Cornelio Tacito

di CONTE G.B., PIANEZZOLA E., Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 3. L’età imperiale, Milano 2010, 400-413.

Tacito è giustamente considerato uno dei più importanti storici dell’antichità. Nelle sue opere egli si fa interprete dello stato d’animo dei suoi contemporanei nei confronti dell’Impero, raccontando, con toni tragici e insieme solenni, le pagine più cupe della dittatura imperiale, sotto Nerone e Domiziano. Nostalgico della libertas repubblicana, Tacito è tuttavia convinto della necessità dell’Impero e plaude l’operato di quei principes che, come Nerva e Traiano, sono riusciti a conciliare principato e libertà. La storia di Tacito non è però solamente cronaca o analisi oggettiva degli avvenimenti, ma è una storia viva e pulsante di passioni, una storia animata da personaggi tragici che si muovono su un palcoscenico fatto di intrighi, tradimenti, paura ed emozioni violente.

Frammento di iscrizione sepolcrale di Cornelio Tacito (CIL VI 41106). Tabula, marmo, 117 d.C. c. da Villa Patrizi, sulla Via Nomentana. Roma, Museo Nazionale Romano delle Terme di Diocleziano.

La vita

Publio (o Gaio?) Cornelio Tacito nacque intorno al 55, secondo alcune fonti a Interamna (od. Terni), ma più probabilmente nella Gallia Narbonensis, da una famiglia forse di condizione equestre. Studiò a Roma e nel 78 sposò la figlia di Gneo Giulio Agricola, autorevole statista e comandante militare; anche grazie all’aiuto di quest’ultimo, Tacito iniziò la carriera politica sotto Vespasiano e la proseguì sotto Tito e Domiziano.

Dopo essere stato praetor nell’88 (nello stesso anno è attestata la sua presenza nel collegio dei quindecemviri sacris faciundis, uno dei maggiori collegi sacerdotali), Tacito fu per qualche anno allontanato da Roma, probabilmente per un incarico in Gallia o in Germania. Nel 97, sotto Nerva, fu consul suffectus: oratore già famoso, pronunciò l’elogio funebre di Virginio Rufo, il console morto durante l’anno di carica, al quale era subentrato. Uno o due anni dopo, sotto il principato di Traiano, sostenne insieme a Plinio il Giovane – al quale lo legava una salda amicizia – l’accusa di corruzione mossa dai provinciali d’Africa contro l’ex governatore Mario Prisco: dopo qualche indugio, il processo ebbe termine nel 100, con la condanna dell’accusato all’esilio. In seguito, Tacito fu proconsole in Asia nel 112 o 113. Morì probabilmente intorno al 117.

Karl Sterrer, Tacito. Statua, marmo 1900. Wien, Parlamentsgebäude.

Le opere

Le opere conosciute di Tacito sono il De vita Iulii Agricolae, pubblicato nel 98; il De origine et situ Germanorum (più comunemente noto come Germania), probabilmente dello stesso anno; il Dialogus de oratoribus, di poco successivo al 100 (è dedicato a Fabio Giusto, console nel 102); le Historiae, in dodici o quattordici libri, composte fra il 100 e il 110; gli Annales (o Ab excessu divi Augusti), in sedici o diciotto libri, composti successivamente alle Historiae e forse rimasti incompleti per la scomparsa dell’autore.

Delle Historiae ci sono pervenuti solo i libri I-IV, parte del libro V e alcuni frammenti; degli Annales i libri I-IV, un’esigua porzione del libro V, il libro VI, parte del libro XI, i libri XII-XV e parte del libro XVI. È molto discusso il problema del numero rispettivo dei libri che componevano le Historiae e gli Annales: alcuni pensano a dodici e diciotto libri, altri a quattordici e sedici. Questa seconda ipotesi ha il conforto della numerazione del manoscritto cosiddetto “Mediceo II”; ma il problema è complicato dal fatto che le due opere, per quanto pubblicate separatamente, cominciarono ben presto a circolare in un’edizione congiunta di trenta libri, in cui gli Annales (con inversione della cronologia della composizione) precedevano le Historiae, formando una narrazione continua della storia romana dalla morte di Ottaviano a quella di Domiziano.

Dalle Historiae, come dall’Agricola e dal Dialogus (nonché da varie epistole di Plinio il Giovane) è possibile ricavare alcune notizie fondamentali sulla vita e sulla carriera pubblica di Tacito.

 

Il cosiddetto «Arringatore». Statua, bronzo, fine II-inizi I sec. a.C., da Perugia. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.

 

Il Dialogus de oratoribus: qual è la causa della decadenza dell’oratoria?

Per alcune caratteristiche intrinseche dell’opera, è tradizione iniziare ogni trattazione di Tacito con il Dialogus de oratoribus, nonostante non si conosca con precisione la data di composizione. È noto, tuttavia, che il testo è ambientato negli anni 75-77 (dall’opera si ricavano in proposito indicazioni parzialmente contraddittorie). Riallacciandosi alla tradizione dei dialogi ciceroniani su argomenti filosofici e retorici, Tacito riferisce qui una discussione che si immagina avvenuta in casa di Curiazio Materno, retore e tragediografo, fra lo stesso Curiazio, Marco Apro, Vipstano Messalla e Giulio Secondo, e alla quale Tacito dice di aver assistito di persona in gioventù. Perché all’inizio della conversazione Apro ha rimproverato Materno di trascurare l’eloquenza in favore della poesia drammatica, in un primo momento si contrappongono i discorsi di Apro e Materno, in difesa rispettivamente dell’eloquenza e della poesia. L’andamento del dibattito subisce una svolta con l’arrivo di Messalla, spostandosi sul tema della decadenza dell’oratoria.

Messalla indica le cause di questo fenomeno nel deterioramento dell’educazione, sia familiare sia scolastica, del futuro oratore, non più accurata come nei tempi antichi: i maestri sono impreparati, e una vacua retorica si sostituisce spesso alla cultura generale. Dopo una sezione parzialmente lacunosa, il dialogo si conclude con un discorso di Materno, evidentemente portavoce di Tacito, il quale sostiene che una grande oratoria forse era possibile solo con la libertà, o piuttosto con l’anarchia, che regnava al tempo della repubblica, nel fervore dei tumulti e dei conflitti civili; diviene anacronistica, e sostanzialmente non più praticabile, in una società tranquilla e ordinata come quella conseguente all’instaurazione dell’Impero. La pace che esso garantisce deve essere accettata senza eccessivi rimpianti per un passato che pure forniva un terreno più favorevole al rigoglio delle lettere e alla fioritura delle grandi personalità.

L’opinione attribuita a Materno rappresenta una costante del pensiero di Tacito: alla base di tutta la sua opera sta infatti l’accettazione dell’indiscutibile necessità dell’Impero come unica forza in grado di salvare la res publica dal caos delle guerre civili.

Il principato restringe lo spazio per l’oratore e l’uomo politico, ma a esso non esistono alternative. Questo non significa che Tacito accetti gioiosamente il regime imperiale, né che all’interno di questo spazio ristretto egli non indichi la residua possibilità di effettuare scelte più o meno dignitose, più o meno utili alla res publica. Era il tema da lui già affrontato nella biografia di Agricola, cronologicamente anteriore).

Si è già accennato ai dubbi sulla reale datazione del Dialogus, che si suole considerare la prima delle opere di Tacito: varie caratteristica del testo, infatti, ne fanno un caso isolato rispetto al corpus dello storico. Questo “isolamento” è tale che l’autenticità del Dialogus medesimo – tramandato nella tradizione manoscritta insieme all’Agricola e alla Germania – è stata contestata fin dal XVI secolo, soprattutto per ragioni di stile, da filologi anche di altissima levatura; mentre autorevoli perplessità sulla paternità tacitiana permangono anche fra gli studiosi moderni.

In effetti, il periodare del Dialogus ricorda molto più da vicino il modello neociceroniano, forbito ma non prolisso, cui si ispirava l’insegnamento della scuola di Quintiliano, piuttosto che la severa e asimmetrica inconcinnitas tipica delle maggiori opere storiografiche di Tacito. Anche fra i sostenitori dell’autenticità ha perciò riscosso credito notevole la tesi di chi suppone che il Dialogus sia il prodotto giovanile di un Tacito ancora legato alle predilezioni classicheggianti della scuola quintilianea, da collocarsi negli anni fra il 75 e l’80: secondo questa ipotesi, anche se composto sotto il principato di Tito, il Dialogus sarebbe stato pubblicato solo molto più tardi, dopo la morte di Domiziano, e la dedica a Fabio Giusto si riferirebbe ovviamente all’epoca della pubblicazione. Ma è più probabile che l’insolita “classicità” dello stile sia da spiegarsi con l’appartenenza del Dialogus al genere retorico, per il quale la struttura, la lingua e lo stile delle opere retoriche di Cicerone costituivano ormai un modello canonico.

Due personaggi togati (forse magistrati). Statuetta, bronzo, I sec. d.C. Getty Museum.

 

Agricola, un esempio di resistenza al regime

Verso gli inizi del principato di Traiano, Tacito approfittò del ripristino dell’atmosfera di libertà dopo la tirannide domizianea per pubblicare il suo primo opuscolo storico, che tramanda ai posteri la memoria del suocero Giulio Agricola, leale funzionario imperiale e principale artefice della conquista di gran parte della Britannia sotto Domiziano. Per il tono qua e là apertamente encomiastico l’Agricola si richiama in parte allo stile delle laudationes funebri; dopo un rapido riepilogo della carriera del protagonista prima dell’incarico in Britannia, l’opera si incentra principalmente sul tema della conquista dell’isola, lasciando un certo spazio a digressioni geografiche ed etnografiche, che derivano da appunti e ricordi del suocero, ma in parte anche dalle notizie sui luoghi contenuti nei Commentarii di Cesare. Proprio a causa di queste digressioni, l’argomento dell’Agricola è sembrato talora eccedere i limiti di una semplice biografia. In realtà, l’autore non perde mai il contatto con il proprio personaggio principale: la Britannia è soprattutto il campo in cui si dispiegano la virtus di Agricola, il teatro delle sue brillanti imprese.

Nell’elogiare il carattere del suocero, Tacito mette in rilievo come egli, governatore della Britannia e capo di un esercito in guerra, avesse saputo servire la res publica con fedeltà, onestà e competenza anche sotto un pessimo princeps come Domiziano (le critiche a quest’ultimo e al suo crudele regime di spionaggio e repressione sono più di una volta esplicite da parte dell’autore). Così, per esempio, Tacito afferma (Agr. 42, 6): Sciant, quibus moris est inlicita mirari, posse etiam sub malis principibus magnos viros esse, obsequiumque ac modestiam, si industria ac vigor adsint, eo laudis excedere, quo plerique per abrupta, sed in nullum rei publicae usum ‹nisi› ambitiosa morte inclaruerunt [«Sappiano, quanti hanno per abitudine di ammirare i gesti di ribellione, che si può essere grandi uomini anche sotto cattivi principi, e che l’obbedienza e la moderazione, se in presenza di operosità e vigore, si elevano a quella gloria della quale i più si fregiarono attraverso vie pericolose, ma senza alcuna utilità per lo Stato, con una morte ambiziosa»].

Roma, Biblioteca Nazionale Centrale. Codex Aesinas Latinus 8 = Codex Vittorio Emanuele 1631 (IX sec.), f. 106 r, contenente l’incipit del De vita Iulii Agricolae.

Alla fine, anche Agricola, che non aveva il gusto dell’opposizione fine a se stessa, ma non per questo era disposto a macchiarsi di servilismo, era caduto in disgrazia presso Domiziano; ma questo avvenne non senza che egli avesse dato prova di quanto si potesse operare fecondamente in favore della comunità, prima che lo scontro non fosse più evitabile. Attraversando incorrotto la corruzione altrui, Agricola aveva saputo morire silenziosamente – e sulle reali cause della sua scomparsa, naturale o voluta dall’imperatore, Tacito stende un velo d’ombra –, senza andare in cerca della gloria di un martirio ostentato, la ambitiosa mors (come il suicidio degli stoici) che Tacito condanna in quanto di nessuna utilità alla res publica.

Gneo Giulio Agricola. Statua, marmo, 1894. Bath (Aquae Sulis), Terme Romane.

L’esempio luminoso di Agricola indica come, senza obbligatoriamente correre gravi pericoli, anche sotto la tirannide sia possibile seguire la via mediana fra quelle che un passo famoso dell’opera (Agr. 4, 20, 7) definisce deforme obsequium e abrupta contumacia. L’elogio di un personaggio emblematico come Agricola si traduce in un’apologia della parte “sana” della classe dirigente romana, formata da uomini che, privi del gusto del martirio, avevano collaborato con i principi della gens Flavia, contribuendo validamente all’elaborazione delle leggi, all’amministrazione delle province, all’ampliamento dei confini e alla difesa delle frontiere; uomini che, una volta recuperata la “libertà”, non avrebbero ritenuto giustificata un’indiscriminata condanna del proprio operato e del servizio da essi prestato allo Stato.

L’Agricola si situa, come si è accennato, al punto di intersezioni tra diversi generi letterari: si tratta di un panegirico sviluppato in biografia, di una laudatio funebris inframmezzata, ampliata e integrata con materiali storici ed etnografici. L’opuscolo risente quindi di modi stilistici diversi, che contribuiscono al suo carattere composito. Nell’esordio, nei discorsi, e soprattutto nell’eloquente “perorazione” finale è notevolissima l’influenza di Cicerone (può darsi che queste sezioni diano anche un’immagine di quella che dovette essere l’eloquenza tacitiana); nelle parti narrative ed etnografiche si avverte, invece, la presenza di due diversi modelli di stile storiografico, quello di impronta sallustiana e quello di stampo liviano.

La partenza di Domiziano per la guerra sarmatica. Rilievo della Cancelleria, marmo, 92 d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

 

L’idealizzazione dei barbari: la Germania

Gli interessi etnografici, già largamente presenti nell’Agricola, sono al centro della Germania, un’opera dedicata interamente alla descrizione del territorio omonimo e dei suoi abitanti, che rappresentavano una costante minaccia per l’Impero. Quest’opera costituisce per i moderni praticamente l’unica testimonianza (a parte gli excursus più o meno ampi contenuti in altre opere storiche) di una letteratura specificamente etnografica, che a Roma doveva godere di una certa fortuna: sono note, per esempio, delle monografie di Seneca sull’India e sull’Egitto. Ma gli interessi di questo genere erano già stati forti nella cultura ellenistica (basti pensare a Posidonio di Apamea); a Roma, si possono far risalire al De bello Gallico di Cesare, che aveva tratteggiato anche il sistema di vita dei Germani. Successivamente, storici come Sallustio e Livio erano probabilmente ricorsi, in sezioni perdute delle loro opere, ad ampie digressioni etnografiche, che introducevano un elemento di variazione nelle lunghe esposizioni di avvenimenti, e contemporaneamente permettevano di fare mostra di dottrina e versatilità: un excursus sulla Germania doveva trovarsi nel III libro delle Historiae sallustiane, mentre Livio può averne trattato verso la fine del suo lavoro, occupandosi delle campagne di Druso oltre il Reno.

Ritratto virile di un germanico con il caratteristico Suebenknoten (‘nodo suebo’). Testa, marmo, I-II sec. d.C. da Somzée (Belgio). Bruxelles, Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique.

È stato sottolineato come le notizie etnografiche contenute nella Germania non derivino da osservazione diretta, ma quasi esclusivamente da fonti scritte: per quanto Tacito mostri di averne consultate diverse, si è suggerito che egli possa aver tratto la maggior parte della documentazione dai Bella Germaniae di Plinio il Vecchio, che aveva prestato servizio nelle armate del Reno e aveva preso parte a spedizioni oltre il fiume, nelle terre dei Germani non ancora sottomessi a Roma. Tacito sembra aver seguito la sua fonte con fedeltà, accontentandosi di migliorarne e impreziosirne lo stile (il colorito sallustiano è frequente nella Germania, e piuttosto numerose sono le punte “epigrammatiche”) e di aggiungere pochi particolari per ammodernare l’opera (le notizie di Plinio risalivano a circa quarant’anni addietro); ciononostante, rimangono alcune discrepanze, poiché la Germania sembra descrivere abbastanza spesso la situazione come si presentava prima che gli imperatori flavi avanzassero oltre il Reno e oltre il Danubio.

Gli intenti di Tacito nella Germania sono stati a lungo oggetto di discussione fra gli studiosi: risale molto addietro l’ipotesi – ben fondata, certo, ma bisognosa di alcune precisazioni – che vede nell’opuscolo l’esaltazione di una civiltà ingenua e primordiale, non ancora corrotta dai vizi raffinati di una società decadente. In filigrana, l’opera sembra percorsa da una vena di implicita contrapposizione dei barbari, ricchi di energie ancora sane e fresche, ai Romani.

Un germanico in atto di supplica. Statuetta, bronzo, I-II sec. Paris, Bibliothèque nationale de France.

Non si dovrà, comunque, insistere eccessivamente sull’idealizzazione delle popolazioni selvagge, un tema pure consueto alla letteratura etnografica, che risentiva dell’insoddisfazione per il decadimento e la corruzione della vita urbana: ponendo l’accento sull’indomita forza e sul valore guerriero dei Germani, più che tesserne un elogio Tacito ha probabilmente inteso sottolineare la loro pericolosità per l’Impero. La debolezza e la frivolezza della società romana del tempo dovevano allarmare lo storico senatore che allora muoveva i suoi primi passi: i Germani forti, liberi e numerosi, potevano rappresentare una seria minaccia per un sistema politico basato sul servilismo e sulla corruzione. Non stupisce tuttavia che l’autore si addentri anche in una lunga enumerazione dei difetti di un popolo che gli appare come essenzialmente barbarico: l’indolenza, la passione per il gioco, la tendenza all’ubriachezza e alle risse, l’innata crudeltà.

Roma, Biblioteca Nazionale Centrale. Codex Aesinas Latinus 8 = Codex Vittorio Emanuele 1631 (IX sec.), f. 134 r, contenente l’incipit del De origine et moribus [situ] Germanorum (facsimile).
Fermo restando che la Germania è fondamentalmente un breve trattato etno-geografico e non un libello di intervento politico, è possibile metterne in connessione alcune caratteristiche con un evento all’incirca contemporaneo alla composizione: la presenza sul Reno di Traiano con un forte esercito, a quanto pare determinato alla guerra e alla conquista. Nel seguito della sua opera storica, Tacito continuerà comunque a guardare con particolare interesse alla frontiera con i Germani (più che a quella con i Parti), dimostrando, per esempio, ammirazione, negli Annales, per la politica aggressiva di Germanico. In questo interesse la convinzione della pericolosità delle popolazioni settentrionali si intreccia con l’altra, complementare, che in quella direzione sono aperte le maggiori possibilità di ulteriore espansione dell’Impero: la permanenza dell’interesse è conferma del carattere non episodico delle riflessioni e delle preoccupazioni da cui è scaturito il trattatello etnografico.

 

Le Historiae: gli anni cupi del principato

Il progetto di una vasta opera storica era presente già nell’Agricola, in cui, in uno dei capitoli iniziali, Tacito esternava l’intenzione di narrare gli anni della tirannide domizianea, e poi la libertà recuperata sotto i governi di Nerva e di Traiano. Nelle Historiae il progetto appare modificato: mentre la parte che è pervenuta contiene il racconto degli eventi degli anni 69-70, dal principato di Galba fino alla rivolta giudaica, l’opera nel suo complesso doveva estendersi fino al 96, l’anno della morte di Domiziano; nel proemio, Tacito afferma espressamente di riservare invece per la vecchiaia la trattazione dei principati di Nerva e di Traiano, «materia più ricca e meno rischiosa». Le Historiae affrontavano perciò un periodo cupo, sconvolto da varie guerre civili e concluso da una lunga tirannide.

Servio Sulpicio Galba. Busto, marmo. Stockholm – Antikengalerie.

Il libro I, in ossequio alla tradizione annalistica romana, si occupa degli avvenimenti a partire dal 1° gennaio 69. Il libro si apre con la narrazione del breve governo di Galba; seguono l’uccisione di quest’ultimo e l’elezione all’imperium di Otone. In Germania, intanto, le legioni renane acclamano imperator Vitellio. I libri II e III raccontano della lotta fra Otone e Vitellio, conclusasi con la sconfitta e il suicidio del primo, e quella successiva fra Vitellio e Vespasiano. Acclamato imperator dalle legioni di varie province, Vespasiano lascia in Oriente il figlio Tito ad affrontare i Giudei, e, spostatosi in Aegyptus, fa dirigere le sue truppe su Roma, dove si è rifugiato Vitellio, che viene catturato e ucciso. Il libro IV tratta del sacco di Roma a opera dei soldati flaviani, e dei tumulti contro Vespasiano scoppiati in Gallia e in Germania. Il libro V, che è pervenuto mutilo, arrestandosi al capitolo 26, dopo un excursus sulla Iudaea e delle imprese di Tito, passa a raccontare gli avvenimenti di Germania e i primi segni di cedimento dei ribelli.

L’anno con il quale si apre la narrazione delle Historiae, dunque, aveva visto succedersi ben quattro imperatori (Galba, Otone, Vitellio e Vespasiano). Era anche stato divulgato, come sottolinea Tacito, un arcanum imperii: il princeps poteva essere eletto altrove che a Roma, poiché la sua forza si basava principalmente sull’appoggio delle legioni di stanza in luoghi più o meno remoti. Vitellio era stato portato al potere dalle armate di Germania, Vespasiano da quelle orientali soprattutto. Otone, fatto princeps a Roma, contava sul sostegno militare dei pretoriani. L’autore scriveva le Historiae a oltre trent’anni dal 69, ma la ricostruzione degli avvenimenti avveniva, con ogni probabilità, nel vivo del dibattito politico che aveva accompagnato l’ascesa al potere di Traiano.

Au. Vitellio Germanico Augusto. Busto, marmo, 100-150. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

È stato notato un certo parallelismo fra questa e gli eventi del 69; il predecessore di Traiano, Nerva, si era trovato come Galba ad affrontare una rivolta di pretoriani che aveva fatto traballare le fondamenta del suo potere; come Galba, aveva designato per adozione un successore. L’analogia si ferma a questo punto: Galba – che Tacito descrive come un vecchio senza energie, rovinato da consiglieri sciagurati, inutilmente e anacronisticamente atteggiato nelle pose della gravitas repubblicana – si era scelto come successore Pisone, un nobile di antico stampo, dai costumi severi, poco adatto, per il suo rigorismo “arcaizzante”, a conciliarsi la benevolenza della truppa: sostanzialmente un fantoccio, vittima dei suoi illustri natali, dell’inettitudine di Galba, e delle criminali ambizioni di Otone; Nerva aveva invece consolidato il proprio potere associandosi nel governo Traiano, un capo militare autorevole, comandante dell’armata della Germania superior. Non si può pertanto condividere l’interpretazione secondo la quale Tacito avrebbe visto in Galba uno sfortunato precursore della conciliazione del principato con la libertà, poi realizzata da Nerva e Traiano. Probabilmente l’autore aveva preso parte al consilium imperiale nel quale fu decisa l’adozione di Traiano: in lui sarebbero riemerse, da parte di membri tradizionalisti dell’aristocrazia senatoria, posizioni di un anacronismo non dissimile da quello di Galba, ma il consilium seppe evidentemente respingerle.

Con il discorso fatto pronunciare a Galba nel I libro delle Historiae, in occasione dell’adozione di Pisone, lo storico ha inteso chiarire, quasi per contrasto, attraverso le stesse parole dell’imperatore, aspetti significativi della sua posizione ideologico-politica. Tacito ha voluto mostrare in Galba il divorzio ormai consumato fra il modello di comportamento rigorosamente ispirato al mos maiorum – un modello ormai votato al vuoto ossequio delle forme, e noncurante di ogni realismo politico – e la reale capacità di dominare e controllare gli eventi. Ispirandosi a quel modello, Galba non poteva fare una scelta in grado di garantire davvero la stabilità della res publica: ne seguì, perciò, un periodo di sanguinosi conflitti civili.

M. Ulpio Traiano. Busto, marmo, inizi II sec. da Olbia. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.

L’adozione di Traiano – peraltro un comandante di vecchio stampo, che sapeva rendersi cari i propri uomini senza rinunciare alla severità e al decoro della propria carica – placò invece i tumulti fra le legioni, e pose fine a ogni rivalità. Traiano si rivelò capace di mantenere l’unità degli eserciti, e di controllarli senza farne gli arbitri dell’Impero. Può darsi che Tacito, con il pessimistico realismo che lo contraddistingueva, non condividesse in toto l’entusiastica soddisfazione dimostrata da Plinio il Giovane nel Panegyricus a proposito della soluzione che scelta di Traiano aveva assicurato alla crisi; ma certamente avvertiva come improrogabile la necessità di sanare la frattura, drammaticamente verificatasi nel 69, fra le virtutes del modello etico antico e la capacità di instaurare un reale rapporto con le masse militari.

Come si è detto, dunque, Tacito era convinto che solo il principato avrebbe potuto garantire la pace, la fedeltà degli eserciti e la coesione dell’Impero; già il proemio delle Historiae, accennando all’ascesa di Ottaviano, sottolinea come dopo la battaglia di Azio la concentrazione del potere nelle mani di una sola persona si fosse rivelata indispensabile per il mantenimento della pace. Naturalmente il princeps non avrebbe dovuto essere uno scellerato tiranno come Domiziano né un completo inetto come Galba. È famoso, a questo proposito, il sarcastico epigramma in cui lo storico “riepiloga” quest’ultimo personaggio: Et omnium consensu capax imperii nisi imperasset («E, a giudizio di tutti, degno dell’imperium, se non lo avesse rivestito», Hist. I 49). Al contrario, l’imperatore perfetto avrebbe dovuto assommare in sé le qualità necessarie per reggere la compagine imperiale e contemporaneamente garantire i residui del prestigio e della dignità del ceto dirigente senatorio. Tacito additava, perciò, l’unica soluzione praticabile nel principato “moderato” degli imperatori d’adozione.

Lo stile narrativo delle Historiae, coerentemente con il repentino susseguirsi degli avvenimenti, ha un ritmo vario e veloce, che non concede all’azione di affievolirsi o di ristagnare. Questo ha implicato, da parte di Tacito, un lavoro di condensazione rispetto ai dati forniti dalle fonti: a volte qualcosa è omesso, ma più spesso Tacito sa conferire efficacia drammatica alla propria narrazione, suddividendo il racconto in singole scene. I tre tentativi di abdicazione di Vitellio, noti attraverso Svetonio, sono condensati in un solo episodio, drammatico e pittoresco, nel quale Tacito ha saputo profondere tutte le risorse del colore e della suggestione.

Scena di sacrificio (suovetaurilia). Affresco, ante 79 d.C. dall’agro pompeiano, loc. Moregine, edificio B.

Tacito è maestro nella descrizione delle masse, spesso incalzante e spaventosa: sa essere altrettanto efficace nel dipingere la folla tranquilla, il suo insorgere minaccioso o il suo disperdersi in preda al panico; dalla descrizione della folla traspare, in genere, il timore misto a disprezzo del senatore per le turbolenze dei soldati e della feccia della capitale. Ma un disprezzo quasi analogo lo storico aristocratico ostenta per i suoi pari, i componenti del Senato, il cui comportamento è descritto con malizia sottile che insiste sul contrasto tra “facciata” e realtà inconfessabile dei sentimenti: l’adulazione manifesta verso il princeps cela l’odio segretamente covato nei suoi confronti, la sollecitudine per il bene pubblico occulta gli intrighi e l’ambizione.

Le Historiae raccontano per la maggior parte fatti di violenza, di prevaricazione e di ingiustizia: di conseguenza, la natura umana è dipinta in toni costantemente cupi. Ciò non toglie che Tacito sappia tratteggiare in modo abile e vario i caratteri dei propri personaggi, alternando notazioni brevi e incisive a ritratti compiuti, come quello di Muciano, il governatore della Syria, che giocò un ruolo importante nell’ascesa di Vespasiano: Muciano è descritto secondo la tipologia del personaggio “paradossale”, cioè come un miscuglio di lussuria e operosità, di cordialità e arroganza; eccellente nelle attività pubbliche, ma con una reputazione ripugnante nella vita privata.

Statua di personaggio loricato. Marmo pario, II sec. d.C. dalla Basilica Iulia. Corinto, Museo Archeologico Nazionale.

Una cura particolare Tacito pare aver dedicato alla costruzione del personaggio di Otone: lo storico insiste sulla consapevolezza della sua subalternità nei confronti degli strati inferiori urbani e militari, condensata in una fase epigrammatica: Omnia serviliter pro dominatione («Si comportava in ogni cosa servilmente per conquistare il potere», Hist. I 36).

D’altra parte, Tacito mostra come proprio questo cosciente servilismo di Otone nei confronti della massa sia condizione della sua energia demagogica, della sua perversa capacità di incidere nelle cose, che lo situano su un piano diverso, anche se moralmente non più pregevole rispetto a quello di un Galba o di un Pisone. Come certi personaggi sallustiani (in primo luogo, Catilina), Otone è dominato da una virtus inquieta, che all’inizio della sua vicenda politica lo spinge a deliberare, in un monologo quasi da eroe tragico, una scalata al potere decisa a non arrestarsi di fronte al crimine o all’infamia. Ma Otone è, sotto certi aspetti, anche un personaggio “in evoluzione”: nella sua figura sembra intervenire uno scarto quando, ormai certo della disfatta definitiva da parte dei vitelliani, decide di darsi una morte gloriosa per risparmiare a Roma un nuovo spargimento di sangue.

La tecnica tacitiana del ritratto mostra numerose affinità con Sallustio: Tacito affida alla inconcinnitas, alla sintassi disarticolata, alle strutture stilistiche slegate per incidere nel profondo dei personaggi. Ma lo stile “abrupto” di Sallustio esercita il suo influsso su tutta la narrazione tacitiana, che tuttavia ha saputo di svilupparlo fino a determinare un vero e proprio salto di qualità, accentuando la tensione fra gravitas arcaizzante e pathos drammatico, arricchendo il colorito poetico, moltiplicando le iuncturae inattese. Tacito ama le ellissi di verbi e di congiunzioni; ricorre a costrutti irregolari e a frequenti cambi di soggetto per conferire varietà e movimento alla narrazione. Quando una frase sembra terminata, spesso la prolunga con una “coda” a sorpresa, la quale aggiunge un commento “epigrammatico” o comunque modifica, di preferenza per via allusiva o indiretta, quanto affermato subito prima.

 

Gli Annales: alle radici del principato

Nemmeno nell’ultima fase della sua attività Tacito mantenne il proposito di narrare la storia dei principati di Nerva e di Traiano. Terminate le Historiae, la sua indagine si rivolse ancora più addietro ed egli, negli Annales, intraprese il racconto della più antica storia del principato, dalla morte di Augusto a quella di Nerone. La data scelta dall’autore per l’inizio dell’opera ha fatto supporre che intendesse farne una prosecuzione di quella liviana (probabilmente il progetto iniziale di Livio, interrotto dalla morte, prevedeva 150 libri, i quali dovevano arrivare a trattare l’intero principato augusteo: nulla vieta di supporre che, nella prefazione a qualche libro andato perduto, ma noto a Tacito, il Patavino affermasse esplicitamente tale sua intenzione). In effetti, il titolo presente nei manoscritti tacitiani (Ab excessu divi Augusti) sembra richiamare quello liviano Ab Urbe condita.

Nerva nei panni di Giove. Statua, marmo, I sec. d.C. Copenhagen, Ny Carlsberg Glyptotek.

Degli Annales si sono conservati i libri I-IV, un frammento del V e parte del VI, comprendenti il racconto degli avvenimenti dalla scomparsa di Ottaviano (14 d.C.) a quella di Tiberio (37 d.C.), con una lacuna di un paio d’anni fra il 29 e il 31; e i libri XI-XVI, con il racconto dei principati di Claudio (a partire dall’anno 47) e di Nerone (il libro XI è lacunoso e il XVI è mutilo, arrestandosi agli eventi del 66).

I libri I-V seguono in parallelo le vicende interne ed esterne di Roma: nella capitale il progressivo manifestarsi del carattere chiuso, sospettoso e ombroso di Tiberio, il dilagare dei processi per lesa maestà, l’ascesa e poi la caduta della sinistra figura di Seiano (ma manca la parte in cui ne era narrata la fine), il dilagare del regime nella crudeltà e nella dissolutezza, fino alla morte di Tiberio. All’esterno, i successi di Germanico in Germania, i suoi contrasti con Pisone, la morte in Oriente, per la quale Pisone è sospettato di averlo avvelenato; e avvenimenti minori, come la vittoriosa guerra in Africa contro il numida Tacfarinate, e il soffocamento della rivolta della popolazione germanica dei Frisi.

I libri XI-XII narrano gli eventi degli anni 47-54, la seconda metà del principato di Claudio, il quale è rappresentato come un imbelle che, dopo la scomparsa della prima moglie, Messalina, cade nelle mani del potente liberto Narcisso e della seconda moglie, Agrippina, che, alla fine, fa avvelenare il marito e mette sul trono Nerone, il figlio avuto da un precedente matrimonio.

Agrippina Minore. Statua, marmo, 14-54, dal foro di Veleia.

Nei libri XIII-XVI è narrato il regime di Nerone: dapprima sul princeps si alternano le diverse influenze della madre, del filosofo Seneca e del praefectus praetorio Burro (questi due operano congiuntamente in vista di un’improbabile conciliazione del principato con la libertà). Successivamente l’imperatore acquista indipendenza, ma cade sempre più preda dei propri istinti depravati. Mentre i comandanti romani (primo fra tutti Corbulone) riportano notevoli successi nelle regioni di confine, Nerone instaura un regime da monarca ellenistico, e si dedica soprattutto ai giochi e agli spettacoli, perseverando tuttavia nel disegno di sbarazzarsi di tutti coloro che potrebbero porre un freno alle sue bizzarrie e stravaganze. Dopo un primo tentativo fallito, riesce a far uccidere la madre Agrippina: tre anni dopo, nel 62, Tigellino, un personaggio detestabile, succede a Burro al comando della guardia pretoriana, in seguito alla misteriosa morte di quest’ultimo. Contemporaneamente, Seneca si ritira a vita privata. Da questo momento in poi Nerone si abbandona a eccessi di ogni sorta; il malcontento dilaga e intorno a Gaio Pisone si coagula un gruppo di congiurati che si propone di sbarazzarsi del principe. Scoppia il famoso incendio di Roma: Tacito sembra dare credito alle voci che lo vogliono appiccato per ordine di Nerone stesso; come incendiari vengono tuttavia perseguitati i cristiani. La congiura di Pisone viene scoperta e repressa duramente; molti fra i personaggi di primo piano ricevono l’ordine di darsi la morte: periscono così Seneca, Lucano, Petronio e infine Trasea Peto, durante il racconto della cui fine si interrompe la parte conservata degli Annales.

Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. Codex Mediceus 68 II (XI sec.) f. 38r, contenente Tacito, Annales XV 44, sull’incendio di Roma.

Anche in quest’opera, Tacito mantiene la tesi della necessità del principato, ma il suo orizzonte sembra essersi ulteriormente incupito: in un passo famoso (III 28), mentre ribadisce che Augusto aveva garantito la pace all’Impero dopo lunghi anni di guerre civili, lo storico sottolinea anche come da allora i vincoli si fossero fatti «più duri». Sexto demum consulatu Caesar Augustus, potentiae securus, quae triumviratu iusserat abolevit deditque iura, quis pace et principe uteremur. acriora ex eo vincla («Alla fine Cesare Augusto, nel suo sesto consolato, sicuro del proprio potere, abolì quanto aveva decretato da tribuno e diede le leggi delle quali ci potessimo valere in pace e sotto la guida di un principe. Pertanto, i vincoli si fecero più duri»).

Tacito conferisce un colore uniforme e tetro all’intero quadro della vita umana sotto i Caesares. La storia del principato è anche la storia del tramonto della libertà politica dell’aristocrazia senatoria, essa stessa – del resto – coinvolta in un processo di decadenza morale e di corruzione che la rende vogliosa di un servile consenso (quella che Tacito definisce libido adsentandi) nei confronti del princeps. Scarsa simpatia lo storico dimostra anche, come si è già sottolineato a proposito dell’Agricola, verso coloro che scelgono l’opposta via del martirio, sostanzialmente inutile allo Stato, e continuano a mettere in scena suicidi filosofici. Prosperava, a partire dall’età neroniana, una lettura di exitus illustrium virorum: non a caso, descrivendo il suicidio di Petronio, Tacito insiste sul capovolgimento ironico di questo modello filosofico da parte del personaggio.

Raccontando le vicende di Roma, Tacito conduce il lettore attraverso un territorio umano desolato, senza luce o speranza. La parte sana dell’élite politica – si ritrova qui una certa continuità con l’Agricola – seguita tuttavia a dare il meglio di sé nel governo provinciale e nei comandi militari: l’opera bellica di Germanico risulta grandiosa rispetto alla meschina politica urbana di Tiberio, e anche l’azione militare di Corbulone è, agli occhi dello storico, più utile e forse più importante delle torbide passioni che si agitano nella Roma di Nerone.

«Corbulone» (in realtà, un personaggio sconosciuto). Testa, marmo pario, I sec. Roma, Musei Capitolini.

Si è detto che Tacito è soprattutto un grande artista drammatico, sottovalutando probabilmente le sue specifiche doti di storico. Ma è vero che la storiografia tragica gioca negli Annales un ruolo di primo piano. I drammi di anime che Tacito mette in scena non sono tuttavia tanto stimolati dal desiderio di suscitare vive emozioni, quanto nutriti dalla riflessione pessimistica che ha radici importanti nella tradizione storiografica latina, soprattutto in Sallustio.

Alla forte componente tragica della propria storiografia Tacito assegna soprattutto la funzione di scavare nelle pieghe degli uomini per sondarli in profondità e portarne alla luce, oltre alle passioni che li tendono, le ambiguità e i chiaroscuri. Le passioni dominanti nei personaggi tacitiani (con l’eccezione solo parziale di Nerone, figura sotto certi aspetti “patologica”) sono quelle politiche: la brama di potere scatena le lotte più feroci (emblematico è il personaggio di Seiano). Il conflitto più aspro si svolge, com’è ovvio, dentro il palatium imperiale, ma lo storico si rivolge anche altrove per mettere in risalto l’ambizione e la tensione alla scalata sociale, cui spesso si accompagnano invidia, ipocrisia o presunzione: sono difetti da cui nessuna classe sociale o persona vanno esenti. Rispetto all’ambizione, alla vanità e alla cupidigia di potere, le altre passioni – per esempio, il desiderio erotico o anche l’invidia di ricchezze – giocano un ruolo di importanza del tutto secondaria. Tacito presta tuttavia la debita attenzione a gelosie e delitti di origine sessuale, e rivela una vista acuta nelle questioni di denaro.

Negli Annales si perfeziona ulteriormente l’arte del ritratto, già sapientemente messa a frutto nelle Historiae. Il vertice è stato individuato da alcuni nel ritratto di Tiberio, del tipo cosiddetto «indiretto»: lo storico non dà cioè il ritratto una volta per tutte, ma fa sì che esso si delinei progressivamente attraverso una narrazione sottolineata qua e là da osservazioni e commenti. Nel ritratto Tiberio è dipinto in tutta la gamma delle sue gradazioni: gli piaceva mostrarsi torvo, era innamorato dell’austerità; oppresso da tristitia, improntava la propria condotta a crudeltà e inclementia; perennemente sospettoso, taciturno per l’abitudine a tenere celati i propri pensieri, spesso accigliato, talora con impresso sul volto un falso sorriso, aveva fatto della dissimulazione la prima fra le sue virtù. Tacito ama, in genere, il ritratto “morale” più di quello fisico, ma in passo dallo stile molto ricercato indugia nella descrizione della ripugnante vecchiaia di Tiberio: alto, ma curo ed emaciato, col volto segnato da cicatrici e ricoperto di pustole, completamente calvo.

Tib. Giulio Cesare Augusto. Testa, marmo, I sec.

Un certo spazio, come già nelle Historiae, ha anche il ritratto di tipo «paradossale»: l’esempio più notevole è Petronio (Ann. XVI 18), al quale si è accennato. Il fascino del personaggio sta proprio nei suoi aspetti contraddittori: Petronio si è assicurato con l’ignavia la fama che altri conquista con infaticabile operosità, ma la mollezza della sua vita contrasta con l’energia e la competenza dimostrate quando ha ricoperto importanti cariche pubbliche.

Su tutta la sua esistenza spira un’aria di sovrana nonchalace, una negligentia che ne esalta la raffinatezza. Petronio affronta la morte quasi come un’ultima voluttà, dando contemporaneamente prova di autocontrollo, di coraggio e di fermezza: in voluta polemica con la tradizione del suicidio teatrale degli stoici, si intrattiene con gli amici su argomenti diversi da quelli che serviranno a crearsi un’aureola di constantia. Non si fa leggere dissertazioni sull’immortalità dell’anima o sentenze di filosofi, ma poesiole leggere e versi facili (Ann. XVI 19). Senza fare del personaggio un modello – Tacito aveva gusti più austeri –, lo storico sembra implicitamente sottolineare che la virtus di Petronio è in fondo più salda di quella spesso ostentata nella morte dai martiri stoici.

La morte di Petronio. Fotogramma dal film Quo vadis (di M. LeRoy, USA 1951).

Lo stile degli Annales è per certi aspetti mutato rispetto a quello delle Historiae: almeno nei libri precedenti il XIII, si registra una linea di evoluzione che va in direzione del crescente allontanamento dalla norma e dalla convenzione: una ricerca di “straniamento” che si esprime nella predilezione per forme inusitate, per un lessico arcaico e solenne, ricco di potenza. Rispetto alle Historiae, gli Annales risultano meno eloquenti e scorrevoli, più concisi e austeri. Perdura e si accentua il gusto per l’inconcinnitas, ottenuta soprattutto attraverso la variatio, cioè allineando a un’espressione un’altra che ci si attenderebbe parallela, e invece è diversamente strutturata. Si prendano due esempi tratti dalla narrazione del celebre incendio di Roma, in Annales XV 38: pars mora, pars festinans, cuncta inpediebant e [incendium] in edita adsurgens et rursus inferiora populando anteiit remedia.

Le disarmonie verbali riflettono la disarmonia degli eventi e le ambiguità nei comportamenti umani. Abbondano le metafore violente (le immagini sono quelle della luce e delle tenebre, della distruzione e dell’incendio) e l’uso audace delle personificazioni. È frequente la coloritura poetica, soprattutto virgiliana, ma notevoli sono anche le tracce di Lucano nella prosa di Tacito. All’interno dell’opera, tuttavia, si registra una certa modificazione dello stile, in cui alcuni hanno visto un’involuzione. A partire dal XIII libro l’autore sembra ripiegare su moduli più tradizionali, meno lontani dai dettami del classicismo. Lo stile si fa più ricco ed elevato, meno serrato, acre e insinuante; nella scelta dei sinonimi, lo storico passa dalle espressioni scelte e decorative a quelle più sobrie e normali. La differenza è stata attribuita al diverso argomento: il principato di Nerone, abbastanza vicino nel tempo, richiedeva di essere trattato con minore distanziamento solenne di quello ormai remoto di Tiberio, che sembrava ancora radicato nell’antica Repubblica. Qualche trascuratezza notata soprattutto nei libri XV e XVI ha fatto anche pensare che gli Annales non abbiano ricevuto l’ultima revisione.

 

Distribuzione dei libri dei debitori. Rilievo, marmo, 117-120, da uno dei plutei traianei. Roma, Foro romano.

 

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