Il discorso di Pericle (Thuc. II, 34,8 – 42,1)

di TUCIDIDE, Le Storie, vol. 1, a cura di G. DONINI, Torino 2005, pp. 330-342.

Pericle pronuncia l'epitaffio. Illustrazione di Y. Lee.
Pericle pronuncia l’epitaffio. Illustrazione di Y. Lee.

[8] Per questi primi caduti, dunque, a pronunciare il discorso fu scelto Pericle, figlio di Santippo. E non appena fu il momento giusto, venne avanti dal sepolcro e salì su una tribuna che era stata costruita alta, affinché potesse essere udito dalla folla il più lontano possibile, e parlò in questo modo:
[35,1] «La maggior parte di quanti hanno già parlato qui loda chi, per usanza, ha aggiunto questo discorso, dicendo che è bello che esso venga pronunciato in onore dei sepolti che sono caduti in guerra. Ma a me sarebbe sembrato sufficiente che per uomini che si dimostrarono valorosi nei fatti, gli onori fossero anche manifestati con i fatti, come vedete proprio ora nel caso di questa sepoltura preparata a spese pubbliche; e avrei preferito che il credere nelle virtù di molti uomini non corresse rischi in relazione alla capacità di parlar bene o male. [2] È difficile, infatti, parlare in modo adatto in una situazione in cui si riesce a malapena a dare un fondamento perfino all’opinione che sia stata detta la verità. Infatti, l’ascoltatore che conosce gli avvenimenti per propria esperienza ed è ben disposto verso i caduti potrebbe forse pensare che qualche aspetto sia illustrato in modo alquanto inadeguato in confronto ai suoi desideri e alla sua conoscenza, mentre chi non ne ha esperienza, se dovesse udire cose che siano al di sopra delle sue capacità, potrebbe credere per invidia che vi siano delle esagerazioni. Fino a questo punto sono tollerabili le lodi degli altri: fino, cioè, al punto in cui ciascuno crede di essere anche lui capace di far qualcosa di ciò che ha sentito narrare: ma per ciò che supera le loro possibilità gli uomini nutrono subito invidia e non vi credono. [3] Ma poiché dagli antichi è stato riconosciuto che la cerimonia svolta in questo modo andava bene, devo anch’io seguire l’usanza e cercare di soddisfare il più possibile il desiderio e l’opinione di ciascuno di voi.
[36,1] Comincerò parlando prima di tutto dei nostri antenati: è giusto, infatti, e nello stesso tempo appropriato in un’occasione come questa che sia dato loro l’onore di questo ricordo. Vivendo nella nostra terra, sempre gli stessi abitanti, nel susseguirsi delle generazioni, l’hanno tramandata libera fino ad oggi grazie al loro valore. [2] Essi sono degni di lode, e ancor più lo sono i nostri padri: infatti, dopo aver conquistato, non senza fatica, tutto il dominio che possediamo, aggiungendolo a quanto avevano ereditato, hanno lasciato anche questo a noi, la generazione d’oggi. [3] Ma la potenza di questo , nella maggior parte dei suoi elementi l’abbiamo accresciuta noi stessi, che oggi siamo ancora più o meno nell’età di mezzo, e abbiamo reso la città sotto tutti gli aspetti sufficiente a se stessa al massimo grado, sia per la guerra sia per la pace. [4] Tralascerò – poiché non voglio dilungarmi davanti a voi che conoscete queste cose – di parlare delle gesta compiute da uomini durante le guerre, gesta grazie alle quali avvenne ogni conquista, o con le quali noi o i nostri padri respingemmo con ardore il nemico – barbaro o greco – che ci attaccava: ma sulla base di quali principi raggiungemmo questa potenza, e con quale sistema di governo e grazie a quali caratteristiche di vita tale potenza divenne grande, questo mostrerò per prima cosa, e poi passerò anche all’elogio di questi uomini. Credo che nell’occasione attuale non sia sconveniente che si dicano queste cose, e che sia utile che tutta la folla dei cittadini e degli stranieri le ascolti.
[37,1] Abbiamo una costituzione che non emula le leggi dei vicini; ma siamo noi stessi un modello piuttosto che gli imitatori degli altri. E quanto al nome, per il fatto che non si amministra la comunità nell’interesse di pochi, ma di una maggioranza, si chiama “democrazia”: secondo le leggi vi è per tutti l’eguaglianza per ciò che riguarda gli interessi privati; e quanto alla considerazione di cui si gode, ciascuno è preferito per le cariche pubbliche a seconda del campo nel quale si distingue, e non per la classe da cui proviene più che per il merito; d’altra parte, quanto alla povertà, se uno è in grado di far del bene alla città, non è impedito dall’oscurità della sua posizione sociale. [2] Noi esercitiamo la nostra vita di cittadini liberamente, sia nei rapporti con la comunità, sia per ciò che riguarda i sospetti reciproci nelle attività di tutti i giorni: non siamo adirati col nostro vicino se fa qualcosa secondo il suo piacere, né infliggiamo molestie che, pur non facendo del male, sono tuttavia fastidiose alla vista. [3] Mentre ci regoliamo nei nostri rapporti privati senza offendere, nella vita pubblica non ci comportiamo in modo illecito, soprattutto a causa del rispetto, perché diamo ascolto a coloro che di volta in volta sono in carica e alle leggi, specialmente quelle che sono stabilite per aiutare le vittime di ingiustizia e quelle che, senza essere scritte, portano a chi le viola una vergogna comunemente riconosciuta.
[38,1] Inoltre, ci siamo procurati il più gran numero di svaghi per la mente come sollievo dalle fatiche, celebrando giochi e feste per tutto l’anno, e con belle case private, il cui godimento quotidiano scaccia la tristezza. [2] E per la grandezza della città tutti i prodotti di tutta la terra sono importati, e succede che godiamo i beni prodotti da noi come se non ci appartenessero più di quelli che ci giungono dagli altri popoli.
[39,1] Anche nei metodi di preparazione all’attività militare siamo diversi dai nostri avversari, e cioè sotto questi aspetti: presentiamo la città aperta a tutti, e non succede mai che con le espulsioni di stranieri noi impediamo a qualcuno di conoscere o di vedere qualche cosa, da cui un nemico potrebbe trarre vantaggio vedendola, se non fosse nascosta: non abbiamo maggior fiducia nelle misure preventive e negli inganni che nel coraggio che proviene da noi stessi e che mostriamo al momento di passare all’azione. E quanto ai sistemi educativi, mentre loro subito, fin da fanciulli, con esercizi faticosi cercano di temprare il coraggio, noi, anche se viviamo liberi da costrizioni, non meno coraggiosamente affrontiamo pericoli eguali. [2] Eccone una prova: i Lacedemoni non marciano contro la nostra terra solo con le proprie forze, ma con tutte quelle di cui dispongono; mentre noi, quando invadiamo il territorio dei nostri vicini, affrontiamo in battaglia in una terra straniera uomini che combattono per difendere i propri beni, e nella maggior parte dei casi li vinciamo senza difficoltà. [3] Nessun nemico finora ha incontrato le nostre forze tutte unite, per il fatto che contemporaneamente ci occupiamo della flotta e inviamo i nostri uomini per via di terra da molte parti: e se i nemici si scontrano con qualche distaccamento delle nostre armate, quando riportano la vittoria su alcuni di noi si vantano di averci sbaragliati tutti, e quando vengono sconfitti dicono di essere stati vinti da tutti. [4] E dunque se siamo disposti ad affrontare i pericoli con serenità d’animo piuttosto che con la fatica delle esercitazioni, e non tanto con le regole del coraggio quanto con i modi di vita che lo ispirano, abbiamo il vantaggio di non soffrire prima del tempo in vista delle fatiche e, quando le affrontiamo, di non mostrarci meno coraggiosi di quelli che faticano continuamente; e la nostra città è degna di essere ammirata non solo per queste cose, ma per altre ancora.
[40,1] Amiamo il bello senza esagerazione e la cultura senza mollezza. Utilizziamo la ricchezza più come un mezzo per agire che per vantarcene a parole; e per chi è povero non è vergognoso ammettere la sua povertà, ma piuttosto è vergognoso non riuscire a evitarla di fatto. [2] Vi è nelle stesse persone la cura dedicata agli affari privati insieme a quella per gli affari della città; e anche se ciascuno si dedica ad attività diverse, vi è la caratteristica di formulare giudizi sugli affari pubblici in modo non inadeguato: noi, infatti, siamo i soli a considerare un cittadino che non prende parte agli affari pubblici, più che inattivo, inutile; e noi stessi almeno esprimiamo un giudizio, o riflettiamo correttamente, sulle varie questioni, senza considerare le parole dannose all’azione, ma considerando piuttosto un danno il non essere informati con le parole prima di procedere con l’azione a ciò che è necessario compiere. [3] Infatti, a differenza degli altri, abbiamo questo pregio: mostriamo un grandissimo ardimento e contemporaneamente riflettiamo su ciò che stiamo per intraprendere; per gli altri invece è l’ignoranza che dà il coraggio, mentre la riflessione causa timore. Ma è giusto che vengano considerati più forti di tutti nello spirito quelli che, pur conoscendo più chiaramente la differenza tra le fatiche e i piaceri, tuttavia non rifuggono per questo dai pericoli. [4] E anche in fatto di generosità ci comportiamo in modo contrario ai più: ci procuriamo gli amici non ricevendo benefici, ma facendoli. Ed è più costante nell’amicizia chi ha conferito il favore in modo tale da conservare, grazie alla benevolenza dimostrata verso la persona a cui ha dato il beneficio, la gratitudine che questi gli deve: chi invece è debitore è meno sensibile, perché sa che restituirà l’atto generoso non per ricevere gratitudine, ma per assolvere un debito. [5] E siamo i soli a beneficare altri senza paura, non tanto per un calcolo dell’utilità che ne deriva quanto per la fiducia che nasce dalla libertà.
[41,1] Riassumendo, affermo che tutta la città è un esempio di educazione per la Grecia e che, a mio parere, il singolo individuo educato da noi può essere disponibile, e sufficiente, alle più svariate attività, con la massima versatilità e disinvoltura. [2] E che questo non sia uno sfoggio di parole dette per l’occasione, ma piuttosto la verità dei fatti, lo indica la stessa potenza della città che abbiamo ottenuto attraverso queste caratteristiche di vita. [3] Essa è la sola tra le città dei nostri giorni ad affrontare la prova mostrandosi superiore alla sua reputazione, la sola a non offrire al nemico che l’ha attaccata motivo di indignazione per la qualità degli uomini che lo fanno soffrire, né offre al suddito motivo di rimprovero, come se fosse dominato da uomini indegni. [4] Noi mostriamo la nostra potenza con grandi prove, non certo senza testimonianze, e siamo oggetto di ammirazione per gli uomini di oggi come lo saremo per quelli di domani: non abbiamo bisogno di un Omero che faccia il nostro elogio, né di uno che al momento diletti con le sue parole, mentre invece la verità distruggerà le sue congetture sui fatti; ma abbiamo costretto tutto il mare e tutta la terra a subire il nostro ardimento, e ovunque con i nostri cittadini abbiamo lasciato monumenti eterni di imprese andate male o bene. [5] Per una tale città questi uomini combatterono e morirono nobilmente, non volendo che essa fosse loro sottratta, ed è giusto che ognuno di quelli che sono rimasti sia pronto a soffrire per lei.
[42,1] È proprio per questo che mi sono dilungato a parlare della città, perché volevo farvi vedere che noi non ci battiamo per una posta uguale a quella di coloro che non hanno nessuno di questi vantaggi nella stessa misura, e anche perché volevo dare un chiaro fondamento di prove all’elogio degli uomini in onore dei quali sto parlando […]».

 

13 pensieri su “Il discorso di Pericle (Thuc. II, 34,8 – 42,1)

    • Salve,
      a dire il vero ho utilizzato il testo della UTET; in alcuni punti – quelli un po’ più difficili mi sono affidato al traduttore; per il resto l’ho provata io stesso, cercando di essere il più fedele possibile al testo greco.
      🙂

      "Mi piace"

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.