così un dialogo, primo indizio dell’azione drammatica. In entrambi i casi, comunque, il canto in onore di Dioniso era assunto come primo germe della tragedia.

Successivamente, Aristotele accenna a un altro elemento originario del dramma, τό σατυρικόν «l’elemento satiresco», di carattere comico, anch’esso collegato al ditirambo. Col tempo, esso si sarebbe attenuato fino a scomparire; a mano a mano che si accresceva la dignità dei contenuti del dramma anche la struttura metrica cambiò, sostituendo il tetrametro trocaico, un metro vivace e adatto a danze veloci e ritmate, con il trimetro giambico, discorsivo e più consono alle esposizioni e ai dialoghi. Per Aristotele e per i suoi contemporanei il collegamento fra l’aspetto ditirambico e quello satiresco doveva essere chiaro; per noi non è così e le scarse informazioni della Poetica non bastano a svelarci l’enigma.

Pittore Amasi. Dioniso fra i comasti. Pittura vascolare da un’anfora a figure nere, 550-525 a.C. c. Paris, Musée du Louvre.

La sola informazione certa di cui disponiamo è che il dramma satiresco andava in scena dopo la trilogia tragica; ma le notizie fornite dal lessico Suda, secondo il quale l’inventore di questo genere letterario sarebbe stato un poeta di poco anteriore a Eschilo, Pratina di Fliunte, che avrebbe sviluppato in senso comico i cori satirici in uso nella sua patria, impediscono tuttavia di ricollegarlo al ben più antico ditirambo.

Si potrebbe pensare che τό σατυρικόν aristotelico, inteso come elemento comico, comparisse già nei ditirambi di Arione, che, secondo Erodoto (I 23), sarebbe stato l’inventore di questo genere poetico. In seguito, il tono più severo della tragedia lo avrebbe quasi cancellato, finché esso sarebbe stato ripreso da Pratina in una nuova forma drammatica, il dramma satiresco, appunto, la cui comicità era accentuata dal contenuto apertamente burlesco e dalla presenza di coreuti mascherati da satiri, divinità agresti con attributi caprini, tradizionali compagni di Dioniso. Aggiungendo a queste notizie un’altra informazione del Suda, secondo cui lo stesso Arione sarebbe stato anche l’inventore della poesia tragica, i vari elementi dell’enigma potrebbero essere collegati così: Arione per primo compose ditirambi cantati da coreuti travestiti da satiri con attributi caprini (τράγοι o τραγικοί); da questo ditirambo, di carattere narrativo o forse dialogico, sarebbe nata la prima rudimentale composizione tragica, come dice appunto Aristotele nella Poetica. In seguito, questa nuova forma d’arte subì, nella sua evoluzione, tali cambiamenti da apparire completamente diversa e indipendente dalle sue origini.

Arione in groppa al delfino. Mosaico, III sec. d.C. dalle Grandi Terme di Thina. Sfax, Musée Archéologique.

Il solo elemento che non scomparve mai rimase la connessione della tragedia con il culto di Dioniso, al quale, in età classica, era stato innalzato un altare nei teatri.

La presenza del nome del dio su tavolette risalenti al XIII secolo a.C. e provenienti da Pilo in Messenia dimostra che questa divinità era venerata in Grecia fin da tempi antichissimi; tale culto, affievolitosi nei secoli successivi, riprese vigore verso il VII secolo a.C., come dimostrano appunto i ditirambi di Arione. Se dunque la tragedia deriva dal ditirambo, il collegamento con l’antico culto di Dioniso è rappresentato dal travestimento caprino dei coreuti, mentre la sua struttura trarrebbe origine dal dialogo fra il coro e un singolo personaggio, forse il corifeo. Due difficoltà si oppongono a questa teoria: la prima, di cui non si è in grado di dare una spiegazione, riguarda la disposizione dei coreuti, che nel coro ditirambico stavano in cerchio intorno all’altare di Dioniso, mentre il coro tragico ebbe sempre, sulla scena, una disposizione rettangolare. La seconda concerne le divinità agresti che formavano il corteo del dio: in ambiente attico, infatti, non si trattava di satiri, bensì di sileni, raffigurati in numerose pitture vascolari di V secolo a.C., con orecchie e coda equine. Tuttavia, questo diverso teriomorfismo fra creature semiferine che finirono poi con l’essere assimilate, potrebbe essere giustificato con la loro diversa provenienza geografica (dal Peloponneso i satiri, dall’Attica i sileni), senza intaccare la loro caratteristica essenziale e comune: quella di essere, cioè, demoni agresti della fertilità, dal carattere allegro e sessualmente esuberante, amanti della danza, della musica e dell’ebbrezza.

Pittore di Amasis. Sileni che vendemmiano e preparano il vino. Pittura vascolare da un’anfora a campana attica a figure nere, 540-430 a.C. c. Würzburg, Martin von Wagner Museum.

La seconda importante testimonianza sull’origine della tragedia compare in Erodoto (V 67): lo storico narra che, agli inizi del VI secolo a.C., Clistene, tiranno di Sicione nel Peloponneso, essendo in guerra contro Argo, proibì ai suoi sudditi il culto dell’eroe argivo Adrasto, celebrato con cori tragici (τραγικοῖσι χοροῖσι) che ne rievocavano le tristi vicende (πάθεα). Al suo posto, il tiranno introdusse il culto dell’acerrimo nemico di quell’eroe, il tebano Melanippo, i cui resti furono fatti portare in città. Fatto ciò, Clistene «restituì» (ἀπέδωκε) i cori tragici a Dioniso, mentre le altre parti del culto furono riservate a Melanippo. Il passo, che evidenzierebbe l’origine del carattere triste e severo della tragedia, nata dal ricordo delle sventure di un eroe, pone tuttavia un problema di difficile soluzione circa l’esatto significato dei termini τραγῳδία e τραγικός.

Fino al IV secolo a.C., il sostantivo si intese comunemente come «canto dei capri», alludendo ai coreuti mascherati da satiri; pertanto, all’aggettivo fu dato il significato di «caprino». In seguito, però, gli eruditi alessandrini avanzarono l’ipotesi che τραγῳδία significasse invece «canto per il capro», sia che l’animale fosse dato in premio al vincitore, sia che fosse la vittima sacrificale di un rito propiziatorio. In questo senso, i «cori tragici» di cui parla Erodoto potrebbero essere quelli in onore dell’eroe defunto (in questo caso Adrasto), mentre il sacerdote offriva in sacrificio un capro, per evocarne lo spirito (cfr. l’analogo rito in Od. IX). Forse il sacerdote intonava il «coro tragico» proprio in questa fase della cerimonia, narrando le vicende dell’eroe tragico e la sua fine, mentre i partecipanti al sacrificio gli rispondevano, instaurando un dialogo come quello ipotizzato a proposito del ditirambo di cui parla Aristotele.

Pittore Cleomelo. Un anziano conduce un caprone al sacrificio. Pittura vascolare da una kylix attica a figure rosse, 510-500 a.C. c. Malibu, J. Paul Getty Museum.

Questa teoria sembra confermata da una notizia del lessico Suda: il poeta Epigene di Sicione, seguendo l’esempio di Clistene, avrebbe tentato di introdurre il culto di Dioniso a Corinto, dedicandogli i cori tragici; ma il popolo reagì con violenza al grido di “Ουδέν πρός τόν Διόνυσον!” («Niente a che fare con Dioniso!»), esprimendo in questo modo la volontà di rimanere estraneo al culto del dio. Ma la stessa fonte dà anche un’interpretazione diversa dello slogan: «Questo non ha niente a che fare con Dioniso!», aggiungendo che il pubblico esprimeva con queste parole il proprio dissenso verso i poeti tragici che, invece di ispirarsi ai fatti di cui il dio era stato protagonista, gli avessero preferito personaggi e avvenimenti della tradizione epica.

Per quanto riguarda il collegamento fra tragedia ed elemento satiresco, le informazioni di Erodoto e del Suda non forniscono alcun aiuto; d’altra parte, il dramma satiresco non ha niente in comune con il dramma attico del V secolo a.C., cosa che induce a ipotizzare per esso uno sviluppo parallelo, ma diverso da quello della tragedia. La testimonianza erodotea, invece, indica con chiarezza l’origine del contenuto luttuoso della tragedia, quale la conosciamo fin da Tespi, evidenziando al tempo stesso la tendenza dei poeti tragici ad attingere i loro soggetti dall’ἔπος eroico, anziché dai miti di Dioniso. Anche la coloritura dorica della lingua, sempre mantenuta nei cori della tragedia, troverebbe giustificazione nel fatto che Sicione e Corinto, le località menzionate da Erodoto, siano entrambe nel Peloponneso; al tempo stesso, ammettendo l’origine peloponnesiaca del dramma, sarebbe confermata la tradizione secondo cui Pratina di Fliunte, inventore del dramma satiresco, lo avrebbe considerato un aspetto secondario, comico, invece che drammatico, di questo nuovo genere poetico. Tali ipotesi, indubbiamente allettanti, sembrano però inconciliabili con l’autorità del testo aristotelico e con la certezza che, in ambiente attico, la tragedia non potesse essere scissa dalle manifestazioni del culto dionisiaco.

Pittore di Antimene. Dioniso e il suo tiaso. Pittura vascolare da uno psykter attico a figure nere. 525-500 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.

Il tentativo di superare il dissidio esistente tra le fonti antiche sull’origine della tragedia ha spinto molti studiosi moderni, tra la seconda metà del XIX secolo e il XX, a formulare suggestive teorie di carattere filosofico, antropologico, psicanalitico; ma data l’ampiezza e la complessità di questi studi, preferiamo lasciar parlare gli antichi su questi argomenti.

Epos e tragedia. | Fra le varie teorie, ci sembra opportuno evidenziare anche il rapporto fra ἔπος e tragedia, al quale è concesso di solito un minore risalto, considerando tre testimonianze antiche, offerte rispettivamente dalla Poetica di Aristotele, da un passo del III libro della Repubblica di Platone (ripreso poi nel X) e da un’affermazione di Isocrate, contenuta in un’orazione parenetica a Nicocle, figlio di Evagora, re di Cipro, che era stato suo discepolo.

Riguardo al primo testo, è importante far notare come Aristotele, pur collegando con un breve cenno la tragedia al ditirambo, si dedichi poi a un raffronto analitico più ampio fra la struttura del poema epico e quella della tragedia, tralasciando del tutto la questione del rapporto tra dramma e culto dionisiaco.

Pittore di Teseo. Dioniso con tralci di vite su un carro-nave fra due satiri che suonano l’aulos. Pittura vascolare da uno skyphos attico a figure nere, 500-450 a.C. London, British Museum

Il passo platonico propone invece una classificazione della poesia in base alla tecnica usata nel racconto del mito, distinguendo fra «narrazione semplice» e «narrazione mimetica». Con la prima definizione si indica il racconto in terza persona a opera di un narratore esterno; la seconda, invece, fa riferimento al dialogo fra personaggi, i quali ricostruiscono e riproducono drammaticamente l’azione, così che il pubblico non è più destinatario passivo della narrazione, ma risulta coinvolto più profondamente, come diretto testimone degli eventi, attribuendo ai protagonisti del dialogo gesti e comportamenti adeguati alla situazione. Quanto all’ἔπος omerico, esso dà così via a un terzo tipo di struttura del discorso, la cosiddetta «narrazione mista». La sola differenza fra il dialogo «epico» e quello teatrale è, pertanto, costituita dalla presenza della «voce narrante», che, fra una battuta e l’altra, interviene nella forma della «narrazione semplice», per indicare chi parla e chi risponde. Con tale osservazione Platone ribadisce al tempo stesso la sua certezza riguardo alla forte componente drammatica e mimetica insita nella poesia epica, e la sostanziale unità tra ἔπος e tragedia, come si deduce dall’affermazione in Rep. X 607a, in cui si dichiara che Ὅμηρον ποιητικώτατον εἶναι καὶ πρῶτον τῶν τραγῳδοποιῶν («Omero è il più eccellente e il primo fra i poeti tragici»). Tale unità si infranse quando scomparve la presenza del poeta-narratore e i personaggi ebbero la possibilità di esprimersi con un mimetismo più diretto, trasmettendo così anche la pubblico la forte tensione emotiva tipica dell’azione tragica. Platone, poi, criticò questa forma d’arte proprio perché suscitava negli spettatori sentimenti intensi e irrazionali, mentre Aristotele attribuì al «terrore» e alla «pietà», ispirati dai drammi, una positiva funzione catartica.

Se le riflessioni dei filosofi riguardano soprattutto  l’evoluzione formale della tragedia e i suoi effetti psicagogici sul pubblico, Isocrate approfondì invece il diverso modo con cui Omero e i drammaturghi si accostarono al mito: poiché tutti costoro furono ottimi conoscitori della natura umana, amante di per sé di racconti favolosi, ὁ μὲν γὰρ τοὺς ἀγῶνας καὶ τοὺς πολέμους τοὺς τῶν ἡμιθέων ἐμυθολόγησεν, οἱ δὲ τοὺς μύθους εἰς ἀγῶνας καὶ πράξεις κατέστησαν, ὥστε μὴ μόνον ἀκουστοὺς ἡμῖν ἀλλὰ καὶ θεατοὺς γενέσθαι («l’uno [sc. Omero] narrò come miti le lotte e le guerre dei semidei, mentre gli altri [sc. i tragediografi] trasformarono i miti in lotte e imprese, cosicché potessero essere gustati da noi non solo con l’ascolto, ma anche con la vista», Or. II 49).

Talia, musa del teatro (dettaglio). Rilievo, marmo, II sec. d.C. ca. da un sarcofago romano con le Muse. Paris, Musée du Louvre.

A questo sintetico cenno sulle relazioni, forse non adeguatamente analizzate, fra epica e tragedia, è possibile aggiungere un beve ma significativo detto di Eschilo, che, pur non essendo stato l’iniziatore del genere tragico, fu però uno dei suoi più antichi rappresentanti. Egli affermava infatti che le sue tragedie non erano altro che «briciole dei ricchi pranzi di Omero» (Ath. Deipn. VIII 747e), intendendo dire con ciò che l’ἔπος, compresi i poemi ciclici, offriva al poeta tragico un vastissimo repertorio di miti e leggende di cui servirsi come meglio credeva, adattando alle sue esigenze personaggi famosi o quasi sconosciuti, situazioni talora appena accennate o episodi già ampiamente definiti, ma tutti forniti per loro stessa natura di un’implicita potenzialità tragica.

Alcuni aspetti, considerati tipici del genere tragico, se analizzati in rapporto a una loro possibile matrice epica possono suffragare quest’ultima affermazione:

  • maggiore libertà e creatività del poeta rispetto al racconto mitico;
  • conflittualità esasperata fra i personaggi (con diatribe che mimano l’ambiente quotidiano);
  • accentuato senso del pathos;
  • maggiore autonomia di giudizio da parte del pubblico;
  • teoria delle tre unità (di tempo, di luogo e di azione).

Il primo punto appare strettamente connesso con le responsabilità che l’autore tragico si assumeva, nel momento in cui decideva di procedere alla «sceneggiatura» del mito; infatti, benché quest’ultimo dovesse rimanere inalterato nei suoi aspetti essenziali e nella sostanza, il passaggio da racconto a δρᾶμα («azione») implicava di per sé l’ampliamento o la riduzione di certe parti, l’aggiunta o lo sviluppo dei personaggi, la puntualizzazione dei ruoli e del linguaggio. Ma il punto di forza della nuova forma d’arte era rappresentato soprattutto dalla funzione paradigmatica (cioè il fatto di fornire degli «esempi»), ragione principale dell’opera e realizzata con vari mezzi, il più efficace dei quali appariva la trasposizione del mito dalla dimensione dell’essere, immobile e perfetta, a quella del divenire, mutevole e fluida, concretamente agganciata alla soggettività dell’autore e alla realtà del suo tempo. Da ciò scaturiva anche l’interesse, altrimenti poco giustificabile, degli spettatori, i quali, pur trovandosi di fronte a situazioni e a personaggi loro ben noti, attendevano di vedere come il poeta avesse saputo rinnovarli con la sua creatività, dando vita a una trama di cui era agevole seguire il percorso e comprenderne il messaggio.

Pittore anonimo. Attore con maschera. Pittura vascolare frammentaria a figure rosse, 350-340 a.C. c. da Taranto.

Inoltre, la scomparsa della voce narrante, che agiva nell’epica da elemento catalizzatore anche nei momenti di più profonda tensione, costringeva i personaggi del dramma ad affrontarsi in modo più diretto, giustificando il tono di conflittualità talora esasperata tipico del rapporto fra i protagonisti della vicenda tragica.

Anche lo sviluppo dell’oratoria politica e giudiziaria e, più tardi, l’avvento della Sofistica, esercitarono la loro influenza, incontrando l’approvazione di un pubblico che da sempre apprezzava le capacità dialettiche e retoriche, sottolineate da situazioni in cui ciascuno dei personaggi tentava di far prevalere il proprio punto di vista, opponendo a quello dell’antagonista un’assoluta chiusura: ciò conferiva al dialogo tragico una tensione non lontana dai toni, spesso violenti e polemici, dell’oratoria agonale, tipici dell’ambito pubblico.

Il clima di conflittualità e di pathos che caratterizzava l’azione tragica scaturiva spesso dal tentativo del drammaturgo di chiarire a se stesso e agli spettatori i punti cruciali delle più profonde problematiche esistenziali: il rapporto fra l’uomo e la divinità, il modo di affrontare il dolore e le miserie (retaggio della condizione umana), la ricerca di se stessi e dei fondamentali valori dell’essere, il rapporto difficile e talora traumatico con il proprio ego e con gli altri, nell’ambito familiare, in quello della stirpe, della città. Il valore paradigmatico che il poeta attribuiva a questa ricerca e ai suoi esiti (di qui, la scelta di personaggi ed eventi ben noti, dai quali il pubblico potesse facilmente cogliere il messaggio dell’autore) lo spingeva ad analizzare non tanto le gesta di un eroe quanto le sue sofferenze, poiché nell’ottica pessimistica propria del mondo greco, l’evoluzione spirituale e la crescita interiore dell’individuo derivavano più spesso dal patire che dall’agire, perché l’uomo imparava a conoscersi e a conquistare una nuova dignità, nata da una più profonda e sofferta consapevolezza di sé e dei propri limiti, non nella gioia o nella fortuna, ma nel dolore, nella sconfitta, nell’umiliazione, di fronte al fallimento o alla morte.

Euripide. Testa, copia romana in marmo del I sec. d.C. da originale greco di Lisippo. Malibu, J. Paul Getty Museum.

Se, dunque, il fine del poeta tragico era quello di suggerire al suo pubblico una risposta ai più drammatici interrogativi dell’umanità, egli disponeva tuttavia di strumenti assai meno diretti rispetto a quelli dell’aedo epico, la cui voce narrante influenzava costantemente le scelte degli ascoltatori. Anche il tragediografo poteva affidare il proprio messaggio alla voce del coro e coinvolgere gli spettatori nella vicenda per mezzo dei dialoghi, che evidenziavano la conflittualità fra personaggi; ma il fatto stesso che lo spettatore dovesse tener conto di punti di vista diversi e contrastanti conferiva al dramma una relatività e una pluralità di ottiche estranea all’ἔπος e molto più ricca di spunti di riflessione e di rielaborazione personale.

Un’ulteriore diversità del dramma rispetto alla poesia epica fu rappresentata dall’uso costante, ma non canonico, dell’unità d’azione, di tempo e di luogo, scambiata poi, per un’errata interpretazione del testo aristotelico, per una norma rigida e irrinunciabile. Infatti, l’estensione del racconto epico giustificava la presenza di numerosi personaggi; poiché le loro azioni avvenivano in momenti e luoghi differenti, il poeta era costretto, per motivi di chiarezza e di logica, a narrazioni parallele e a frequenti procedimenti di analessi e di prolessi. Ma il poeta tragico, che si focalizzava sulle vicende di un solo personaggio o di una collettività che agiva come un singolo individuo, non necessitava più di queste tecniche narrative, o, quantomeno, vi ricorreva assai meno spesso, quando l’intreccio del dramma le rendeva indispensabili.

Epica e tragedia continuarono a coesistere nella cultura greca del V e del IV secolo a.C.; anzi, bisognerà aggiungere che l’ἔπος ebbe forse un peso più rilevante del dramma nell’istruzione primaria dei cittadini, benché i poemi omerici e ciclici, usati a scuola come «libri di testo», proponessero modelli umani e valori ammirati, ma ormai lontani e non più adeguati alla mentalità dei tempi. L’evoluzione sociale e politica verificatasi nell’arco di due secoli aveva infatti favorito il sorgere di un nuovo spirito, più critico e dialettico, flessibile e aperto al cambiamento molto più di quanto consentissero i canoni rigidi e assoluti della morale eroica. Scomparse o attenuate molte certezze, il pubblico era ormai maturo per comprendere e apprezzare in tutta la sua geniale creatività il messaggio dialettico e problematico del dramma.

Il genere oratorio fra V e IV secolo a.C.

di I. Biondi, Storia e antologia della letteratura greca. 2.B. La prosa e le forme di poesia, Messina-Firenze 2004, pp. 184-195.

 

  1. I caratteri generali

Le origini dell’oratoria e la codificazione del genere | Benché i Greci credessero che l’oratoria avesse avuto origine in Sicilia con Corace e Tisia, maestri di Gorgia da Lentini, in realtà, furono le particolari condizioni socio-culturali della loro patria a permettere lo sviluppo di un sistema politico e giudiziario che implicava un continuo confronto fra individuo e collettività. Quindi, la capacità di usare la parola come strumento di spiegazione e di persuasione nella vita politica e giudiziaria si rivelò indispensabile anche prima del V secolo a.C.; anzi, sebbene sia in questo periodo che l’oratoria assunse le sue caratteristiche definitive, si specializzò nei vari settori e assurse alla dignità di forma d’arte, i suoi esordi furono molto più antichi.

Filosofo o sacerdote (Plutarco o Platone). Statua, marmo bianco, 280 a.C. ca. Delfi, Museo Archeologico Nazionale.

L’ammirazione per la parola eloquente e persuasiva è già molto evidente nell’epos omerico: lo dimostra l’apprezzamento nei confronti dei personaggi come Nestore (Iliade I 249) e Fenice (Iliade IX 438). In entrambi i casi, si tratta di uomini ormai anziani, in cui il vigore del guerriero ha lasciato il posto alla saggezza che deriva dall’esperienza di una lunga vita, utile quanto e forse più della forza, e considerata sempre con profondo rispetto. C’è poi la ben nota eloquenza di Odisseo, al quale gli dèi hanno concesso questo particolare dono, così come hanno dato ad altri forza o bellezza (Odissea VIII 167-175). Odisseo ci offre anche il più antico esempio a noi noto dell’uso dell’eloquenza a scopo utilitaristico; potremmo, infatti, citare numerosi esempi in cui il suo abile parlare aiuta l’eroe in situazioni difficili; ma basterà ricordare il discorso rivolto a Nausicaa, «dolce come il miele e vantaggioso» (Odissea VI 148-185), con cui l’eroe conquista la fiducia e la benevolenza della giovane figlia di Alcinoo. Talora, ai fini prettamente pratici (a cui sono rivolte anche le numerose e convincenti menzogne), si aggiunge il piacere del racconto, come quando Odisseo, in veste di mendicante, narra le proprie avventure al porcaro Eumeo, con l’evidente compiacenza di chi sa creare con la fantasia personaggi e fatti del tutto credibili (Odissea XIV 135-360).

Il passaggio dagli antichi regni achei alla civiltà della pólis favorì lo sviluppo dell’oratoria giudiziaria e politica. Grandi oratori furono gli uomini di stato come Solone, Pisistrato, Temistocle e Pericle, i quali, in momenti assai difficili per loro e per la città, dovettero il successo alla capacità di convincere gli altri della validità delle loro proposte e di saper suscitare nel popolo reazioni adeguate alle circostanze. In particolare, quest’ultimo aspetto, se vogliamo dare credito a Tucidide (II 65, 9), fu peculiare dell’eloquenza periclea.

La vita della pólis, ricca di numerose e varie occasioni, creò ben presto altri spazi per l’arte della parola: le festività pubbliche di carattere religioso, civile e sportivo, rappresentarono un’utile palestra per l’oratoria d’apparato, così come i tribunali e le assemblee lo erano per l’oratoria giudiziaria e politica. In conseguenza di questa intensa attività, a cui il movimento della Sofistica aggiunse una solida base di preparazione tecnica, l’oratoria assunse caratteristiche distinte a seconda degli scopi per i quali fu utilizzata. Si ebbe così un γένος δικανικόν, un «genere giudiziario», tipico dei tribunali; un γένος συμβουλευτικόν, un «genere deliberativo», di cui si servivano gli oratori politici; e un γένος ἐπιδεικτικόν, un «genere dimostrativo», usato per lo più in occasioni di carattere ufficiale, ma anche in discorsi fittizi.

Temistocle. Busto, copia in marmo di età romana da originale greco del V sec. a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

L’espansione e il perfezionamento dell’uso della parola, a cui i sofisti diedero un impulso decisivo, determinarono anche la nascita di nuove professioni, nelle quali le caratteristiche intellettuali si univano a un solido senso pratico, che le rendeva al tempo stesso prestigiose e ben remunerate. Nacque così la figura del sofista, acclamato e ben retribuito professionista della parola, propugnatore di un ideale secondo cui, vista l’inconoscibilità e l’incomunicabilità del vero, il solo fine dell’eloquenza era quello di raggiungere τὸ εἰκός, il «verosimile», qualunque fosse lo scopo per il quale la parola era adoperata. Da questa matrice comune ebbero origine le professioni del logografo e del retore.

Il primo termine, che nel secolo VI e all’inizio del V aveva indicato semplicemente lo «scrittore in prosa», passò a indicare un professionista che, ottimo conoscitore della legge, e capace di esprimersi con incisività ed eleganza, prestava la propria opera a chi si trovava coinvolto in un procedimento giudiziario e non aveva la cultura e la preparazione necessarie per redigere da solo un discorso di accusa o di difesa, perché il diritto attico non consentiva l’impiego di avvocati.

Con il termine «retore» si indicò un personaggio di varia levatura, che sfruttava la propria eloquenza nelle assemblee pubbliche per sostenere il proprio pensiero politico (e allora si trattava di personalità di spicco, che, però, avevano molta cura della propria immagine e dosavano sapientemente i loro interventi nel dibattito), o per appoggiare proposte altrui. In questo caso, erano per lo più figure di secondo piano, seguaci di personaggi più importanti di loro, che non intendevano esporsi in prima persona al rischio di una γραφή παρανόμων, un’«accusa di illegalità», che avrebbe potuto pregiudicare la loro futura carriera. Sia retori sia logografi avevano fama di moralità piuttosto disinvolta, per cui la loro professione si acquistò ben presto una discutibile reputazione, tanto che grandi oratori pubblici, come Isocrate o Demostene, cercarono in ogni modo di far dimenticare che avevano iniziato la loro carriera come logografi.

Quando le opere dei più rinomati maestri di eloquenza e le orazioni giudiziarie, politiche ed epidittiche, cominciarono a circolare in redazioni scritte, anche l’oratoria entrò a far parte dei generi letterari e fu sottoposta a canoni e a classificazioni stilistiche. Ai grammatici alessandrini o, secondo altri, a Cecilio di Calacte, un retore di età augustea, è dovuto il cosiddetto Canone attico, un elenco di dieci oratori, considerati i migliori, ciascuno nel proprio genere: Antifonte, Andocide, Lisia, Isocrate, Demostene, Iseo, Licurgo, Eschine, Iperide e Dinarco. Notizie sulle biografie di questi oratori provengono da un’opera di Dionigi di Alicarnasso (fine del I secolo a.C.), intitolata Gli oratori attici; da un anonimo, comunemente indicato come Pseudo-Plutarco, che scrisse le Vite dei dieci oratori attici; e da alcune Vite che sconosciuti copisti premisero alle varie raccolte di orazioni.

La codificazione dei precetti retorici e il sorgere di varie scuole, spesso in concorrenza fra loro, favorì anche il diffondersi di diversi indirizzi stilistici, che diedero luogo a un vivace dibattito culturale, attivo soprattutto nell’ambiente latino del I secolo a.C. Fu in questo periodo, infatti, che nacque la tendenza a classificare l’oratoria greca in base a tre stili: quello «elevato» (elatus o gravis), solenne, raffinato, ricco di figure, di cui fu considerato caposcuola Gorgia; quello «medio» (mediocris), vivace, espressivo, teso a suscitare intense reazioni nel pubblico, la cui invenzione fu attribuita a Trasimaco di Calcedone; infine, lo stile «tenue» (tenuis o humilis), limpido, lineare, elegante, ma alieno da artifici, che ebbe in Lisia il suo massimo esponente. Naturalmente, si trattava di distinzioni intellettualistiche, che non potevano e non possono essere accettate se non con molta cautela, vista l’estrema varietà di contenuti, di circostanze, di pubblico, che condizionarono gli oratori, costringendoli non certo all’uniformità di stile, ma, al contrario, come si è già detto, a adeguare continuamente i loro toni alla situazione contingente, secondo le regole del τὸ πρέπον, «ciò che conviene», «che si adatta».

 

 

  1. L’oratoria giudiziaria nel V-IV secolo a.C.

Le caratteristiche generali del genere | Come abbiamo già accennato prima, l’arte del discorso rappresentò un elemento caratteristico della vita e della cultura greca già nella letteratura epica; ma soltanto nella seconda metà del V secolo a.C. essa divenne un genere letterario indipendente, in conseguenza delle mutate caratteristiche della vita politica, alle quali dovette adeguarsi la «parola pubblica», cioè quella destinata a esprimersi di fronte a un uditorio con ben precise finalità di ordine giudiziario, politico o celebrativo.

Secondo la tradizione, il siciliano Tisia, seguace di Corace, il retore a cui fu attribuita l’«invenzione» della tecnica argomentativa nell’oratoria giudiziaria, avrebbe composto un breve «manuale» in cui si indicava il modo di esporre i fatti e le prove concernenti ogni singolo caso, in modo da conferire loro la massima efficacia, inserendoli in una struttura espositiva semplice, ma funzionale e ben adattabile a ogni circostanza. Da questo schema si sviluppò in seguito il complesso delle quattro sezioni canoniche che caratterizzano, con varianti non sostanziali, le orazioni giudiziarie giunte fino a noi: il προοίμιον, o «esordio», che aveva la funzione di impressionare favorevolmente l’attenzione della giuria, presentando colui che pronunciava l’accusa o la difesa come cittadino rispettoso delle leggi, corretto e attendibile; la διήγησις, o «esposizione dei fatti», che doveva contenere un racconto preciso, ma non prolisso degli avvenimenti che avevano dato origine al processo e, se necessario, un riferimento agli antefatti ritenuti più significativi; la πίστις, o «argomentazione», che rafforzava con testimonianze e prove particolarmente convincenti la tesi sostenuta in propria difesa; la διάλυσις, o «confutazione» delle prove a carico, di solito non molto estesa, ma puntuale e stringente; infine, l’ἐπίλογος, o «conclusione», in cui si ricapitolava il discorso e, in vari casi, si cercava di coinvolgere emotivamente la giuria a favore di chi parlava.

Le varie parti dell’orazione avevano il pregio, così disposte, di offrire un quadro organico e ben articolato della motivazione dei fatti, della loro successione temporale e dei nessi causali; ma soprattutto lasciavano totale libertà al logografo (e in ciò consisteva appunto la sua bravura!) di delineare abilmente il carattere delle parti in causa, di applicare al racconto dei fatti opportuni criteri di selezione, evidenziandone alcuni, sfumandone o tacendone altri, di fare appello, di volta in volta, ad aspetti del costume, della morale comune pubblica o privata, del comportamento sancito dalle leggi. Gli antichi furono concordi nel riconoscere nelle orazioni di Lisia di Atene tutte queste qualità, accompagnate da non comuni capacità di eleganza e chiarezza espositiva; in conseguenza di ciò, per mettere in luce attraverso esempi concreti quanto abbiamo fin qui teorizzato, faremo riferimento proprio ad una delle sue più note orazioni, Per l’uccisione di Eratostene.

Lisia. Statua, marmo, copia romana del III sec. d.C. ca. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

 

  1. Un’orazione giudiziaria emblematica: Per l’uccisione di Eratostene

I caratteri generali dell’orazione | Il caso era, apparentemente, uno dei più semplici; un piccolo proprietario terriero, Eufileto (l’ironia della sorte ha voluto che questo archetipo dei mariti traditi si chiamasse il «Beneamato»!), venuto a conoscenza del fatto che un certo Eratostene (altro significativo “nome parlante”: «Forza dell’amore», appellativo quantomai appropriato per un giovanotto sempre a caccia di avventure galanti!) gli aveva sedotto la moglie, intrecciando con lei una relazione, aveva fatto in modo di coglierlo in flagrante adulterio, alla presenza di testimoni, e lo aveva ucciso. Tuttavia, se le cose fossero andate effettivamente così, non avrebbe dovuto esservi nessun processo, perché la legge ateniese riconosceva al marito tradito il diritto di farsi giustizia con le proprie mani, in caso di flagranza, classificando l’omicidio come φόνος δίκαιος («giusta uccisione»). In realtà, i parenti della vittima sostenevano una differente versione dei fatti: Eufileto, scoperta la tresca fra la moglie ed Eratostene, lo aveva attirato ingannevolmente in casa sua e lo aveva assalito, strappandolo addirittura da un luogo sacro, il focolare domestico presso il quale si era rifugiato. Se le cose si fossero effettivamente svolte così, la situazione legale di Eufileto sarebbe stata ben diversa, perché egli avrebbe commesso un «omicidio premeditato» (φόνος ἐκ προνοίας), punibile con la pena di morte, a meno che la sua tesi non fosse stata sostenuta da un eccellente legale. Così fu: la causa si svolse di fronte al tribunale del Delfinio, situato fuori le mura di Atene, nel santuario di Apollo Delphinios e, secondo alcune testimonianze antiche, Eufileto fu assolto – non sapremo mai se per la straordinaria abilità di Lisia, che gli compose l’orazione di difesa, oppure perché aveva effettivamente applicato i diritti che la legge gli concedeva in una storia di infedeltà coniugale finita in tragedia.

L’impressione che si ricava dalla lettura del discorso, forse il capolavoro di Lisia, è che quest’ultimo abbia organizzato la difesa evidenziando in ogni occasione il carattere mite di Eufileto, tranquillo e fiducioso fino al punto di apparire ingenuo; un uomo così, sembra suggerire l’abilissimo logografo, può commettere un delitto, vedendo tradita la propria buona fede e avendone le prove sotto gli occhi, ma difficilmente avrebbe la crudele freddezza (e l’intelligenza) necessaria per organizzare minuziosamente un omicidio da commettere a distanza di tempo.

 

Gruppo dei pittori del Louvre G 99. Una coppia di amanti sotto il mantello. Pittura vascolare dal frammento di una coppa attica a figure rosse, 525-500 a.C. ca. da Atene. Paris, Musée du Louvre.

 

L’esordio (προοίμιον) | Presentiamo, per cominciare, l’esordio della celebre orazione:

[1] Io apprezzerei molto, o giudici, che voi mi giudicaste, riguardo a questo caso, come giudichereste voi stessi se vi fosse capitata una simile offesa: so bene, infatti, che, se il vostro atteggiamento nei confronti di altri fosse lo stesso che verso voi stessi, non ci sarebbe uno solo di voi che non si indignerebbe per l’accaduto, anzi tutti giudichereste troppo lievi le pene contro chi commette azioni del genere!

[2] E questi fatti sarebbero giudicati così non solo presso di voi, ma in tutta l’Ellade; infatti, per questo reato soltanto, sia sotto un governo democratico sia sotto un regime oligarchico, è stata concessa la medesima punizione ai più deboli nei confronti dei più potenti, così che il più umile goda degli stessi diritti del più forte.

 

L’appello ai giudici, affinché valutino la situazione dell’imputato con la stessa disposizione d’animo che proverebbero se si trovassero al posto suo e avessero subito lo stesso torto, è un evidente tentativo di captatio benevolentiae e, in quanto tale, si configura come un τόπος, un «luogo comune» da manuale, presente anche in altre orazioni giudiziarie, non solo di Lisia. Tuttavia, in questo caso, l’appello ai giudici appare caratterizzato da una particolare intensità, visto che il caso riguarda la sfera della famiglia, a cui tutti gli uomini dovrebbero essere particolarmente sensibili, sia da un punto di vista affettivo sia giuridico. L’accenno al fatto che il giudizio pronunciato sulla vertenza di Eufileto potrebbe avere ripercussioni in tutta l’Ellade accresce iperbolicamente l’importanza dei giudici che dovranno pronunciare la sentenza. In questo caso, alla captatio benevolentiae nei loro confronti, si unisce il chiaro intento di evidenziare che ciò che accade ad Atene costituisce poi un punto di riferimento per il resto della Grecia; d’altra parte, tutta la legislazione greca è concorde nel condannare l’adulterio con estrema severità. Eufileto, infatti, ribadisce che, in questa occasione, il suo solo compito sarà quello di dimostrare che i fatti si sono svolti come egli ha già dichiarato, perché la ragione sia dalla sua parte:

 

[4] Io credo, signori giudici, che sia necessario che io dimostri questo, che Eratostene commise adulterio con mia moglie e la rovinò, svergognò i miei figli e mi arrecò offesa, entrando in casa mia, che io non avevo altro motivo di inimicizia verso di lui tranne questo, che non feci ciò per denaro, per divenire da povero, ricco, né per alcun altro interesse, se non la pena consentita dalle leggi.

 

Con queste parole, che ribadiscono come Eufileto non abbia fatto altro che applicare la legge sull’adulterio e che, quindi, il suo comportamento è stato, al di là di ogni possibile dubbio un φόνος δίκαιος, si conclude l’esordio.

Nicostrato. Scena di anakalypsis, fra due giovani sposi sul letto nuziale. Terracotta, 150-100 a.C. Dalla necropoli di Myrina (Turchia). Paris, Musée du Louvre.

 

L’esposizione dei fatti (διήγησις) | È, ovviamente, la parte più ampia e più ricca di particolari di tutte le orazioni giudiziarie, in quanto dalla precisione con cui venivano esposti i fatti e dal modo con cui si descriveva il comportamento delle parti in causa, i giudici dovevano ricavare tutti gli elementi a sostegno delle responsabilità dei convenuti e pronunciare, sulla base di quelli, una giusta sentenza. Per questo motivo, il discorso di Eufileto, con il quale egli si propone di dimostrare sia la legittimità della propria condotta sia l’assoluta illegalità di quella di Eratostene, è molto esteso e dettagliato, iniziando addirittura da quando egli decise di sposarsi. Tuttavia, al di là della narrazione, ciò che dovrebbe maggiormente attirare l’attenzione dei giudici, è l’assoluta buonafede di Eufileto, marito e padre di famiglia irreprensibile, in confronto a Eratostene, delineato come un seduttore di professione.

La διήγησις segue con esattezza l’ordine cronologico della vicenda e ogni segmento narrativo si conclude con parole tese a dimostrare l’irreprensibilità della condotta di Eufileto. Costui si sposa; il comportamento della giovane moglie, che egli tratta «in modo da non opprimerla, ma neppure lasciandola del tutto libera di fare ciò che volesse», è assolutamente impeccabile. La nascita di un bambino rafforza il legame affettivo fra gli sposi.

Muore la madre di Eufileto «e, morendo, divenne la causa di tutti i guai»: infatti, la nuora esce di casa per seguire il funerale e viene adocchiata da Eratostene. Costui comincia a far pervenire alla giovane donna dei messaggi per mezzo dell’ancella, che va al mercato a fare la spesa; e in questo modo «la rovinò».

Eufileto descrive ai giudici la propria casa: «Io possiedo una casetta a due piani, con il piano superiore uguale al piano terra, in corrispondenza dell’appartamento delle donne e quello degli uomini». La nascita del figlio comporta un capovolgimento delle abitudini abitative: temendo che la moglie, infatti, scendendo per la scala a pioli con il piccolo, possa farsi del male, Eufileto sposta il gineceo al piano terra, favorendo così, senza volerlo, gli incontri della donna con l’amante: «Ma io non sospettai mai niente, anzi ero così ingenuo da credere che mia moglie fosse la migliore di tutte le donne in città».

Un bel giorno, Eufileto torna improvvisamente dalla campagna e cena tranquillamente in compagnia della moglie. Dopo cena il bambino piange disperatamente (poi, si saprà che l’ancella lo pizzica per farlo strillare, di proposito, visto che è arrivato Eratostene!); Eufileto, allora, impone alla moglie di scendere per allattare il figlioletto. La donna, però, si finge restia, dichiarando che il marito vuole allontanarla per restare solo con una giovane ancella; poi, fra il serio e il faceto, chiude a chiave il marito nella stanza da letto e scende al piano terra. Eufileto, stanco e tranquillo, si addormenta beatamente. Durante la notte, però, sente cigolare la porta dell’ingresso e al mattino, quando la moglie lo fa uscire, gliene chiede il motivo. La donna risponde che si era spenta la lucerna che stava presso il bambino; perciò, si era recata dai vicini per riaccenderla. Eufileto, però, nota che la donna ha il viso imbellettato, benché fosse ancora in lutto per la scomparsa del fratello; «tuttavia, senza dire niente neppure di questo fatto, uscito di casa, me ne andai via in silenzio» – dichiara Eufileto.

Trascorre un certo tempo; Eufileto continua a vivere nell’ignoranza dei suoi mali, finché viene fermato da un’anziana donna, inviata da un’altra amante del bellimbusto, ormai trascurata da quello, che gli rivela senza mezzi termini tutta la tresca: «Quello che fa queste cose è Eratostene di Oe e ha rovinato non solo l’onore di tua moglie, ma anche di molte altre donne; infatti, questo è il suo mestiere!». A questo punto, Eufileto, apre finalmente gli occhi, ricordando tutti i particolari ai quali prima non aveva dato peso: «Tutte queste cose mi tornavano in mente ed ero pieno di sospetto».

Ecco che il ritmo dell’azione divine più rapido, perché il candido Eufileto, colpito nella sua dignità coniugale, si rivela capace di una volontà decisionale tanto pronta quanto astuta; avuto conferma dall’ancella complice dello svolgimento dei fatti, prepara la trappola per l’adultero. Quando costui torna a far visita all’amante, l’ancella avverte il padrone, che esce silenziosamente di casa e va a chiamare alcuni amici, che dovranno servirgli da testimoni. Una volta rientrato, «spalancata la porta della camera, noi, entrando per primi, lo vedemmo mentre ancora giaceva accanto a mia moglie; quelli venuti dopo lo videro nudo in piedi sul letto».

La situazione volge precipitosamente verso il tragico epilogo. Eratostene, dopo essere stato colpito e legato, chiede pietà, dichiarandosi disposto a risarcire i danni, pagando un indennizzo; ma Eufileto rifiuta sdegnosamente, affermando la legalità del proprio diritto: «Non io ti ucciderò, ma la legge della città; tu, violandola e tenendola in minor conto dei tuoi piaceri, hai preferito commettere una tale colpa verso mia moglie e i miei figli, piuttosto che obbedire alle leggi e comportarti da persona dabbene!».

 

Pittore anonimo. Donna intenta a filare la lana. Lekythos attico a figure rosse, 480-470 a.C. ca. Palermo, Museo Archeologico Regionale.

 

L’argomentazione (πίστις) | Benché la legittimità dell’azione di Eufileto emerga con chiarezza dal racconto appena concluso, egli aggiunge anche un’«argomentazione», che si fonda su quanto appena detto, sulla citazione dei testimoni e sulla lettura dei paragrafi di legge riguardanti i reati di adulterio, di violenza e di seduzione (purtroppo queste parti non sono state inserite nell’orazione). Tutto ciò deve servire a dimostrare che non è vero ciò che dichiarano i parenti dell’ucciso:

 

[27] Costui ha avuto la pena che le leggi impongono per coloro che commettono tali delitti, non preso a forza nella strada, né dopo che si era rifugiato presso il sacro focolare domestico, come dichiarano costoro.

 

La confutazione (διάλυσις) | Poiché non possediamo l’orazione di accusa, siamo costretti a dedurre dagli accenni nella confutazione di Eufileto quello che doveva essere il punto di forza su cui i parenti di Eratostene fondavano la tesi dell’omicidio premeditato: egli lo avrebbe attirato in casa sua con l’inganno, per simulare una flagranza di reato che in realtà non esisteva:

 

[37] Ora fate attenzione, signori giudici: questi mi accusano di avere, in quel giorno, ordinato all’ancella di andare a chiamare il giovanotto.

 

La confutazione dell’accusa, che procede in modo molto preciso e analitico, si apre con un ragionamento per assurdo: Eufileto non nega esplicitamente il fatto che gli viene contestato, ma dichiara che sarebbe stato convinto di essere dalla parte della ragione anche se avesse dato quell’ordine alla sua serva. Infatti, poiché egli era già certo dell’adulterio, qualunque mezzo sarebbe stato legittimo, pur di cogliere il colpevole sul fatto, dato che il reato era stato commesso e non una volta sola:

 

[38] Ma io, o giudici, avrei creduto di fare cosa giusta sorprendendo in flagrante in qualunque modo colui che ha sedotto mia moglie; infatti, sarei stato colpevole se avessi ordinato di mandarlo a chiamare, quando fra i due fossero state dette solo delle parole, ma non fosse avvenuto nulla di fatto; ma se avessi cercato di sorprenderlo, dopo che tutto era stato fatto e che gli era già penetrato più volte in casa mia, avrei creduto di agire secondo il mio diritto.

 

Inoltre, se Eufileto avesse deciso di agire premeditatamente, in quello stesso giorno egli avrebbe avvertito gli amici che avrebbero dovuto fargli da testimoni e avrebbe dato loro le istruzioni necessarie, invece di uscire a cercarli, mentre Eratostene era già in casa. Il fatto che alcuni di loro non erano a casa e che egli si sia dovuto accontentare di quelli che aveva trovato dimostra che il suo modo di agire è stato del tutto improvvisato: e di questo può addurre i testimoni.

 

[42] Invece, non sapendo niente di quello che sarebbe avvenuto in quella notte, presi quelli che mi fu possibile; e voi, testimoni di questi fatti, venite qui alla sbarra.

 

L’ultima parte della διάλυσις riprende e ribadisce alcuni argomenti già accennati nella parte precedente del discorso. Eufileto non aveva alcun altro motivo di odio nei confronti di Eratostene, anzi, non lo aveva neppure mai visto; inoltre, se davvero lo avesse attirato in casa sua con l’intenzione di eliminarlo, perché mai avrebbe dovuto cercarsi dei testimoni per compiere sotto i loro occhi un omicidio premeditato, aggravato per di più dall’atto empio di strappare un supplice dal sacro rifugio del focolare?

 

[46] E poi, se io avessi meditato di ammazzarlo illegalmente, avrei commesso un’empietà dopo aver chiamato dei testimoni, quando mi era possibile non avere nessuno di costoro consapevole della mia azione?

Pittore anonimo. I tre giudici dell’Ade, Radamante, Minosse ed Eaco (dettaglio). Pittura vascolare su cratere apulo a figure rosse, IV sec. a.C. Berlin, Antikensammlungen.

 

La conclusione (ἐπίλογος) | Nella parte conclusiva del discorso, Eufileto sfrutta abilmente a proprio vantaggio uno degli elementi strutturali tipici dell’ ἐπίλογος, il collegamento con gli argomenti della parte iniziale, sottolineando così la Ring Composition dell’intera orazione. La sentenza non riguarderà soltanto il suo caso individuale, ma l’intera città, perché, se i giudici lo condannassero, tanto varrebbe che fossero abrogate le leggi vigenti sull’adulterio; anzi, a questo proposito, Eufileto rafforza per absurdum la propria affermazione, proponendo addirittura che si puniscano i mariti che custodiscono le proprie mogli, garantendo invece l’impunità ai loro seduttori:

 

[48] Altrimenti, sarebbe molto meglio cancellare le leggi vigenti e farne delle altre, che stabiliranno le pene per coloro che difendono le proprie spose e concederanno l’assoluta impunità a coloro che vogliono commettere adulterio con quelle. [49] Questo sarebbe molto più giusto piuttosto che lasciare che i cittadini siano ingannati dalle leggi che ordinano che, se uno sorprende un adultero, può fare di lui ciò che vuole, mentre poi i processi sono più pericolosi per chi ha subito il torto che per coloro che svergognano le mogli altrui. Io, infatti, in questo momento, rischio la vita, i beni e tutto il resto, perché ho obbedito (ἐπειθόμην) alle leggi della città.

 

Il termine ἐπειθόμην, che nel testo greco è l’ultima parola dell’orazione, rappresenta una delle più significative testimonianze della raffinata abilità dialettica di Lisia; infatti, il verbo πείθω nella diatesi media significa sia «fidarsi» sia «obbedire», così che il discorso si chiude con un sottile, ma evidente, quasi ricattatorio ammonimento ai giudici, implicito nello stesso valore semantico del termine-chiave: condannare Eufileto, in via definitiva, equivarrebbe a togliere ogni valore ai fondamenti dell’educazione civica del buon cittadino ateniese, espressi in tre termini: «Ho obbedito (perché me ne sono fidato) alle leggi della città»; gli stessi concetti su cui si fonda, con ben altra sublimità morale, l’accettazione della morte da parte di Socrate.

 

 

  1. L’oratoria politica fra il V e il IV secolo a.C.

Le caratteristiche generali dell’oratoria politica | Nel corso del IV secolo a.C. l’oratoria ateniese conservò per certi aspetti le caratteristiche e le funzioni che l’avevano contraddistinta precedentemente, mentre per certi altri rispecchiò, in modo abbastanza evidente, le trasformazioni culturali, politiche e istituzionali in essere nella città. In questo quadro generale, l’oratoria giudiziaria, per il suo carattere funzionalmente specifico, non avvertì particolari necessità di cambiamento; quanto all’oratoria epidittica, il suo scopo celebrativo le conferì una tendenza sempre maggiore a cristallizzarsi su argomenti tradizionali, veri e propri τόποι di genere, espressi in uno stile spesso letterariamente perfetto, ma piuttosto intellettualistico e caratterizzato da una certa fissità di toni. Al contrario, l’oratoria politica fu costretta, per sua stessa natura, a tener conto del continuo mutare degli eventi e a adeguarvisi quasi quotidianamente.

Due fattori soprattutto influirono sul cambiamento dell’oratoria politica, uno di carattere culturale e uno di tipo istituzionale. La nuova figura del retore, istruito alla scuola dei sofisti e pronto a considerare l’attività politica come una vera e propria professione, si inserì di prepotenza nello spazio che un tempo era appartenuto soltanto ai magistrati civili e militari all’interno dell’assemblea: uomini come Solone, Pisistrato o Temistocle – un arconte, un tiranno e uno stratego – non ebbero mai bisogno di intermediari (o “portavoce”) per esprimere le proprie idee di fronte all’assemblea, né questa fu condizionata nelle proprie scelte dalle parole di oratori di mestiere. Ma nel IV secolo questo stato di cose mutò notevolmente; il retore divenne la figura di maggior rilievo nella vita pubblica, in quanto capace di diffondere le proprie convinzioni, di attirarsi dei sostenitori e di influenzare così l’opinione pubblica, grazie al carisma personale rafforzato da doti dialettiche sapientemente coltivate. A ciò contribuì anche, forse in misura minore, ma non marginale, un altro fenomeno culturale: la diminuita importanza del teatro (in particolare quello tragico) come mezzo di diffusione delle idee e di educazione di massa. Infatti, la mancanza di nuovi autori, degni di potersi confrontare con i grandi classici del passato, favorì ben presto la tendenza a riproporre agli spettatori opere ormai “classiche”, che non avevano perduto niente del loro valore poetico, ma che, sul piano educativo, proponevano ideali appartenenti ormai a un glorioso passato, che si poteva ammirare, ma non far risorgere.

Philipp Foltz, L’epitaffio di Pericle per i caduti del primo anno di guerra. Olio su tela, 1852.

 

La tradizione indiretta | La grande oratoria ateniese ci è nota attraverso due tradizioni, quella indiretta della storiografia e quella diretta delle raccolte di demegorie, i «discorsi pronunciati di fronte al popolo». Per quanto riguarda l’attendibilità della tradizione indiretta, sappiamo che i discorsi degli uomini politici venivano riferiti approssimativamente, tenendo conto del loro «senso generale», come dichiara Tucidide, perché mancava una stesura scritta dell’orazione, a cui fare riferimento. Gli uomini politici, infatti, non erano soliti scrivere i loro discorsi per intero, ma, come ci conferma anche Demostene, si dava redazione scritta solo alle parti più importanti come contenuto e più impegnative dal punto di vista oratorio – contrariamente a quanto avveniva per i discorsi epidittici, che, destinati a pubblica lettura, erano trascritti integralmente. A questo dobbiamo aggiungere il fatto che la possibilità di parlare in assemblea non fosse concessa a tutti, ma richiedeva precisi requisiti di carattere civico e politico ed era connessa alla fazione a cui l’oratore apparteneva, sia al tipo di influenza che egli intendeva esercitare sull’uditorio. Pertanto, oratori come Lisia o Dinarco, che erano meteci, non avrebbero avuto il diritto di parlare in pubblico, mentre aperti simpatizzanti del regime oligarchico, come Andocide o Antifonte, si astenevano dall’esporre la propria opinione di fronte all’assemblea popolare, perché oltre ad avere possibilità quasi nulle di incidere sull’opinione della maggioranza, il loro orientamento politico li avrebbe esposti anche a rischi personali, dato che il contrasto politico poteva assumere pure toni molto accesi, di vero e proprio duello oratorio.

Un quadro estremamente efficace di questo aspetto ci è offerto dallo scontro fra Nicia e Alcibiade a proposito della spedizione in Sicilia, descritto da Tucidide (VI 9-26). Si tratta di un magnifico esempio di quel carattere «agonale» che rappresentava la cifra principale di questo genere oratorio, dal momento che ciascuno dei relatori si sforzava di far valere le proprie proposte nel «consigliare» i concittadini: di qui il nome di συμβουλευτικοί λόγοι, attribuito normalmente ai discorsi politici. Dopo la prima fase di dibattimento, in cui la parola tocca ad alcuni personaggi minori, Nicia viene chiamato direttamente in causa dal gruppo di Alcibiade, che gli offre il comando dell’impresa. Egli replica con un invito alla prudenza, senza risparmiare allusioni alla sfrenata ambizione di Alcibiade e mettendo in luce, al tempo stesso, le notevoli difficoltà dell’impresa e del momento (VI 12-13, 1).

Concluso l’intervento di Nicia, è la volta di Alcibiade, il quale contrattacca dando prima la parola a una serie di gregari, il cui compito è quello di “cancellare”, o almeno di attenuare nell’animo degli ascoltatori, l’effetto moderatore delle parole del rivale. Il discorso di Alcibiade, caratterizzato dall’estrema sicurezza di sé, tipica del personaggio, ostenta i toni di un nazionalismo a oltranza, dietro cui si mimetizza abilmente la sua ambizione personale. Egli asserisce di agire in nome degli ideali democratici che Atene ha sempre difeso; rinunciare alla spedizione significherebbe rinnegare la più nobile tradizione della patria e venire meno agli impegni che essa ha assunto nei confronti dei suoi alleati:

 

Perciò, con quale argomento ragionevole potremmo noi stessi rifiutare, o di che cosa potremmo tener conto, per non portare aiuto agli alleati di laggiù? Poiché ci siamo obbligati con un giuramento, è necessario soccorrerli e non obiettare che essi non ci hanno, a loro volta, aiutato. Infatti, non li abbiamo accolti, perché ci soccorressero, ma perché, creando fastidi ai nostri nemici laggiù, impedissero loro di venire fin qui. In questo modo abbiamo conquistato il dominio, sia noi che quanti altri lo esercitarono, assistendo prontamente coloro che di volta in volta ci chiedevano aiuto, o Greci o barbari, poiché se tutti rimanessero tranquilli o stessero a sottolineare a chi si debba portare soccorso, aggiungendo ben poco al nostro impero, rischieremmo piuttosto di perdere anche quello che abbiamo. Infatti, ci si difende contro uno che è superiore non solo quando attacca, ma anche si previene affinché non attacchi. E non è possibile per noi calcolare fino dove vogliamo estendere il nostro dominio, ma è inevitabile, perché ci troviamo in questa situazione, attaccare gli uni e non lasciare sfuggire gli altri, perché c’è il rischio che siamo dominati da altri, se non siamo noi stessi a dominarli! E voi non dovete considerare la tranquillità nello stesso modo con cui la considerano gli altri, a meno che non cambiate il modo di vivere rendendolo simile al loro. Pertanto, avendo valutato che accresceremo il nostro impero di qui, qualora attacchiamo laggiù, facciamo la spedizione, per abbattere la superbia dei Peloponnesiaci, se sembrerà chiaro che noi disprezziamo la tranquillità del momento attuale per navigare addirittura contro la Sicilia; e, al tempo stesso, com’è naturale che sia, o domineremo tutta l’Ellade, aggiungendo a noi quelli di là, o recheremo danno ai Siracusani, e da ciò trarremo vantaggio noi e i nostri alleati.

(VI 18, 1-4)

 

Nicia, ormai in netta posizione di inferiorità, non può far altro che raccomandare agli Ateniesi di prepararsi il meglio possibile per la rischiosa impresa; ma con queste parole sancisce praticamente la vittoria dei suoi avversari politici, i quali colgono immediatamente l’occasione per coinvolgerlo e gli chiedono di stabilire lui stesso il numero delle navi e l’entità delle truppe del contingente. A questo punto, Alcibiade non interviene più direttamente, ma lascia a un suo gregario, un certo Demostrato (che il comico Aristofane indica con il significativo soprannome di «Sputaveleno»), il compito di stroncare definitivamente l’avversario.

 

Ritratto di atleta (il cosiddetto Alcibiade). Busto, marmo greco, copia romana di I sec. d.C.. Firenze, Galleria degli Uffizi.

 

La tradizione diretta: lo scontro fra Demostene ed Eschine | La conclusione delle lunghe e drammatiche vicende della Guerra del Peloponneso non segnò soltanto la sconfitta di Atene, ma anche l’inizio di una profonda crisi di valori politici e istituzionali destinata a imprimere una svolta decisiva alla storia greca e della civiltà occidentale. Né Sparta né Tebe, infatti, furono in grado di raccogliere costruttivamente l’eredità politica, economica e culturale di Atene; e così la prima metà del IV secolo a.C. fu caratterizzata dalla progressiva disgregazione della città-stato, che preparò il terreno all’avvento della monarchia macedone. In questo clima di instabilità e di confusione, stavano maturando cambiamenti politici complessi e irreversibili; e ben presto l’intero mondo mediterraneo ne avrebbe avvertito le conseguenze. Nel nord della Grecia, infatti, si stava consolidando il regno di Macedonia, abitato da una popolazione considerata «barbara», ed effettivamente rimasta a uno stadio di civiltà meno sviluppato di quello del restante mondo ellenico. Verso la metà del secolo, nel 358 a.C., salì al trono Filippo II, figlio di Aminta, il quale, nella prima giovinezza, era stato ostaggio a Tebe, quando la città aveva vissuto il suo effimero momento di egemonia. Durante quel periodo, il Macedone aveva avuto modo di conoscere a fondo l’organizzazione militare tebana, potenziata dalle riforme di Pelopida e di Epaminonda; e non gli erano sfuggiti gli insanabili conflitti tra le póleis, che ne logoravano le forze e che, in breve tempo, ne avrebbero messo a repentaglio la sopravvivenza stessa come organismi autonomi.

Demostene. Statua, copia romana da originale greco di Policleto (c. 280 a.C.). Città del Vaticano, Museo Pio-Clementino.

Forte di queste esperienze, Filippo, appena giunto al potere, attuò con le armi e la diplomazia un vasto piano di espansione, che, fiaccate rapidamente le resistenze di Atene e di Tebe, lo portò, a dispetto dei suoi oppositori (tra i quali svolse un ruolo determinante l’ateniese Demostene, il più grande oratore politico del tempo), a estendere il suo potere, diretto o indiretto, su tutta l’Ellade. Nell’ottica del sovrano macedone, il fine ultimo dell’impresa avrebbe dovuto essere una grandiosa spedizione comune di Macedoni e Greci contro l’Impero persiano; purtroppo, prima di poterla realizzare, Filippo cadde assassinato nel 336 a.C. e il comando dell’impresa fu assunto da suo figlio Alessandro, che lo condusse a termine con conseguenze di portata storica talmente vasta da superare ogni possibile previsione.

Tuttavia, prima che il giovane sovrano salisse al trono e riuscisse a condurre in porto felicemente la titanica impresa, la scena politica ateniese fu dominata dal violento scontro tra la fazione filomacedone (il cui massimo esponente fu Eschine) e quella antimacedone, capeggiata da Demostene. Le loro orazioni, che possediamo per tradizione diretta, ci offrono un quadro assai vivo dello spazio e dell’importanza che l’oratoria politica occupava ancora nella vita dello Stato e del cittadino. Quest’ultimo, intanto, pur presenziando alle assemblee con diritto di voto, più che parlare ascoltava, come fa Diceopoli, protagonista degli Acarnesi di Aristofane, mentre erano gli oratori professionisti che salivano sulla tribuna per pronunciare i loro discorsi; eppure, anche gli interventi di costoro obbedivano a ben calcolati piani. Infatti, i grandi uomini politici, capi di gruppi anche numericamente cospicui (che non potevano essere considerati dei partiti veri e propri, ma piuttosto aggregazioni di simpatizzanti intorno a personaggi o a famiglie, che si contendevano l’egemonia all’interno delle istituzioni democratiche), dosavano sapientemente i loro interventi e spesso si facevano sostituire da gregari, sia per non logorare la propria immagine, sia per evitare le conseguenze derivanti da ripetute accuse di illegalità – arma assai frequentemente usata nello scontro fra le fazioni. Abbiamo così una precisa distinzione di ruoli: intorno alla figura di primo piano, orbitavano retori minori, che appoggiavano e sostenevano il loro leader e magari si esponevano in sua vece a qualche indesiderato provvedimento legale; e, infine, c’erano quelli a cui era affidato il compito di frenare o di scatenare la massa, i «signori del tumulto e dell’urlo», come li definì Iperide (Contro Demostene VII 14, 6), alludendo alla funzione loro attribuita di pilotare opportunamente le reazioni popolari. Un episodio della carriera di Demostene dimostra quanto fossero utili ai loro leader questi personaggi minori: nel 438 a.C., nel corso della sua campagna antimacedone, l’oratore propose che gli Ateniesi intervenissero in difesa di Olinto, una città della penisola Calcidica minacciata da Filippo, ma, poiché Atene scarseggiava di mezzi, egli suggerì che si usassero a scopi militari i fondi del θεωρικόν, che, fino dai tempi di Pericle, per legge, potevano essere investiti solo per l’allestimento degli spettacoli teatrali. Demostene si rendeva perfettamente conto del rischio che correva, presentando una proposta simile: perciò, mandò avanti un proprio gregario, un certo Apollodoro, il quale subì l’accusa di illegalità al posto del suo capo, che poté continuare la sua carriera politica, destinata a vette altissime di successo e di popolarità, in un clima civile davvero rovente, ma eccezionalmente vivace.

Eschine. Busto, copia romana in marmo da originale del IV sec. a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Allo stesso tempo, le orazioni di Demostene e di Eschine sono il primo documento a noi noto di una lotta senza quartiere, che assunse spesso i toni di un violento alterco personale, in cui si mirava a distruggere l’avversario piuttosto che a spiegare con chiarezza i motivi per cui si sosteneva o si combatteva un determinato progetto politico, la cui grandezza, forse, sfuggì, nella sua vera dimensione, sia all’uno sia all’altro dei contendenti. Tale carattere influisce, ovviamente, anche sullo stile, sulla struttura retorica, sul tipo di argomentazioni, che presentano sostanziali differenze rispetto ai discorsi epidittici, destinati alla lettura: i periodo sono più brevi, per permettere all’oratore di mantenere l’opportuna intonazione della voce e anche l’intensità del volume indispensabile per farsi capire in mezzo a un pubblico spesso tumultuoso. Le forme elaborate, i τόποι di impronta nazionalistica o moraleggiante, le frasi a effetto si concentrano maggiormente nei proemi e nelle parti conclusive; queste ultime contengono di solito anche un breve riepilogo dei punti salienti della proposta appena presentata. Quanto alle argomentazioni, esse presentano talora delle affinità con quelle presenti nell’oratoria epidittica, come le riflessioni sul glorioso passato di Atene, sulla saggezza degli antichi legislatori, sul ruolo di «benefattrice dell’Ellade», che la città ha sempre esercitato fin dalle età più remote – divenuto particolarmente evidente durante le Guerre persiane; però, l’oratoria politica ne possiede anche di proprie, le più interessanti delle quali riguardano le riflessioni sulla figura dell’oratore, sul confronto fra le sue doti tecniche e le sue qualità morali, sul potere demagogico della parola, che lo rende un personaggio da seguire senza riserve o da evitare altrettanto incondizionatamente.

Tale è il contenuto, per esempio, dell’esordio dell’intervento di Demostene Sui fatti del Chersoneso, in cui si esortano gli ascoltatori a non seguire uomini politici dominati dallo spirito di parte:

 

Sarebbe necessario, o concittadini, che tutti gli oratori non parlassero mai né per odio né per compiacenza, ma che ciascuno manifestasse apertamente ciò che gli sembra meglio, soprattutto quando voi state dibattendo di argomenti importanti e di interesse comune; ma, poiché alcuni sono spinti a parlare o per spirito di polemica o per qualche altra ragione, voi, Ateniesi, che siete il popolo, la maggioranza, dovete approvare e mettere in pratica ciò che ritenete sia vantaggioso per la città, trascurando tutto il resto.

(Demostene, Sui fatti di Chersoneso 1)

 

Ecco invece un esempio della violenta polemica contro Eschine, reo, agli occhi di Demostene, di appoggiare la pace con Filippo il Macedone proposta da Filocrate (346 a.C.), in modo del tutto indegno delle gloriose tradizioni patrie:

 

Mentre voi stavate deliberando sull’argomento e non volevate neppure sentire la voce dell’abominevole Filocrate, quello ( = Eschine), alzatosi in piedi per parlare, in nome di Zeus e di tutti gli dèi, lo sosteneva con parole degne di molte morti, dicendo che non avreste dovuto ricordare i vostri avi, né sopportare quelli che parlavano delle loro vittorie e delle battaglie navali, e che egli avrebbe fatto formale proposta di stabilire una legge secondo cui voi non avreste portato aiuto a nessuno dei Greci che non avesse prima aiutato voi. E questo individuo perfido e sfrontato osava parlare, mentre erano ancora presenti e ascoltavano gli ambasciatori che avevate mandato a chiamare dai Greci, persuasi proprio da lui, quando non si era ancora venduto.

(Demostene, Sulla corrotta ambasceria 15-16)

 

La risposta di Eschine non si fece attendere e non fu da meno:

 

Nell’attività politica io mi sono trovato impelagato con un individuo imbroglione e malvagio, che non sarebbe capace di dire la verità neppure involontariamente. Quando dice una menzogna, costui, comincia il discorso giurando in nome dei suoi occhi impudenti! E non solo afferma che sono reali fatti mai avvenuti, ma indica perfino il giorno nel quale, a sua detta, essi hanno avuto luogo! E dopo esserselo inventato, aggiunge il nome di un tale che sarebbe stato presente, imitando chi dice la verità. Ma in una cosa siamo fortunati noi, che non abbiamo commesso alcun male, che nella millanteria del carattere e nell’arte di mettere insieme le parole, egli è senza cervello!

(Eschine, Sulla corrotta ambasceria 153)

 

Iperide. Busto, copia romana in marmo del II sec. d.C. da originale greco del IV sec. a.C.

 

 

  1. L’oratoria epidittica fra il V e il IV secolo a.C.

 

Le caratteristiche generali del genere | Come abbiamo precedentemente accennato, l’oratoria epidittica o celebrativa si distinse sostanzialmente dagli altri generi di eloquenza, soprattutto perché, essendo scritta e destinata alla lettura nell’ambito delle scuole, per finalità di esercizio, o in occasione di solennità pubbliche, si caratterizzava per un’estrema elaborazione formale. In essa si distinse soprattutto Isocrate, che scelse volontariamente, sia a fini politici sia pedagogici, questa forma di comunicazione, particolarmente adatta alle sue doti di grande chiarezza concettuale, unite a un’attenta e quasi esasperata ricerca formale, che richiedeva tempi assai lunghi di progettazione e di elaborazione. Esemplare, a questo proposito, il Panegirico, o «discorso per la festa» (πανηγύρις), che fu pubblicato nel 380 a.C. dopo una preparazione durata dieci anni. In esso, Isocrate vagheggiava una costruttiva collaborazione fra Sparta e Atene; le due antiche rivali avrebbero dovuto porsi come forze egemoni dell’intero mondo greco, allo scopo di combattere il nemico comune, la Persia, secondo un’ottica politica ormai anacronistica e fondata sulla nostalgica rievocazione delle innumerevoli benemerenze acquisite dalle due antiche città nei confronti dell’intero mondo ellenico.

Tuttavia, l’oratoria epidittica trovava la sua massima affermazione nei λόγοι ἐπιτάφιοι, discorsi commemorativi ed encomiastici per i caduti in battaglia, secondo un uso che si riteneva istituito da Solone. In realtà, non è possibile stabilire con certezza la data di inizio di tale costume; ma è probabile che essa risalga alla fine del VI secolo a.C., mentre il λόγος ἐπιτάφιος come genere letterario a sé stante ebbe origine dopo le Guerre persiane, forse nell’occasione in cui Cimone, tornando da Sciro con le ossa di Teseo, istituì feste solenni in onore dell’eroe attico; contemporaneamente, si istituirono anche le celebrazioni in memoria dei caduti. Il λόγος ἐπιτάφιος si pronunciava nell’ultimo giorno delle solennità, dopo una grande processione che accompagnava i feretri al cimitero del Ceramico. L’antichità ci ha tramandato sei di queste orazioni: la più antica è quella contenuta nel II libro delle Storie di Tucidide, tenuta da Pericle per i caduti nel primo anno della Guerra archidamica; la seconda, di Gorgia, di cui rimane solo la parte finale, fu pronunciata in occasione della pace di Nicia (421 a.C.); la terza, attribuita a Lisia, il quale, tuttavia, non avrebbe mai potuto svolgerla, data la sua condizione di meteco, commemorava i morti nella Guerra di Corinto e risale al 392 a.C.; la quarta è riportata in un dialogo platonico, il Menesseno, ed è attribuita a Socrate, il quale pronunciava unicamente per mettere in risalto le caratteristiche di questo genere oratorio; la quinta, l’unica che sia stata tenuta dopo una sconfitta, è quella attribuita a Demostene per i caduti di Cheronea (338 a.C.); la sesta è di Iperide, per i morti nella Guerra lamiaca (323-322 a.C.), nella quale l’oratore, violando la legge che imponeva un rigoroso anonimato, fece il nome e l’elogio dello stratego Leostene, suo amico personale.

Il fatto che il discorso concludesse solennemente una celebrazione ufficiale esigeva che esso seguisse uno schema ben preciso che, a parte varianti soggettive, compare in tutti gli ἐπιτάφιοι giunti fino a noi:

 

  • esordio ed excusatio: l’oratore si presenta al pubblico, mostrandosi sorpreso per essere stato prescelto, e invoca l’indulgenza dell’uditorio, perché certamente le sue parole non saranno adeguate a esaltare degnamente il valore di chi ha dato la vita per la città;

 

  • elogio degli antenati: la convinzione che il valore e il civismo siano frutto della tradizione e dell’educazione ricevuta, oltre che della natura, implica il ricordo degli avi e delle loro grandi imprese, che costituiscono per i discendenti un onore, ma anche una profonda responsabilità. Questa parte – di solito abbastanza estesa – si fonda in genere su una serie di τόποι, come la predilezione degli dèi per l’Attica, l’autoctonia degli Ateniesi, le loro eccezionali doti naturali, sviluppate da un’educazione unica per profondità e completezza, le grandi imprese da loro compiute nel mito e nella storia;

 

  • elogio della πολιτεία, la «costituzione politica», considerata un elemento fondamentale nell’educazione e nella formazione del cittadino; in questo senso, la democrazia di Atene ha dato prova di essere superiore a quella di qualunque altra città nell’inculcare valori morali e civici e nell’armonizzare le esigenze del singolo con quelle della collettività;

 

  • rievocazione dell’avvenimento bellico particolare, nel quale i caduti hanno sacrificato la vita;

 

  • commiato ai sopravvissuti, nei quali il rimpianto per la perdita di un congiunto sarà certamente compensato dalla gloria immortale che i caduti hanno conquistato per sé, per la patria e per i discendenti.