di G. Cambiano, in Id., Platone e le tecniche, Torino 1971, pp. 13-25.

Le tesi del mito
Nei primi dialoghi platonici il quadro più omogeneo e diffuso del problema delle tecniche è esposto, sotto forma di narrazione mitica, dal sofista Protagora di Abdera, nel dialogo che porta il suo nome. In esso si racconta che, dopo un periodo in cui gli unici esseri esistenti erano gli dèi, venne il momento fatale della produzione delle specie mortali. Gli dèi provvidero a tale scopo, valendosi di terra e di fuoco, e incaricarono Prometeo ed Epimeteo di dare un ordine (κοσμῆσαι) alle specie prodotte e di distribuire a ognuna le possibilità (δυνάμεις) convenienti in grado di garantire la loro sopravvivenza. Epimeteo ottenne da Prometeo il privilegio di essere l’unico distributore e spartì equamente tra le specie forza, velocità, resistenza alle intemperie, prolificità e così via. Ma non si avvide di aver consumato le δυνάμεις con gli animali privi di ragione (τὰ ἄλογα). Il genere umano rimaneva senza ordine (ἀκόσμητον) ed egli non sapeva uscire da questa difficoltà. Prometeo, allora, per risolvere la situazione, rubò ad Efesto e ad Atena la sapienza tecnica (τὴν ἔντεχνον σοφίαν) con il fuoco e ne fece dono agli uomini. Ciò istituì una vera e propria parentela degli uomini con gli dèi e rese possibile, da una parte, la formazione della religione e dei culti e, dall’altra, l’articolazione di un linguaggio. Ma il risultato più diretto fu costituito dal fatto che gli uomini, valendosi della tecnica ottenuta in dono, poterono procurarsi abitazioni, calzature, vestiti e cibo. Tuttavia vivevano ancora isolati ed erano, quindi, esposti e indifesi agli assalti delle fiere. Per uscire da tale situazione si raccolsero in città, ma, sprovvisti di ogni tecnica politica, cominciarono a commettere ingiustizie reciproche, autodistruggendosi. Zeus, temendo l’estinzione totale del genere umano, mandò Ermes a distribuire agli uomini rispetto e giustizia (αἰδῶ τε καὶ δίκην), in modo da instaurare un ordine e legami di solidarietà fra essi. Ermes chiese se la distribuzione di rispetto e giustizia, che insieme costituiscono la tecnica politica, doveva essere fatta come quella delle altre tecniche – per cui, ad esempio, un medico esercita la propria tecnica anche per coloro che ne sono sprovvisti – oppure doveva concernere tutti. La decisione di Zeus fu che tutti ne fossero partecipi, poiché non sarebbe stato possibile il sorgere di città, se soltanto pochi avessero posseduto la tecnica politica. Da Zeus provenne, dunque, la legge che chi è privo di rispetto e giustizia sia ucciso come peste della città[1].
In questo racconto condizione naturale, tecniche artigianale e tecnica politica sono presentate come tre fasi, cronologicamente successive, della storia dell’umanità; ad ognuna di queste fasi corrisponde l’intervento benefico di un essere sovrumano, Epimeteo, Prometeo, Zeus. Ma la disposizione cronologica non è il fine principale del racconto di Protagora: ciò che egli vuole indicare sotto tale disposizione è il peso dei tre fattori, corrispondenti alle tre fasi, nel quadro della società umana[2]. In primo luogo è sottolineata l’insufficienza delle doti naturali umane ai fini della sopravvivenza. Mentre l’ordine del mondo animale si realizza sulla base di un’equa e armonica distribuzione di doti fisico-organiche, la sopravvivenza del mondo umano non è garantita dal possesso delle doti naturali. Le possibilità animali, di numero finito[3], sono diverse da specie a specie, ma nel loro insieme si compensano e si integrano reciprocamente, garantendo, secondo le loro proprietà specifiche, la sopravvivenza di ogni specie. A livello umano – cioè di esseri forniti di λόγος – questo risultato non è ottenuto dalle doti naturali umane, che Protagora considera inesistenti e, in ogni caso, inferiori e destinate al completo insuccesso nei confronti delle doti degli animali; non solo, ma non è neppure ottenuto dalle tecniche artigianali, che in prima approssimazione potrebbero sembrare l’equivalente delle doti naturali animali. Le tecniche artigianali sono distribuite analogamente alle possibilità animali, nel senso che soltanto alcuni individui dispongono dell’una o dell’altra, così come soltanto alcune specie animali hanno la forza o la velocità. L’analogia nella distribuzione si istituisce, secondo Protagora, fra specie animali e individui umani, non fra specie animali e specie umana: cioè come una specie ha una dote e un’altra un’altra dote, così un uomo ha una tecnica e un altro un’altra tecnica. Ma l’analogia non può estendersi oltre: mentre i rapporti fra le doti naturali sono tali che il conflitto tra le specie corrispondenti a tali doti non implica mai l’eliminazione di una specie, i rapporti fra le tecniche artigianali non garantiscono la sopravvivenza degli individui nei conflitti sia con l’ambiente esterno – finché rimangono isolati – sia degli individui tra loro – quando si riuniscono in gruppi. Mentre le doti animali regolano i conflitti tra specie, le tecniche artigianali nella migliore delle ipotesi regolano i conflitti tra il gruppo umano e le specie animali. Ciò presuppone che gli individui umani costituiscano un gruppo: l’efficacia parziale delle tecniche artigianali dipende dall’esistenza di una comunità umana. Le tecniche artigianali acquistano in efficacia non quando sono esercitate globalmente da un solo individuo, ma quando obbediscono al principio della divisione del lavoro all’interno di un gruppo. L’esercizio di una tecnica artigianale vale per altri individui che non sanno o non possono esercitarla. In altre parole, la sopravvivenza umana richiede costitutivamente l’organizzazione in gruppi da parte di individui in possesso di tecniche complementari. Da ciò dipende probabilmente la connessione istituita da Protagora fra la costituzione delle tecniche artigianali e l’origine del linguaggio. La possibilità e la maggiore efficacia di un uso sociale di tali tecniche conduce all’instaurazione di rapporti tra individui: il punto di incontro è una struttura comunicativa, un linguaggio, che non è però ancora il corrispettivo della formazione di un gruppo sociale. In conclusione la differenza fondamentale esistente fra le doti animali e le tecniche artigianali consiste nel fatto che, mentre tali doti non sono suscettibili di un uso nei confronti di specie sprovviste di esse ed hanno, quindi, una funzione puramente autarchica, le tecniche artigianali contengono in sé strutturalmente la possibilità di un tale uso nei confronti di altri individui.
Se il rapporto che lega gli animali alle proprie possibilità è di natura fisico-organica, il rapporto che lega l’uomo alle sue tecniche non è più tale. Mentre il primo rapporto, data la sua struttura, garantisce l’instaurazione di un ordine a livello animale, perché anche i conflitti più forti non sono in grado di annientare le possibilità costitutive di ogni specie, il secondo rapporto non è di per sé garante della sopravvivenza umana. Le tecniche artigianali non sono l’equivalente globale delle doti animali. Una tecnica artigianale da sola non salva l’uomo: occorre una pluralità di tali tecniche, in grado di scambiarsi servizi reciproci. Ma in tal modo emerge una realtà nuova, la riunione in gruppi, che non è però ancora l’instaurazione di un ordine umano. Le prestazioni reciproche, che sole sono in grado di affrontare positivamente l’assalto degli animali e dell’ambiente, non si sistemano naturalmente. Il fatto stesso che una tecnica possa essere usata in funzione di altri individui può portare alla nascita di conflitti interumani. L’esistenza, che la comunità garantisce nei confronti dei pericoli della natura, è minacciata sotto un altro piano. Tali conflitti, come non possono essere risolti dalle tecniche artigianali, che sono parte in causa, così non possono esserlo neppure mediante la religione e il linguaggio, che sono costitutivamente legati nella loro nascita all’affermarsi delle tecniche artigianali[4]. Soltanto una tecnica, diversa da quelle artigianali, può garantire la convivenza ordinata, che rende possibile lo stesso uso sociale delle tecniche con i vantaggi connessi, e la soluzione di eventuali conflitti. Essa è la tecnica politica: questa è la tesi centrale del mito raccontato da Protagora[5]. Ciò che differenzia la tecnica politica dalle altre tecniche è la distribuzione agli appartenenti di ogni gruppo umano. Diversamente dalle altre tecniche, la tecnica politica non è delegabile ad altri, a una minoranza di individui capaci di impiegarla per l’utilità di tutti gli altri, ma deve essere posseduta ed esercitata da tutti.
È evidente la matrice democratica di quest’ultima tesi protagorea: con essa Protagora sottolineava non solo la legittimità, ma l’obbligatorietà – pena la scomparsa di ogni gruppo sociale – della partecipazione di tutti i cittadini alla vita politica. Con questa tesi era giustificata la validità della democrazia ateniese. Il riconoscimento in ogni cittadino del possesso non delegabile della tecnica politica comportava la giustificazione dell’assemblea ateniese, come istituzione tipica di una democrazia diretta esercitata da tutti i cittadini. I valori tradizionali di αἰδώς e δίκη[6], interpretati come proprietà di ogni cittadino, potevano essere completamente recuperati alla cultura democratica. Ma d’altra parte il riconoscimento dell’estensione della tecnica politica a tutti i cittadini poteva anche comportare un’attenuazione del posto privilegiato che, all’interno della democrazia ateniese, potevano detenere e di fatto sovente detenevano gruppi o classi, non esclusa quella degli artigiani[7]. La tesi dell’insufficienza delle tecniche artigianali a garantire l’esistenza di una comunità politica poteva contribuire ad accentuare tale aspetto.

L’autenticità del mito e il discorso di Protagora
Sull’autenticità di questo mito narrato da Protagora i filologi e gli storici hanno sostenuto le tesi più disparate[8]. Occorre osservare intanto che Protagora, con molta probabilità, si occupò di problemi di storia della civiltà in un’opera intitolata Περὶ τῆς ἐν ἀρχῇ καταστάσεως, che Platone, nella stesura del mito, quasi sicuramente dovette utilizzare[9]. Ma il problema dell’autenticità presenta due aspetti distinti, perché si tratta di determinare, da una parte, se la forma mitica con il suo correlato religioso possa già risalire a Protagora e, dall’altra, se tutto il contenuto concettuale appartenga al Protagora storico o contenga interpolazioni platoniche. Sul primo punto è necessario riconoscere l’impossibilità di decidere se l’assunzione di uno strumento come il mito, da parte di un uomo che aveva affermato che non è possibile una conoscenza autentica degli dèi[10], fosse contraddittoria o no. D’altra parte l’impianto mitico-narrativo nell’esposizione di problemi di storia della cultura aveva origini lontane e poteva essere assunto soltanto per rendere più agevole il discorso, mediante riferimenti familiari[11]. Ma è anche possibile che la trascrizione mitica di tale problematica implicasse scelte più sostanziali. In ogni caso più rilevante è il secondo aspetto del problema, perché consente di collocare Protagora e Platone all’interno di un quadro di alternative concernenti il problema delle tecniche e il ruolo dei tecnici nella società. La soluzione della questione dell’autenticità del mito è coinvolta e coinvolge insieme una ricostruzione storiografica della posizione di Platone sulle tecniche. Ma prima di passare a ciò, occorre prendere in considerazione il discorso che Platone, sempre nel Protagora, fa pronunciare al sofista, immediatamente dopo l’esposizione del mito.
Nel discorso, come nel mito, Protagora intende, in primo luogo, giustificare la netta distinzione fra tecniche artigianali e tecnica politica. Se tale distinzione esiste, diventa del tutto comprensibile e giustificabile il fatto che nell’assemblea ateniese le questioni di competenza delle tecniche artigianali siano demandate a un numero limitato di esperti operanti per l’intera comunità, mentre nelle decisioni, nelle quali entra in gioco l’ἀρετή politica, tutti si sentano in diritto di fornire pareri. Questo atteggiamento dipende da una valutazione più generale, che permette di differenziare i due tipi di tecniche. Nell’ambito delle tecniche artigianali la professione di verità è indispensabile: chi professa di saper fare ciò che non è capace di fare, è valutato negativamente dal gruppo, per la sua inutilità e la sua mistificazione. Nell’ambito etico-politico, invece, la professione di verità, ben lungi dall’essere indispensabile, è in determinati casi vietata: chi dichiara la verità, per esempio di essere ingiusto, è considerato pazzo, perché contravviene a uno dei postulati fondamentali della società, nel senso che chi si dichiara ingiusto si pone per ciò stesso fuori dal gruppo sociale. La professione di giustizia – anche se di fatto corrisponde a una falsità – è condizione imprescindibile per l’appartenenza a un gruppo[12]. Ma ciò significa che i due tipi di tecniche divergono radicalmente. Chi fa parte di un gruppo sociale dispone della tecnica politica, che è appunto la tecnica che qualifica l’appartenenza a un gruppo.
I due tipi di tecniche, dunque, si differenziano, ma entrambe, d’altra parte, sono insegnabili. L’esistenza in ogni gruppo sociale di una legislazione penale implica, secondo Protagora, il riconoscimento dell’insegnabilità della tecnica etico-politica. In ogni gruppo l’atteggiamento assunto nei confronti di difetti fisici non è di rimprovero o di insegnamento, ma di compassione: ciò è segno che tali difetti sono considerati naturali o casuali e, quindi, non correggibili. Ira e punizione sono atteggiamenti comprensibili soltanto di fronte a difetti considerati frutto di mancanza di insegnamento ed esercizio[13]. L’interpretazione della pena come prevenzione dipende anch’essa dalla tesi dell’insegnabilità della virtù. La colpa non è la giustificazione della pena inflitta, che non può ripristinare la situazione dei fatti nelle modalità antecedenti all’infrazione[14]. La punizione è, invece, uno strumento di difesa e di istruzione sociale per prevenire infrazioni analoghe. Ma questa interpretazione della pena presuppone la possibilità che la pena stessa funzioni da argine e da esempio e possegga, quindi, una capacità educativa di trasformazione; e ciò, ovviamente, dipende dalla convinzione dell’insegnabilità della virtù. La tecnica politica, dunque, come tutte le altre tecniche, non è una dote naturale. Ma qui nasce immediatamente un nuovo problema: la tecnica politica è in possesso di tutti, secondo Protagora, mentre le tecniche artigianali sono prerogativa di pochi individui, che possono trasmetterle ai loro apprendisti. Com’è possibile, allora, la trasmissione a tutti della tecnica politica? La risposta a questa domanda è forse il punto più importante della soluzione di Protagora. Ad Atene esiste un apparato educativo: ogni bambino, fin dalla nascita, è ammaestrato in varie operazioni, apprende un linguaggio e riceve un sistema di valori attraverso prescrizioni e proibizioni. La scuola continua la formazione iniziata in casa, mediante la lettura di poeti che elogiano uomini antichi per le loro virtù, in modo da sollecitare nei giovani processi di identificazione e, attraverso questi, l’acquisizione di valori socialmente positivi. Allo stesso scopo mirano la musica e la ginnastica. Interviene infine nell’opera educativa lo stesso corpo sociale, che obbliga ad apprendere le leggi e le consuetudini sociali – i νόμοι – e a seguirle come modello (παράδειγμα), comminando pene in caso di trasgressione[15]. Protagora considera l’intera società come un immenso apparato educativo[16]. Tutta la vita del cittadino è segnata dalla preoccupazione dell’ambiente sociale circostante affinché egli sia formato nella tecnica politica. di fatto la tecnica politica, attraverso le pressioni e i controlli della società, è insegnata a tutti e di fatto, dunque, tutti la posseggono. In altre parole per Protagora non si può concepire l’uomo in possesso della tecnica politica fuori o prima della società: dire uomo significa dire uomo in società e dire uomo in società significa dire uomo in possesso della tecnica politica. Senza tale tecnica l’uomo non appartiene a un gruppo sociale. Ciò implica che il veicolo di trasmissione di tale tecnica è la società stessa nella sua totalità.
Ma per Protagora le società si differenziano tra loro secondo i valori specifici che perseguono. Tutti gli uomini in società posseggono la virtù, ma il grado di possesso deve essere misurato in riferimento al tipo di civiltà e di cultura alle quali ognuno appartiene. Nell’ipotesi che una città non potesse esistere se tutti i suoi membri non fossero suonatori di flauto, l’apparato educativo di tale città si metterebbe immediatamente in moto per insegnare tale tecnica, che in tal modo diventerebbe patrimonio comune e non privilegio professionale di pochi individui. Così avviene per la giustizia e la legalità, nel cui ambito non regnano la concorrenza e il segreto che caratterizzano le altre tecniche, perché soltanto una certa uniformità nella conoscenza e nell’esercizio della giustizia può garantire una convivenza ordinata. Protagora ammette che le doti naturali costituiscono un condizionamento per l’acquisizione di una tecnica, ma afferma che in un ambiente in cui l’interesse per una determinata tecnica sia al centro, tutti ne diventano almeno discreti possessori[17]. La valutazione delle abilità tecniche e del grado di realizzazione dei valori sociali deve avvenire sempre in stretta connessione con il livello culturale proprio di una determinata società. Un uomo che passa per ingiusto in mezzo a persone cresciute nella piena legalità, è giusto, anzi è addirittura un artefice (δημιουργός) della giustizia in un contesto di uomini allo stato di natura, privi di educazione, di tribunali e di leggi[18]. I valori di un individuo sono, dunque, direttamente proporzionali ai valori che la società, alla quale appartiene, considera vitali e indispensabili[19].
Il confronto fra civiltà diverse, per Protagora, è indubbiamente favorevole alla società ateniese, nella quale tutti, secondo le proprie possibilità, sono insieme maestri, tecnici e allievi di ἀρετή[20]. Tutti, anche se con gradi differenti, posseggono la virtù: questo risultato, raggiunto nel mito, è mantenuto fermo anche nel discorso. Ma come poteva, allora, Protagora dichiarare di essere maestro di virtù e di saper insegnare l’accortezza (εὐβουλία) negli affari pubblici e privati?[21] Se tutti posseggono la tecnica politica, evidentemente il sofista non avrà il compito di trasmettere tale tecnica. Il suo compito sarà piuttosto quello di perfezionarla e di far progredire gli altri nella conoscenza e nell’esercizio della tecnica politica[22]. Ciò rende possibile a Protagora, da una parte, la giustificazione della struttura democratica ateniese e, dall’altra, quella del proprio compito di sofista[23]. Si parla allora di gradi di possesso e di esercizio della tecnica politica, gradi che il sofista deve e può accrescere. Il presupposto di tutta la teoria di Protagora è una considerazione ottimistica della struttura di ogni società in generale e di Atene in particolare. D’altra parte il confronto di Atene con culture meno evolute non poteva non incrementare tale valutazione positiva della democrazia ateniese[24]. Ma considerare la società come un apparato educativo complessivo era possibile soltanto in base alla convinzione che tale società non fosse anomica e turbata da conflitti[25]. Per Protagora Atene era avviata nella direzione giusta e l’insegnamento di un sofista come lui non faceva che perfezionarla nella via dell’ἀρετή che già stava percorrendo.
La lettura dell’opera di Protagora, offerta da Platone nel mito e nel discorso, ha dunque un carattere unitario. In entrambi è affermata la funzione direttiva della tecnica politica sulle altre tecniche e la presenza di questa stessa tecnica, secondo gradi diversi, in tutti gli individui di un gruppo. L’elemento nuovo del discorso è costituito dall’introduzione di una tecnica sofistica capace di operare positivamente sulla tecnica politica già esistente di fatto. In tal modo Protagora appare inserito in un dibattito sul problema delle tecniche, nel quale la cultura greca era impegnata già da tempo. Ricostruendo il contesto problematico nel quale si inseriscono le tesi protagoree esposte da Platone, e commisurandole a testimonianze di diversa provenienza, sarà possibile chiarire meglio la portata di tali tesi. In tal modo uscirà precisato anche l’atteggiamento di Platone nei confronti del mito di Protagora.
***
Note:
[1] Plat. Prot. 320c-322d. Analisi di questo mito si trovano in W. Uxkull-Gyllenband, Griechische Kultur-Entstehungslehren, Berlin 1924, pp. 15-21; W. Nestle, Vom Mythos zum Logos. Die Selbstentfaltung des griechischen Denkens von Homer bis auf die Sophistik und Sokrates, Stuttgart 19422, pp. 282-289; M. Untersteiner, I sofisti, Torino 1949, pp. 75-85; P. Joos, TYXH, ΦYΣIΣ, TEXNH. Studien zur Thematik frühgriechischer Lebensbetrachtung, Winterthur 1955, pp. 54-77; W.K.C. Guthrie, In the Beginning. Some Greek Views on the Origins of Life and the Early State of Man, London 1957, pp. 84-94. Altre indicazioni bibliografiche saranno date nelle note successive.
[2] Questa è anche opinione di W. Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco (trad. it.), Firenze 19532, I, p. 515.
[3] Plat. Prot. 321b-c.
[4] Questo punto fu sottolineato ancor più chiaramente da Prodico di Ceo, secondo il quale si sarebbero avute due fasi nello sviluppo della religione: 1) cose utili e nutrienti furono credute e onorate come dèi; 2) gli scopritori di tali oggetti utili e delle tecniche furono considerati dèi (per esempio, Demetra, Dioniso, ecc.) (Philod. de piet. c. 9, 7, p. 75 G. e Sext. Emp. adv. math. IX 18 = DK 84 B 5). Feticismo e antropomorfismo sarebbero, dunque, secondo Prodico, all’origine della religione (cfr. W. Uxkull-Gyllenband, op. cit., p. 21). In generale per le teorie presocratiche sull’origine della religione cfr. W. Jeager, La teologia dei primi pensatori greci (trad. it.), Firenze 1961, pp. 271-299.
[5] Cfr. J. Moreau, La construction de l’idéalisme platonicien, Paris 1939, p. 37, e E.A. Havelock, The Liberal Temper in Greek Politics, New Haven 1957, pp. 91-92.
[6] Sui valori di αἰδώς e δίκη come «base della società aristocratica» cfr. M. Untersteiner, Le origini sociali della Sofistica, in Studi di filosofia greca, a cura di V.E. Alfieri e M. Untersteiner, in onore di R. Mondolfo, Bari 1950, p. 132. In particolare su αἰδώς cfr. B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo (trad. it.), Torino 1963, pp. 242-243. Su Protagora fautore della democrazia periclea cfr. I. Lana, Protagora, «Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia di Torino», vol. II, fasc. 4 (1950), pp. 18, 21.
[7] Che anche una democrazia potesse essere ‘aristocratica’, come elezione di uomini più adatti alle cariche, è sostenuto, ad esempio, da A.W. Gomme, A Historical Commentary on Thucydides, II, Oxford 1956, p- 109. D’altra parte J. Ferguson, Moral Values in the Ancient World, London 1958, p. 21, ha sottolineato il fatto che anche in regime oligarchico nessun ὅμοιος prevale sugli altri, per cui la democrazia non sarebbe che l’estensione dello stesso principio all’ambito più vasto dei cittadini: «La democrazia greca è di fatto soltanto un’oligarchia allargata e i privilegi che i democratici richiedevano per una cittadinanza più ampia, non si sarebbe mai sognata di estenderli a schiavi o stranieri». Comunque sull’impossibilità di attribuire a Protagora una posizione politica chiara nettamente delineata sulle scelte istituzionali cfr. T.A. Sinclair, Il pensiero politico classico (trad. it.), Bari 1961, pp. 79-80. In particolare non mi pare possibile scorgere nell’esposizione di Protagora una difesa di una craftsman democracy, come vorrebbe E.A Havelock, op. cit., p. 187.
[8] Per una rassegna di tali interpretazioni cfr. M. Untersteiner, I sofisti, cit., p. 76, nota 24, il quale da parte sua è favorevole a ritenerlo autenticamente protagoreo, e E.A. Havelock, op. cit., pp. 407-409, il quale ritiene che Platone nel mito voglia distruggere gli effetti della teoria originale protagorea.
[9] Così pensano, ad esempio, W. Jaeger, Paideia, cit., I, p. 488, nota 29, e La teologia, cit., p. 276; W. Nestle, op. cit., pp. 282-289; M. Untersteiner, op. cit., pp. 21-22; I. Lana, op. cit., pp. 6 e 76; P. Joos, op. cit., p. 61. Recentemente una tesi radicale sul mito è stata avanzata da A. Capizzi, Protagora, Firenze 1955, secondo il quale dal Protagora platonico non sarebbe possibile ricavare alcuna testimonianza sulle dottrine del sofista di Abdera. Ma questa tesi è fondata sul presupposto che Protagora sia impegnato a discutere sempre e soltanto di logica e non di politica, morale o religione (cfr., per esempio, pp. 65, 238, 259) e cade perciò nella misura in cui cade tale interpretazione. Utilizza, invece, a fondo il mito per ricostruire il pensiero di Protagora S. Zeppi, Protagora e la filosofia del suo tempo, Firenze 1961.
[10] DK 80 B 4. L’impossibilità di conciliare questo frammento di Protagora sugli dèi con l’impostazione mitico-religiosa del mito è stata finora l’argomentazione più forte condotta contro l’autenticità del mito di Protagora (cfr. P. Friedländer, Platon, I. Seinswahrheit und Lebenswirklichkeit, Berlin 19542, p. 346, note 7 e 10; E.A. Havelock, op. cit., pp. 93-94; A. Levi, Storia della Sofistica, a cura di D. Pesce, Napoli 1966, p. 87, nota 10). Ma occorre ricordare che la parentela con gli dèi, connessa al dono delle tecniche, e la religione che ne nasce non sono elementi sufficienti alla conservazione di un gruppo sociale: il primato degli dèi nella storia della civiltà umana non impedisce di riconoscere la posizione subordinata della religione. Già questo permette di intravvedere la funzione puramente strumentale della veste mitica.
[11] Una ricca documentazione su questo punto, oltre al riferimento al Prometeo di Eschilo, ovvio per un pubblico ateniese, si può trovare in A. Kleingünther, Πρῶτος εὑρετής. Untersuchungen zur Geschichte einer Fragestellung, «Philologus», Supplbd. XXVI, H. I, Leipzig 1933. Sulla popolarità della forma mitica di racconto cfr. anche P. Joos, op. cit., pp. 54 ss. Giustamente poi P.-M. Schuhl, Essai sur la formation de la pensée grecque. Introduction historique à une étude de la pensée platonicienne, Pari 19492, pp. 165 ss., fa notare come il mito del Protagora contenga un capovolgimento esatto della teoria di Esiodo, secondo la quale i primi uomini erano felici e poi furono abbandonati da αἰδώς e δίκη. E anche Esiodo era un riferimento ovvio per il pubblico ateniese.
[12] Plat. Prot. 322d-323c.
[13] Plat. Prot. 323c-d.
[14] Ibid. 324a-b.
[15] Ibid. 325c-326c.
[16] Su ciò cfr. anche A.E. Taylor, Platone. L’uomo e l’opera (trad. it.), Firenze 1968, p. 381. Di pressione del gruppo sociale come produttrice di cultura parla E.A. Havelock, op. cit., p. 173; di controllo sociale parla E.R. Dodds, I Greci e l’irrazionale (trad. it.), Firenze 1959, p. 220.
[17] Plat. Prot. 327a-c.
[18] Ibid. 327c-d. Protagora fa un riferimento alla commedia I selvaggi del poeta comico Ferecrate. Ma era un tema ampiamente diffuso nella produzione dei commediografi e, quindi, altamente popolare (cfr. W. Nestle, op. cit., p. 456).
[19] Al discorso di Protagora J. Moreau, op. cit., pp. 37-38, avvicina la teoria di Durkheim della società come coscienza collettiva e tradizionale che forma l’individuo alla moralità, attraverso un’educazione sociale anonima. Il discorso del Protagora si accorda perfettamente con la tesi protagorea esposta nel Teeteto (167c), secondo la quale una città impone i valori che considera migliori per essa.
[20] Plat. Prot. 327e.
[21] Ibid. 318e-319a.
[22] Ibid. 328a-c. I superlativi ἄριστα e δυνατώτατος che compaiono in ibid. 318e-319a, chiariscono il carattere di perfezionamento, non di trasmissione integrale di valori, che caratterizza l’insegnamento di Protagora. S. Zeppi, op. cit., dopo aver giustamente riconosciuto nella teoria sociale di Protagora «un pedagogismo assoluto» (p. 17), sostiene che tale teoria non sarebbe né liberale né democratica, ma una teoria aristocratica, un «sofistocratismo» (pp. 18 ss.). Ma in Protagora non c’è il problema politico del potere né tende egli a rintracciare nei sofisti o nel sofista il o i legittimi detentori del potere: in realtà il sofista è un educatore e, poiché l’educazione è una funzione eminentemente sociale, per tale via, non attraverso gli strumenti del potere, egli esplica una funzione politico-sociale.
[23] Cfr. P.-M. Schuhl, op. cit., p. 350. Non bisogna confondere la teoria di Protagora con una teoria generale della democrazia. Il suo scopo è soprattutto quello di riconoscere che l’istituzione nella quale il sofista può esercitare meglio la propria professione è la democrazia. Cfr. anche I. Lana, op. cit., p. 27.
[24] Ibid., p. 28.
[25] Questo aspetto è giustamente sottolineato da J. Moreau, op. cit., p. 40. Sull’ottimismo dell’attività educativa dei sofisti in generale cfr. W. Jaeger, op. cit., I, pp. 527-528. Alla base di questa impostazione ottimistica c’era in Protagora la tendenza a identificare con l’ἀρετή i valori tradizionali propri di una data società, cioè il νόμος (cfr. A.E. Taylor, op. cit., pp. 383-384).
[…] che meglio rivela le convinzioni democratiche di Protagora è certamente quella del cosiddetto mito di Prometeo, contenuto nell’omonimo dialogo di Platone, e del successivo discorso esplicativo del […]
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[…] che meglio rivela le convinzioni democratiche di Protagora è certamente quella del cosiddetto mito di Prometeo, contenuto nell’omonimo dialogo di Platone, e del successivo discorso esplicativo del […]
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