Teocrito di Siracusa

di B.M. PALUMBO STRACCA, Introduzione a Teocrito, Idilli e Epigrammi, BUR, Milano 2004, 5-25.

 

Teocrito appartenne a quella generazione di poeti e uomini di cultura che, nel mutato quadro politico e sociale che si era venuto configurando a seguito della storica impresa di Alessandro Magno, contribuirono a ridisegnare in modo radicale le linee portanti della civiltà letteraria greca. Alessandro aveva tentato l’impossibile: unire l’Oriente e l’Occidente in una nuova realtà politica e culturale profondamente nuova. Quel sogno grandioso, che era lontano anni luce dagli insegnamenti del suo maestro Aristotele, svanì con la sua morte, ma dopo quell’esaltante esperienza niente fu come prima. Sulle macerie dell’impero conquistato con le armi da Alessandro si formarono i grandi regni ellenistici, caratterizzati da un forte potere centrale e da una burocrazia vigile ed efficiente; in essi la cultura della 𝑝𝑜́𝑙𝑖𝑠, per sua natura incentrata su un rapporto stretto e vitale tra l’individuo e la comunità, non aveva più ragione di esistere; al suo posto nasceva una nuova civiltà letteraria, profondamente diversa da quella che l’aveva preceduta.

Un ruolo di grandissimo rilievo nel passaggio dal vecchio al nuovo fu assunto dai monarchi ellenistici, i quali mirarono a fare delle capitali dei loro regni dei centri di cultura, che potessero in qualche modo raccogliere l’eredità di Atene; in particolare, i Tolomei, in Egitto, attuarono una lungimirante politica di promozione delle arti e delle scienze, grazie alla quale la nuova città di Alessandria divenne ben presto il principale polo d’attrazione per l’𝑖𝑛𝑡𝑒𝑙𝑙𝑖𝑔𝑒𝑛𝑡𝑖𝑎 del tempo. Beninteso, il mecenatismo dei sovrani ellenistici non era una novità nel mondo greco: già i tiranni di Siracusa, di Agrigento, di Samo, qualche secolo prima avevano provveduto ad assicurare la loro protezione agli uomini di cultura del loro tempo, ma ciò che caratterizza il mecenatismo ellenistico è propriamente la sistematicità e l’ampiezza delle iniziative culturali. Istituzioni quali la Biblioteca e il Museo (una sorta di “Accademia” con specifici fini di ricerca e d’insegnamento) stanno a dimostrarlo. Il fatto è che quando Tolomeo I Sotere si trovò a ereditare il Regno d’Egitto, dopo le confuse vicende che seguirono alla morte di Alessandro, non si occupò soltanto di questioni amministrative e politiche, ma operò nel senso di una vera e propria rifondazione culturale dello Stato, attuata attraverso il reclutamento di uomini di cultura provenienti da ogni parte del mondo greco, e soprattutto da Atene, che, pur in declino sotto il profilo politico, costituiva pur sempre la capitale culturale del momento. Il personaggio più di spicco in tale operazione di trapianto della civiltà greca in terra egiziana fu senza dubbio Demetrio del Falero, che alle notevoli doti politiche e manageriali univa una competenza di prim’ordine in campo filosofico e letterario. Il 𝑏𝑎𝑐𝑘𝑔𝑟𝑜𝑢𝑛𝑑 di Demetrio, come di altri personaggi con cui il re fu in contatto (ad esempio, Stratone di Lampsaco), era di marca aristotelica. Fu così che il progetto culturale del nuovo regno fu improntato alle scelte di fondo del Peripato. Questo dato rimane incontrovertibile, benché la critica oggi abbia spesso sottolineato, e forse esasperato, i motivi di diversità; anche il concetto de “𝑙’𝑎𝑟𝑡 𝑝𝑜𝑢𝑟 𝑙’𝑎𝑟𝑡” (il dato più significativo e vitale della cultura alessandrina), che peraltro trova la sua principale giustificazione in un diverso ruolo della poesia, non più composta per essere eseguita nei momenti e negli spazi celebrativi comunitari, ma destinata alla fruizione di un pubblico scelto d’intenditori, trova le sue salde premesse nella riflessione aristotelica. Quando Aristotele dichiara ad apertura del suo aureo libretto che intende occuparsi della poetica «per se stessa», e delle leggi che le sono proprie, afferma un principio che a noi oggi può apparire ovvio, ma che ai suoi tempi rappresentava un’autentica novità, in contrapposizione alla concezione platonica dell’arte, così densa di motivazioni ontologiche ed etiche. Parallelamente si sviluppa in ambito aristotelico il concetto di poetica come τέχνη, e ancora una volta il punto di vista appare diametralmente opposto a quello platonico della poesia come ispirazione divina ed estasi.

Consapevolezza dell’autonomia dell’arte e poesia intesa come mestiere sono per l’appunto i cardini della poetica elaborata dai poeti filologi dell’età ellenistica, poetica che conosciamo soprattutto attraverso Callimaco; sul piano operativo ciò si traduce in una poesia riflessa, scaltrita, che spesso sotto un’apparente semplicità nasconde le insidie di una defatigante complessità formale. Nei contenuti è una poesia che predilige temi e personaggi tratti dalla realtà borghese o persino popolare, tanto più apprezzati dai suoi raffinati ed elitari lettori, quanto più distanti dal loro abituale 𝑠𝑡𝑎𝑛𝑑𝑎𝑟𝑑 di vita.

Un dato ricorrente nella poetica degli Alessandrini è la programmatica insofferenza nei confronti della tradizione. Ed è significativo che, proprio nel momento in cui, di pari passo con l’imponente opera di catalogazione e di sistemazione dei libri della Biblioteca, nasce la moderna nozione di “letteratura”, e si fa un bilancio complessivo e definitivo di quanto era stato prodotto nel passato, si avverta l’esigenza di superare le angustie di schemi che agli occhi di molti apparivano ormai obsoleti. Per Teocrito, per Callimaco, la poesia del genere epico di stretta imitazione omerica sapeva irrimediabilmente di stantio; se la nuova arte voleva continuare a vivere, doveva basarsi su principi totalmente differenti.

Theodoor Galle, Ritratto di Teocrito. Incisione 1598-1606. 13 Geom (142). Wolfenbüttel, Herzog August Bibliothek [link].
Cenni biografici

Nell’opera di Teocrito non sono frequenti i richiami a personaggi e a eventi contemporanei che ci consentano un ancoraggio cronologico sicuro. In gran parte ciò dipende dalla tipologia stessa dei carmi: infatti i componimenti bucolici si collocano in una atemporalità ideale, mentre i poemetti epico-mitologici sono ovviamente proiettati in un lontano passato. D’altro canto, le fonti biografiche esterne non ci dicono quasi nulla di più rispetto a ciò che è ricavabile dall’opera stessa, e dunque appaiono di scarsa utilità[1]. Come principali fonti interne valgono due carmi encomiastici (XVI e XVII) dedicati rispettivamente a Ierone II di Siracusa e a Tolomeo Filadelfo, per la composizione dei quali i contini cronologici sono da porre tra il 275 e il 270, con possibilità di ulteriore determinazione; per la biografia di Teocrito sono poi importanti anche i carmi XIV e XV, che rivelano dimestichezza con l’Alessandria tolemaica, e soprattutto il carme VII, ambientato a Cos, in cui si dibattono questioni letterarie negli stessi termini in cui le conosciamo da Callimaco, e si fa riferimento a poeti di quel tempo, come Filita e Asclepiade. Altri elementi biografici sono più evanescenti, e in ogni caso è da evitare la tentazione di far coincidere sistematicamente l’io narrante con l’autore; ma sull’origine siracusana del poeta non possono esservi dubbi (vd. gli espliciti riferimenti di XI 7 e XXVIII 17).

Che Teocrito, come Callimaco, abbia goduto del favore e della protezione dei sovrani d’Egitto, è indiscutibile, ed è provato dai suoi accenni encomiastici a Tolemeo II Filadelfo e alla sua famiglia[2]; tuttavia, a differenza di Callimaco, Teocrito non ebbe, per quanto ne sappiamo, incarichi ufficiali nelle istituzioni culturali promosse dai sovrani; a rigore non possiamo neanche essere certi che soggiornò a lungo e in maniera continuativa ad Alessandria. Dalle ℎ𝑦𝑝𝑜𝑡ℎ𝑒𝑠𝑖𝑠 delle 𝑇𝑎𝑙𝑖𝑠𝑖𝑒 (p. 76 Wendel) siamo informati di un soggiorno a Cos, avvenuto al tempo in cui il poeta era in viaggio per Alessandria (ma la notizia potrebbe essere autoschediastica), e c’è anche chi ritiene che tale soggiorno sia durato tanto a lungo da consentirgli di comporre colà una sezione organica di carmi bucolici[3]. A tale proposito, è stato anche osservato che la conoscenza che Teocrito mostra di possedere in ambito botanico sembra riflettere la realtà del Mediterraneo orientale, e non della nativa Sicilia, ancorché l’ambientazione sia di norma in Occidente[4]. Non v’è dubbio che l’isola di Cos, che in quell’epoca era un centro di cultura fiorentissimo, potesse esercitare un forte richiamo sul poeta: in stretti rapporti, sia politici sia culturali, con l’Egitto tolemaico, era la patria di Filita, il raffinato poeta-filologo cui era stata affidata l’educazione del Filadelfo, ed era sede di una celebre scuola di medicina, legata al culto di Asclepio. Teocrito nelle 𝑇𝑎𝑙𝑖𝑠𝑖𝑒 mostra di avere una conoscenza diretta e precisa dei luoghi e delle persone più in vista di Cos, ed è significativo che in quest’isola sia ambientato uno dei suoi carmi più ispirati e pregnanti.

La Sicilia, invece, è la terra delle sue radici: nato a Siracusa, in quella città aveva sperato di poter realizzare i suoi progetti di vita e di carriera, ma Ierone, che era uomo d’armi più che di cultura, fu sordo alle richieste del poeta. La Sicilia è prepotentemente presente nell’opera di Teocrito, ma assume i contorni del “luogo poetico” per eccellenza, affascinante proprio perché lontana, rivissuta nella fantasia piuttosto che rappresentata nella sua realtà. L’ispirazione teocritea rifugge, com’è noto, da atmosfere nostalgiche o sentimentali, ma la “distanza” è un dato che va comunque tenuto presente, per comprendere appieno il senso di ciò che si suole definire il “realismo” di Teocrito.

Paris, Bibliothèque nationale de France. Ms. grec. 2835 (1501-1600), Theocritus, Idyllia [link].

Gli “Idilli” e la mistione dei generi in età ellenistica

Il termine Εἰδύλλια, che è stato adoperato dai commentatori antichi per designare le poesie di Teocrito, pastorali e non, è un vocabolo di oscuro significato, che forse non vuol dire nient’altro che «componimenti, poesie», con in più una 𝑛𝑢𝑎𝑛𝑐𝑒 di diminutivo che appare perfettamente in linea con le tendenze estetiche dell’età ellenistica[5]. Ma «idillio» per noi vuol dire un’altra cosa: indica una composizione di carattere generalmente campestre, pervasa da un’atmosfera serena e incantata; e se il termine si è caricato di pregnanza semantica, ciò si deve per l’appunto alla straordinaria fortuna che la poesia pastorale di Teocrito ha avuto nella letteratura europea.

Ma a prescindere dall’opportunità o meno di usare oggi per il canzoniere teocriteo un termine che non corrisponde più al significato originario, importa sottolineare come la sostanziale genericità del vocabolo si giustifichi con il carattere composito della raccolta e con l’assoluta novità, sul piano dei contenuti e delle forme, di gran parte delle composizioni, che pertanto non potevano essere raggruppate sotto etichette tradizionali. Poiché Teocrito, a differenza di Callimaco, non fu editore di se stesso, è evidente che quell’aspetto multiforme dipende in ultima analisi da colui che ha messo insieme, in un’edizione complessiva, opere composte in circostanze e tempi distinti; però è altrettanto evidente che il principio tutto alessandrino della ποικιλία opera anche all’interno del singolo componimento, impedendo di fatto ogni tentativo di classificazione secondo le categorie tradizionali. La contaminazione di generi letterari diversi è prassi costante nella tecnica compositiva di Teocrito, come di altri poeti alessandrini[6]; peraltro, soltanto ora era possibile superare la rigida canonicità dei generi letterari, che nel passato aveva imposto ai poeti norme precise riguardo al metro, al colore dialettale, ai contenuti stessi delle opere. Finché la letteratura si era mantenuta legata ai momenti ufficiali della vita cittadina, l’adesione al genere letterario si configurava come una norma del tutto funzionale alla situazione, nel senso che la struttura, con tutto quello che ha di convenzionale, era un supporto insostituibile, accettato dall’autore e atteso dal suo pubblico. Quando però, in conseguenza delle mutate condizioni politiche e sociali, la letteratura da pragmatica si fa libresca, l’adesione alle convenzioni del genere letterario non ha più nulla di funzionale, e diventa possibile tentare nuove vie. Perciò, quando nel canzoniere teocriteo parliamo di carmi bucolici, di mimi, di epilli, di inni, di epitalami, di encomi, non dobbiamo dimenticare che, in realtà, questi generi sono trattati da Teocrito in maniera assolutamente innovativa, con spericolate incursioni di un genere nell’altro.

Ferrara, Biblioteca Comunale Ariostea. Codex II, 155 (1336-37 c.), Teocrito, Idilli con gli scholia di Manuele Moscopulo, f. 14r.

La poesia bucolica

È buona norma, nella critica letteraria, evitare di parlare di “nascita” di un genere poetico, e di un autore come l’”inventore”, nella consapevolezza che nulla nasce all’improvviso e a opera di un solo individuo; tuttavia, riguardo alla poesia pastorale, si può ben dire che Teocrito fu l’iniziatore di un genere letterario destinato ad avere una lunghissima storia e a incidere profondamente nella cultura europea. Al più ci si potrà chiedere quanto nella sensibilità del poeta il “genere bucolico” fosse una categoria autonoma e chiaramente definibile rispetto al resto della sua produzione, ma pur tenendo nel debito conto la più marcata stilizzazione della poesia bucolica posteriore, si dovrà convenire che la consapevole codificazione del genere prende l’avvio con Teocrito stesso[7]. Per la poesia pastorale si può, dunque, parlare di precedenti letterari solo in un’accezione molto limitata e circoscritta: in questo senso ristretto è lecito richiamare a confronto gli elementi bucolici della poesia omerica, o il forte interesse per la campagna che si manifesta nell’ambito del dramma satiresco, o magari la figura di Dafni, così come era stata tratteggiata da Stesicoro alcuni secoli addietro[8]. Ma assolutamente nulla, nella poesia del passato, può costituire un precedente per quella che è l’essenza della poesia pastorale, vale a dire il 𝑐𝑙𝑖𝑐ℎ𝑒́dei pastori-poeti che in un paesaggio fortemente idealizzato (il 𝑙𝑜𝑐𝑢𝑠 𝑎𝑚𝑜𝑒𝑛𝑢𝑠) compongono melodie e le eseguono, ora in forte competizione tra loro, ora semplicemente per la gioia del canto. Sotto questo rispetto assai più feconda appare la ricerca delle fonti nell’ambito delle tradizioni popolari, e si può ben immaginare un Teocrito che dalle usanze della vita rustica siciliana trae motivo d’ispirazione per composizioni di alta stilizzazione formale, destinate ad avere un successo senza pari presso il raffinato pubblico cittadino di Alessandria[9].

Al mondo bucolico teocriteo è del tutto estranea la componente cultuale e religiosa; perciò risulta in qualche modo sorprendente il quadro prospettato nel trattatello sulla genesi della bucolica premesso nei codici ai carmi di Teocrito e attribuibile a Teone[10]. Qui sono indicate tre differenti versioni sull’origine della poesia pastorale, ma un elemento comune è costituito dalla connessione dei canti dei contadini con il culto di Artemide, circostanza che riporta la bucolica a una dimensione prettamente religiosa[11]. Comunque si voglia interpretare questa testimonianza – è stato sostenuto con buoni argomenti che l’aristotelico Teone esponga qui una propria idea personale, con l’obiettivo di spiegare l’origine della poesia pastorale in maniera analoga al modo in cui Aristotele aveva spiegato l’origine della poesia drammatica[12] – , è del tutto evidente che, se pure vi fu nella fase preletteraria della poesia bucolica una componente religiosa e culturale, in Teocrito non ne rimane traccia alcuna.

Paul Peel, La pastorella. Olio su tela, 1892.

 

I “mimi”

Sul piano propriamente compositivo, è da rilevare che i carmi bucolici, di norma, sono strutturati in forma drammatica, come se si trattasse di opere destinate a essere rappresentate sulla scena; peraltro, la presenza in alcuni casi di sezioni narrative la dice lunga sulla loro destinazione, che si deve supporre libresca. In ogni caso, da una parte la forma dialogica, dall’altra la propensione a rappresentare scene della vita quotidiana, avvicinano questi carmi all’antico genere del mimo, vale a dire a quella forma popolare di teatro che si era sviluppata due secoli prima in Sicilia, e che aveva avuto in Sofrone il suo esponente di punta. Ma i carmi bucolici hanno una connotazione così peculiare ed esclusiva, che sembra difficile incardinarli 𝑡𝑜𝑢𝑡 𝑐𝑜𝑢𝑟𝑡 in quella tradizione; si parlerà piuttosto di una più generale attitudine “mimetica”, che peraltro, a diversi livelli, opera in quasi tutte le composizioni teocritee, persino nei poemetti d’impianto epico-narrativo: la sticomitia del carme XXII ne è un esempio rilevante.

Vi sono, invece, nel canzoniere teocriteo alcune composizioni (II, XIV, XV) che possiamo a buon diritto definire «mimi», sia per la struttura drammatica, che è integrale – a rigore sarebbero rappresentabili, anche se si tende a escluderlo[13] – , sia per i personaggi e le situazioni, che riflettono il gusto per la rappresentazione realistica della vita di tutti i giorni. L’esistenza di uno specifico rapporto con il mimo siciliano del V secolo a.C. trova effettivamente qualche riscontro nei pur scarsi frammenti sofronei, e inoltre tale rapporto è esplicitamente indicato dai commentatori antichi; ma naturalmente, dato il quasi completo naufragio dell’opera di Sofrone, non possiamo sapere fino a che punto si sia spinta l’imitazione da parte di Teocrito; certo, i mimi teocritei appaiono così pervasi di spirito alessandrino, così ricchi di riferimenti a fatti e personaggi contemporanei all’autore, che si può tranquillamente ritenere che Teocrito trasse dal suo modello nulla più che qualche spunto.
Il mimo, almeno alle sue origini, era una forma popolare di teatro, destinato a un uditorio vasto e di poche pretese. Si deve tuttavia supporre che già con Sofrone si fosse attuata una forte spinta in senso letterario (i mimi di Sofrone erano molto ammirati da Platone!); con Teocrito l’elemento popolare si cala in una forma altamente stilizzata e consapevole. A ben vedere, non c’è nulla di più provocatorio che adoperare il sonante esametro epico per argomenti e situazioni della vita quotidiana. E l’esametro si piega a tutte le movenze del discorso parlato, acquista un andamento sinuoso, assume pause che sarebbero impensabili nel verso epico, si spezza in due, in tre, nel gioco del dialogo.

 

William-Adolphe Bouguereau, Idillio. Olio su tela, 1852.

 

Considerazioni sull’epillio

«Epillio» è il termine con cui in età moderna si è inteso designare quel particolare tipo di poesia epico-narrativa in esametri, che si sviluppò nel clima culturale alessandrino, prendendo le mosse da Omero, ma a Omero volutamente contrapponendosi. Sono considerati “epilli” in senso stretto i carmi XIII, XXIV e XXV del 𝑐𝑜𝑟𝑝𝑢𝑠 teocriteo, l’𝐸𝑐𝑎𝑙𝑒 di Callimaco e l’𝐸𝑢𝑟𝑜𝑝𝑎 di Mosco; in ambito latino il 𝐶𝑢𝑙𝑒𝑥 e la 𝐶𝑖𝑟𝑖𝑠 pseudo-virgiliani e il carme LXIV di Catullo. È bene sottolineare, comunque, che l’uso del vocabolo per indicare un genere letterario autonomo non ha alcun fondamento nell’antichità[14]: quando ricorre, ἐπύλλιον significa semplicemente 𝑣𝑒𝑟𝑠𝑖𝑐𝑢𝑙𝑢𝑠 (Aristoph. 𝐴𝑐ℎ. 398; 𝑅𝑎𝑛. 924; 𝑃𝑎𝑥 532; Clem. Alex. 𝑆𝑡𝑟𝑜𝑚. III, 3,24); solo in un passo di Ateneo (II 65b) ha il valore di 𝑏𝑟𝑒𝑣𝑒 𝑐𝑎𝑟𝑚𝑒𝑛, ma dal contesto risulta evidente che non si allude affatto a un genere letterario specifico. Si tratta dunque di un uso moderno, e si deve far risalire alla filologia del secolo scorso, come ha chiarito E. Wolff (𝑆𝑢𝑟 𝑙𝑒 𝑚𝑜𝑡 «𝑒𝑝𝑦𝑙𝑙𝑖𝑜𝑛», RPh 62, 1988, 299-303). Ma è veramente legittimo tale uso? A tale proposito, una posizione risolutamente negativa è stata assunta da W. Allen jr. (𝑇ℎ𝑒 𝐸𝑝𝑖𝑙𝑙𝑖𝑜𝑛, 1940), il quale ha sottolineato come spesso siano state corrivamente raggruppate sotto la generica etichetta di “epilli” opere di differente origine e struttura, che riflettono piuttosto la propensione degli alessandrini per la mistione dei generi. Gli argomenti di Allen sono in buona parte condivisibili: per limitarci a Teocrito, è del tutto evidente il carattere proteiforme dell’𝐼𝑙𝑎 (carme XIII), che Wilamowitz intendeva come un παιδικόν, ma che d’altro canto presenta anche le caratteristiche dell’epistola poetica, e per di più incorpora elementi descrittivi di carattere bucolico[15]; e si deve anche rilevare che l’𝐸𝑟𝑎𝑐𝑙𝑖𝑛𝑜 (carme XXIV) si chiude inaspettatamente come se fosse un inno. Pertanto, se si vuole continuare a usare il termine “epillio” – e non v’è dubbio che si tratti di un termine efficace e incisivo – bisognerà farlo con la consapevolezza che esso si adatta a «all poems in the new narrative style as opposed to the Homeric epics»: una generalizzazione quanto mai opportuna, ma che non impedisce l’individuazione di tratti specifici comuni, che servono a delineare il genere, nonostante tutto[16]: la miniaturizzazione dell’epos antico, il carattere episodico, gli inizi 𝑒𝑥 𝑎𝑏𝑟𝑢𝑝𝑡𝑜, il modo di procedere non uniforme, la rinuncia alla formularità, la drastica diminuzione delle comparazioni, l’ampio spazio concesso ai discorsi, l’inclusione di quadretti di carattere familiare e bucolico.

 

Polifemo e Galatea in un paesaggio bucolico. Affresco, fine I sec. a.C. dalla villa di Agrippa Postumo a Boscoreale. New York, Metropolitan Museum of Art.

 

Lingua, stile, metro

Nel tempo in cui Teocrito andava componendo i suoi carmi, la variegata realtà dialettale che fin dalle origini aveva caratterizzato il mondo greco nei suoi molteplici aspetti, politici, sociali, culturali, aveva ceduto ormai di fronte all’espandersi di una “lingua comune” (la cosiddetta κοινή), che si proponeva come unico e funzionale strumento di comunicazione per una realtà che aveva assunto un carattere statale e internazionale. Ma la κοινή non divenne la lingua della poesia: era la lingua della conversazione quotidiana, dei commerci, della burocrazia, degli atti ufficiali; dunque, nella coscienza dei poeti non poteva sostituirsi a quei dialetti antichi che – è bene ricordarlo – avevano dato vita a lingue letterarie di grandissimo prestigio. I poeti alessandrini si sentirono eredi e continuatori di quell’illustre tradizione, e ricercarono i loro modelli nella grande poesia del passato, ma operando in un modo nuovo e sorprendente, in un gioco continuo di imitazione e di innovazione.

Un dato assolutamente caratteristico della civiltà letteraria greca era stato lo stretto vincolo che si era venuto a creare tra dialetti e generi poetici, nel senso che la coloritura dialettale era condizionata dall’appartenenza al genere, e non dall’idioma nativo dell’autore; in età ellenistica quel vincolo si allenta (anche per la crisi che investe i generi tradizionali per se stessi), ma permane, e anzi si rafforza, il ruolo dei dialetti come forte elemento di stilizzazione. Nel contempo si accentua la tendenza, già presente in antico, alla mistione dialettale: sotto questo profilo, la lingua del canzoniere teocriteo è un vero mosaico, e anche tenendo nel debito conto le alterazioni che possono essere intervenute nel corso dei secoli, durante la lunga fase della trasmissione del testo, non v’è dubbio che la scelta stilistica della mistione dei dialetti si debba far risalire all’autore stesso. Quindi, quando parliamo di carmi “dorici”, o di carmi “ionico-epici”, dobbiamo dunque tener presente che vi sono infiltrazioni, anche massicce, di un dialetto nell’altro, e si arriva al punto che in certi casi i due dialetti sono sostanzialmente bilanciati. Solo nei carmi eolici sembra che Teocrito abbia seguito fedelmente la lingua di Saffo e di Alceo, anche se, in confronto ai suoi modelli, è da registrare un’incidenza più massiccia di forme epicheggianti.

Nella scelta del dialetto dominante, Teocrito si è sostanzialmente attenuto alla tipologia dei carmi[17]: per la poesia bucolica, che non aveva un referente letterario, la scelta del dorico fu dettata verosimilmente anche dal desiderio di evocare, sotto forme stilizzate, la lingua dei pastori di Sicilia, ma la 𝑓𝑎𝑐𝑖𝑒𝑠 dorica dei mimi trova senza dubbio il suo modello nel teatro siciliano di Sofrone ed Epicarmo, e non è escluso che tale modello abbia esercitato la sua influenza anche sulla poesia bucolica, che con il genere mimico ha più di un aspetto in comune; la lingua dorico-epica degli encomi per Ierone e per Tolomeo è nella tradizione del genere corale, e la lingua epica dell’inno ai Dioscuri si inquadra nella tradizione degli inni omerici; c’è poi l’eolico dei carmi composti “alla maniera di” Saffo e Alceo; in altri casi la scelta del colore dialettale appare meno immediatamente giustificabile.

In un quadro generale, comprendente anche i carmi di contestata autenticità, questa è la situazione[18]:

 

  • dorico: I-XI, XIV, XV, XVIII-XXI, XXIII, XXVI, XXVII;
  • dorico e ionico-epico: XIII, XVI, XVII, XXIV;
  • ionico-epico: XII, XXII, XXV;
  • eolico: XXVIII-XXXI.

 

Non sorprende di certo la netta prevalenza del dialetto dorico in un poeta di origine siracusana, ma la conclusione che se ne potrebbe trarre, di un uso del dialetto nativo, deve essere accantonata[19]; difatti, dall’idioma siracusano il dorico teocriteo si distacca per una divergenza fondamentale, in quanto adotta generalmente gli esiti aperti della 𝑑𝑜𝑟𝑖𝑠 𝑠𝑒𝑣𝑒𝑟𝑖𝑜𝑟 (gen. -ω, acc. -ως), laddove il siracusano adotta gli esiti chiusi della 𝑑𝑜𝑟𝑖𝑠 𝑚𝑖𝑡𝑖𝑜𝑟 (gen. -ου, acc. -ους)[20], e non basta inseguire il fantasma di un “siracusano letterario” per spiegare il comportamento teocriteo[21]. Ciò che rende problematica la valutazione del dorico di Teocrito è la presenza in esso di alcuni tratti peculiari, che non sembrano appartenere al dorico 𝑠𝑡𝑎𝑛𝑑𝑎𝑟𝑑, e si registrano invece nella 𝐾𝑢𝑛𝑠𝑡𝑠𝑝𝑟𝑎𝑐ℎ𝑒 della poesia corale: si tratta delle forme dittongate del tipo -οισα, -αισα, della grafia σδ per ζ, della terminazione -εσσι dei dativi plurali della flessione atematica, delle forme geminate nei pronomi personali. E se per taluni di questi elementi si può far ricorso all’ipotesi degli epicismi, per le forme dittongate e per la grafia σδ, che non appartengono alla lingua dell’epica, il referente letterario non può che essere la lingua della corale, dove peraltro questi elementi “eolici” costituiscono già per se stessi un problema.

Su questa base si era fondata l’efficace definizione di 𝑆𝑎𝑙𝑜𝑛𝑑𝑜𝑟𝑖𝑠𝑐ℎ data da Wilamowitz al dorico teocriteo; ma ora la questione sembra porsi su un piano differente, perché le forme dittongate sono emerse come un elemento di lingua corrente nelle iscrizioni della Cirenaica[22], e ciò ha consentito a C.J. Ruijgh[23] di postulare per Teocrito l’adozione di un dialetto di tipo “cirenaico”, rispecchiante l’idioma, già in qualche modo influenzato dalla κοινή, che si parlava nella comunità cirenaica insediata nella città di Alessandria: un’ipotesi attraente, anche se taluni argomenti di ordine strettamente dialettologico, per ammissione dello stesso studioso, appaiono alquanto evanescenti[24]; ma non mi pare da condividere il presupposto che ne è alla base, cioè che il contenuto «réaliste» richiedesse un «dialecte vivant», e non solo perché ciò non rientra per nulla nei canoni della civiltà letteraria alessandrina, ma anche in ragione della sostanziale uniformità del dorico teocriteo, che è lo stesso sia nei carmi bucolici e nei mimi, sia nei carmi di registro alto, come il XVIII e il XXVI; né può costituire un elemento a favore il fatto che Callimaco di Cirene adotti lo stesso tipo di dorico, ove si consideri che il raffinato poeta alessandrino mai avrebbe adottato 𝑡𝑜𝑢𝑡 𝑐𝑜𝑢𝑟𝑡 per i suoi inni l’idioma nativo[25]. A conti fatti, mi pare che l’approccio letterario di Wilamowitz conservi tutto il suo valore, e non posso essere corrivamente abbandonato; dopo tutto, non bisogna dimenticare che anche la scelta dell’esametro procede nel senso di un contrasto, e non di un’aderenza al dato realistico.

C’è poi il problema degli epicismi, che in misura più o meno massiccia troviamo inseriti nei carmi dorici[26]. Il linguaggio epico era tradizionalmente sinonimo di stile elevato, ma ritenere che Teocrito abbia introdotto espressioni omeriche con puro fine di ornamento sarebbe quanto meno semplicistico. Certo, l’impiego dell’esametro comporta, quasi per una sorta di trascinamento, l’uso di locuzioni omeriche, ed è vero che in taluni casi la maggior incidenza di tratti epici corrisponde a un effettivo innalzamento del tono, come avviene ad esempio nell’elaborato carme che apre la raccolta, ma non di rado quei flosculi omerici, accortamente accostati a colloquialismi e volgarismi nel linguaggio delle persone semplici che agiscono nei mimi, hanno un sapore sottile d’ironia, e marcano la distanza che il poeta pone intenzionalmente tra se stesso e i personaggi da lui creati. È il caso della serenata del capraio nel carme III, in cui la rilevante presenza di omerismi contribuisce a dare un tocco umoristico all’intera scena.

Contrariamente alla scelta della varietà nelle tematiche, nei dialetti, nei generi poetici, la scelta metrica di Teocrito non va nel senso della polimetria: infatti, se si escludono i carmi eolici che ripropongono i metri di Saffo e Alceo, alcuni epigrammi in metri vari, e il carme VIII (di contestata autenticità) con la sua sezione in distici elegiaci, le poesie di Teocrito sono tutte composte in esametri dattilici. Ho già avuto occasione di sottolineare il paradosso insito nella scelta dell’esametro per il genere bucolico e mimico: ma i lettori di Teocrito certamente apprezzavano come una gradita novità l’impiego del magniloquente verso dell’epica per rappresentare l’umile vita dei pastori o il piccolo mondo borghese cittadino; e soprattutto apprezzavano la virtuosistica destrezza con cui il poeta era riuscito a piegare alla discorsività del dialogo il verso che era stato definito da Aristotele il più lontano di tutti dalla lingua parlata, affidando, di fatto, all’esametro lo stesso ruolo del trimetro giambico nella commedia[27]. È così che si spiegano certe violazioni alle norme del raffinato esametro alessandrino: nel linguaggio “staccato” che caratterizza i dialoghi delle 𝑆𝑖𝑟𝑎𝑐𝑢𝑠𝑎𝑛𝑒 si registrano pause anche nell’ultimissima parte del verso (vv. 1,3; 14; 40; 60), in un’evidente ricerca di ben precisi effetti stilistici. In generale, comunque, laddove non sussistano esigenze di discorsività, il verso ha la forma stilizzata ed elegante che contraddistingue l’esametro alessandrino, pur presentando, nella struttura compositiva, un minor numero di norme restrittive rispetto agli esametri callimachei, e si caratterizza per tutta una serie di espedienti stilistici (anafore, ripetizioni, omeoteleuti, allitterazioni), che contribuiscono a renderlo armonioso e in qualche modo cantabile; talvolta compare persino una struttura strofica, a suggerire, per il verso recitativo per eccellenza, un’ideale 𝑝𝑒𝑟𝑓𝑜𝑟𝑚𝑎𝑛𝑐𝑒 canora.[28]

Jean Charles Cazin, Teocrito. Olio su tela, 1885. Chicago, Art Institute.

 

Carattere della poesia teocritea

L’uso sapiente e scaltrito dello strumento linguistico e metrico è uno dei mezzi attraverso i quali Teocrito realizza la sua operazione poetica. La critica ha spesso sottolineato, e giustamente, la connotazione realistica della sua poesia; ma è bene sottolineare come il realismo di Teocrito non significhi affatto aderenza alla vita dei ceti umili borghesi: vi si oppone da un lato, come si è visto, la stilizzazione nella scrittura, che rivela una forte e rigorosa attenzione al dato specificatamente letterario, dall’altro un atteggiamento di consapevole distanza di fronte all’oggetto della sua arte. Teocrito non s’immedesima mai nei suoi personaggi; al contrario, li osserva, di solito con indulgente ironia, talora anche con partecipazione, ma senza mai lasciarsi interamente travolgere dalle loro passioni. È questa disposizione d’animo che fa sì che l’ironia non diventi mai sarcasmo: il sarcasmo nasce da eccesso di passione, e invece Teocrito, per inclinazione naturale, e per norma d’arte, procede sulla via del “sottrarre”, non dell’”aggiungere”. Allo stesso modo, il calore dei sentimenti non si tramuta mai in scomposta passione, e quando la commozione sta per traboccare, interviene a smorzarla il superiore sorriso del poeta. In questa leggerezza di tono, in questa consapevole smorzatura degli affetti consiste la sostanza della sua ispirazione. Perciò, a mio parere, non si può insistere troppo sul carattere umoristico, e persino satirico, della poesia di Teocrito, che è lieve per sua natura, e mai pungente o mordace, quand’anche riprenda i moduli aggressivi della poesia popolare[29]. D’altro canto va anche accolto con cautela l’approccio di quella parte della critica che carica Teocrito di un’intricata rete di simboli[30]: un tempo andava di moda, sulla scia di Reitzenstein, scorgere allegoricamente dietro questa o quella figura di pastore personaggi reali della cerchia poetica teocritea[31]; la fitta simbologia che oggi si è andata addensando sulla poesia di Teocrito rischia, ancora una volta, di incrinare quel tocco leggero che costituisce il segno inconfondibile dell’arte del poeta.

Per una bibliografia aggiornata, si vd. il sito 𝐴 𝐻𝑒𝑙𝑙𝑒𝑛𝑖𝑠𝑡𝑖𝑐 𝐵𝑖𝑏𝑙𝑖𝑜𝑔𝑟𝑎𝑝ℎ𝑦.

 

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Note:

[1] Sono elencate e discusse in Gᴏᴡ, I, xᴠ ss.

[2] Vd. in particolare W. Mᴇɪɴᴄᴋᴇ, 𝑈𝑛𝑡𝑒𝑟𝑠𝑢𝑐ℎ𝑢𝑛𝑔𝑒𝑛 𝑧𝑢 𝑑𝑒𝑛 𝑒𝑛𝑘𝑜𝑚𝑖𝑎𝑠𝑡𝑖𝑠𝑐ℎ𝑒𝑛 𝐺𝑒𝑑𝑖𝑐ℎ𝑡𝑒𝑛 𝑇ℎ𝑒𝑜𝑘𝑟𝑖𝑡𝑠, Diss., Kiel 1965, e T.F. Gʀɪꜰꜰɪᴛʜs, 𝑇ℎ𝑒𝑜𝑐𝑟𝑖𝑡𝑢𝑠 𝑎𝑡 𝐶𝑜𝑢𝑟𝑡, Leiden 1979 [books.google].

[3] È un’ipotesi prospettata da G. Lᴀᴡᴀʟʟ, 𝑇ℎ𝑒𝑜𝑐𝑟𝑖𝑡𝑢𝑠’ 𝐶𝑜𝑎𝑛 𝑃𝑎𝑠𝑡𝑜𝑟𝑎𝑙𝑠. 𝐴 𝑃𝑜𝑒𝑡𝑟𝑦 𝐵𝑜𝑜𝑘, Cambridge MA 1967 [archive.org].

[4] A. Lɪɴᴅsᴇʟʟ, 𝑊𝑎𝑠 𝑇ℎ𝑒𝑜𝑐𝑟𝑖𝑡𝑢𝑠 𝑎 𝐵𝑜𝑡𝑎𝑛𝑖𝑠𝑡?, G&R 6 (1937), 78-93.

[5] È per l’appunto con tale valenza che 𝑖𝑑𝑦𝑙𝑙𝑖𝑎 è adoperato da Plinio (𝐸𝑝𝑖𝑠𝑡. 4, 14), e tuttavia mal si comprende in che modo εἶδος (= «aspetto», e quindi «specie», «tipo») possa assumere il significato di «poema» 𝑡𝑜𝑢𝑡 𝑐𝑜𝑢𝑟𝑡. Come osserva Gᴏᴡ (I, ʟxxɪ), se, a rigore, si può accettare che il plurale εἴδη indichi una collezione di poemi di vario tipo, non si giustifica l’uso di εἶδος per il singolo componimento.

[6] Sull’argomento vd. L.E. Rᴏssɪ, 𝐼 𝑔𝑒𝑛𝑒𝑟𝑖 𝑙𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑎𝑟𝑖 𝑒 𝑙𝑒 𝑙𝑜𝑟𝑜 𝑙𝑒𝑔𝑔𝑖 𝑠𝑐𝑟𝑖𝑡𝑡𝑒 𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑐𝑟𝑖𝑡𝑡𝑒 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑙𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑎𝑡𝑢𝑟𝑒 𝑐𝑙𝑎𝑠𝑠𝑖𝑐ℎ𝑒, BICS 18 (1971), 69-94 [unica.it].

[7] Su tale problematica vd. in particolare B. Eꜰꜰᴇ, 𝐷𝑖𝑒 𝐺𝑒𝑛𝑒𝑠𝑒 𝑒𝑖𝑛𝑒𝑟 𝑙𝑖𝑡𝑒𝑟𝑎𝑟𝑖𝑠𝑐ℎ𝑒𝑛 𝐺𝑎𝑡𝑡𝑢𝑛𝑔: 𝑑𝑖𝑒 𝐵𝑢𝑘𝑜𝑙𝑖𝑘, Konstanz 1977 e D.M. Hᴀʟᴘᴇʀɪɴ, 𝐵𝑒𝑓𝑜𝑟𝑒 𝑃𝑎𝑠𝑡𝑜𝑟𝑎𝑙: 𝑇ℎ𝑒𝑜𝑐𝑟𝑖𝑡𝑢𝑠 𝑎𝑛𝑑 𝑡ℎ𝑒 𝐴𝑛𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡 𝑇𝑟𝑎𝑑𝑖𝑡𝑖𝑜𝑛 𝑜𝑓 𝐵𝑢𝑐𝑜𝑙𝑖𝑐 𝑃𝑜𝑒𝑡𝑟𝑦, New Haven 1983.

[8] Tra le raffigurazioni dello scudo di Achille (𝐼𝑙. XVIII) vi sono due scene in cui l’elemento musicale è associato alla sfera bucolica: in una sono rappresentati due pastori che seguono le greggi e le mandrie di buoi suonando la 𝑠𝑦𝑟𝑖𝑛𝑥 (vv. 525 ss.); nell’altra, che è una scena di vendemmia, è raffigurato un ragazzo che canta al suono della cetra, attorniato da fanciulle e giovani danzanti (vv. 569 ss.). Più in generale, l’elemento pastorale fa da cornice all’episodio di Polifemo (𝑂𝑑. IX).

[9] Un forte impulso in questo senso è stato impresso dal saggio di R. Mᴇʀᴋᴇʟʙᴀᴄʜ, ΒΟ𝑌ΚΟΛΙΑΣΤΑΙ (𝐷𝑒𝑟 𝑊𝑒𝑡𝑡𝑔𝑒𝑠𝑎𝑛𝑔 𝑑𝑒𝑟 𝐻𝑖𝑟𝑡𝑒𝑛), RhM 99 (1956), 97-133.

[10] Teone è il grammatico di età augustea a cui si attribuisce, sulla scia di Wilamowitz, l’edizione del 𝑐𝑜𝑟𝑝𝑢𝑠 teocriteo. Gli argomenti contenuti nel trattato furono successivamente ripresi dai grammatici latini, nell’ambito dei loro interessi per la poesia bucolica di Virgilio. Tutti i testi si trovano raccolti in C. Wᴇɴᴅᴇʟ, 𝑆𝑐ℎ𝑜𝑙𝑖𝑎 𝑖𝑛 𝑇ℎ𝑒𝑜𝑐𝑟𝑖𝑡𝑢𝑚 𝑣𝑒𝑡𝑒𝑟𝑎, Lipsiae 1914, 1-22 [archive.org].

[11] La prima versione si colloca in Laconia all’epoca dell’invasione persiana, quando i contadini si sostituirono alle vergini nel compito di cantare inni in onore di Artemide Cariatide; la seconda s’intreccia con la vicenda di Oreste, giunto a Tindari con il simulacro di Artemide trafugato dalla Tauride: in tale occasione i nativi onorarono la dea con canti. Infine, c’è la versione siracusana, che, secondo l’autore, è quella che coglie nel segno (ἀληθής λόγος): scoppiata una sommossa a Siracusa, e tornata successivamente la pace, furono organizzati festeggiamenti in onore di Artemide, durante i quali i contadini del contado ingaggiavano gare di canto; e chi rimaneva sconfitto andava in giro per le campagne circostanti, elemosinando cibo e cantando canti di buon augurio.

[12] Vd. E. Cʀᴇᴍᴏɴᴇsɪ, 𝑅𝑎𝑝𝑝𝑜𝑟𝑡𝑖 𝑡𝑟𝑎 𝑙𝑒 𝑜𝑟𝑖𝑔𝑖𝑛𝑖 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑜𝑒𝑠𝑖𝑎 𝑏𝑢𝑐𝑜𝑙𝑖𝑐𝑎 𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑜𝑒𝑠𝑖𝑎 𝑐𝑜𝑚𝑖𝑐𝑎 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑡𝑟𝑎𝑑𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑝𝑒𝑟𝑖𝑝𝑎𝑡𝑒𝑡𝑖𝑐𝑎, Dioniso 21-22 (1958-59), 109-122.

[13] A mio parere, sarebbe accettabile anche per i mimi teocritei la soluzione prospettata da Mastromarco per i 𝑀𝑖𝑚𝑖𝑎𝑚𝑏𝑖 di Eronda (𝐼𝑙 𝑝𝑢𝑏𝑏𝑙𝑖𝑐𝑜 𝑑𝑖 𝐸𝑟𝑜𝑛𝑑𝑎, Padova 1979): rappresentazioni sceniche tenute a corte, o nelle case delle famiglie più facoltose e colte della società alessandrina, basate su una concezione antologica dello spettacolo.

[14] Vd. W. Aʟʟᴇɴ ᴊʀ., 𝑇ℎ𝑒 𝐸𝑝𝑖𝑙𝑙𝑖𝑜𝑛: 𝐴 𝐶ℎ𝑎𝑝𝑡𝑒𝑟 𝑖𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝐻𝑖𝑠𝑡𝑜𝑟𝑦 𝑜𝑓 𝐿𝑖𝑡𝑒𝑟𝑎𝑟𝑦 𝐶𝑟𝑖𝑡𝑖𝑐𝑖𝑠𝑚, TAPhA 71 (1940), 1-26.

[15] Vd. L.E. Rᴏssɪ, 𝐿’Ila 𝑑𝑖 𝑇𝑒𝑜𝑐𝑟𝑖𝑡𝑜: 𝑒𝑝𝑖𝑠𝑡𝑜𝑙𝑎 𝑝𝑜𝑒𝑡𝑖𝑐𝑎 𝑒𝑑 𝑒𝑝𝑖𝑙𝑙𝑖𝑜, in 𝑆𝑡𝑢𝑑𝑖 𝑐𝑙𝑎𝑠𝑠𝑖𝑐𝑖 𝑖𝑛 𝑜𝑛𝑜𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝑄. 𝐶𝑎𝑡𝑎𝑢𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎, vol. 2, Catania 1972, 279-293.

[16] Essi sono stati limpidamente messi in luce da G. Pᴇʀʀᴏᴛᴛᴀ, 𝐴𝑟𝑡𝑒 𝑒 𝑡𝑒𝑐𝑛𝑖𝑐𝑎 𝑛𝑒𝑙𝑙’𝑒𝑝𝑖𝑙𝑙𝑖𝑜 𝑎𝑙𝑒𝑠𝑠𝑎𝑛𝑑𝑟𝑖𝑛𝑜, A&R 4 (1923), 213-229, ora anche in B. Gᴇɴᴛɪʟɪ, G. Mᴏʀᴇʟʟɪ, G. Sᴇʀʀᴀᴏ (eds.), 𝑃𝑜𝑒𝑠𝑖𝑎 𝑒𝑙𝑙𝑒𝑛𝑖𝑠𝑡𝑖𝑐𝑎. 𝑆𝑐𝑟𝑖𝑡𝑡𝑖 𝑚𝑖𝑛𝑜𝑟𝑖 𝐼𝐼, Roma 1978, 34-53.

[17] Come è noto, la questione della corrispondenza tra dialetti e generi era stata polemicamente sollevata sul piano teorico da Callimaco nel giambo XIII. Il libro dei 𝐺𝑖𝑎𝑚𝑏𝑖 è in se stesso un esempio di programmatica infedeltà all’antica norma; e la “trasgressione” investe persino il venerando genere degli inni, che la tradizione voleva composti in lingua epica e in esametri dattilici: infatti, due dei sei 𝐼𝑛𝑛𝑖 callimachei, il quinto e il sesto, presentano una 𝑓𝑎𝑐𝑖𝑒𝑠 dorica, e il quinto svaria anche nel metro, che è un distico elegiaco.

[18] Dopo quanto si è detto a proposito della mistione dialettale, risulta chiaro che qualsiasi classificazione comporta un certo rischio di semplificazione: infatti anche i carmi “ionico-epici” contengono dorismi, così come i carmi “dorici” contengono epicismi, e non è facile determinare in che misura tale mescolanza sia da attribuire all’autore, e quanto invece sia da imputare alla tradizione manoscritta. È il caso, in particolare, dei carmi XII e XXII, che sono indicati come “ionici” nei codici stessi, ma che contengono un certo numero di dorismi, generalmente trascurati nella 𝑟𝑒𝑐𝑒𝑛𝑠𝑖𝑜.

[19] Se Alessandria, città nuova e cosmopolita, aveva adottato decisamente come strumento di comunicazione la κοινή, la dorica Siracusa al tempo di Teocrito conservava ancora tracce consistenti dell’antico idioma encorico, come risulta evidente dalla documentazione epigrafica.

[20] L’ormai cronica distinzione tra 𝑑𝑜𝑟𝑖𝑠 𝑠𝑒𝑣𝑒𝑟𝑖𝑜𝑟 e 𝑑𝑜𝑟𝑖𝑠 𝑚𝑖𝑡𝑖𝑜𝑟 risale a H.L. Aʜʀᴇɴs, 𝐷𝑒 𝑔𝑟𝑎𝑒𝑐𝑎𝑒 𝑙𝑖𝑛𝑔𝑢𝑎𝑒 𝑑𝑖𝑎𝑙𝑒𝑐𝑡𝑖𝑠, II, Gottingae 1843.

[21] L’ipotesi di una 𝐾𝑢𝑛𝑠𝑡𝑠𝑝𝑟𝑎𝑐ℎ𝑒 siracusana, operante in Sicilia e in Magna Grecia, fu formulata per la prima volta in maniera organica da M. Magniem (𝐿𝑎 𝑠𝑦𝑟𝑎𝑐𝑢𝑠𝑎𝑖𝑛 𝑙𝑖𝑡𝑡𝑒́𝑟𝑎𝑖𝑟𝑒 𝑒𝑡 𝑙’𝑖𝑑𝑦𝑙𝑙𝑒 𝑋𝑉 𝑑𝑒 𝑇ℎ𝑒́𝑜𝑐𝑟𝑖𝑡𝑒, MSL 21, 1919, 49-85), ed è stata accolta con grande favore, malgrado offra il fianco a non poche obiezioni. Una ragionata critica alla costruzione del Magniem è stata avanzata da G. Iᴀᴄᴏʙᴀᴄᴄɪ, 𝐼𝑙 “𝑠𝑖𝑟𝑎𝑐𝑢𝑠𝑎𝑛𝑜 𝑙𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑎𝑟𝑖𝑜”: 𝑢𝑛’𝑖𝑝𝑜𝑡𝑒𝑠𝑖 𝑑𝑎 𝑟𝑖𝑣𝑒𝑑𝑒𝑟𝑒, PhD. th. 1992.

[22] I testi sono raccolti in RFC 1928; vd. inoltre G. Oʟɪᴠᴇʀɪᴏ, 𝐼𝑠𝑐𝑟𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑐𝑖𝑟𝑒𝑛𝑎𝑖𝑐ℎ𝑒, QAL 4 (1961), 3-54, SEC, Annuario della scuola archeologica di Atene, 23-24 (1961-62), a cura di G. Pᴜɢʟɪᴇsᴇ Cᴀʀʀᴀᴛᴇʟʟɪ, e 𝑆𝐸𝐺 26 (1976-77), 412 ss.

[23] 𝐿𝑒 𝑑𝑜𝑟𝑖𝑒𝑛 𝑑𝑒 𝑇ℎ𝑒́𝑜𝑐𝑟𝑖𝑡𝑒 : 𝑑𝑖𝑎𝑙𝑒𝑐𝑡𝑒 𝑐𝑦𝑟𝑒́𝑛𝑖𝑒𝑛 𝑑’𝐴𝑙𝑒𝑥𝑎𝑛𝑑𝑟𝑖𝑒 𝑒𝑡 𝑑’𝐸𝑔𝑦𝑝𝑡𝑒, Mnemosyne 37 (1984), 56-88 [jstor.org].

[24] È bene sottolineare che la maggior parte delle caratteristiche del dorico teocriteo sono comuni a tutta l’area occidentale, e quindi non sono di alcuna utilità per l’individuazione di un idioma specifico locale. Vi sono poi alcuni tratti più particolari, che appartengono, è vero, al cirenaico, ma appartengono anche ad altre aree del dominio dorico, nonché alla lingua letteraria (ἦνθον = ἦλθον, accusativi plur. in -ας e in -ος, desinenze d’infinito in -εν per -ειν, ἔνδοι = ἔνδον, ἴσαμι = οἶδα, e naturalmente gli esiti aperti della 𝑑𝑜𝑟𝑖𝑠 𝑠𝑒𝑣𝑒𝑟𝑖𝑜𝑟). Rimangono come elementi peculiari, secondo Ruijgh, -οισα = -ουσα, il suffisso avverbiale -θε = -θεν, la seconda persona dell’indicativo presente in -ες per -εις, σδ = ζ, Di questi elementi, il più significativo è -οισα, che effettivamente figura nel cirenaico come un tratto di lingua parlata, ma è un dato che semmai riapre la discussione sulla provenienza delle forme dittongate nella lingua della corale, e non basta a stabilire un asse: cirenaico → Teocrito. Quanto a σδ = ζ, la sua presenza nel cirenaico parlato può essere supposta in via ipotetica, dal momento che la documentazione epigrafica non ne serba traccia. Noto infine che la forma -θε per -θεν figura già in Pindaro, e che i casi di -ες per -εις sono pochi e non controllabili metricamente; in ogni caso si tratterebbe di una concordanza troppo labile per essere significativa.

[25] L’approccio di Ruijgh ripropone per diversa via l’antico argomento del carattere «rustico» del dorico teocriteo, ripreso anche in età moderna, soprattutto nel secolo scorso; ma vd. le giuste osservazioni di V. Dɪ Bᴇɴᴇᴅᴇᴛᴛᴏ, 𝑂𝑚𝑒𝑟𝑖𝑠𝑚𝑖 𝑒 𝑠𝑡𝑟𝑢𝑡𝑡𝑢𝑟𝑎 𝑚𝑒𝑡𝑟𝑖𝑐𝑎 𝑛𝑒𝑔𝑙𝑖 𝑖𝑑𝑖𝑙𝑙𝑖 𝑑𝑜𝑟𝑖𝑐𝑖 𝑑𝑖 𝑇𝑒𝑜𝑐𝑟𝑖𝑡𝑜, ASNSP 25 (1956), 49 ss.

[26] Vd. Bᴇɴᴇᴅᴇᴛᴛᴏ, 𝑂𝑚𝑒𝑟𝑖𝑠𝑚𝑖…, 48-60.

[27] 𝑃𝑜𝑒𝑡. 1449a 26.

[28] È in particolare il caso del primo e del secondo carme, nei quali il 𝑟𝑒𝑓𝑟𝑎𝑖𝑛 funge da separatore di gruppi regolari di versi, ma anche il carme III ha un’evidente struttura tristica.

[29] L’ironia è il filo conduttore dell’analisi della poesia teocritea da parte di G. Giangrande e della sua scuola.

[30] L’interpretazione “simbolica” si è esercitata soprattutto sul carme VII, ma non solo. Tra i principali esponenti di questo 𝑡𝑟𝑒𝑛𝑑 ricordiamo Ch. Segal, G. Lawall, J.-H. Kühn, M. Puelma, U. Ott.

[31] 𝐸𝑝𝑖𝑔𝑟𝑎𝑚𝑚 𝑢𝑛𝑑 𝑆𝑘𝑜𝑙𝑖𝑜𝑛, Giessen 1893.

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